SOMMARIO. PARTE
PRIMA:UN' ANTICA LEGGENDA; IN
GRECIA E A ROMA; FRANCHI E GERMANI; LA NASCITA DEI TITOLI; LA
CAVALLERIA; PARTE SECONDA: IL PATRIZIATO; GIOSTRE E TORNEI;
L'ARALDICA; GLI STEMMI; LE CORONE; MOTTI E IMPRESE; LA SITUAZIONE
ITALIANA DOPO IL 1922; EPILOGO.
UN' ANTICA LEGGENDA
Un' antica leggenda
nordica narra del dio Heindel che da tre diverse donne ebbe tre
figli, i quali furono i capostipiti delle tre categorie sociali.
Thraell, il servo che aveva ruvide le mani e la faccia, curve
le gambe e la schiena, grosse le dita. Karl, il contadino rosso
di capelli e di viso. Jarl, il conte dai chiari capelli, dalle
guance lucenti e dagli occhi acuti come quelli di un giovane drago.
Thraell sposò Tir, una fanciulla dal naso camuso e tutti
i suoi figli e nipoti furono schiavi come lui. Karl sposò
Sùor ed ebbe una lunga discendenza di contadini. Jarl,
che sin da bambino si trastullava con le armi, conquistò
terre e accumulò ricchezze, sposò la saggia Erna
che gli diede molti figli, che conservarono di generazione in
generazione il dominio e la signoria.
Il concetto di distinzione tra classi sociali è antico
quanto l'uomo. In India, quando 2000/1500 anni a.C., un gruppo
di guerrieri nomadi, gli Arya, avevano sottomesso la sua parte
settentrionale e il Pakistan, (1), istituirono le caste: quella
dei sacerdoti (brahmana), dei guerrieri o nobili (rajanya kshatriya)
e degli uomini liberi che non erano discendenti nè dei
sacerdoti nè dei guerrieri (2).
1) E' il caso di ricordare che l'idea della razza dominante
collegata con questa migrazione è dovuto ad un errore storico,
vale a dire all'erronea interpretazione del libro pubblicato nel
1926 e diventato all'epoca famoso (The Aryans), scritto dall'archeologo
australiano Gordon Childe, sull'archeologia linguistica, il quale
faceva derivare tutte le lingue da un unico ceppo. Questo libro
era collegato a un precedente studio (1902) condotto da Gustav
Kossinna, sulle origini preistoriche linguistiche, il quale aveva
avanzato la teoria secondo cui l'espansione di un gruppo aveva
determinato l'ampia dispersione degli indoeuropei in Germania.
Da questi studi teorici, i nazisti giunsero alla conclusione che
gli ariani alti e biondi avevano conquistato e sottomesso gli
indigeni di pelle scura, e sarebbero stati poi i capostipiti della
razza indoeuropea, con la conseguenza della superiorità
di quella germanica.
2) Successivamente questa divisione andò trasformandosi,
assumendo tutt'altro significato che aveva portato alla tragica
conseguenza della divisione della società in caste in cui
quella che originariamente era degli uomini liberi, era diventata
dei paria. Erano coloro che esercitavano i mestieri più
vili, facchini, minatori, spazzini, cuochi. Costoro, contrariamente
a quanto si ritiene, non erano gli ultimi della gerarchia. Gli
ultimi erano gli intoccabili considerati i fuori casta o senza
casta. Ora queste caste sono state abolite, ma i pregiudizi rimangono!.
IN GRECIA E A ROMA
Nell'antica
Grecia, tutte le famiglie reali si vantavano di discendere da
Zeus, capostipite comune. Durante la dominazione degli Achei (XV
sec. a.C.), il lavos, vale a dire il ceto dei nobili-guerrieri,
costituiva l'aristocrazia che originariamente esercitava la sovranità
sui paesi conquistati e l'assemlea degli anziani era formata dai
capi delle famiglie più antiche e potenti. A Sparta, per
un determinato periodo, il potere fu diviso tra le due famiglie
aristocratiche (diarchia) che vantavano una genealogia divina,
gli Agiadi e gli Euripontidi.
A Roma erano i patrizi (patres) ad esercitare le funzioni pubbliche
e ricoprire tutte le cariche dello Stato. La distinzione tra <patres>
e <populus> si fa risalire a Romolo, il quale tra i più
ricchi e i più saggi scelse i <patres> e gli altri
rimasero <populus>. I discendenti dei <patres> furono
chiamati <patrizi>.
Ancora Romolo, tra i <patres>, ne scelse cento e con questi
formò il <Senato>. Successivamente, tra le famiglie
sia patrizie sia plebee, ne scelse trecento formando una terza
classe di <cavalieri>. Si ebbero quindi tre categorie: senatori,
cavalieri e plebei. Tra costoro, per il passaggio da una all'altra
categoria, non vi erano preclusioni. Chi proveniva da una famiglia
di patrizi-senatori e aveva le qualità richieste per essere
cavaliere, diventava cavaliere; altrettanto si verificava per
il cavaliere, che poteva diventare senatore. Invece, chi proveniva
da famiglia patrizia e non aveva le qualità per essere
nominato senatore o cavaliere (cioè una determinata quantità
di beni e godere di una buona reputazione), passava nella categoria
dei plebei (ciò avveniva solo per il singolo, non per gli
altri appartenenti alla gens, che si potevano trovare in una situazione
diversa).
Questo portò a ulteriori distinzioni in patrizi-senatori
e plebei-senatori (costoro erano discriminati in quanto indicati
come <gentes minores>!), patrizi-cavalieri, plebei-cavalieri
e patrizi e plebei comuni.
Con la cessazione delle lotte tra patrizi e plebei, venne a sorgere
accanto alla classe dei patrizi di nascita un altro tipo di patriziato,
quello costituito dagli homines novi, vale a dire quei plebei
che raggiungevano il consolato o che ricoprivano una delle cariche
curuli.
I romani avevano molto sviluppato il senso del gruppo familiare,
della gens e del vincolo di sangue che la univa, vincolo peraltro
diffuso presso tutti i popoli <siano essi civili come i
greci, che allo stato barbarico come i Tartari, tra i quali (dice
Gibbon), gli infimi e i più ignoranti conservano con coscienza
e orgoglio, il tesoro inestimabile della loro genealogia, e, per
quante distinzioni di rango si possono essere introdotte per l'ineguale
distribuzione delle ricchezze pastorali, essi si rispettano reciprocamente
come discendenti del primo fondatore della tribù>.
La gens romana raccoglieva tutti coloro che si vantavano di discendere
da un capostipite comune, che poteva essere individuato dal <nomen>.
I membri della <gens>, infatti, avevano un <praenomen>
che era il nome individuale; il <nomen> che era quello gentilizio
o agnatizio, vale a dire della <gens>, e il <cognomen>
che contraddistingueva la famiglia in seno alla gens; p. es. Quinto
Fabio Massimo si ricollegava alla gens Fabia e Massimo era il
nome della famiglia d'appartenenza. La <gens> raccoglieva
numerosissimi gruppi familiari; p. es. alla gens Cornelia, alla
quale apparteneva Lucio Cornelio Scipione, facevano capo le famiglie
dei Lentuli, dei Silla, dei Cinna, dei Cassi e dei Colabella.
Una famiglia così formata aveva evidentemente tutti i numeri
per raggiungere posizioni di ricchezza, potere, nobiltà.
Per avere un'idea del numero dei componenti di una gens,
Engels riprende (da Tito Livio) l'episodio della gens Fabia,
che nel 300 dopo la fondazione di Roma aveva intrapreso una spedizione
punitiva contro Veio ed era stato raccolto un numero di 306 discendenti
dallo stesso capostipite. Tutti erano stati uccisi in un'imboscata;
si era salvato un solo giovanetto che avrebbe poi perpetuato la
<gens>. In seno a questa, vi era anche la tendenza
ad incrementare il gruppo con le adozioni. Infatti, quando questa
tendeva ad assottigliarsi, s'incrementava con questo sistema.
Ciò si era verificato tra la gens Giulia, Claudia e Domizia:
Nerone era stato adottato da Claudio; Tiberio aveva adottato Germanico-Cesare
figlio di Druso, per non parlare della famiglia degli Antonini,
o, nell' Impero d' Oriente, dei successori di Giustiniano.
FRANCHI E GERMANI
Presso gli antichi
Germani, quello degli <adelingi> era il ceto più
elevato degli uomini liberi, ritenuti di origine divina e di capacità
sovrana. E di origine divina erano considerati i Franchi Merovingi,
sui quali fiorirono tante ipotesi e teorie, (anche esoteriche)
collegate con il Graal. Alcuni studiosi interpretano il Santo
Graal come Sang-Raal/Sang-Real cioè sangue
reale, ritenendo che questa storia vada collegata con i Merovingi
che discenderebbero così da Gesù Cristo. Gesù,
infatti, era ritenuto di sangue reale perché discendente
dal re Davide e dalla Maddalena (Maria di Magdala), che sarebbe
stata sua moglie, anch'essa di nobile origine e sposata nelle
famose nozze di Cana. Gesù, poi, non sarebbe morto
sulla croce, ma si sarebbe imbarcato con la moglie e uno o più
figli, per la Francia. Nei Merovingi, quindi, si sarebbe perpetuata
la stirpe di Gesù.
LA NASCITA DEI TITOLI
Il periodo aureo
che vede il sorgere e l'istituzionalizzazione dei titoli nobiliari
e dell'arte araldica è il medioevo.
I primi titoli sorgono in rapporto all'amministrazione di territori,
province e città. Presso i Longobardi troviamo il titolo
di duca che costituisce la più alta carica subito
dopo il sovrano. Quando Alboino aveva conquistato Cividale del
Friuli (VI sec) aveva concesso al nipote Gisulfo il titolo e gli
onori di duca del Friuli. Così man mano che continuavano
le conquiste longobarde erano nominati dei duchi che governavano
le città e i territori conquistati (3).
Presso i Franchi troviamo il conte, derivato dal <comes>
il comandante di origine romana, e il marchese.
Queste cariche furono istituite da Carlo Magno il quale, conquistando
nuove terre, ne affidava l'amministrazione ai conti. Le marche
erano distretti militari di confine, i cui comandanti erano i
marchesi; sotto Carlo Magno erano otto (la Marca di Bretagna,
quella di Spagna, il ducato - ex longobardo - di Spoleto, del
Friuli, dell'Istria, della Norbaldigia e i due distretti della
Baviera).
Presso i Normanni (4) troviamo il titolo di barone che
in precedenza indicava genericamente i feudatari e vassalli (5)
del sovrano.
Successivamente al disfacimento dell'impero carolingio, verso
la fine del X sec., si ebbe quel grande movimento che prese il
nome di feudalesimo (6). Si verificò infatti che
in seguito alle lotte tra i discendenti di Carlo Magno, i signori
che detenevano i beni in nome del sovrano, riuscirono ad ottenere
i feudi a titolo personale per questo questi divennero ereditari.
E questi titoli, che come abbiamo visto designavano gli amministratori
che detenevano in nome del sovrano, vennero ora a designare i
feudatari, titolari dei feudi .
Il sovrano aveva anche il diritto di revocare titoli e benefici
nel caso in cui il vassallo, venendo meno agli obblighi di fedeltà,
si macchiava di fellonia, cioè di tradimento.
Abbiamo visto che il titolo era strettamente legato ai benefici,
costituiti da terre e castelli (donde derivava il predicato),
concessi in cambio della fedeltà e dell'obbligo di fornire
armi e cavalieri quando il sovrano ne avesse avuto bisogno per
difesa o per conquiste.
Questi benefici, durante il regno di Carlo Magno, erano detenuti
in nome del sovrano. Successivamente divennero ereditari, cioè
trasmissibili in via maschile secondo il diritto franco (che seguiva
la legge salica) oppure in via femminile, secondo la legge
longobarda (e borgognona), purchè vi fosse un uomo
che assumesse gli obblighi militari.
La funzione dei feudatari e quindi della nobiltà da essi
derivata, era quella di combattere per difendere il territorio
a loro assegnato, non solo, ma di portare aiuto al sovrano al
quale il feudatario era legato dal vincolo del giuramento (7),
e al quale doveva essere fedele e prestare assistenza in tempo
di guerra e consigli in tempo di pace. Egli, in caso di necessità
del sovrano si presentava con un proprio seguito che variava da
50 a 150 o più uomini e altrettanti cavalli (che provvedeva
a foraggiare). La funzione quindi dei feudatari sfociati nella
casta della nobiltà (feudale) era quella di difendere il
sovrano e il territorio, mentre al clero spettava la salvezza
delle anime e alla borghesia-terzo stato (che a comprendeva tutte
le altre categorie sociali dal più ricco al diseredato),
la produzione della ricchezza; non a caso ricadeva su questa categoria
il pagamento delle tasse.
3) Paolo Diacono, nella sua Storia dei Longobardi, indica
Zaban, duca di Pavia; Vallari di Bergamo; Alachis di Brescia;
Evin di Trento oltre ad altri trenta ducati che comprendevano
altrettante città con territorio circostante, come il ducato
di Spoleto, ducato di Benevento, ecc..
4) Durante la conquista normanna del meridione d'Italia, Ruggero
d'Altavilla, appena conquistata la Sicilia, prima di usurpare
il titolo di duca di Puglia al fratello Roberto il Guiscardo,
per breve periodo si fregò del titolo di Gran Conte di
Puglia.
5) Oltre ai vassalli, che avevano rapporti diretti col sovrano,
nella scala gerarchica vi erano i valvassori, che dipendevano
dal vassallo e i valvassini che a loro volta dipendevano dai valvassori.
6) Era il grande cambiamento del feudalesimo che è
stato quel complesso fenomeno verificatosi in periodo successivo
alla morte di Carlo Magno, con lo smembramento dell'Impero da
lui costituito. Infatti, mentre con Carlo Magno proprietario era
il sovrano il quale assegnava i feudi ai suoi fedeli, che amministravano
detenendo in suo nome, con i successori di Carlo, e quindi con
il Feudalesimo, i detentori dei feudi ne diventarono proprietari,
acquistando il diritto di trasmettere i feudi ai discendenti.
7) I benefici concessi al feudatario e il giuramento erano fatti
con una sontuosissima cerimonia detta dell'investitura.
LA CAVALLERIA
Nel medioevo,
per merito della <chanson de geste> si sviluppa la
figura del cavaliere <chevalier> titolo molto ambito
dagli esponenti della nobiltà di cui amavano fregiarsi
principi e re, come Riccardo Cuor di Leone.
La cavalleria, costituita in <Ordine della Cavalleria>,
aveva portato una ventata di sentimenti che avevano raffinato
la rudezza d'animo e di comportamenti di uomini adusi a una vita
il cui scopo principale era combattere.
Essa era fondata su principi di lealtà e di onore, con
un misto di sacro e profano in quanto il cavaliere metteva la
sua spada a difesa della Chiesa (8), della giustizia, dei deboli
e degli oppressi da una parte, e dall'altra l'amor cortese che
portava il cavaliere a struggersi d'amore per la donna amata,
che non poteva essere la propria donna, ma la moglie di un altro,
fosse questi il suo sovrano o il suo miglior amico, escludendosi
che tale amore potesse esser riversato nel confronti di <pulzelle>
(cioè di donne vergini e non sposate).
L'investitura di cavaliere (9) era quindi riservata ai soli nobili
che venivano a formare una casta nella casta. Essa poteva avvenire
dopo un apprendistato come scudiero e dopo aver superato
una prova di coraggio.
Il figlio di un nobile passava normalmente il periodo dai sette
ai quattordici anni , come scudiero (o paggio come
si chiamerà successivamente), al servizio del sovrano o
di un grosso feudatario, diventando poi cavaliere.
Con una fastosa cerimonia che si svolgeva nella cappella del castello,
dopo un bagno purificatore e una veglia d'armi (la notte passata
nella cappella), era armato cavaliere (nel nome di Dio, s.
Michele e s. Giorgio ti faccio cavaliere, sii valoroso e leale),
e gli erano donati <cingulum militaris > e speroni dorati.
Al cavaliere si dava originariamente lo scappellotto (colée),
sostituito in seguito dal colpo di spada sulla nuca e sugli omeri
del neofita inginocchiato.
La cerimonia (10), per la quale si sceglieva la ricorrenza di
qualche particolare festività, era accompagnata da tornei
e festeggiamenti e terminava con un sontuoso banchetto e, spesso,
finiti i festeggiamenti il novello cavaliere partiva in cerca
di ventura.
Il cavaliere era tale perché legato indissolubilmente al
suo cavallo. Senza cavallo sarebbe stato soltanto un uomo.
Egli quindi allevava il suo destriero, che era un cavallo
da battaglia o da giostra, forte, enorme, impetuoso, veloce e
fedele, montato esclusivamente in combattimento. Nelle altre occasioni
invece il cavaliere montava il palafreno che era un purosangue
ma di indole più docile e il gentiluomo al suo servizio
(palafreniere), che accompagnava sempre il suo signore, guidava
il destriero dal suo lato destro. Da qui il nome.
In Italia verso la fine del 1400 il titolo di cavaliere
non era più rigorosamente collegato a quello di nobile,
tanto che, come scriveva un cronista <si vedeva far cavalieri
meccanici, artieri, insino ai fornai e ancora più
giù, gli scardassieri, gli usurai e rubaldi barattieri>.
8) Le armi del cavaliere avevano anche un valore simbolico:
la spada simbolo della croce, nel suo doppio taglio rappresentava
la giustizia; la lancia significava la verità e l'acciaio
della lancia la forza della verità; l'elmo, la vergogna
del disonore senza la quale il cavaliere non poteva essere obbediente
all'Ordine della Cavalleria; la corazza , castello e muraglia
contro i vizi e gli errori; gli speroni, diligenza, prudenza e
zelo che guidavano il cavaliere nel mantenere l'onore dell'Ordine;
lo scudo significava l'ufficio del cavaliere; come infatti lo
scudo era tra il combattente e il nemico così il cavaliere
era il mezzo tra il suo re e il popolo.
9) Il titolo di cavaliere divenne ereditario. Questo principio
fu codificato da Federico Barbarossa con un editto che stabiliva
che il cavalierato spettava anche ai figli del cavaliere e da
Federico II che ribadiva che avrebbe acquistato rango di cavaliere
solo colui che fosse di famiglia cavalleresca e solo per grazia
di speciale licenza e mandato.
10) Alla fastosità della cerimonia di nomina a cavaliere
poteva seguire la umiliante degradazione durante la quale il cavaliere
da un palco assisteva alla distruzione della sua armatura e della
sua spada che veniva spezzata; il suo blasone veniva cancellato
dallo scudo che legato alla coda di un cavallo era trascinato
nella polvere e nello sterco. Gli venivano tolti gli speroni,
gli araldi gridavano il suo nome chiamandolo traditore, villano
e sleale, mentre i sacerdoti gli scagliavano le più tremende
maledizioni recitando il Deus laudem meam.