CORONE, BLASONI  E NOBILTA'

 

MICHELE DUCAS PUGLIA
 

PARTE SECONDA

 
SOMMARIO: IL PATRIZIATO; GIOSTRE E TORNEI; L'ARALDICA; GLI STEMMI; LE CORONE; MOTTI E IMPRESE; LA SITUAZIONE ITALIANA DOPO IL 1922; EPILOGO.
 

IL PATRIZIATO

Accanto alla nobiltà feudale, con lo sviluppo delle città si viene a formare un altro tipo di nobiltà, appunto quella cittadina detta patriziato che trova il suo più fulgido esempio in quello veneziano. Nella Serenissima Repubblica troviamo infatti famiglie di antico lignaggio che avevano origine tribunizia discendenti cioè dai tribuni (11) che avevano governato prima della creazione del dogato (12). Erano queste le famiglie antichissime o vecchie dette anche apostoliche (13) dal loro numero -dodici-, alle quali andavano aggiunte le altre quattro dette evangeliste. A queste più antiche famiglie si aggiunsero le nove (nuove), cioè quelle che avevano raggiunto la nobiltà prima della serrata del Maggior Consiglio avvenuta nel 1260 e poi le novissime, ascritte al patriziato nel 1391. Erano tutte famiglie che potevano vantare tra i propri antenati, dogi papi e cardinali. A queste si aggiunsero tra il 1600 e 1700 altre famiglie che furono nobilitate per soldo, cioè, offrendo alla Repubblica (già in declino) centomila ducati (pari a circa un miliardo di oggi) furono ascritte nel libro d'oro della nobiltà.
I patrizi veneziani erano tra i pochi in Europa che esercitavano il commercio, considerata arte vile e normalmente disdegnata dalla nobiltà feudale. Si trattava comunque di commercio di livello industriale a carattere internazionale in quanto collegato con i traffici marittimi e con l'attività armatoriale. Moltissimi erano i <capitani generali da mar> che in tempo di guerra erano scelti tra i patrizi che conoscevano l'arte marinaresca ai quali veniva affidata la condotta della guerra marittima. I figli dei nobili infatti erano imbarcati in giovanissima età sulle navi dove facevano la loro esperienza. Il caso di Marco Polo partito per la Cina a dodici anni non era un'eccezione.
Caratteristica del patriziato veneziano era quello di non avere titoli e predicati, e in verità non ne avevano bisogno. Bastava infatti chiamarsi Morosini, Contarini, Dandolo, Loredan, Soranzo che valeva più di tanti altisonanti titoli. Non a caso per illustri famiglie di terraferma (europee) era un grande onore essere aggregate alla nobiltà veneziana, come avevano ottenuto gli Orsini, i Colonna, gli Estensi, i Gonzaga, i Pallavicino, i Savoia, gli Asburgo, i Wittelsbach di Baviera, i Borboni di Francia.

11) La carica tribunizia (di derivazione romana) era stata istituita durante la dominazione bizantina. I tribuni erano scelti tra i grandi proprietari terrieri e, mentre in un primo momento avevano avuto il solo governo della vita economica, successivamente avevano assunto il dominio della vita amministrativa, civile e militare, impadronendosi quindi del governo locale che alla fine portò al distacco da Bisanzio con l'elezione del Doge.
12) La storia che Paoluccio Anafesto sia stato il primo doge, sarebbe leggendaria. Infatti Paulicius poi Paulicio-Paoluccio, sarebbe stato dux-esarca di Ravenna che aveva definito i confini di Venezia. Primo doge quindi sarebbe stato Ursus, Orso, cittadino di Eraclea (la madre di Venezia), eletto il 727.
13) Le dodici famiglie apostoliche che avevano partecipato alla nomina del primo doge (v. sopra), erano Badoer, Barozzi, Contarini, Dandolo, Falier, Gradenigo, Memmo, Michiel, Morosini, Polani, Sanudo e Tiepolo cui si aggiunsero le quattro evangeliste, Giustinian o Zustinian, Bragadin, Bembo e Corner.

 

GIOSTRE E TORNEI

Inobili quando erano a riposo, cioè quando non andavano in guerra a combattere per tenersi in allenamento e per mostrare alle donne, per le quali spasimavano, il loro valore, partecipavano volentieri a giostre (combattimento che si svolgeva tra due concorrenti) e tornei (combattimenti che si svolgevano tra gruppi che potevano raggiungere un numero di cavalieri da quaranta-cinquanta e oltre). Su di essi erano sorte disquisizioni tra araldisti francesi e tedeschi che rivendicavano ciascuno la priorità dei tornei, ma i tornei erano sorti in Italia (14).Essi erano occasione oltre che di divertimento, anche economica sia per i partecipanti che per la popolazione che arrivava anche da lontano. Queste gare duravano alcuni giorni e richiamavano mercanti, artigiani, giocolieri, prostitute che si presentavano più o meno sfacciatamente vestite. Per i tornei si presentavano grosse casate guidate dal capo o da un suo rappresentante, con seguito di gentiluomini e accompagnatori, tutti con gli stessi colori e sotto un'unica insegna.
Veniva montato l'accampamento e, tranne il capo che, se c' era posto, era ospitato nel castello, gli altri rimanevano nell' accampamento, dove la sera precedente provvedevano a lustrare e verificare le armature e bardature. Dame e cavalieri indossavano abiti coloratissimi. Le dame gettavano le loro sciarpe ai cavalieri che le avvolgevano attorno alle corazze o agli elmi. Tra la fantasmagoria di colori, di abiti, bandiere e stendardi, squilli di tromba, musica, l'atmosfera risultava magica ed eccitante. La sera, alla fine dei giochi era tutto un mercanteggiare sulle armi, sui cavalli, sui riscatti che si pagavano per gli ostaggi. Alla fine della giornata nel castello si svolgevano grandi festeggiamenti con banchetti, libagioni, danze e libertinaggi…<che trasformavano la notte in giorno> come aveva scritto, certamente con rammarico, un monaco cronista dell'epoca.

14) D. A. De Sade assicura che i tornei originariamente si chiamavano giostre, trattandosi di un tipo di esercizio militare-cavalleresco, e che le sue origini dovevano essere ricercate in Italia all'epoca di Teodorico, che le sostituì ai giochi gladiatori, sostanzialmente aboliti nei suoi editti. I figli di Ludovico il Bonario, prosegue De Sade, festeggiarono nell'870 la loro riconciliazione con questi giochi e nel 920 Enrico l'Uccellatore diede una rappresentazione equestre per celebrare la propria incoronazione. Attraverso Verona e Venezia contagiò le altre nazioni diffondendosi in tutta Europa.

 

L'ARALDICA

Si sviluppa nel periodo dei tornei e l'araldica è l'arte di interpretare le armi (ossia le figure) riprodotte sugli stemmi. Il nome deriva dagli araldi che avevano il compito di organizzare giostre e tornei, erano i giudici di gara, annunciavano i partecipanti di cui descrivevano le imprese e la fama riconoscendoli dalle armi e dai colori dipinti sugli scudi, e riprodotte sulle gualdrappe dei cavalli e sugli stendardi.
Come si è verificato in altri campi, l'araldica italiana, nel contesto europeo, è stata la più negletta essendosi ritenuto che la vera araldica fosse la francese, la tedesca, l'inglese.
Una tal considerazione era stata determinata dalla circostanza che quest'arte in Italia era stata trascurata, pur potendo l'Italia vantare che il primo trattato di araldica era stato scritto nel 1360 da Bartolo di Sassoferrato (De insignis et armis) e solo con notevole ritardo, dopo l'unificazione si è avuta la codificazione con regio decreto (15) nel quale si richiamava il vocabolario araldico le cui voci erano state tradotte dal francese!
In Inghilterra, invece, nel 1484, Riccardo III istituiva la corporazione degli araldi con sede in Londra e nel 1555 si istituiva la Consulta degli Araldi con sede in Queen Victoria Street, nel cuore della City, dove tuttora vi sono gli uffici che svolgono consulenze e compilazione di alberi genealogici (16) per chi li richiede.

15) Regio decreto 13.4.1905 n. 234 e il vocabolario araldico approvato con D.M. 6.2.1906.
16) Gli alberi genealogici fin dal tempo dei romani, era uso esporli nell'atrio della propria casa. Galba, successore di Nerone, di antica e illustre famiglia aveva esposto il suo albero genealogico (mitico!) che faceva risalire le origini dal lato paterno a Giove e da quello materno a Pasifae (moglie di Minosse).

 

GLI STEMMI

 

Gli stemmi di cui si fregiavano i nobili erano in pratica  dei marchi che servivano ad individuare la casata, cui  apparteneva il nobile. Il decifrarli era diventata un'arte  con un particolare linguaggio che non è cambiato molto  attraverso i secoli.
 Lo stemma può avere figure diverse. Dalle più semplici,  con un'unica figura, si era passati a forme più  complesse, tanto da potervisi leggere (perciò dette  parlanti) la storia di una casata, le imprese compiute, i  matrimoni avvenuti.Lo stemma può essere diviso in vari  modi, vale a dire: fasciato, se ha una fascia centrale;  partito, se diviso in due verticalmente; spaccato, se diviso in orizzontale; trinciato, se diviso dall' angolo  superiore destro (dello scudo) all' angolo inferiore  sinistro; tagliato, se diviso dall' angolo superiore sinistro (dello scudo) all' angolo inferiore destro; inquartato, se diviso in quattro parti, e così via.La lettura dello stemma (si usa il verbo blasonare), va fatta considerando destra la parte che si trova alla sinistra di chi blasona e viceversa. La numerazione quindi (almeno per gli italiani e i francesi) va fatta da destra verso sinistra, perciò in uno stemma inquartato (abbiamo visto diviso in quattro parti) i due quarti superiori sono primo e secondo, i due inferiori sono terzo e quarto.
I colori usati in araldica sono i più svariati. Per indicarli simbolicamente essi sono descritti con punti e linee. Il rosso è indicato con linee perpendicolari; il nero con linee orizzontali incrociate con verticali; l'oro con punti; l'argento è rappresentato da un campo bianco. Le figure sono prese dalla vasta gamma degli animali (anche mitologici come il liocorno) o dei vegetali o del firmamento. Più precisamente le figure che compongono l'arma, si distinguono in: araldiche (il capo, la fascia, il palo, la croce di s. Andrea ecc.); naturali, rappresentano tutti i corpi che si trovano in natura e nei suoi diversi regni; artificiali, quelle create dall'uomo (si dividono in fabbricati, istrumenti, vesti e armi); chimeriche che sono figure bizzarre rappresentate dal capriccio degli uomini.

 

LE CORONE

 

 Sormontano normalmente gli stemmi e  denotano il titolo spettante alla casata. Il titolo  più alto è quello di principe che si trova allo  stesso livello di quello di duca, perciò le due  corone sono uguali, costituite da una vera  sormontata da otto foglie di acanto o fioroni d'  oro, di cui cinque visibili (le due laterali si vedono  per metà), alternate da altrettante perle (quattro  visibili). Segue il titolo di marchese, la cui vera è  cimata di quattro foglie d'acanto, di cui tre visibili (le due laterali si vedono per metà), alternate da dodici perle disposte in quattro gruppi piramidali di tre perle ciascuno, dei quali due gruppi sono visibili. Segue il titolo di conte la cui corona è costituita da vera cimata di sedici perle di cui nove visibili. In Francia vi era anche il titolo di visconte, la cui corona è cimata di quattro grosse perle di cui tre visibili, alternate da quattro piccole perle di cui due visibili. La corona baronale è costituita da vera con filo di perle che gira intorno alla stessa, del quale risultano visibili tre giri. Infine, quella di nobile è cimata di otto perle di cui cinque visibili. La corona di patrizio è costituita da una semplice vera.
Si può verificare il caso che uno stemma sia ornato da due corone; una è più grande appoggiata al lembo dello scudo, una più piccola sostenuta dall'elmo. La corona maggiore è quella del titolo personale, la minore designa il maggior titolo che si è avuto in famiglia.
Per il patriziato veneto la corona è costituita dal corno ducale (zogia) che può essere usato anche senza stemma.

 

MOTTI IMPRESE E DIVISE

 

In uso presso i greci e romani, si svilupparono in Francia nel periodo cortese, giungendo poi in Italia. I motti e le imprese entrarono nell'uso araldico traendo origine dal grido d'arme o di guerra che costituiva non solo incitamento in battaglia, ma serviva anche per riconoscersi. In seguito accompagnarono gli stemmi.
I cavalieri che indossavano l'armatura e avevano il volto coperto dalla celata si riconoscevano tra loro lanciando il grido d'arme. Montjoie-Saint Denis fu il grido d'arme di Giovanni II di Francia nella sfortunata battaglia di Poitiers (17), segnata dalla disfatta dell'esercito francese (1356). Normalmente motti e imprese sono in latino: Virtutis fortuna comes, quello che accompagna lo stemma del duca di Wellington. Compositum jus fasque animi, lo stemma degli Ellenborough (Inghilterra). Nil nisi rectum quello della casa di Schwarzemberg, principi del Sacro romano impero (Austria). Nec timide nec tumide quello degli Huyssen van Kattendijke (Olanda). Quo rescunque cadunt, semper stat linea recta, quello dei principi de Ligne (Belgio). In francese l' orgoglioso motto dei Rohan-Chabot: <Roi ne puis, Prince ne daigne, Rohan suis> Non mi è possibile essere re, non mi degna essere principe, sono Rohan!
Le divise, in particolare, erano costituite da una massima o esortazione personale o un oscuro messaggio che poteva essere anche amoroso, ed erano riprodotte sulle armature e sulle gualdrappe dei cavalli: Quand sera ce. Plus duel que joye. Va oultre. Votre plaisir. Souviennes vous. Plus que toutes. Vi erano anche quelle riportate sugli anelli: Je le desire. Pour toujours. Tout pour vous.
Alle divise erano collegati gli emblemi, che le illustravano figurativamente. Luigi d' Orleans aveva due emblemi: il porcospino con la divisa Cominus et eminus (combatto o mi difendo da vicino e da lontano, nel senso che si riteneva che il porcospino oltre a difendersi da vicino con gli aculei, li lanciasse), e un bastone nodoso con la divisa Je l'envie (io sfido). La pialla con la divisa Ic houd (io accetto) era l'emblema di Giovanni senza Paura; la pietra focaia l'emblema di Filippo il Buono.

17) Sfortunata però fino a un certo punto, perché la causa della disfatta era da attribuire all'orgoglio dei nobili francesi che erano numerosi ma poco affiatati tra loro. Prima di iniziare la battaglia avevano mandato a casa tutti i soldati borghesi. Questo per la mentalità del tempo che le guerre erano solo ed esclusivamente affari di nobili. Altra causa della sconfitta, era stata determinata dall'uso delle frecce usate dai famosi arcieri inglesi, arma che i nobili francesi aborrivano…col risultato che gli arcieri miravano alle parti dei cavalli, che non erano coperte dall'armatura. Inciampando e cadendo i cavalli precipitavano con i cavalieri in groppa oppure s'impennavano indietreggiando creando scompiglio tra quelli che sopraggiungevano. I cavalieri caduti non riuscivano a rialzarsi a causa dell' armatura o a far rialzare i cavalli. Furono tutti uccisi o fatti prigionieri.

 

LA SITUAZIONE ITALIANA DOPO IL 1922

 

In Italia attualmente, cioè da quando i titoli sono stati aboliti, regna molta confusione e molti abusi.
La Costituzione italiana ha abolito i titoli nobiliari e quindi qualunque prerogativa collegata ai titoli, anche se non è vietato usarli. Questo ha finito per incrementare gli abusi.
Dopo il 1922 sono stati concessi titoli nobiliari senza predicato, mentre prima di tale data i titoli erano rilasciati con il predicato, che a seguito dell'abolizione del titolo è diventato parte integrante del cognome (da non confondere con il doppio cognome che non è sinonimo di nobiltà come comunemente si ritiene), che quindi risulta dai registri anagrafici, cosa che non può risultare per chi ha avuto un titolo dopo il 1922, ma che deve essere in possesso di regie patenti che riconoscono il titolo.
Gli abusi sono determinati dalla circostanza che in una famiglia, in cui tutti i componenti hanno il diritto di usare il predicato (per quelli che ne hanno il possesso), tali componenti usino tutti anche il titolo, che invece può essere usato solo ed esclusivamente dal primogenito, che ha diritto di trasmetterlo ai suoi diretti discendenti maschi. Il titolo potrà essere trasmesso in via collaterale solo se non vi sono discendenti diretti del primogenito. Esso potrà essere trasmesso anche in linea femminile, soltanto se non vi sono figli maschi, ma occorrerà che trasmetta al figlio maschio il proprio cognome con il predicato. La donna con il matrimonio assume il titolo del marito; se divorzia non potrà più usare il titolo, cosa però che in Italia non avviene quasi mai.
Di recente ha fatto discutere, a Milano, il caso di una possibile adozione, e particolarmente della trasmissione del titolo nobiliare dall' adottante all' adottato. Sono state fatte molte illazioni e dette le cose più strane. Se il titolo è regolare (si discuteva anche della regolarità del titolo), non vi sono dubbi che l' adozione è stata codificata (dai Romani, v. supra, par. Roma) apposta per trasmettere oltre ai beni anche le cariche e i titoli. Per cui, nel caso di una adozione, se l' adottante ha un titolo nobiliare, questo si trasmette all' adottato.

 

EPILOGO

 

La nobiltà è sempre stata una casta gelosa e nello stesso tempo custode della propria identità. Proprio per questo spirito di consapevolezza e di conservazione che la distingue, ha la possibilità di documentare la propria ascendenza (genealogia) e risalire attraverso varie generazioni al proprio capostipite, cosa che invece non può fare un comune borghese che riesce a risalire di sole tre-quattro generazioni.
Nella genealogia vi deve essere una rigorosa continuità. Quando si pensa di trovare degli agganci per superare periodi oscuri dal punto di vista documentale, sarebbe come seguire la stessa traccia seguita da Cesare Musatti nel libro <Il nipote di Giulio Cesare>, in cui il celebre psicanalista, molto scherzosamente, riesce a dimostrare, facendo anche il calcolo delle probabilità di discendere da Giulio Cesare (e non è detto che così non fosse!). Oppure, come molti genealogisti del '600, che si erano sbizzarriti a ricercare assurde quanto fantasiose ascendenze mitiche a nobili famiglie dell'epoca, come quella che faceva discendere una casata da Giove, re di Toscana e imperatore del mondo!
Di storico c'è da tener presente che nel corso dei secoli vi è stato un continuo avvicendamento e mutamento di posizioni in ambedue i sensi. Vale a dire che molte famiglie, per l'impossibilità di mantenere un certo tenore di vita o per capovolgimento di fortuna, finivano per cambiare stato passando da quello nobiliare a quello borghese; altrettante, invece, raggiunta una posizione di ricchezza e di potere entravano a far parte della classe nobiliare, oppure avveniva che delle famiglie nobili si rinsanguassero (economicamente) sposando la ricca borghese.
Si è calcolato che la scomparsa di famiglie nobili fosse del 50% per secolo e la durata media di una dinastia, nell'arco di 100-200 anni fosse di cinque-otto generazioni. Vi sono stati casi di resistenza genetica di famiglie che si sono riprodotte (anche numericamente) sfidando i secoli come i Borbone e gli Asburgo (v. Genealogie).

Nel passato si è spesso considerata la nobiltà per grazia di Dio. Non è stata evidentemente la grazia di Dio ma più prosaicamente l'intraprendenza di un antenato a far la fortuna di tutta la sua discendenza. Se vogliamo, la grazia di Dio è dovuta alla circostanza che solo pochi hanno potuto avere la fortuna di quell' avo intraprendente.

 

FINE

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