SOMMARIO: IL
PATRIZIATO; GIOSTRE E TORNEI; L'ARALDICA; GLI STEMMI; LE CORONE;
MOTTI E IMPRESE; LA SITUAZIONE ITALIANA DOPO IL 1922; EPILOGO.
IL PATRIZIATO
Accanto alla
nobiltà feudale, con lo sviluppo delle città si
viene a formare un altro tipo di nobiltà, appunto quella
cittadina detta patriziato che trova il suo più
fulgido esempio in quello veneziano. Nella Serenissima Repubblica
troviamo infatti famiglie di antico lignaggio che avevano origine
tribunizia discendenti cioè dai tribuni (11)
che avevano governato prima della creazione del dogato (12). Erano
queste le famiglie antichissime o vecchie dette
anche apostoliche (13) dal loro numero -dodici-, alle quali
andavano aggiunte le altre quattro dette evangeliste. A
queste più antiche famiglie si aggiunsero le nove
(nuove), cioè quelle che avevano raggiunto la nobiltà
prima della serrata del Maggior Consiglio avvenuta nel
1260 e poi le novissime, ascritte al patriziato nel 1391.
Erano tutte famiglie che potevano vantare tra i propri antenati,
dogi papi e cardinali. A queste si aggiunsero tra il 1600 e 1700
altre famiglie che furono nobilitate per soldo, cioè, offrendo
alla Repubblica (già in declino) centomila ducati (pari
a circa un miliardo di oggi) furono ascritte nel libro d'oro della
nobiltà.
I patrizi veneziani erano tra i pochi in Europa che esercitavano
il commercio, considerata arte vile e normalmente disdegnata
dalla nobiltà feudale. Si trattava comunque di commercio
di livello industriale a carattere internazionale in quanto collegato
con i traffici marittimi e con l'attività armatoriale.
Moltissimi erano i <capitani generali da mar> che in tempo
di guerra erano scelti tra i patrizi che conoscevano l'arte marinaresca
ai quali veniva affidata la condotta della guerra marittima. I
figli dei nobili infatti erano imbarcati in giovanissima età
sulle navi dove facevano la loro esperienza. Il caso di Marco
Polo partito per la Cina a dodici anni non era un'eccezione.
Caratteristica del patriziato veneziano era quello di non avere
titoli e predicati, e in verità non ne avevano bisogno.
Bastava infatti chiamarsi Morosini, Contarini, Dandolo, Loredan,
Soranzo che valeva più di tanti altisonanti titoli. Non
a caso per illustri famiglie di terraferma (europee) era un grande
onore essere aggregate alla nobiltà veneziana, come avevano
ottenuto gli Orsini, i Colonna, gli Estensi, i Gonzaga, i Pallavicino,
i Savoia, gli Asburgo, i Wittelsbach di Baviera, i Borboni di
Francia.
11) La carica tribunizia (di derivazione romana) era stata
istituita durante la dominazione bizantina. I tribuni erano scelti
tra i grandi proprietari terrieri e, mentre in un primo momento
avevano avuto il solo governo della vita economica, successivamente
avevano assunto il dominio della vita amministrativa, civile e
militare, impadronendosi quindi del governo locale che alla fine
portò al distacco da Bisanzio con l'elezione del Doge.
12) La storia che Paoluccio Anafesto sia stato il primo doge,
sarebbe leggendaria. Infatti Paulicius poi Paulicio-Paoluccio,
sarebbe stato dux-esarca di Ravenna che aveva definito i confini
di Venezia. Primo doge quindi sarebbe stato Ursus, Orso, cittadino
di Eraclea (la madre di Venezia), eletto il 727.
13) Le dodici famiglie apostoliche che avevano partecipato alla
nomina del primo doge (v. sopra), erano Badoer, Barozzi, Contarini,
Dandolo, Falier, Gradenigo, Memmo, Michiel, Morosini, Polani,
Sanudo e Tiepolo cui si aggiunsero le quattro evangeliste, Giustinian
o Zustinian, Bragadin, Bembo e Corner.
GIOSTRE E TORNEI
Inobili quando
erano a riposo, cioè quando non andavano in guerra a combattere
per tenersi in allenamento e per mostrare alle donne, per le quali
spasimavano, il loro valore, partecipavano volentieri a giostre
(combattimento che si svolgeva tra due concorrenti) e tornei
(combattimenti che si svolgevano tra gruppi che potevano raggiungere
un numero di cavalieri da quaranta-cinquanta e oltre). Su di essi
erano sorte disquisizioni tra araldisti francesi e tedeschi che
rivendicavano ciascuno la priorità dei tornei, ma i tornei
erano sorti in Italia (14).Essi erano occasione oltre che di divertimento,
anche economica sia per i partecipanti che per la popolazione
che arrivava anche da lontano. Queste gare duravano alcuni giorni
e richiamavano mercanti, artigiani, giocolieri, prostitute che
si presentavano più o meno sfacciatamente vestite. Per
i tornei si presentavano grosse casate guidate dal capo o da un
suo rappresentante, con seguito di gentiluomini e accompagnatori,
tutti con gli stessi colori e sotto un'unica insegna.
Veniva montato l'accampamento e, tranne il capo che, se c' era
posto, era ospitato nel castello, gli altri rimanevano nell' accampamento,
dove la sera precedente provvedevano a lustrare e verificare le
armature e bardature. Dame e cavalieri indossavano abiti coloratissimi.
Le dame gettavano le loro sciarpe ai cavalieri che le avvolgevano
attorno alle corazze o agli elmi. Tra la fantasmagoria di colori,
di abiti, bandiere e stendardi, squilli di tromba, musica, l'atmosfera
risultava magica ed eccitante. La sera, alla fine dei giochi era
tutto un mercanteggiare sulle armi, sui cavalli, sui riscatti
che si pagavano per gli ostaggi. Alla fine della giornata nel
castello si svolgevano grandi festeggiamenti con banchetti, libagioni,
danze e libertinaggi <che trasformavano la notte in
giorno> come aveva scritto, certamente con rammarico, un
monaco cronista dell'epoca.
14) D. A. De Sade assicura che i tornei originariamente si
chiamavano giostre, trattandosi di un tipo di esercizio militare-cavalleresco,
e che le sue origini dovevano essere ricercate in Italia all'epoca
di Teodorico, che le sostituì ai giochi gladiatori, sostanzialmente
aboliti nei suoi editti. I figli di Ludovico il Bonario, prosegue
De Sade, festeggiarono nell'870 la loro riconciliazione con questi
giochi e nel 920 Enrico l'Uccellatore diede una rappresentazione
equestre per celebrare la propria incoronazione. Attraverso Verona
e Venezia contagiò le altre nazioni diffondendosi in tutta
Europa.
L'ARALDICA
Si sviluppa
nel periodo dei tornei e l'araldica è l'arte di interpretare
le armi (ossia le figure) riprodotte sugli stemmi. Il nome deriva
dagli araldi che avevano il compito di organizzare giostre e tornei,
erano i giudici di gara, annunciavano i partecipanti di cui descrivevano
le imprese e la fama riconoscendoli dalle armi e dai colori dipinti
sugli scudi, e riprodotte sulle gualdrappe dei cavalli e sugli
stendardi.
Come si è verificato in altri campi, l'araldica italiana,
nel contesto europeo, è stata la più negletta essendosi
ritenuto che la vera araldica fosse la francese, la tedesca, l'inglese.
Una tal considerazione era stata determinata dalla circostanza
che quest'arte in Italia era stata trascurata, pur potendo l'Italia
vantare che il primo trattato di araldica era stato scritto nel
1360 da Bartolo di Sassoferrato (De insignis et armis)
e solo con notevole ritardo, dopo l'unificazione si è avuta
la codificazione con regio decreto (15) nel quale si richiamava
il vocabolario araldico le cui voci erano state tradotte dal francese!
In Inghilterra, invece, nel 1484, Riccardo III istituiva la corporazione
degli araldi con sede in Londra e nel 1555 si istituiva la Consulta
degli Araldi con sede in Queen Victoria Street, nel cuore della
City, dove tuttora vi sono gli uffici che svolgono consulenze
e compilazione di alberi genealogici (16) per chi li richiede.
15) Regio decreto 13.4.1905 n. 234 e il vocabolario araldico
approvato con D.M. 6.2.1906.
16) Gli alberi genealogici fin dal tempo dei romani, era uso esporli
nell'atrio della propria casa. Galba, successore di Nerone, di
antica e illustre famiglia aveva esposto il suo albero genealogico
(mitico!) che faceva risalire le origini dal lato paterno a Giove
e da quello materno a Pasifae (moglie di Minosse).
GLI STEMMI
Gli stemmi di cui si fregiavano i nobili
erano in pratica dei marchi che servivano ad individuare
la casata, cui apparteneva il nobile. Il decifrarli era
diventata un'arte con un particolare linguaggio che non
è cambiato molto attraverso i secoli.
Lo stemma può avere figure diverse. Dalle più
semplici, con un'unica figura, si era passati a forme più
complesse, tanto da potervisi leggere (perciò dette
parlanti) la storia di una casata, le imprese compiute,
i matrimoni avvenuti.Lo stemma può essere diviso
in vari modi, vale a dire: fasciato, se ha una fascia
centrale; partito, se diviso in due verticalmente;
spaccato, se diviso in orizzontale; trinciato,
se diviso dall' angolo superiore destro (dello scudo) all'
angolo inferiore sinistro; tagliato, se diviso dall'
angolo superiore sinistro (dello scudo) all' angolo inferiore
destro; inquartato, se diviso in quattro parti, e così
via.La lettura dello stemma (si usa il verbo blasonare),
va fatta considerando destra la parte che si trova alla sinistra
di chi blasona e viceversa. La numerazione quindi (almeno per
gli italiani e i francesi) va fatta da destra verso sinistra,
perciò in uno stemma inquartato (abbiamo visto diviso in
quattro parti) i due quarti superiori sono primo e secondo, i
due inferiori sono terzo e quarto.
I colori usati in araldica sono i più svariati. Per indicarli
simbolicamente essi sono descritti con punti e linee. Il rosso
è indicato con linee perpendicolari; il nero con
linee orizzontali incrociate con verticali; l'oro con punti;
l'argento è rappresentato da un campo bianco. Le
figure sono prese dalla vasta gamma degli animali (anche mitologici
come il liocorno) o dei vegetali o del firmamento. Più
precisamente le figure che compongono l'arma, si distinguono
in: araldiche (il capo, la fascia, il palo, la croce di
s. Andrea ecc.); naturali, rappresentano tutti i corpi
che si trovano in natura e nei suoi diversi regni; artificiali,
quelle create dall'uomo (si dividono in fabbricati, istrumenti,
vesti e armi); chimeriche che sono figure bizzarre rappresentate
dal capriccio degli uomini.
LE CORONE
Sormontano normalmente gli stemmi e denotano
il titolo spettante alla casata. Il titolo più
alto è quello di principe che si trova allo stesso
livello di quello di duca, perciò le due corone
sono uguali, costituite da una vera sormontata da otto foglie
di acanto o fioroni d' oro, di cui cinque visibili (le due
laterali si vedono per metà), alternate da altrettante
perle (quattro visibili). Segue il titolo di marchese,
la cui vera è cimata di quattro foglie d'acanto,
di cui tre visibili (le due laterali si vedono per metà),
alternate da dodici perle disposte in quattro gruppi piramidali
di tre perle ciascuno, dei quali due gruppi sono visibili. Segue
il titolo di conte la cui corona è costituita da
vera cimata di sedici perle di cui nove visibili. In Francia vi
era anche il titolo di visconte, la cui corona è
cimata di quattro grosse perle di cui tre visibili, alternate
da quattro piccole perle di cui due visibili. La corona baronale
è costituita da vera con filo di perle che gira intorno
alla stessa, del quale risultano visibili tre giri. Infine, quella
di nobile è cimata di otto perle di cui cinque visibili.
La corona di patrizio è costituita da una semplice
vera.
Si può verificare il caso che uno stemma sia ornato da
due corone; una è più grande appoggiata al lembo
dello scudo, una più piccola sostenuta dall'elmo. La corona
maggiore è quella del titolo personale, la minore designa
il maggior titolo che si è avuto in famiglia.
Per il patriziato veneto la corona è costituita dal corno
ducale (zogia) che può essere usato anche senza
stemma.
MOTTI IMPRESE E DIVISE
In uso presso
i greci e romani, si svilupparono in Francia nel periodo cortese,
giungendo poi in Italia. I motti e le imprese entrarono nell'uso
araldico traendo origine dal grido d'arme o di guerra che
costituiva non solo incitamento in battaglia, ma serviva anche
per riconoscersi. In seguito accompagnarono gli stemmi.
I cavalieri che indossavano l'armatura e avevano il volto coperto
dalla celata si riconoscevano tra loro lanciando il grido d'arme.
Montjoie-Saint Denis fu il grido d'arme di Giovanni II
di Francia nella sfortunata battaglia di Poitiers (17), segnata
dalla disfatta dell'esercito francese (1356). Normalmente motti
e imprese sono in latino: Virtutis fortuna comes, quello
che accompagna lo stemma del duca di Wellington. Compositum
jus fasque animi, lo stemma degli Ellenborough (Inghilterra).
Nil nisi rectum quello della casa di Schwarzemberg, principi
del Sacro romano impero (Austria). Nec timide nec tumide
quello degli Huyssen van Kattendijke (Olanda). Quo rescunque
cadunt, semper stat linea recta, quello dei principi de Ligne
(Belgio). In francese l' orgoglioso motto dei Rohan-Chabot: <Roi
ne puis, Prince ne daigne, Rohan suis> Non mi è
possibile essere re, non mi degna essere principe, sono Rohan!
Le divise, in particolare, erano costituite da una massima o esortazione
personale o un oscuro messaggio che poteva essere anche amoroso,
ed erano riprodotte sulle armature e sulle gualdrappe dei cavalli:
Quand sera ce. Plus duel que joye. Va oultre. Votre plaisir.
Souviennes vous. Plus que toutes. Vi erano anche quelle riportate
sugli anelli: Je le desire. Pour toujours. Tout pour vous.
Alle divise erano collegati gli emblemi, che le illustravano figurativamente.
Luigi d' Orleans aveva due emblemi: il porcospino con la
divisa Cominus et eminus (combatto o mi difendo da vicino
e da lontano, nel senso che si riteneva che il porcospino oltre
a difendersi da vicino con gli aculei, li lanciasse), e un bastone
nodoso con la divisa Je l'envie (io sfido). La pialla
con la divisa Ic houd (io accetto) era l'emblema di Giovanni
senza Paura; la pietra focaia l'emblema di Filippo il Buono.
17) Sfortunata però fino a un certo punto, perché
la causa della disfatta era da attribuire all'orgoglio dei nobili
francesi che erano numerosi ma poco affiatati tra loro. Prima
di iniziare la battaglia avevano mandato a casa tutti i soldati
borghesi. Questo per la mentalità del tempo che le guerre
erano solo ed esclusivamente affari di nobili. Altra causa della
sconfitta, era stata determinata dall'uso delle frecce usate dai
famosi arcieri inglesi, arma che i nobili francesi aborrivano col
risultato che gli arcieri miravano alle parti dei cavalli, che
non erano coperte dall'armatura. Inciampando e cadendo i cavalli
precipitavano con i cavalieri in groppa oppure s'impennavano indietreggiando
creando scompiglio tra quelli che sopraggiungevano. I cavalieri
caduti non riuscivano a rialzarsi a causa dell' armatura o a far
rialzare i cavalli. Furono tutti uccisi o fatti prigionieri.
LA SITUAZIONE ITALIANA DOPO IL 1922
In Italia attualmente,
cioè da quando i titoli sono stati aboliti, regna molta
confusione e molti abusi.
La Costituzione italiana ha abolito i titoli nobiliari e quindi
qualunque prerogativa collegata ai titoli, anche se non è
vietato usarli. Questo ha finito per incrementare gli abusi.
Dopo il 1922 sono stati concessi titoli nobiliari senza predicato,
mentre prima di tale data i titoli erano rilasciati con il predicato,
che a seguito dell'abolizione del titolo è diventato parte
integrante del cognome (da non confondere con il doppio cognome
che non è sinonimo di nobiltà come comunemente si
ritiene), che quindi risulta dai registri anagrafici, cosa che
non può risultare per chi ha avuto un titolo dopo il 1922,
ma che deve essere in possesso di regie patenti che riconoscono
il titolo.
Gli abusi sono determinati dalla circostanza che in una famiglia,
in cui tutti i componenti hanno il diritto di usare il predicato
(per quelli che ne hanno il possesso), tali componenti usino tutti
anche il titolo, che invece può essere usato solo ed esclusivamente
dal primogenito, che ha diritto di trasmetterlo ai suoi diretti
discendenti maschi. Il titolo potrà essere trasmesso in
via collaterale solo se non vi sono discendenti diretti del primogenito.
Esso potrà essere trasmesso anche in linea femminile, soltanto
se non vi sono figli maschi, ma occorrerà che trasmetta
al figlio maschio il proprio cognome con il predicato. La donna
con il matrimonio assume il titolo del marito; se divorzia non
potrà più usare il titolo, cosa però che
in Italia non avviene quasi mai.
Di recente ha fatto discutere, a Milano, il caso di una possibile
adozione, e particolarmente della trasmissione del titolo nobiliare
dall' adottante all' adottato. Sono state fatte molte illazioni
e dette le cose più strane. Se il titolo è regolare
(si discuteva anche della regolarità del titolo), non vi
sono dubbi che l' adozione è stata codificata (dai Romani,
v. supra, par. Roma) apposta per trasmettere oltre ai beni
anche le cariche e i titoli. Per cui, nel caso di una adozione,
se l' adottante ha un titolo nobiliare, questo si trasmette all'
adottato.
EPILOGO
La nobiltà
è sempre stata una casta gelosa e nello stesso tempo custode
della propria identità. Proprio per questo spirito di consapevolezza
e di conservazione che la distingue, ha la possibilità
di documentare la propria ascendenza (genealogia) e risalire attraverso
varie generazioni al proprio capostipite, cosa che invece non
può fare un comune borghese che riesce a risalire di sole
tre-quattro generazioni.
Nella genealogia vi deve essere una rigorosa continuità.
Quando si pensa di trovare degli agganci per superare periodi
oscuri dal punto di vista documentale, sarebbe come seguire la
stessa traccia seguita da Cesare Musatti nel libro <Il nipote
di Giulio Cesare>, in cui il celebre psicanalista, molto scherzosamente,
riesce a dimostrare, facendo anche il calcolo delle probabilità
di discendere da Giulio Cesare (e non è detto che così
non fosse!). Oppure, come molti genealogisti del '600, che si
erano sbizzarriti a ricercare assurde quanto fantasiose ascendenze
mitiche a nobili famiglie dell'epoca, come quella che faceva discendere
una casata da Giove, re di Toscana e imperatore del mondo!
Di storico c'è da tener presente che nel corso dei secoli
vi è stato un continuo avvicendamento e mutamento di posizioni
in ambedue i sensi. Vale a dire che molte famiglie, per l'impossibilità
di mantenere un certo tenore di vita o per capovolgimento di fortuna,
finivano per cambiare stato passando da quello nobiliare a quello
borghese; altrettante, invece, raggiunta una posizione di ricchezza
e di potere entravano a far parte della classe nobiliare, oppure
avveniva che delle famiglie nobili si rinsanguassero (economicamente)
sposando la ricca borghese.
Si è calcolato che la scomparsa di famiglie nobili fosse
del 50% per secolo e la durata media di una dinastia, nell'arco
di 100-200 anni fosse di cinque-otto generazioni. Vi sono stati
casi di resistenza genetica di famiglie che si sono riprodotte
(anche numericamente) sfidando i secoli come i Borbone e gli Asburgo
(v. Genealogie).
Nel passato si è spesso considerata la nobiltà per
grazia di Dio. Non è stata evidentemente la grazia
di Dio ma più prosaicamente l'intraprendenza
di un antenato a far la fortuna di tutta la sua discendenza. Se
vogliamo, la grazia di Dio è dovuta alla circostanza
che solo pochi hanno potuto avere la fortuna di quell' avo intraprendente.