L'europa intorno al 1300 |
L' EUROPAVERSO LA FINE DEL MEDIOEVOMICHELE DUCAS-PUGLIA |
L’IMPERO ROMANO-GERMANICO
I |
l Sacro Romano Impero Germanico, definito da Pirenne un’ “anarchia in forma monarchica”, era costituito da un insieme di regni, principati, piccoli feudi, città autonome, con principi laici ed ecclesiastici unificati solo nel nome, senza una legge o una finanza e tanto meno una politica finanziaria comune.
Dopo la morte dell’imperatore Federico II (v. Genealogie: Gli imperatori SRIG), la carica imperiale era giunta a un punto tale di mancanza di prestigio e d’autorità che, al momento della elezione di Rodolfo d’Asburgo (1237), c’era da chiedersi a cosa potesse servire e per quale motivo i sette elettori (gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, il re di Boemia, il duca di Sassonia, il margravio del Brandeburgo, il conte palatino del Reno), considerati le “sette colonne dell’impero”, continuassero ad eleggere il “re dei romani”.
In un primo momento, per la nomina era prevalso il principio di nominare l’imperatore tra esponenti di varie famiglie, come era avvenuto tra il 1291-1298 con la nomina di Adolfo di Nassau, che, anche lui debole e povero come Rodolfo d’Asburgo, fu deposto e sostituito dal figlio di Rodolfo, Alberto (1298-1308).
Tra il 1346 e 1400 vi fu la nomina di Carlo IV (1346-78) e Venceslao (1378-1400) della famiglia dei Lussenburgo. Seguì un’altra dinastia, quella di Roberto del Palatinato (1400-10), e poi ancora un Lussemburgo, con Sigismondo (1410-37). Dal 1438, con la nomina di Alberto II d’Asburgo la corona, tornata nelle mani degli Asburgo, diventa un “affare ereditario di famiglia”, e non sarà più lasciata a nessun esponente di altre famiglie, fino a Guglielmo I (1871-1888) perché gli Asburgo oramai avevano acquisito il titolo imperiale per conto proprio e quello onorifico non suscitava più il loro interesse.
Dal momento della nomina di Alberto d’Asburgo, anche la storia dell’Impero si confonde con quella della dinastia. Primo degli Asburgo fu Rodolfo, scelto perché debole e povero, (v. Genealogie: Asburgo, Notizia), ma una volta nominato imperatore aveva mostrato una personalità diversa da quella con cui si era presentato e un’avidità tale da aver pensato solo ad ingrandire i propri possedimenti, incamerando i ducati d’Austria e di Stiria per il figlio Alberto.
Alberto d’Asburgo, come abbiamo visto, aveva sostituito Adolfo di Nassau e stava pensando di riunire il regno di Boemia al ducato d’Austria, quando fu assassinato nel 1308 dal nipote Giovanni di Svevia, detto il Parricida.
Nel 1308 fu nominato imperatore il fratello dell’arcivescovo-elettore di Treviri, il conte Enrico (Arrigo)VII del Lussemburgo (1308-13). La cerimonia dell’incoronazione si svolgeva ad Aquisgrana seguita dal viaggio a Roma per essere incoronati dal papa. Arrigo venendo in Italia per cingere la corona imperiale, aveva fatto sorgere delle speranze negli italiani, per una pacificazione generale in tutto il paese martoriato da guerre intestine e dalle controversie tra Guelfi e Ghibellini. Arrigo, dopo essere stato a Roma, morì anzitempo sulla strada del ritorno a Buonconvento nell’agosto del 1313 e fu sepolto nel cimitero di Pisa. Si disse che era stato avvelenato con l’ostia della comunione somministratagli dal suo confessore, Bernardino da Montepulciano. Gli succedette Alberto d’Asburgo, II come imperatore (V come duca d’Austria).
Seguì la nomina di Federico III (1452-1493) il quale, mentre era in vita fece eleggere “re dei romani” il figlio Massimiliano I (1493-1519).
Federico III oltre ad aver procurato al figlio Massimiliano la corona imperiale, lo fece sposare con Maria di Borgogna determinando con questo matrimonio (che poteva ritenersi un normale matrimonio principesco, ma dalle implicazioni che seguirono fu semplicemente strepitoso), la seconda fase della futura grandezza degli Asburgo (v. Articoli: Carlo V ecc.).
I |
l sogno dei re francesi era stato quello di diventare re d’Inghilterra, quello dei re inglesi, di diventare re di Francia. Per la Francia il sogno si era avverato quando i baroni inglesi nel periodo della Magna Charta, avevano chiamato il figlio di Filippo Augusto e gli avevano offerto la corona dell’Inghilterra (1216). Il futuro re di Francia, Luigi VIII, prima di succedere al padre (1223), per il tempo di un sospiro, era stato quindi re d’Inghilterra.
Viceversa i re inglesi si erano insigniti del titolo di re di Francia per periodi più lunghi, come si era verificato con Enrico VI (1422), che a nove anni fu incoronato re d’Inghilterra e di Francia e del titolo ne avevano abusato molti re inglesi come Elisabetta I.
E’ da dire però che i re inglesi, più concretamente, avevano avuto in Francia possedimenti come la Normandia, Bretagna, Angiò, e Turenna e l’Aquitania, (chiamata anche Guienna) con capoluogo Bordeaux (portata in dote da Eleonora quando, dopo aver lasciato Luigi VII, e aveva sposato Enrico II Plantageneto). Questi territori superavano quelli dello stesso re di Francia al quale era riconosciuto il diritto feudale e, per questo legame feudale i re inglesi erano vassalli dei re francesi.
Escludendo infatti la Borgogna, che in massima parte apparteneva alla Germania, le contee di Lione, Savoia e Chambery e della Provenza e la Fiandra, ch’erano indipendenti, il regno di Francia era ridotto a ben poca cosa, con territori che non facevano neanche corpo unico. Era stato Filippo Augusto (1165-1223) a iniziare ad accorpare il regno, riuscendo a riprendere la Normandia, l’Angiò, il Maine, la Turenne, il Poitou. Con la vittoria di Bouvines (1214) i conti di Fiandra dovettero riconoscere la sua autorità. Egli ottenne le città di Amiens, Lille e San Quentin. Parigi a quel tempo era ancora costruita in legno e le sue strade erano fogne a cielo aperto; fu Filippo Augusto a farla lastricare, facendo ultimare la facciata di Notre Dame e costruire il Louvre.
Il primo cambiamento che aveva del rivoluzionario lo introdusse in seno al Consiglio (i suoi ministri), dal quale aveva eliminato i nobili e gli ecclesiastici sostituendoli con sofisticati giuristi borghesi, espertissimi in diritto.
Essi, scrive, Michelet, si servivano della fiscalità imperiale delle Pandette, che consideravano, la loro Bibbia e, a torto o a ragione, la loro risposta era “scriptum est”, appunto, è scritto nelle Pandette. Questi “cavalieri del diritto”, demolirono il medioevo, il pontificato, il feudalesimo e la cavalleria, ma, bisogna confessarlo, aggiunge Michelet, “furono i fondatori dell’ordine civile moderno”.
Essi favorirono l’accentramento monarchico, mandando nelle province balivi, siniscalchi, prevosti, procuratori, cioè quelli che saranno i funzionari statali dell’età moderna.
Dove c’era da prendere danaro Filippo non si creava troppi scrupoli. Tra i primi ad essere colpiti furono i banchieri lombardi (1), che probabilmente lavoravano per il papa. Egli li mandò in esilio appropriandosi dei loro beni.
Poco per volta, riuscì a demolire il potere della Chiesa, perché era il potere dello Stato che doveva prevalere. Nel 1287 Filippo ordinò che la Giustizia (Parlamento), fosse amministrata dai soli laici escludendo i chierici che furono allontanati. Gli ecclesiastici non si rassegnarono e tentarono di riprendere il loro posto in Parlamento, ma Filippo (1289) ordinò ai “maestri” (Presidenti) del Parlamento di non far entrare alcun prelato.
Dopo aver vietato ai chierici di interferire nelle questioni di Stato, egli vietò (1288) ai preti e ai monaci di arrestare gli ebrei. Questo non per magnanimità nei confronti degli ebrei, ma perché anche un eretico era soggetto d’imposta e con gli arresti ordinati dall’inquisizione lo Stato sarebbe stato privato del soggetto d’imposta.
Con tutte queste idee di un monarca moderno non poteva mancare un ulteriore affondo nei confronti della Chiesa che possedeva un quarto del territorio francese (in Inghilterra ne aveva la metà), in completa esenzione da tasse e imposte.
Tra il re affamato e il popolo smunto, scrive Michelet, vi era la Chiesa. “Arcivescovi, canonici, monaci antichi (benedettini) e nuovi (mendicanti), erano tutti ricchi e gareggiavano in opulenza. Tutto questo mondo tonsurato, cresceva per le benedizioni del cielo e per il grasso della terra. Era un piccolo popolo felice, obeso e rilucente, in mezzo a un grande popolo affamato che cominciava a guardarlo di traverso”.
Un colpo fu dato alla “Mano morta”. Con questo termine era indicata la proprietà che finita nelle mani della Chiesa, rimaneva lì per sempre, senza possibilità di futuri trasferimenti. Filippo quadruplicò o sestuplicò la tassazione sul trasferimento, in modo da guadagnare sulle donazioni fatte alla Chiesa.
Poi ebbero inizio i feroci scontri con il papa che era stato un suo degno avversario. Appena eletto papa, Bonifacio VIII (Benedetto Caetani 1235-1307), emanava una bolla (1296) ”Clericis laicos” che mirava a colpire indirettamente il re. Infatti, scomunicava - senza eccezione - “ogni laico che esigeva prestiti o donazioni, senza l’autorizzazione della santa sede...era inoltre scomunicato anche ogni prete che avesse pagato”. “Il laico”, che avesse chiesto il pagamento, era evidentemente Filippo IV.
La scomunica all’epoca era molto sentita perché si credeva veramente alla dannazione dell’anima e alle atroci pene dell’inferno. Essa colpiva il sovrano perché oltre a sciogliere i sudditi dall’obbligo del giuramento nei suoi confronti, lo scomunicato veniva considerato come un escluso dalla società e non poteva assumere i sacramenti e neanche ascoltare la messa.
I monarchi però avevano la chiesa o la cappella nel castello, perciò potevano ugualmente ascoltar messa o comunicarsi avendo disponibili e alle loro dirette dipendenze monaci o preti. Il termine “senza eccezione”, contenuto nella bolla, intendeva escludere anche questa possibilità.
Filippo, reagì immediatamente: prendendo a pretesto la guerra contro Enrico I d’Inghilterra, proibì l’esportazione dell’oro, dell’argento, delle armi ed altro.
Il papa emanò un’altra bolla permeata, all’apparenza di dolcezza ma contenente sottili e diplomatiche minacce: “Ineffabilis amoris dulcitudine sponso suo”: “Nella dolcezza di un ineffabile amore, la Chiesa unita a Cristo suo sposo ne ha ricevuto i doni, le grazie più ampie e specialmente il dono della libertà. Ha voluto che la sposa adorabile regnasse come madre sui propri fedeli. Chi dunque non temerà di offenderla e provocarla? Chi non sentirà di offendere lo sposo della sposa? Chi oserà attentare alle libertà ecclesiastiche contro il suo Dio e il suo Signore?...o figlio, non distogliere l’orecchio dalla voce paterna”.
Il papa, dopo aver richiamato l’aiuto dato “tutte le volte che i tuoi antenati e tu stesso hai fatto ricorso”, esortava Filippo a piegarsi ai suoi consigli: “esortiamo la tua real Serenità, la preghiamo, l’invitiamo a ricevere con rispetto il rimedio che ti offre una mano paterna a piegarti a consigli salutari per te e per il tuo regno, a correggere i tuoi errori e non lasciar sedurre la tua anima da falso contagio. Conserva il tuo buon nome tra gli uomini e non ci forzare a ricorrere ad altri rimedi, a rimedi insoliti...ai quali se costretti...ricorreremmo con rammarico”.
Seguì la bolla che fece precipitare gli eventi. La “Unam sanctam” (1302). Con questa bolla, Bonifacio VIII enunciava per la prima volta la supremazia papale su tutti gli esseri viventi. Egli dichiarava che “ogni creatura umana era soggetta al romano pontefice”.
Ad aggravare i rapporti, intervenne un’altra circostanza. Era stato creato un nuovo vescovado, ricavato dalla diocesi di Tolosa. Il vescovado di Pamiers, assegnato a Bernardo di Saisset. Costui si rivolgeva a Filippo per ricordargli la sua promessa di una crociata e intimargli di mettere in libertà il conte di Fiandra con la figlia, che Filippo teneva prigionieri.
Non occorreva altro per avere una reazione immediata. Filippo mandò due emissari per processare il Saisset. Costui stava per mettersi in fuga ma fu preso e portato col suo seguito a Parigi. Il re chiese subito al papa la degradazione del Saisset da vescovo “sì che il re, suo signore, possa di questo traditore di Dio e degli uomini farne eccellente sacrificio a Dio”. Il papa rispose richiedendo la restituzione del vescovo e dichiarando di sospendere il privilegio riservato ai re di Francia, di non poter essere scomunicati.
Dopodiché inviò (1301) la bolla “Ausculta filii”, in cui affermava la supremazia dei papi. “Dio ci ha posti, sebbene indegni, al di sopra dei re e dei regni, imponendoci il giogo della servitù apostolica per sradicare, distruggere, disperdere, dissipare e per edificare e piantare sotto il suo nome e a mezzo della sua dottrina”.
Successivamente il papa convocava i prelati francesi a Roma (1302), per il mese di novembre. Filippo lo anticipò convocando gli Stati generali per il mese d’aprile. Nel frattempo però era avvenuto il massacro di Bruges (21 marzo) in cui erano stati massacrati quattromila francesi.
Le Fiandre erano occupate da Edoardo I (v. sotto), che le aveva abbandonate per andare a risolvere in Inghilterra problemi creatigli da Wallace, e Filippo aveva preso possesso delle città di Gand e Bruges. I cittadini, che non avevano mai visto il re, si prepararono ad accoglierlo e si presentarono nelle loro vesti più sfarzose (lo sfarzo era normale nelle ricche Fiandre) e pieni d’oro. Le donne piene di gioielli, avevano lasciato sbalordita la regina che acidamente aveva commentato che non aveva visto che regine. Non occorreva altro per il governatore reale per imporre tributi a tutti, compresi gli operai degli opifici che dovevano versare un quarto del loro salario.
I capi dei mestieri presentatisi dal governatore se ne lamentarono. Il governatore abituato in Francia alle “corvée” che non suscitavano reazioni, non essendo abituato a sentir lamentele, li fece arrestare. Ma il popolo li liberò uccidendo alcuni funzionari. Il Parlamento di Parigi decise che i capi dei mestieri dovevano tornare in prigione.
Tra costoro si trovavano il decano dei beccai e il decano dei tessitori, Pietro König. Costui riunì gli operai degli opifici e fece massacrare tutti i francesi delle città e dei castelli nei pressi di Bruges. Durante la notte furono messe per le strade di Bruges le catene per impedire ai francesi di attraversare la città.
1) Non è stato storicamente chiarito se per “lombardi” si indicassero i mercanti (e banchieri) italiani (anche fiorentini) e sarebbe l’ipotesi più probabile, oppure se fossero proprio i lombardi ad esercitare il commercio del denaro, prima dei fiorentini.
A |
nche la Francia ebbe il suo Wycliff “ante litteram”, nato sessantacinque anni prima (v. sotto). Era Pierre Dubois (1255-1312) che aveva preceduto il predicatore e riformatore inglese, ma non aveva avuto la stessa risonanza perché era stato solo un giurista e non era stato mosso da motivi religiosi. Tra le varie opere, Dubois aveva scritto “Supplication du peuple de France au roi contre le pape Boniface VIII”, che troveremo più avanti.
Le sue teorie erano meno spinte di quelle che poi sosterrà Wycliff. Dubois era per una autonomia della Chiesa francese da quella di Roma, principio che, anche se non in maniera esasperata sarà mantenuto nel corso dei secoli. Dubois, oltre ad essere contrario al celibato, riteneva che la Chiesa non dovesse avere dotazioni e neanche godere dell’aiuto economico dello Stato.
In ogni caso l’autorità suprema doveva essere solo quella dello Stato. La particolarità di Dubois era stata quella di aver visto con anticipo di circa sei secoli e mezzo, ciò che si sta cercando di raggiungere con l’Unione Europea con la domanda d’ingresso della Turchia.
Egli aveva previsto infatti, un impero unico fino a Costantinopoli che vedeva come capitale dell’impero. Dubois aveva previsto anche la costituzione di una Corte internazionale che avrebbe dovuto giudicare le dispute tra gli Stati, suggerendo il boicottaggio quando uno stato (cristiano) ne avesse aggredito un altro.
Nello stesso periodo di Dubois, in Francia, a prendere le difese del papa era stato John Duns (1265c.ca-1308), detto Scoto perché proveniente dalla Scozia. Era monaco francescano dalla mente acuta, il cui maggior interesse era stato indirizzato alla ricerca dì un nuovo equilibrio della filosofia cristiana dopo l’immissione dell’aristotelismo arabo nel pensiero occidentale.
Per il suo modo di ragionare, la sua dialettica lucida e stringente e la passione con cui esponeva il suo pensiero incantava gli ascoltatori che gli avevano dato il titolo di “Doctor subtilis”. Era però visto dai seguaci e sostenitori di Filippo IV come elemento pericoloso, per cui dovette allontanarsi da Parigi (1303) andando ad insegnare ad Oxford e una seconda volta, quando si erano ulteriormente inaspriti i rapporti tra monarchia e papato (1307), andò ad insegnare a Colonia dove morì l’anno successivo (1308).
Morto Bonifacio VIII, fu eletto al primo scrutinio e all’unanimità Niccolò Boccasini (1303-1304), figlio di un notaio di Treviso. Prese il nome di Benedetto XI, ed ebbe un pontificato così breve da non essere mai stato considerato come ultimo papa italiano. Era stato infatti Bonifacio VIII ad essere ritenuto l’ultimo papa italiano, prima del gruppo dei francesi.
Benedetto XI a causa delle turbolenze di Roma, si trasferì a Perugia. Era stato legato in Inghilterra, Ungheria, e Francia e poco dopo la sua elezione intraprese un viaggio a Firenze (1304) per metter pace tra bianchi e neri (guelfi e ghibellini), che si combattevano ferocemente.
A Firenze in piazza s. Maria Novella (26 aprile) fu allestita una spettacolare cerimonia per festeggiare la riconciliazione tra le due fazioni. Al calendimaggio Firenze era in festa ed era stata organizzata una rappresentazione acquatica dell’inferno. Erano accorsi molti spettatori per assistervi. Il ponte Carraia stracolmo di spettatori crollò, molti annegarono. Un cronista, con sarcasmo, aveva commentato che molti di costoro avevano sperimentato in anticipo i tormenti dell’inferno che erano andati a godersi.
Filippo IV intanto gli fece pervenire lo scritto di Pierre Dubois “Supplication ...contre Boniface VIII”, in cui si sosteneva che l’errore di Bonifacio doveva essere considerato eretico.
Mentre il papa aveva pensato in un primo momento di soffocare la controversia, dopo aver ricevuto la “Supplication” s’infuriò, e lanciò una bolla di scomunica (7 giugno), “in personan bonae memoriae Bonifaci”. Una giovane donna velata, fattasi passare per conversa di santa Petronilla, gli aveva portato una primizia di stagione, i fior di fichi. Il papa morì dopo averli mangiati (4 luglio 1304).
Nell’anno successivo si riunì il nuovo conclave nel quale si prospettarono due partiti di cui uno francese. Essi concordarono che una delle due parti avrebbe suggerito tre nominativi, l’altra avrebbe scelto l’eletto. Poiché era toccato ai francesi fare la scelta, questa cadde su Bertrando de Got, arcivescovo di Bordeaux che prese il nome di Clemente V (1305-1314).
Prima della nomina Bertrando era stato convocato da Filippo che gli promise l’elezione se avesse accettato le sue condizioni. Filippo chiedeva: l’assoluzione per sé e i suoi seguaci per quanto si era verificato con Bonifacio e quindi di rientrare nei sacramenti, con l’annullamento della memoria di Bonifacio; la nomina di alcuni cardinali, tra i quali Jacopo e Piero Colonna; la concessione di tutte le decime del clero francese per cinque anni, come aiuto per la guerra delle Fiandre.
Un’altra richiesta sarebbe rimasta al momento segreta e sarebbe stata fatta a tempo opportuno. L’arcivescovo accettò consegnando per garanzia, il fratello con due nipoti. Dopo l’elezione (14 nov. 1305), Clemente dichiarò di voler essere incoronato a Lione pensando poi di tornare in Italia, ma il destino volle che rimanesse in Francia, con tutti gli altri papi che lo seguirono (v. Parte III par. Il grande e piccolo scisma).
Il papa mantenne le sue promesse facendo nominare dodici cardinali, di cui i due Colonna. Revocò le due bolle di Bonifacio (“Clericis laicos” e “Unam sanctam”) e altre concessioni fece agli stessi familiari di Filippo, al fratello Carlo di Valois e ai figli.
N |
el 1291, finita la crociata e perduta la Terrasanta, i Templari rientrarono in Francia portando con sé 150mila fiorini d’oro e una carovana di dieci muli carichi d’argento. Era solo una parte del patrimonio dei cavalieri del Tempio. Le loro ricchezze erano immense. In Europa possedevano novemila castelli. In Spagna, nel regno di Valenza, avevano diciassette piazzeforti. Il regno di Cipro che non potettero conservare lo avevano pagato in danaro contante.
Il potere era pari alle loro ricchezze. Non dovevano pagare diritti, tributi o pedaggi. Quanto alla giustizia dipendevano direttamente dal papa che era lontano, e se la regolavano da soli. Erano temuti ma erano anche circondati da invidie e risentimenti. Tra i loro primi nemici vi erano i domenicani che inizialmente erano stati amici. Poi avevano anch’essi creato un ordine, quello dei “Cavalieri Gaudenti” che non ebbe fortuna.
Il veleno penetra lentamente: prima porta alla rivalità, poi all’invidia, infine all’odio. Quando iniziarono i processi i domenicani furono i loro spietati giudici e aguzzini.
I loro riti segreti, bizzarri e nello stesso tempo drammatici (ter abnegant et horribili crudelitate, ter in faciem spuebant ejus...per tre volte lo rinnegano, commettendo un’orribile crudeltà, per tre volte sputano su di lui), alimentavano dicerie d’ogni genere.
Ma tutto ciò che essi dissero sotto tortura erano solo frutto di fantasie dette perché alla tortura non si resiste e alla fine si parla ma dicendo tutto ciò che gli inquisitori vogliono sentirsi dire, e con il modo di porre le domande sono essi stessi a suggerire le risposte.
Nei secoli successivi le loro storie saranno circonfuse d’ogni genere di mistero e di racconti esoterici, collegati alle fantasticherie medievali del Graal, alla “lancia del destino” (la lancia che sarebbe stata infilata nel costato di Cristo) che dava potere a chi la possedesse; all’Arca dell’alleanza e al tesoro di Salomone che i Templari avrebbero trovato nel Tempio; ai Rosacroce e alla massoneria. Tutte storie che alimentarono e alimentano ancora curiosità e credenze. (1)
I Templari avrebbero dovuto avvertire l’avvicinarsi della tempesta che si stava abbattendo su di loro, ma peccarono d’orgoglio. Erano troppo consapevoli del potere che avevano nelle loro mani per poter pensare di dover subire accuse infamanti, falsi processi e finire così miseramente a morire di stenti nelle prigioni o sotto le torture o bruciare sui roghi. E per orgoglio non accolsero il suggerimento che gli era venuto proprio dal re, dell’unificazione con l’Ordine degli Ospedalieri che forse avrebbe potuto salvarli.
Chi da tempo guardava alle loro ricchezze era il monarca che amava le ricchezze altrui e trovava sempre il sistema di appropriarsene. Filippo il Bello le ricchezze dei Templari le aveva sotto gli occhi ed anche le conosceva (per averle viste quando era andato a rifugiarsi nel Tempio, v. par. precedente). Non averle avute sarebbe stato solo un tormento. Era da tempo che ci pensava: dal momento (come abbiamo visto), in cui aveva barattato le sue richieste con l’elezione del papa Clemente V. Era la richiesta rimasta segreta, non rivelata.
Filippo voleva entrare nell’Ordine, per diventarne il Maestro, ma la richiesta non era stata accolta. Egli stesso aveva fatto ricorso ai loro prestiti che a dire di un cronista (il Templare di Tiro) che la riferiva (alla quale però egli stesso non credeva “non so se erano di meno”), ammontavano ad una cifra spaventosa, quattrocentomila fiorini d’oro.
Di questa cifra, neanche il Tempio ne era a conoscenza, in quanto il tesoriere del Tempio, Guglielmo di Tours, era nello stesso tempo consigliere finanziario di Filippo. Non doveva aver compiuto un’operazione corretta se il maestro, Giacomo Molay nel momento in cui era venuto a conoscenza, lo aveva immediatamente estromesso dall’Ordine.
Filippo stava preparando il suo tradimento proprio quando li gratificava colmandoli di favori, corteggiando Giacomo Molay al quale aveva chiesto di fare da padrino ad uno dei suoi figli. Proprio il giorno precedente il fatidico venerdì (13 ottobre 1307), lo aveva incontrato al funerale di sua cognata.
Da un mese erano partite per tutta la Francia le lettere con il sigillo reale, con l’ordine di aprirle nella notte tra il 12 e il 13. All’alba del giorno tredici, con il sincronismo di una operazione di polizia dei tempi moderni, partì il gran colpo degli arresti a Parigi e in tutte le città della Francia. Solo a Parigi oltre al Molay, furono arrestati centoquaranta templari. Sessanta ne furono arrestati a Beaucaire e così in altre città.
Le prime accuse per gli arresti furono di rinnegamento e tradimento della cristianità, iniziazione disgustosa, scambievole prostituzione e sputo sulla croce.
Il papa ne rimase sbalordito. Egli considerò gli arresti un affronto alla sua autorità perché i Templari dipendevano da lui. Preso da collera sospese i poteri dei giudici (vescovi e arcivescovi) e dell’Inquisizione. Anche il re ebbe una dura reazione, ma tutto finì con un compromesso.
Il papa ritenendo di prendere in mano la situazione, emanò la bolla “Pastoralis praeminentiae” (22 nov.1307) con la quale ordinava a tutti i sovrani di arrestare i Templari e confiscarne i beni in nome del papato.
A seguito delle sue pressioni, Filippo incontrò il papa a Poitiers (1308), e si decise per un Concilio, da convocarsi a Vienne nell’anno successivo. Ma la data slittò ed il Concilio si aprì il 16 ottobre 1311. Vi parteciparono trecento vescovi poco propensi a condannare prima d’aver ascoltato.
Il papa aggirò l’ostacolo. All’interno del Concilio aprì un Concistoro con alcuni cardinali e vescovi a lui favorevoli e redasse una bolla che lesse nel Concilio, nel silenzio generale. Era la “Vox in excelsis” (22 marzo 1312): “Aboliamo il detto Ordine del Tempio, il suo abito, il suo nome, con un decreto irrevocabile e valido in perpetuo e lo condanniamo a proibizione perpetua con l’approvazione del Concilio, vietando rigorosamente a chiunque di pensare di entrare in futuro nel detto Ordine, oppure di riceverne o indossarne l’abito. Se qualcuno non rispetterà tali divieti, incorrerà nella sentenza di scomunica ipso facto” (2).
Nei processi che seguirono essi furono accusati di bestialità, idolatria, rifiuto dei sacramenti, di vendere l’anima al demonio e di adorarlo sotto la forma di un enorme gatto; di sodomia tra di loro e di rapporti con diavoli e succubi; di rinnegare durante la cerimonia d’iniziazione Dio, Cristo e la Vergine; di sputare tre volte sulla croce di orinare e camminarci sopra; ed infine, di dare il bacio della vergogna al priore dell’ordine, sulla bocca, sul pene e sul sedere (in questo coacervo di accuse e false conferme ricorreva il bacio dei sabba, il bacio dato al deretano del diavolo: si trattava del kundalini, il bacio dato dove finiva l’osso sacro, che secondo le dottrine indiane, liberava le forze cosmiche, poi finito in Occidente così degradato, nda.).
Per l’Inquisizione, si costituiva un precedente relativamente ai processi che sarebbero stati fatti negli anni successivi. Dal 1374 l’Inquisizione intervenne anche nei processi di stregoneria, fino a quel momento considerato reato comune.
1) Approfondiremo l’argomento, con un articolo sui TEMPLARI, la cui storia continua ad avere il suo fascino anche senza i segreti e i poteri occulti che ad essi si sono voluti attribuire, facendo ricorso a speculazioni mistificatrici o a “rivelazioni”, che, come succede in qualche trasmissione televisiva, alla fine si risolvono in bolle di sapone.
2) Riportiamo il brano, per sfatare definitivamente gli agganci che tutte le varie ricostituzioni e i collegamenti di nuovi Ordini Templari, successivamente a questa Bolla, sono da ritenere storicamente arbitrari ed abusivi. Non solo. Ma, come dichiara la Bolla, chi solo pensa di ricevere o indossarne l’abito o di agire da Templare è da considerare scomunicato “ipso facto”!
Inutile dire che, un riconoscimento di un nuovo Ordine Templare, potrebbe essere concesso solo ed esclusivamente dal papa il quale, prima di concedere il riconoscimento dovrebbe revocare la Bolla “Vox in excelso”.
Sembra chiaro. Eppure continuano a fiorire Ordini Templari che si dichiarano eredi e depositari dell’antico Ordine…quello vero!
E RIVENDICAZIONI INGLESI
Alla morte di Filippo IV i suoi tre figli maschi morirono uno dopo l’altro a breve scadenza. Inutile dire che le maledizioni mandategli dal Gran maestro Jaques Molay mentre bruciava sul rogo, per tredici generazioni (cioè fino alla morte di Luigi XVI nel 1793), sulle quali è fiorita una vasta e fantasiosa letteratura, non c’entravano nulla.
Primo nuovo eletto fu Luigi X, morto dopo due anni di regno (1316), con un erede che gli stava per nascere e sarebbe stata una femmina, Jeanne.
Fu poi incoronato il secondo figlio, Filippo V. Nel frattempo nasceva postuma la figlia di Luigi XI, Jeanne. I nobili, per scongiurare la sua elezione, emanarono una legge sulla base della consuetudine franca che escludeva le donne dalla successione. Filippo V moriva nel 1322.
Fu eletto il terzo figlio, Carlo IV. La legge che escludeva le donne dalla successione fu riconfermata, per scongiurare questa volta l’elezione d’Isabella, sorella di Filippo IV, che aveva sposato (1312) Edoardo II d’Inghilterra. Isabella aveva procreato un maschio, il futuro Edoardo III e per evitare che questi potesse avanzare pretese sul regno, come infatti avvenne, fu emanata questa seconda legge.
Alla morte di Carlo IV (1328) la dinastia di Ugo Capeto si estingueva. Edoardo III avanzò le sue pretese ritenendosi discendente di Ugo Capeto, per linea femminile (dalla madre Isabella). L’assemblea dei nobili oppose un rifiuto richiamandosi alla duplice legge già in vigore che escludeva la madre Isabella dalla successione.
L’assemblea dei nobili elesse quindi l’unico erede maschio rimasto in vita, nipote di Filippo IV (figlio del fratello Carlo di Valois), che prese il nome di Filippo VI.
Cessava la dinastia dei capetingi e iniziava quella dei Valois che durerà fino al 1589 quando estinta la dinastia dei Valois avrà inizio con Enrico IV quella dei Borbone.
Dopo aver protestato Edoardo III si recò ugualmente ad Amiens all’incoronazione di Filippo VI, per rendergli l’omaggio vassallatico (come feudatario della Guascogna, Guienna e Ponthieu). Ma Filippo si pentì del gesto quando incominciò a desiderare di aggiungere al regno d’Inghilterra anche quello di Francia, e cioè quando i suoi consiglieri gli riferirono che il re era debole di carattere e stava progettando di partire per una crociata.
Edoardo rinnovò la sua rivendicazione (1337), ma ottenne un altro rifiuto. I motivi di guerra non potevano mancare a tutte e due le parti.
La Scozia costituiva una spina nel fianco dell’Inghilterra e i francesi ad ogni guerra prestavano aiuto agli scozzesi. Il successi militari scozzesi (1328) avevano costretto Edoardo III a riconoscere l’indipendenza della Scozia il cui vassallaggio nei confronti dell’Inghilterra durava dall’epoca di Edoardo I.
Fu eletto re di Scozia Robert Bruce (1328) contro il quale vi fu la rivolta di Edoardo Baliol (1331) appoggiato da Edoardo III. Robert Bruce fu sconfitto ad Hallidown Hill (1333) e si rifugiò in Francia, mentre Baliol riconobbe nuovamente la signoria dell’Inghilterra sulla Scozia.
Le Fiandre erano il principale mercato che assorbivano tutta la lana inglese e gl’inglesi mal sopportavano che quel mercato dipendesse dalle decisioni del re francese.
Fu il conte di Fiandra Luigi di Nevers a innescare la miccia. Filippo VI lo aveva aiutato a soffocare una rivolta di contadini a Cassel e il Nevers aveva accolto il suo suggerimento di far arrestare (1336) tutti gl’inglesi che si trovavano nelle Fiandre
Edoardo contraccambiò facendo arrestare tutti i fiamminghi che si trovavano su suolo inglese, vietando l’esportazione della lana nelle Fiandre: significava strozzare l’economia fiamminga.
Gli artigiani e fabbricanti di Gand, reagirono rifiutando la fedeltà al conte e scelsero come loro capo e come governatore della città Jacob van Artevelde, il quale cercò di mediare per avere l’amicizia di Edoardo III e la lana.
Edoardo tolse l’embargo, il conte di Nevers fuggì a Parigi e tutte le Fiandre si posero sotto la dittatura di Artevelde (che fu ucciso durante un tumulto nel 1345), approvando anche l’unione con l’Inghilterra e la guerra contro la Francia.
Edoardo quindi inviò cavallerescamente una lettera con dichiarazione di guerra a Filippo, ed ebbe inizio la guerra dei Cento anni (v. P. I).
Dopo la concessione della Magna Charta (1215 v. in Sez. Diritti civili, umani ecc.) tra i re che si succedettero in Inghilterra e il Parlamento vi fu una continua lotta che mirava per ciascuno dei due poteri, la Corona e il Parlamento, a rafforzare i poteri dell’uno nei confronti dell’altro.
Nel 1258 Enrico III (1207-1272) era stato costretto a concedere ai baroni, capeggiati da Simone di Montfort (sostenitore dei diritti dei baroni nei confronti della corte se pur limitati dalla Magna Charta), le “Provvisioni di Oxford”, in base alle quali a fianco del re venivano posti quindici baroni come consiglieri e controllori dell’amministrazione (era il primo nucleo della Camera dei Lords).
Nel 1265 il re dovette accettare una convocazione fatta da Simone di Montfort a Lewes, due cavalieri per ogni contea, e per la prima volta, due rappresentanti di ogni borgo (prima convocazione dei “commons” che diventerà la Camera dei Comuni).
Alla morte di Enrico III, il figlio Edoardo I (1239-1307), prendendo nelle sue mani il governo del regno al ritorno dell’ultima crociata (1270-72), si fece promotore di importanti riforme amministrative, giuridiche ed economiche (per l’intensa attività legislativa fu chiamato enfaticamente il “Giustiniano inglese”), istituì un Gran Consiglio composto dai dirigenti delle più importanti amministrazioni, introducendo una codificazione nel campo della amministrazione.
Edoardo I cercò di limitare i diritti della Chiesa con gli Statuti sulla Manomorta (Statutes of Mortmain) sottoposti al permesso reale sulla concessione di terre a enti ecclesiastici; modificò la legislazione sui trasferimenti ereditari; giustiziò anche un gran numero di ebrei per incamerare i loro beni.
Dopo anni di lotta riuscì a conquistare il Galles (1284) e lo unificò all’Inghilterra, lasciandogli però una certa autonomia garantita dal titolo di principe di Galles che da quel momento fu dato all’erede al trono del regno.
Non riuscì a sottomettere la Scozia che per l’unificazione richiederà tempi molto lunghi e avrà luogo alla morte di Elisabetta I (1603), con l’avvento al trono di Giacomo VI Stuart re di Scozia (1566-1625) divenuto re d’Inghilterra e d’Irlanda come Giacomo I. La definitiva unione avverrà solo con la regina Anna Stuart (1707) quando il regno unificato prenderà il nome di Regno Unito di Gran Bretagna.
Il XIV secolo inizia in Inghilterra con l’assunzione del regno da parte di Edoardo II (1307-1327) (*) che per le predisposizioni omosessuali e la propensione ai piaceri si disinteressò della guida del governo affidandola, subito dopo l’incoronazione, al suo amante Piers Gaveston, assolutamente incapace di far fronte a quel compito.
I feudatari ne profittarono per imporgli la sottoscrizione delle “Quaranta Ordinanze” (1311) con cui il potere passava direttamente nelle mani dell’aristocrazia e, poco dopo (1312) assassinavano Gaveston.
Il capo del partito dei nobili era Tommaso di Lancaster che fu sconfitto a Boroughbridge (1322), fatto prigioniero e giustiziato, mentre il Parlamento di York abrogò (2 maggio 1322) le “Ordinanze” ritenute lesive dei diritti della Corona. Fu stabilito quindi che gli affari dello Stato fossero decisi dal re nel Parlamento secondo il consiglio dei prelati, dei baroni e “dell'insieme del regno”, vale a dire dei rappresentanti delle contee e delle città.
In tal modo e con l’affermazione dello Stato costituzionale, la Corona riuscì ad aver ragione del regime aristocratico.
Il regno di Edoardo II doveva terminare con una grave umiliazione inferta alla Corona dal Parlamento: la deposizione del re ritenuto un sovrano indegno per il suo mal governo.
Edoardo II passato nel frattempo ad altri amori (Hugh le Despenser), fu deposto in seguito a una cospirazione ordita dalla moglie Isabella di Francia (1326) e successivamente fatto assassinare (1327) da lei e dal suo amante Roger de Mortimer, (su questi avvenimenti il drammaturgo Christopher Marlowe -1564-1593 - aveva tratto il dramma “Edward II”).
Il figlio Edoardo III (1327-1377) fu incoronato appena quattordicenne per cui il potere rimase ancora per quattro anni nelle mani della madre e dell’amante.
Il regno di Edoardo durato due lustri fu colmo di eventi, in particolare egli aveva profuso tutto il suo impegno dedicandosi alla guerra contro la Francia, nel vano tentativo di conquistarla.
Le vittorie ivi riportate gli diedero grande prestigio, anche perché incarnava la figura del cavaliere gentiluomo (aveva istituito l’Ordine della Giarrettiera), dedito alla caccia, ai tornei e al fasto che aveva introdotto non solo a corte ma anche quando andava in guerra.
Edoardo riuscì rafforzare la monarchia e a porre quelle solide basi economiche che servirono al futuro dell’Inghilterra.
Il paese in quel periodo era ancora povero di città e di commercio, con un'industria che muoveva i primi passi. La maggiore ricchezza dell'Inghilterra di quel tempo, coma abbiamo visto, era la lana prodotta dalle numerose greggi allevate nelle grandi proprietà fondiarie ed ecclesiastiche. Era questa la materia prima fornita all'industria tessile delle Fiandre (Paesi Bassi) e dell'Italia.
Edoardo III mentre da un lato aveva promulgato provvedimenti per trattenere in patria i prodotti lanieri e sviluppare un'industria nazionale dei panni, dall’altra aveva mirato ad attrarre nelle casse dello Stato i profitti del commercio della lana con operazioni di acquisto e rivendita della lana (nel 1337 aveva ottenuto un guadagno di duecentomila sterline).
Anche militarmente l'Inghilterra era stata preparata alla guerra. Tutti gli uomini liberi del regno erano tenuti a prestare il servizio militare equipaggiandosi a proprie spese, ciascuno secondo l'ammontare delle proprie entrate dal 15mo al 60mo anno di età, e due volte l'anno venivano passati in rivista. In caso di guerra fuori del paese tutti i vassalli, baroni e cavalieri, erano obbligati ad accorrere alla chiamata del re che per meglio organizzare l'esercito aveva fatto scegliere da suoi commissari, fra gli uomini liberi d'ogni contea, i più idonei al servizio a piedi e a cavallo.
Abbiamo visto (P. I) come Edoardo III aveva privilegiato negli esercizi militari l'uso dell’arco. La dotazione della fanteria era costituita dal nuovo tipo di arco di frassino perché più leggero e più lungo e di maggior gittata e maneggevolezza, oltre a balestre e lance simili a baionette, forti da poter forare un'armatura.
Alla sua morte, succedutogli il nipote Riccardo II (1377-1399) (*) di undici anni, figlio del Principe nero, questo si ritrovò il regno sconvolto dai “Lollardi” (v. sotto, John Wicliff) che sollevarono i contadini oppressi dalla servitù della gleba.
Riccardo II col suo tutore Michael de la Pole, si era arrogato il diritto di istituire il Consiglio del re e di nominare i ministri, sottraendo questi diritti al Parlamento (1383) che li aveva ripresi cinque anni dopo (1388), per perderli ulteriormente l’anno successivo (1389).
In ogni caso Riccardo II nonostante queste rivalse nei confronti del Parlamento, per buona parte del suo regno governò costituzionalmente, evitando ogni abuso di potere, rispettando i diritti del Parlamento e richiedendo sempre il suo assenso.
Solo negli ultimi anni di governo la sua opposizione al Parlamento provocò una sollevazione di nobili e diede modo a suo cugino il duca Enrico di Hereford, erede della casa di Lancaster, di costringerlo ad abdicare e sostituirlo col nome di Enrico IV (1399-1413) (*).
Enrico IV per far dimenticare la illegittima appropriazione della corona, governò d’intesa con il Parlamento che ne approfittò non solo rafforzando i propri poteri ma conseguendo la piena vittoria dei principi parlamentari, sottraendo tra l’altro al re la nomina e la sorveglianza dei funzionari, le disposizioni sui beni della Corona, ogni influenza sulla giustizia.
La vittoria del potere parlamentare sulla corona era però più apparente che reale. Il successore di Enrico IV, il figlio Enrico V (1413-1422) (*), pochi anni dopo, l'aveva già completamente annullata.
Il regno di Enrico V fu interamente assorbito dalla guerra dei Cento anni (v. P. I) fortunosamente rivolta in quel periodo a favore degli inglesi, ma che mutò in favore dei francesi con Enrico VI (1422-1461)
Il movimento parlamentare iniziato come già detto nel 1215, con alterne vicende, predominò nella vita politica inglese fino a Enrico V, perchè se con quest'ultimo il regime monarchico si era rafforzato, rimase ancora assai lontano dal carattere assolutista di quello francese.
La monarchia era riuscita a conservare il potere esecutivo, ma al suo fianco rimaneva saldo al suo posto il Parlamento senza l'autorizzazione del quale il re non poteva né imporre tasse né emanare leggi.
Il rafforzamento del potere monarchico e l'indebolimento del potere del Parlamento doveva essere portato dalla spaventosa guerra civile che ebbe luogo nella lotta dinastica intervenuta tra la casa di Lancaster (rosa rossa) e quella di York (rosa bianca): la Guerra delle Due Rose (1455-1485).
Questa guerra rappresenta il periodo più sanguinoso e più sterile della storia dell'Inghilterra, non essendo animata da nessun particolare ideale dei due diversi partiti, se non quello di una brutale sete di dominio che aveva portato all’annullamento dell’autorità dello Stato. Questa guerra aveva comportato un’inutile spargimento di sangue facendo un milione di vittime tra cittadini e di ventiquattro principi.
Il Parlamento in quel periodo decadde nella stessa miseria morale dell'intero paese lasciandosi travolgere dai partiti e perdendo quello spirito di rivalsa nei confronti della Corona, col risultato che le sue tendenze riformatrici si dispersero nel servilismo nei confronti del partito che di volta in volta risultava vincitore.
Di ciò ne profittarono prima gli York, saliti al trono con Edoardo IV e suo fratello Riccardo IlI il Gobbo (1452-1485) (*), che dopo essersi procacciati il riconoscimento parlamentare del trono usurpato, lo misero nell'ombra emarginandolo con un’abile politica finanziaria, sottraendogli la maggior arma che potesse possedere: il diritto di approvare le imposte.
La guerra delle “Due rose” ebbe termine con l’ascesa al trono dei Tudor, con Enrico VII, (1457-1509) Lancaster per via materna (v. Articoli: L’Inghilterra dei Tudor), che sposando Elisabetta di York (figlia di Edoardo IV), fondeva insieme le Due rose contendenti.
I Tudor ebbero il talento di porre le basi di una nuova Inghilterra, la loro epoca, nonostante tutti gli spargimenti di sangue, i massacri e le tragedie a cui avevano dato luogo, fu un “Risorgimento” dell'ordine statale e sociale, nel momento in cui tutti gli altri fattori nazionali erano indeboliti e diminuiti d'importanza per effetto della guerra civile, e comunque privi di ogni forza d'iniziativa politica.
Essi riconquistarono interamente alla monarchia il potere che il Parlamento aveva usurpato, la resero forte e sicura, vera artefice della grande Inghilterra quale sarà nei secoli a venire.
*) Su Edoardo II Bertold Brecht aveva scritto (nei Drammi giovanili): La vita di Edoardo II.
*) Su Riccardo II e III ed Enrico IV, V, e VI William Shakespeare aveva scritto drammi con gli stessi titoli.
I PRIMI RIFORMATORI
N |
el 1375 il papa Gregorio XI (1330-1378), ultimo del periodo avignonese, aveva chiesto al re d’Inghilterra il tributo annuo pattuito ai tempi di Giovanni Senza Terra (v. in Diritti Umani e Civili, prefazione alla Magna Charta). Il tributo però non era stato mai versato ed era quindi caduto in desuetudine. La richiesta del papa, che si estendeva anche al pagamento degli arretrati, aveva suscitato delle reazioni nazionalistiche di cui si era reso interprete John Wycliff (1320-1384).
Wycliff, insegnava a Oxford al “Baliol College” e aveva pubblicato un libro (De domino divino), in cui sosteneva una tesi originale e rivoluzionaria relativamente al malcontento che serpeggiava per ogni dove, suscitato dall’avidità del papato.
Egli proponeva l’espropriazione delle proprietà ecclesiastiche e l’esclusione del clero dal potere temporale, ponendo così le basi: per il futuro scisma di Enrico VIII; della guerra civile in Boemia con Jan Hus; e della rivolta protestante in Germania con Lutero.
Le sue teorie, inizialmente non avevano suscitato scalpore in quanto erano scritte in un latino oscuro e maldestro che, esclusi i grammatici, nessuno riusciva a comprendere.
Egli sosteneva che gli Apostoli e i loro successori e sacerdoti non avessero proprietà, e ogni chiesa o ecclesiastico che ne possedesse violava un comandamento del Signore trovandosi quindi in stato di peccato, con la conseguenza che non poteva somministrare efficacemente i sacramenti.
Il risultato di questi principi (non espressamente enunciato da Wycliff), era che se la Chiesa abusava dei suoi beni o danneggiava il potere civile, quest’ultimo (attraverso il potere giurisdizionale) poteva procedere alla confisca dei beni e ricondurre la Chiesa al primitivo stato di povertà.
Wycliff era contro la confessione, che rendeva gli uomini schiavi del clero, che ne abusava per scopi economici e politici. Egli aggiungeva che buoni laici avrebbero potuto assolvere un peccatore più efficacemente di preti perversi. In effetti chi poteva assolvere, sarebbe stato solo Dio!
Quindi Wicliff disconosceva la confessione come la transustanziazione del pane e del vino nel sangue e nel corpo di Cristo. Pur negando però la transustanziazione, come insegnava la Chiesa, egli riconosceva che nel momento della loro somministrazione vi fosse la presenza di Cristo.
Wycliff aveva fatto tradurre, collaborando anch’egli alla traduzione, la Bibbia in inglese, divenuta strumento di agitazione nelle mani della compagnia dei “poveri preti predicatori”, detti anche “lollardi” (dall’olandese “lollaerd”, bisbigliare), da lui istituiti per predicare. Costoro erano vestiti con tonaca di lana nera, come i monaci, e andavano a piedi nudi.
Le sue stesse predicazioni erano dure e polemiche e anticipavano quelle di Martin Lutero. Egli si scagliava contro i prelati che ingannano gli uomini attraverso indulgenze e false remissioni e li depredano esecrabilmente del loro denaro, e contro i preti che corrompono spose, vedove e monache con ogni forma di lascivia. Contro i curati che adulavano il ricco e disprezzavano il povero e facilmente perdonavano i peccati del ricco, ma scomunicavano l’indigente a causa delle decime non pagate, che andavano a caccia, giocavano d’azzardo e raccontavano falsi miracoli.
Accusava i prelati che vivevano nel lusso, cavalcando grossi palafreni con bardature d’argento e d’oro. Li tacciava di essere rapinatori, volpi astute, mangioni, diavoli e scimmie. Li accusava di simonia che regnava in tutti gli Stati della Chiesa.
Accusava la corte di Roma, che ammantata di santità, derubava la maggior parte della terra inglese di uomini e tesori. Alla fine Wycliff chiedeva che i crimini del clero fossero puniti da tribunali secolari.
La questione delle proprietà ecclesiastiche interessava molto i membri del Parlamento che avevano calcolato che con le ricchezze amministrate da vescovi, abati e priori, si sarebbero potuti mantenere quindici conti, millecinquecento cavalieri, seimiladuecento scudieri e il re poteva accantonare per sé ventimila sterline all’anno.
Si stava anche preparando la guerra con la Francia e i consiglieri del re fecero notare che non si poteva permettere che in seno alla chiesa fossero raccolti fondi, che dovevano essere mandati al pontefice “francese circondato da cardinali francesi”.
A Wycliff era stato posto il quesito: “se fosse lecito trattenere il tesoro del reame per essere inviato a una parte straniera, e se il papa, al quale era dovuta obbedienza, avesse potuto censurare questa decisione”. Wycliff rispose: “poichè la carità comincia in casa propria, non sarebbe stata carità, ma stoltezza, indirizzare gli aiuti del regno all’estero, proprio quando lo stesso regno ne aveva bisogno”.
Wycliff raccomandava quindi l’indipendenza ecclesiastica dell’Inghilterra. E si spinse anche oltre. Egli aggiungeva, anticipando Enrico VIII, che l’Inghilterra doveva essere considerata un corpo e il clero, i pari ed il popolo, le membra di quel corpo, anticipazione che sembrò ardita anche ai membri del Parlamento.
Nel 1384 fu invitato dal papa Urbano VI (1378-1389) a recarsi a Roma. Durante una messa fu colto da apoplessia (ictus) e dopo tre giorni (1384) moriva. Il Concilio di Costanza (1415) ordinò che fosse disseppellito e le sue ossa fossero gettate nel vicino fiume. Tutte le sue opere furono fatte cercare e bruciate.
IN BOEMIA
JAN HUS
L |
e dottrine di Wicliff, furono introdotte in Boemia da Girolamo da Praga (1378 c.ca 1416) e predicate da Jan Hus (1369-1415) col quale però la questione religiosa sfociò nel nazionalismo.
In Boemia i Cechi vivevano accanto agli immigrati tedeschi che vi erano arrivati nel XII secolo. La Chiesa era filo-tedesca e questo aveva incrementato l’ostilità dei cechi nei confronti dei tedeschi.
Hus era ceco e si orientò verso la parte slava del paese che lo salutò come colui che l’avrebbe affrancata dalla Chiesa tedesca. Egli infiammò a tal punto i suoi compatrioti che da semplice teologo fu considerato apostolo del suo popolo.
La Boemia era divenuta il centro di diffusione delle idee rivoluzionarie che si erano irradiate nelle vicine regioni della Polonia, Slesia, Moravia, Ungheria e Croazia, e tra la plebe tedesca dell’Austria, facendo breccia nel popolo oppresso dal giogo della nobiltà.
Tra i seguaci di Hus si staccarono coloro che secondo le dottrine di Wycliff prendevano la comunione nelle due specie, chiamati “Utraquisti”. La maggioranza però si spinse agli estremi affidandosi ai fondamenti della Bibbia, che portando la parola di Dio doveva essere integralmente seguita e ciò faceva considerare superflua l’organizzazione della Chiesa e quella civile e comportava la fondazione del Regno di Dio.
Si giunse alla convinzione che il popolo ceco fosse il “popolo eletto del Signore”. I beni della Chiesa furono requisiti, il clero fu disperso, i monasteri distrutti. Fu emanata una costituzione patriarcale fondata sull’Antico testamento. Presso la città di Kozirahdek, dove aveva passato gli ultimi anni Hus, fu costruita la città santa di Tabor: i suoi abitanti erano i
taboriti, seguaci di Hus.
Da tutte le parti vi si riversarono mistici che volevano vivere nel regno di Dio. Il rigorismo biblico faceva sorgere sette, come quella degli “Adamiti”, che convinti di vivere in maniera primitiva in un paradiso terrestre, in promiscuità, senza abiti e senza morale, si stabilirono in un’isola del fiume Nezarva. Avendo suscitato scandalo, furono tutti massacrati (1421).
Tutta la Boemia era in rivolta. Le due fazioni dei taboriti e ultraquisti si combattevano. La nobiltà era passata interamente dalla parte di questi ultimi, appropriandosi di tutti i beni dei conventi. Alla fine gli utraquisti riportavano una sanguinosa vittoria a Lipan (1434).
Contro Jan Hus era stata scagliata la scomunica (1412) e contro la città di Praga l’interdetto. Il Concilio di Costanza, ritenendo di eliminare l’eresia con l’eliminazione del suo capo convocò Hus a Costanza. Jan Hus accettò l’invito pensando di convertire quei padri alle sue idee. Egli viaggiava con salvacondotto del re Sigismondo ma fu ugualmente arrestato.
Non si sa bene se fosse stato perfido il re Sigismondo nel concedergli il salvacondotto o i padri del Concilio nel ritenere che quel re lo avesse mandato da loro perché fosse eliminato. Sta di fatto che giunto a Costanza fu arrestato, e dopo che i suoi libri furono bruciati, fu mandato al rogo (1414). La stessa fine fu riservata l’anno dopo a Girolamo da Praga.
LA SPAGNA
DOPO LA DOMIINAZIONE ARABA
I |
l feudalesimo spagnolo, aveva avuto aspetti più particolari rispetto ad altre realtà (Francia e Germania), relativamente allo stato economico-sociale del paese, in quanto i rapporti tra sovrano e sudditi era più diretto, e non sussisteva nelle realtà locali il rapporto gerarchico tipico del feudalesimo francese e tedesco: i grandi feudatari (ricos hombres, mentre gli hidalgos erano nobili minori nda.) non avevano il diritto di batter moneta, di imporre tasse, di giudicare, perché la giustizia era amministrata esclusivamente in nome del monarca
I “ricos hombres” avevano sotto di loro degli uomini liberi che godevano certe franchigie nelle città; mentre le loro terre erano coltivate da schiavi e coloni che pagavano un diritto fisso “salariego”.
Nella Castiglia la schiavitù era scomparsa del tutto e restava il servaggio della gleba attenuata in alcuni distretti detti “hebetrias” dal fatto che i coloni potevano liberamente scegliersi il loro padrone.
Ma tanto nella Castiglia quanto nell’Aragona dominava il principio che il signore potesse disporre del corpo del salariego e di tutto ciò che questo potesse possedere.
L'aristocrazia feudale era contrastata da villaggi e città della Corona, abitati da soldati cristiani e da emigrati, fondati nel periodo della riconquista. Questi villaggi e queste città godevano di estesi privilegi, i “fueros”, indicati negli statuti municipali e concessi loro dal re.
Le città divennero potenti e spesso si confederavano in leghe dette “hermandades”, sia per difendere i propri privilegi contro i nobili, sia contro il re e i suoi ufficiali.
Le realtà locali erano molto diversificate: mentre nel Regno d'Aragona vi era la Catalogna, con istituzioni quasi repubblicane e un popolo energico e intraprendente, nel resto dell'Aragona i Comuni e l’aristocrazia erano sempre pronti a levarsi in armi per la difesa dei propri privilegi. La Castiglia invece era travagliata da anarchia e confusione per mancanza di spirito politico che legasse tra loro i grandi signori, ecclesiastici, laici e i potenti Comuni.
La monarchia pertanto ebbe vita più difficile in Aragona dove le istituzioni erano più forti e popolari, che in Castiglia, paese in cui le idee monarchiche per la debolezza delle istituzioni e per la loro minore popolarità si radicarono più facilmente.
Tra l’XI e il XIII secolo, si fece strada l’istituzione delle “Cortes”, assemblee parlamentari costituite dai rappresentanti della nobiltà, dagli ecclesiastici e dalla classe media rappresentata dai municipi. Con lo stesso nome erano indicate anche le riunioni che avevano luogo tra il re, i nobili e gli ecclesiastici, convocate solo dal re.
Normalmente la indicazione di “Cortes” riguardava sempre il primo caso, la cui convocazione era in funzione della votazione delle imposte e dei contributi richiesti dal re e, in alcuni casi, di legislazione. La convocazione aveva luogo anche in caso di morte del re o in caso di assenza di eredi e provvedeva alla elezione del nuovo monarca.
La penisola iberica per buona parte conquistata dagli arabi (711-718) abbattendo il regno dei visigoti, fu progressivamente e gradualmente riconquistata (“reconquista”).
Dopo la battaglia di Las Navas de Tolosa (1212), gli arabi perdettero Cordoba (1236), Valencia (1238), Murcia (1243), Siviglia (1248) e Cadice (1262), rimanendo confinati nel regno di Granata costituito dal bacino del Guadalquivir, dalle pianure dell'Andalusia e dalle vallate della Sierra Nevada.
Per il resto, la penisola iberica era occupata dai regni cristiani: a nord, dal regno di Navarra (in mani francesi dal 1234 fino al XIX sec., esclusa una parte conquistata da Ferdinando il Cattolico nel 1512); ad ovest, dal Portogallo (indipendente dal 1139); al centro, dai regni di Castiglia e Leòn (unificati nel 1230), ad est, dal regno da Aragona.
Il regno di Aragona si era ingrandito con la unificazione della contea di Catalogna (1137) e la conquista di Valencia (1238).
L’Aragona, chiusa da una parte dalla Castiglia che le impediva l’ulteriore espansione territoriale e dall’altra dal mare cercò la sua espansione verso il Mediterraneo. Furono così conquistate le vicine Baleari (1227-35), poi la Sicilia (staccata da Napoli dopo l’insurrezione dei Vespri siciliani del 1282), con l’acclamazione di Pietro III d’Aragona (I di Sicilia - v. P. IV, par. Il regno di Napoli e Sicilia).
Il regno di Castiglia e Leòn aveva avuto sotto la corona dell’illuminato Alfonso X (1221-84), un periodo di splendore umanistico(v. P.V). Alfonso X fu detto “il Savio” per avere accolto presso la sua corte studiosi cristiani ed ebrei, e per aver promosso un poderoso lavoro culturale affidando a questi studiosi la traduzione di opere arabe (continuando così la tradizione culturale araba di Toledo: v. Specchio dell’Epoca: La scienza araba alle origini ecc.) e commissionando nuove opere, caratterizzate nella maggior parte di esse dalla scrittura in “casigliano” anziché in latino.
Videro così la luce testi come: “Le sette parti”, riguardante la storia della Spagna; la “Prima cronaca generale”; “La grande storia generale”, compilazione di storia universale; “Libri del saper d’astronomia”, in cui furono riassunte sistematicamente le dottrine tolemaiche, ed altre come l’ “Escala de Mahoma”, fatta tradurre dal francese, da Bonaventura da Siena, opera conosciuta da Dante che influenzò la Divina Commedia.
Si giunse ai due grandi monarchi, la cui unione fu quanto mai felice per la stabilizzazione dei rispettivi regni e l’unificazione della Spagna: Isabella di Castiglia (1451-1504) e Ferdinando il Cattolico d’Aragona (1452-1516) due personalità affiatate da unità d’intenti (da far sì che l’Aragona prendesse il motto: “Tanto monta Isabel como Fernando, tanto monta Fernando como Isabel”).
Nel momento in cui a diciotto anni Isabella si era trovata a dover scegliere un marito, la scelta era caduta su Ferdinando più giovane di lei di un anno e con la fama di ardito cavaliere, scelta contrastata da suo fratello (il re Enrico IV di Castiglia), dalla nobiltà e dal papa; ma nonostante queste opposizioni i due giovani principi si sposarono facendo ricorso al matrimonio segreto (1469).
Isabella, aveva ereditato fortunosamente (1474) il regno di Castiglia in quanto il fratello Enrico IV dopo la morte del figlio don Alonso, aveva nominato erede Giovanna la Beltraneja, figlia della moglie Giovanna del Portogallo e dell’amante Beltran de la Cueva nonché suo favorito, ma riappacificatosi con Isabella alla morte le lasciò il regno.
Isabella mostrerà il suo temperamento e la sua personalità nel non voler confondere con il marito i rispettivi ruoli reali: lei rimaneva regina della Castiglia e Ferdinando re d’Aragona e principe consorte (per la Castiglia), con una unione dei due regni personale e territoriale più che politica.
Ambedue avevano ereditato i rispettivi regni in condizioni disastrose, afflitti da ribellioni, disordini, guerre e anarchia, e ambedue li avevano portati alla unificazione, centralizzando il governo e creando una nuova classe di funzionari formata dalla borghesia, ristabilendo l’ordine, liberando il territorio dagli arabi (nel 1492 all’assedio di Granata aveva partecipato anche la regina per incitare i soldati), riordinando il sistema monetario, migliorando le comunicazioni con la costruzione di strade e ponti, liberalizzando il commercio e creando i presupposti per arricchire il tesoro dello Stato.
Ferdinando, per eliminare il brigantaggio (del quale si servivano i grandi del regno) istituì (1476) la “Santa Hermandad” che lo represse con inaudita ferocia e per domare la grande nobiltà arrogante e ribelle, aveva accentrato nelle sue mani i tre ordini cavallereschi di Calatrava (1487), Alcantara (1494) e s. Giacomo (1499) diventandone Gran maestro.
L’Inquisizione veniva introdotta due anni dopo (1478) per far cessare le lotte di religione, ma utilizzata anche per motivi politici contro le direttive di Roma, per stroncare l’opposizione e reperire gli enormi fondi derivanti dalle confische.
Ambedue i monarchi si erano circondati di personaggi di grande levatura come il cardinale Pedro Gonzalez Mendoza, Inigo Lopez de Mendoza, conte di Terdilla, il gran capitano Fernandez de Cordoba, l’esperto di marina conte Pedro Navarro, il vicerè di Napoli Ramon de Cardona, il cardinale Jimenez de Cisneros al quale era stato affidato il governo della Castiglia, e l’arcivescovo di Saragozza al quale Ferdinando aveva affidata la reggenza dell’Aragona, in attesa della venuta di Carlo dalla Borgogna (v. Articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc.).
Con l’espansione verso il mare da parte dell’Aragona, a Ferdinando appartenevano le Baleari , la Sicilia, Sardegna e il regno di Napoli.
Spesso nel celebrare la scoperta del nuovo mondo da parte di Cristoforo Colombo, si dimentica che chi gli aveva permesso di affrontare l’impresa era stata Isabella che aveva avuto il grande intuito di finanziarlo in proprio, attingendo dal tesoro della Castiglia, con tutto ciò che ne era derivato in termini di gloria, territori e ricchezze dal successo dell’impresa.
Isabella, prima di morire aveva dato disposizioni che come regina le doveva succedere la figlia superstite Giovanna, mentre a Ferdinando era riservata la carica di governatore della Castiglia.
Giovanna, soprannominata “la loca”(pazza), aveva sposato Filippo il Bello (figlio dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo) erede delle Fiandre e sfrenatamente ambizioso e avido di territori da governare, il quale mirava ad impadronirsi della Castiglia e di tutta la Spagna e aveva creato attriti con il suocero Ferdinando, che in ogni caso lo superava in astuzia politica e diplomatica.
Filippo, che usava il titolo di re di Castiglia e come detto, aveva in animo di prendere possesso del regno per governare, si era accordato con Ferdinando per governare insieme e ambedue utilizzavano anche il titolo di re di Spagna, come in precedenza Ferdinando aveva fatto con Isabella.
Ma Filippo aveva ben altre intenzioni e con Giovanna e il secondo figlio Ferdinando, partirono dalle Fiandre (1506) per prendere possesso del regno.
Giunto in Castiglia, una parte della nobiltà gli si era mostrata favorevole preferendolo a Ferdinando, e stava per creare i presupposti di una guerra civile, scongiurata da Ferdinando diplomaticamente più remissivo.
Ferdinando per accordi presi con Luigi XII di Francia (1505), aveva ottenuto la rinuncia da parte di questo alle rivendicazioni sul regno di Napoli (col pagamento di 500.000 ducati da pagarsi in dieci anni), e come conferma degli accordi gli era stata data in moglie la diciannovenne nipote (figlia della sorella del re, Maria d’Orleans) Germaine de Foix, che a quell’età era già vedova.
Ferdinando, con la giovane moglie era partito per Napoli e aveva fatto tappa a Portofino, quando gli giunse notizia dell’improvvisa morte del genero Filippo (v. articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc.). Egli non ritenne di interrompere il viaggio per tornare ma proseguì per Napoli dove fu accolto con grandi festeggiamenti.
Morì nel 1516 mantenendo il regno in nome del nipote Carlo I, futuro imperatore Carlo V, col quale la Spagna entrerà in un’altra fase, quella del regno unificato.