S.Domenico ed il Tribunale dell'Inquisizione
 

L' EUROPA

VERSO LA FINE
DEL MEDIOEVO

 

 

MICHELE DUCAS-PUGLIA

 

PARTE PRIMA

 

SOMMARIO: IL 1300 UN SECOLO DI SCIAGURE: LE VIOLENZE CONTRO GLI EBREI; LA MEDICINA DOMINATA DALL'ASTROLOGIA; LE RIVOLTE CONTADINE E BORGHESI: LA JACQUERIE IN FRANCIA; ARMAGNACCHI E BORGOGNONI NELLE FIANDRE; JOHN BALL E WAT TYLER IN INGHILTERRA; IN ITALIA: I CIOMPI A FIRENZE-COLA DI RIENZO A ROMA; GUERRE PER CENTO ANNI: GIOVANNA D'ARCO E L'UNIFICAZIONE DELLA FRANCIA; GLI ULTIMI MASSACRI DEL SECOLO: MEHEDIA; NICOPOLI L'ULTIMA CROCIATA.

 

IL 1300
UN SECOLO DI SCIAGURE

Il 1300 è stato il secolo che pur avendo avuto tutte le caratteristiche del periodo che va sotto il nome di "medioevo", ha visto prepararsi quegli avvenimenti che, proseguendo nel secolo successivo, costituiranno la base della storia del "1500", convenzionalmente e tradizionalmente considerato dagli storici come inizio dell' "epoca moderna".
In queste pagine tratteremo degli eventi dei due secoli che l'hanno preceduta, in cui sono andati esaurendosi gli elementi che avevano caratterizzato l'evo precedente, considerato appunto "medioevo" (dal 325: Costantino o 476 fine dell'impero romano - 1492 scoperta dell'America), e si erano preparati i nuovi, che costituiscono l'inizio della nuova era.
Possiamo considerare l'intero secolo XIV, sotto molti aspetti, un secolo tragico, denso di sciagure. Sin dai suoi primi anni a causa dell'inizio della Piccola Glaciazione (che terminerà nel 1700)e del conseguente avanzamento dei ghiacciai, si era verificato un abbassamento del clima. Il Baltico si era ghiacciato per due volte (1303/1306-07), il mar Caspio (detto Ponto Eusino-Mare ospitale) si era alzato di livello. L'Europa occidentale era stata colpita da una tremenda carestia, che aveva portato a casi di cannibalismo. In Polonia si era arrivati a mangiare i corpi degli impiccati e si diceva che molti genitori avessero mangiato i propri figli. Era stata seguita da un'epidemia di dissenteria.
Le campagne abbandonate erano invase dalla vegetazione selvatica ed erano piene di carogne d'animali morti. Piogge torrenziali e tempeste (1315) avevamo fatto pensare al Diluvio Universale.
Nel 1314 la pestilenza si diffuse in Germania e da qui era passata nelle Fiandre. Tra il 1320-21 aveva colpito la Francia. Poiché si vedevano in giro tanti lebbrosi, l'inconscio desiderio di disfarsene fece saltar fuori l'accusa che erano stati costoro ad averla provocata. A centinaia furono arsi vivi.
Nel 1348 un terremoto, con epicentro Napoli, aveva avuto una tal forza distruttiva da raggiungere a sud la Grecia, a nord aveva provocato danni da Venezia fino in Germania.
Nello stesso anno, provenienti con una nave dal Medio Oriente, nel porto di Genova erano sbarcati i ratti infettati dal virus della peste e con loro le pulci che avevano diffuso la Morte nera. Proveniva dall'India (1332), ma in precedenza si era diffusa in Cina. Il suo focolaio é stato ipotizzato nella zona centrale dell'Asia. Erano stati comunque i mongoli a trasmetterla ai genovesi assediati a Caffa in Crimea e una nave aveva portato il suo carico di morte a Genova, da dove si era propagata per tutta l'Europa.
Tra Oriente ed Occidente, con le epidemie successive, la peste aveva mietuto vittime pari alla metà dell'intera popolazione mondiale. Molte contrade si erano spopolate. Intere proprietà giacevano abbandonate e chi sopravviveva se ne impossessava.
La medicina, che pur con i suoi sistemi empirici riusciva a dare delle spiegazioni, nel caso della peste (era duplice, bubbonica e polmonare) non vi era riuscita, non essendo i medici arrivati (e non vi arriveranno ancora per molti secoli) a collegarla ai ratti e alle pulci, che ne erano i portatori, considerati gli uni e gli altri animali quasi domestici in quanto con essi si conviveva.
Il re di Francia, Filippo VI, aveva incaricato i medici dell'Università di Parigi, di cercare le cause del male. Una spiegazione fu data, senza però che si fosse giunti alla causa che procurava l'effetto.
All'epoca la medicina era dominata dall'astrologia e ad essa connaturata. I medici di quella Università dettero la loro risposta. Il male era dovuto "alla triplice congiunzione di Saturno, Giove e Marte, nel quarantesimo grado dell'Acquario verificatosi tre anni prima (1345). La sua causa rimaneva oscura alle menti più illuminate".
Questo verdetto, tradotto in tutte le lingue fu accettato e condiviso anche dai medici arabi, al "top" della medicina di quei tempi (v. Sez. Articoli: La scienza araba alle origini della cultura europea).
Non essendovi spiegazioni umane, si fece ricorso "all' ira di Dio, che mandava i mali per punire i peccati degli uomini". "L'ira di Dio" si pensò di placarla con le processioni, che non fecero altro che aggravare la situazione. Quando il papa Clemente VI (1342-52), si rese conto che quelle portavano ad una recrudescenza delle morti, intervenne proibendole.
Mancava però un capro espiatorio. E fu subito trovato. Questa volta la colpa fu attribuita agli ebrei, accusati di avvelenare l'acqua dei pozzi.
Gli ebrei, purtroppo, avevano commesso l'errore storico di voler testardamente mantenere la propria identità, con l'idea (per la verità non molto aperta nei confronti degli altri) di essere "il popolo eletto", non accettando di amalgamarsi con le comunità nelle quali si erano inseriti. Avevano preferito appartarsi, vivendo in gruppi separati, divenendo così facile bersaglio d'ogni sorta d'accuse.

LE VIOLENZE
CONTRO GLI EBREI

Le accuse "storiche" contro gli ebrei (iniziate in epoca romana), si erano incrudelite, come si sa, con la nascita e il diffondersi del cristianesimo, cioè proprio con quella religione che predicava il perdono e la bontà.(1)
L'accusa che aveva incrementato l'odio nei confronti degli ebrei fu quella del "deicidio", commesso dai sacerdoti del Tempio che avevano fatto condannare Gesù, rinverdita, nel corso dei secoli, da coloro che dimenticando il perdono e la bontà e mostrando una cieca intolleranza verso quel popolo, avevano avuto il riconoscimento della Chiesa ed erano stati gratificati con la "santificazione".
E così, per s. Agostino (354-430) gli ebrei erano "proscritti", in quanto avevano mancato di accettare la redenzione attraverso Cristo.
Il papa Innocenzo III li aveva condannati "alla servitù perpetua" e aveva decretato (1215) l'obbligo di portare un segno distintivo costituito da un dischetto giallo (che poi fu esteso ai musulmani, agli eretici e alle prostitute). Al dischetto si aggiunse il cappello a punta simile ad un corno, che rappresentava il corno del demonio.
S. Tommaso (1224-1274) aveva sostenuto che "essendo gli ebrei schiavi della Chiesa, questa poteva disporre delle loro proprietà".
Anche il re di Francia, Luigi IX (1214-1270), canonizzato dalla Chiesa per essersi dedicato ad opere benefiche e a devozioni religiose (usava il cilicio e si fustigava), non per questo aveva mitigato il suo fanatismo favorendo l'instaurazione dell'Inquisizione e la persecuzione degli albigesi e degli ebrei, i cui beni, confiscati, finirono tra le sue ricchezze. Durante il suo regno fu fatto un processo al Talmud, che finì con la condanna di opere talmudiche, bruciate a carretti.
Luigi il Santo, andò anche a combattere e massacrare gl'infedeli musulmani per conquistare ciò ch'egli riteneva essere "l'eredità di Cristo", vale a dire l'Egitto (settima crociata) e la Tunisia (ottava crociata), al fine di "convertire gl'infedeli".
A questo santo fine della conversione, che si voleva imporre (e s'imponeva con la forza), era collegato l'altro più concreto e mai dichiarato, delle conquiste territoriali con la costituzione di nuovi feudi.
Le accuse rivolte agli ebrei, come abbiamo visto, erano interessate perché la loro cacciata o la loro eliminazione, comportavano la confisca delle loro proprietà e l'annullamento dei loro crediti, ai quali tutti facevano ricorso e per primi, i monarchi.
Con la peste, le violenze contro gli ebrei erano divenute quotidiane. Il papa Clemente VI, con una bolla proibì la loro uccisione, il saccheggio delle loro proprietà e la conversione con la forza, che "non potevano aver luogo senza preventivo processo".
E un processo fu subito iniziato nella Savoia. La tortura dei testimoni e dei sospetti che scatenava le più strane e fantasiose "confessioni", aveva suggerito un complotto di carattere internazionale.
Essi raccontarono che da Toledo erano stati inviati messaggeri con l'incarico di portare il veleno "chiuso in borse di pelle", ai rabbini delle città, per avvelenare l'acqua dei pozzi e delle sorgenti. Undici ebrei furono arsi vivi. Agli altri fu data la possibilità di rimanere nella Savoia pagando un'imposta straordinaria di centosessanta fiorini al mese per sei anni.
La bolla di Clemente VI, all'infuori d'Avignone e degli Stati pontifici, non fu rispettata in nessun altro luogo. La violenza contro gli ebrei dilagò dall'Alsazia alla Germania. A Basilea un'intera comunità d'alcune centinaia di persone fu messa in una casa di legno appositamente allestita e le fu appiccato il fuoco. Fu emesso anche un decreto in base al quale si vietava agli ebrei di stabilirsi in quella città per duecento anni.
A Strasburgo, il Consiglio comunale della città, che si era mostrato contrario alla persecuzione, fu deposto. Nel 1349, ancor prima che la peste avesse raggiunto la città, duemila ebrei furono portati direttamente al cimitero dove, quelli che non accettarono di convertirsi furono bruciati su cataste di legno preparate sul posto.
Le persecuzioni continuarono nei secoli successivi con la santa Inquisizione. Nel 1492 Ferdinando il Cattolico, non accettando che nel regno d'Aragona vi fossero praticanti d'altre religioni, decretò la conversione generale con l'espulsione dei non convertiti. Ad andarsene furono in centomila che costituivano l'ossatura del commercio.
I papi, mentre fino alla Controriforma avevano cercato di attenuare gli eccessi antiebraici delle autorità civili e dei predicatori intolleranti, da questo momento dettero un giro di vite. Iniziò Paolo IV (1555-59, v. p. III Papi e movimenti religiosi), che istituì l'obbligo per gli ebrei di risiedere in un quartiere separato cinto da mura con chiusura del portone dall'esterno dal tramonto all'alba. Aveva inizio la segregazione del "ghetto".
La peste non potette essere fermata né si fermò. Continuò a riapparire dodici anni dopo (1360-61), decimando particolarmente i giovani. Per un certo periodo la crescita della popolazione rimase bloccata. Per incrementarla le donne si offrirono di dare una mano non andando troppo per il sottile nelle scelte e accettando qualsiasi tipo d'uomo, comunque fosse e a qualunque condizione sociale appartenesse. Si ebbero così unioni tra persone delle più diverse condizioni sociali.
Giunse anche una terza ondata di peste, negli anni 1373-74 (ne fu vittima Francesco Petrarca, ormai settantenne, seguito poco dopo (1375) dal Boccaccio, morto però di vecchiaia). Questa volta furono presi dei provvedimenti non molto umanitari, ma si rivelarono efficaci. A Milano, Bernabò Visconti aveva dato ordine che tutti i contagiati fossero portati fuori città e lasciati nei campi. A Venezia fu vietato l'ingresso alle navi.
In altre città la peste mieté ugualmente le sue vittime. A Piacenza fu colpita la metà della popolazione, a Pisa i quattro quinti. Con una quarta ondata di peste giunta nel 1388-90, la popolazione europea era stata decimata del 40-50%.

1) Sigmund Freud con la lucidità che lo contraddistingue, aveva ritenuto normale (che si verificasse), che nel momento in cui Paolo (l’Apostolo fondatore del cristianesimo ndr.) aveva posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità, fosse inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della cristianità contro coloro che rimanevano fuori. I Romani, prosegue Freud, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, sebbene per loro la religione fosse un affare di Stato e lo Stato fosse impregnato di religione.

LA MEDICINA
DOMINATA DALL'ASTROLOGIA

All' origine degli studi occidentali del medioevo fu la scienza araba (v. articolo citato: La scienza araba alle origini della cultura occidentale). In Occidente, per la medicina si seguivano Ippocrate e Galeno, studiati attraverso i testi arabi. Poi vennero i grandi medici arabi. Il primo fu Razes, seguito da Avicenna, fino ad Averroé.
La medicina medievale era strettamente legata all'astrologia in rapporto alle influenze del clima e delle stagioni, della luna che influiva sulle maree e si riteneva influisse anche sulla periodicità mestruale delle donne. Nella pratica, era invece legata alla teoria degli umori fondata sui quattro liquidi organici costituiti dal sangue, flemma, bile gialla e bile nera, che si combinavano anch'essi con i segni dello zodiaco, ognuno dei quali governava una zona del corpo. Gli umori e le costellazioni determinavano in ogni individuo i gradi di calore e di umidità corporei e la proporzione di mascolinità e femminilità.
I medici dell'epoca erano bravi a sistemare le ossa, levare i denti, rimuovere i calcoli dalla vescica, togliere le cataratte servendosi di un ago d'argento e per l'ernia usavano il cinto. Essi conoscevano anche la chirurgia plastica. Quando un viso era deturpato dal vaiolo, intervenivano utilizzando la pelle del braccio. Attribuivano epilessia e apoplessia a spasmi del cervello. Fondamentale era l'esame del battito del polso e l'analisi di feci e urine, fondate però solo sull'esperienza. L'esame infatti avveniva con l'osservazione sulla base della consistenza, colore e odore.
Essi davano molta importanza alle diete e facevano largo uso di sostanze lassative e diuretiche ricorrendo a purganti, clisteri e salassi, prescritti però in relazione ai pianeti e alle fasi lunari. Le malattie le distinguevano in croniche e acute. Le croniche erano governate dal sole, le acute erano governate dalla luna.
La farmacopea era fatta con le combinazioni più strane. Per i mal di denti si usava un misto d'olio, aceto e zolfo; per il mal di testa, polvere di radice di peonia con olio di rose; per la tigna si strofinava il cuoio capelluto con orina di bambini e sterco di capra; miele e rosmarino erano utilizzati per curare la gotta; l'anestesia era ottenuta con succo d'oppio, mandragola o cicuta. Per curare la pelle butterata dal vaiolo, quando il malcapitato riusciva a sopravvivere, era avvolto in un panno rosso e messo in un letto con cortine rosse. Durante la peste i medici suggerivano di spruzzare i pavimenti (che all'epoca non esistevano ed erano ricoperti di paglia e foglie secche e costituivano un vivaio di pulci e ratti), con aceto e acqua di rose e di lavarsi la bocca e le narici con la stessa soluzione.
Le pozioni contenevano corna di cervo, mirra, zafferano e, per monarchi e malati ricchi si faceva ricorso a metalli (oro, argento e mercurio), perle e pietre preziose, ridotti in polvere.
Quando poi i medici si trovavano di fronte a casi che non rientravano nelle loro cognizioni o esperienze, subentrava il soprannaturale e ci si rivolgeva ai santi, alle reliquie e alla Vergine.
Alle sventure naturali si aggiungevano quelle causate dall'uomo, determinate dalle pessime condizioni di vita di alcuni e dall'avidità di altri. Le prime davano luogo alle rivolte, le seconde alle guerre.

LE RIVOLTE
CONTADINE E BORGHESI

Nella classe dei contadini si potevano distinguere due categorie. Vi erano quelli che vivevano alla giornata come i salariati ed altri, che avevano la possibilità di utilizzare un pezzo di terra su cui coltivavano ortaggi e allevavano animali da cortile.
La vita per tutti era grama. L'abitazione era costituita da semplici capanne coperte di paglia con un locale unico, con al centro una buca dove si accendeva il fuoco. Si dormiva tutti insieme in promiscuità di animali e persone che utilizzavano un pagliericcio messo per terra o un letto formato da assi di legno.
La vita dei campi era dura e si svolgeva dall'alba al tramonto, con la conseguenza che la durata media della vita media era di per sé breve (quarant'anni), se non si moriva prima per dissenteria, malaria, tubercolosi, polmonite o per erisipela (detta anche fuoco di s. Antonio). Questa strana malattia era determinata da costrizione dei vasi sanguigni e consumava gli arti facendoli staccare dal corpo. Era dovuta ad avvelenamento da segale cornuta, un fungo che si formava nella farina conservata per lungo tempo.
Su tutti gravavano le decime della Chiesa, pagate al parroco in natura e ritenute come tassa dovuta a Dio. Dal suo pagamento dipendeva la salvezza o la dannazione per chi non pagava, dell'anima. A queste si aggiungevano le tasse e i balzelli da pagare al feudatario, sostituito da un amministratore o balivo, per il quale abusi ed estorsioni erano una pratica quotidiana.
I contadini erano odiati e disprezzati dalle altre classi, tanto che un'ampia letteratura vedeva il contadino avido, astioso, sospettoso, che puzzava tanto che neanche il diavolo se lo prendeva all'inferno.
Oltre ai maltrattamenti i contadini erano i primi a subire le sofferenze per i cattivi raccolti, carestie o per le guerre o a causa dei soldati di ventura che li depredavano dei prodotti, delle sementi, degli animali, gli distruggevano i campi e incendiavano i villaggi. Era normale che essi accumulassero odio e rancore, che alla fine esplodevano incontrollati.

LA JACQUERIE
IN FRANCIA

All' inizio del secolo in Francia si ebbe un primo saggio di rivolta di contadini poveri, definiti pastori, "pastoureaux", che si sviluppò in varie città. Guidati da un monaco, marciarono avendo con sé la sola forza della disperazione, inermi, a piedi nudi e senza armi. Per sfamarsi saccheggiavano campi e villaggi e, dalle truppe che volevano fermarli, si procurarono armi. Si diressero a Parigi dove le truppe non riuscirono a fermarli, aprirono le prigioni, il re Filippo IV andò a rinchiudersi nel Louvre.
L'orda raggiunse il numero di quarantamila fra uomini e donne e si diresse verso il sud indicando come meta la città di Gerusalemme. Prima di raggiungere Aiguesmortes sul Mediterraneo massacrarono tutti gli ebrei che si trovavano sulla loro strada (Verdun, Auh, Tolosa). Giunti ad Aiguesmortes il siniscalco di Carcassonne li fece semplicemente circondare, senza farli aggredire. Li lasciò in quella condizione fino a quando non morirono di fame, d'inedia e di pestilenza. Gli ultimi rimasti furono impiccati.
Dopo cinquant'anni, di rivolte ne scoppierà un'altra (1358). Sarà la prova generale di quella che dopo circa quattro secoli e mezzo (1789) sarà la "Rivoluzione" per eccellenza.
La situazione del paese era disastrosa. Dopo la peste, le carestie, le tasse che erano pesanti, la svalutazione della moneta, le guerre, con la dura sconfitta della battaglia di Poitiers (1357 v. sotto Guerre per Cento anni), in cui il re, Giovanni II (cosa inaudita), fu fatto prigioniero, il Paese sembrava caduto nel caos.
Per il riscatto del re si doveva pagare una somma ingente e il Delfino (2) Carlo, per pagarla, doveva imporre nuove tasse. Per questo convocò gli Stati Generali del nord della Francia.
Questi Stati Generali erano costituiti dall'insieme dei Parlamenti delle città, formati da un'assemblea consultiva i cui membri erano elettivi e rappresentavano le tre classi, nobiltà, clero e borghesia. Quando si riunirono lamentarono le enormi somme prelevate per le guerre e le vergognose sconfitte che ne erano seguite ed imposero delle restrizioni alle prerogative reali. Volevano anche deporre il re Giovanni II e dare la corona a Carlo il Malvagio di Navarra, considerato diretto discendente di Ugo Capeto.
Alla fine riconobbero il Delfino come reggente e gli fecero firmare la "Grande ordinanza" di Marzo (1357), che costituiva una "Magna Charta" del Terzo stato, scritta in francese anziché in latino. Conteneva sessantuno articoli, stabiliva che la monarchia non poteva imporre tasse non votate dagli Stati; che gli Stati Generali avevano il diritto di riunirsi periodicamente a loro arbitrio e ad essi competeva il diritto di nominare un Gran Consiglio di trentasei membri (dodici per ciascuno Stato), che dovevano essere consiglieri della corona.
Poiché i consiglieri fino a quel momento erano abituati ad arrivar tardi al lavoro e lavorare poco, da quel momento in poi avrebbero dovuto presentarsi al lavoro "nella stessa ora in cui gli onesti cittadini andavano nei negozi e nei campi", cioè all'alba. Chi arrivava tardi avrebbe perso la paga.
Non è troppo chiaro quale possa essere stata la causa scatenante, ma rivolte o rivoluzioni scoppiano sempre dopo un periodo più o meno lungo d'incubazione. Poi basta una scintilla per farle esplodere.
Tra l'altro i contadini, legati alla sacralità del re, ne incolpavano i nobili della sua cattura. Fu così che scoppiò la Jacquerie, la rivolta dei <Jacques bonhomme> ("buonuomo", nel senso di "pover'uomo"), come i nobili chiamavano i contadini.
Nel villaggio di Saint-Leu, nei pressi di Senlis, un gruppo di contadini (maggio 1358), incominciò ad inveire contro i nobili accusati di non aver fatto nulla per liberare il re e di svergognare e rovinare il reame.
"Bisognerebbe distruggerli tutti", aveva gridato qualcuno. E così, caricatisi vicendevolmente, si diressero verso un maniero facendovi irruzione uccisero il castellano, la moglie e i figli, dando fuoco al castello. Poi proseguirono per un altro castello dove, dopo aver legato il castellano, violentarono la moglie e la figlia davanti ai suoi occhi e quindi uccisero tutti quelli che lì si trovavano.
La rivolta si propagò. I rivoltosi organizzandosi divennero migliaia e poi diecine di migliaia in tutte le contrade dell'Oise, Ile de France, Piccardia, Champagne. Non mancarono atrocità come quella di arrostire un cavaliere davanti alla moglie ed ai figli, costringendo la donna, dopo averla violentata, a mangiare la carne del marito e poi uccidendola con i figli.
Oltre ad assaltare i castelli, i <jacques> sfogarono il loro odio nei confronti della Chiesa, assaltando i monasteri. Ai contadini si unì la piccola e media borghesia di molte città. La rivolta, come abbiamo visto, era solo contro i nobili, non contro il re. Emerse anche un capo, Guillaume Caillet che ebbe l'idea di unificare i due movimenti, dei contadini e dei borghesi. In molte città si organizzarono processi che condannavano i nobili ad essere giustiziati.
La famiglia reale si rifugiò a Meux. I rivoltosi furono bloccati dall'arrivo di Gastone de Foix, che tornava da una guerra in Prussia. Vollero dare battaglia, ma nulla poterono contro i cavalieri in armi. Furono tutti massacrati.
Caillet fu giustiziato e i ribelli senza il loro capo furono sterminati. La <jacquerie> fu soffocata con l'uccisone di ventimila persone (giugno 1358).
In Linguadoca nel 1378 scoppiarono tumulti e nel 1380 scoppiarono rivolte a Compiégne e Saint Quentin. A Parigi, dopo essere state soppresse alcune tasse, il popolo per la gioia, andò a saccheggiare i negozi degli ebrei al grido di Noël-Noël (Natale-Natale).
A Parigi (1382) i rivoltosi s'impossessarono presso la sede del Municipio di martelli di piombo (maillottes), dando la caccia agli ebrei e agli esattori delle imposte.
Le agitazioni, senza alcun collegamento, scoppiarono un pò dappertutto, determinate non solo dall'oppressione delle tasse, dall'indigenza e dalla miseria diffusa, cui faceva da contrasto la vita sfarzosa della classe ricca, ma anche dall'aspirazione dei contadini di uscire dallo stato servile in cui vivevano.

2) Il nome "Delfino" originariamente era usato come nome proprio. Dal 1250 designò l'omonima contea con capoluogo Grenoble. Nel 1329 il conte di Viennois vendette a Carlo di Valois la contea con il titolo Dauphine. Quando Carlo divenne re nel 1364 col nome di Carlo V, trasferì la contea al figlio maggiore. Da quel momento l'erede fu designato come Delfino.

ARMAGNACCHI E BORGOGNONI
NELLE FIANDRE

Una rivolta, scoppiata a Gand 1382) si era estesa a Bruges e poi, a tutto il paese. Il conte di Fiandra aveva chiesto l'aiuto a Carlo VI che mandò un esercito di 40mila uomini. Lo scontro avvenne a Rosebecke (1382). I cavalieri francesi strinsero a tenaglia i rivoltosi, lasciando sul terreno ventimila fiamminghi morti.
Nel 1384 moriva il conte di Fiandra e si estingueva la linea maschile della dinastia borgognona dei discendenti di Ugo Capeto. Filippo l'Ardito (quarto figlio di Giovanni II) aveva sposato la figlia del conte, unica erede, e si era impossessato di alcune città. Ad evitare devastazioni da parte dei francesi fu sottoscritta la pace di Tournai (1385) che consentì alla laboriosa e ricca Fiandra la ripresa delle attività industriali e commerciali.
Il nome generico di Fiandre è erroneo. Essa faceva parte della Borgogna che aveva avuto una estensione territoriale (costituita dalle contee di Charolais, Nevers, Champagne, Artois, Rethel e Fiandre e successivamente Brabante, Limburgo, Hainaut e Olanda) che la portava a competere con il ducato d'Orléans, il quale aveva acquisito anch'esso, in questo periodo, altri territori (facevano parte del ducato, il Périgord con la contea di Valois, Dreux, Blois, Angouléme).
Comunque, le Fiandre così intese erano ricche per industria e commercio e la ricchezza che ne derivava permetteva non solo uno sfarzo di vita ma anche lo sviluppo delle arti. Le sue capitali, Digione, Bruges e Gand erano, al di fuori dell'Italia, i centri artistici più famosi in Europa. Lo sfarzo a Corte era accompagnato da una rilassatezza di costumi, peraltro generalizzato (v. Cronologia 1300). Non creava alcuno scandalo il fatto che Filippo il Buono avesse avuto ventiquattro amanti e sedici figli illegittimi. Filippo era religioso ma la religione gli consentiva di fare ammenda dei peccati con le preghiere, i digiuni, le elemosine. I nobili di Corte e i mercanti non potevano essere da meno dagli esempi che giungevano dall'alto, come non lo erano gli ecclesiastici. Il vescovo di Liegi, Giovanni di Heisemberg aveva messo al mondo una dozzina di bastardi e il vescovo di Cambrai, Giovanni di Borgogna aveva procreato una progenie di trentasei bastardi tra figli e nipoti.
Erede di Filippo l'Ardito era il figlio Giovanni Senzapaura. Per farlo conoscere alla cristianità, il padre lo mandò a combattere contro i turchi, mettendolo a capo della spedizione di Nicopoli (v. sotto), dove però Giovanni fu fatto ingloriosamente prigioniero.
Giovanni era piccolo, tarchiato e sgraziato, con un gran naso e un mento volitivo e non aveva eloquenza e, morto il padre e divenuto duca di Borgogna, la rivalità tra la Borgogna e l'Orleans si acutizzò, sfociando in lotta aperta.
Giovanni, dopo essersi incontrato con Luigi d'Orleans aveva avuto un alterco e dopo essersi separati lo fece assassinare da sicari (1407). Poiché sarebbe stato scoperto confessò subito il delitto, dicendo che era stato istigato dal demonio. A Parigi un teologo prese pubblicamente le sue difese, ponendo sotto accusa il duca d'Orléans. A sua volta, la moglie del duca, Valentina Visconti (figlia di Gian Galeazzo duca di Milano) tenne anch'essa, nella stessa Parigi, un'allocuzione in favore del marito.
Si formarono due partiti, uno sosteneva i borgognoni, l'altro gli armagnacchi, così chiamati dal suocero del nuovo duca d'Orléans che aveva sposato la figlia di Bernardo IV d'Armagnac che con le sue truppe di guasconi, sosteneva il genero.
Nel 1407 a Parigi vi erano stati disordini provocati da macellai ai quali si erano uniti i venditori di trippa, scuoiatori e conciatori, tutti riuniti sotto il duca di Borgogna. La guerra civile, scoppierà nel 1411. Lo scontro avvenne fuori Parigi dove gli armagnacchi furono respinti dai borgognoni, aiutati dagli inglesi. L'anno successivo il duca di Borgogna andò a mettere l'assedio a Bourges dove risiedeva il duca di Berry. Nel 1413 a Parigi ripresero i tumulti capeggiati da uno scuoiatore di nome Caboche, fomentati dal duca di Borgogna.
Giovanni Senzapaura morì pugnalato (1419), e gli succedette il figlio Filippo il Buono. La guerra tra le due fazioni cesserà con la pace di Arras (1435), con la quale Filippo ottiene il riconoscimento della sovranità sul Lussemburgo, Liegi, Cambrai e Utrecht, e la Borgogna raggiunge il massimo della potenza e della ricchezza, da poter gareggiare con gli altri regni dell'Europa. La pace non aveva però impedito le devastazioni da parte delle bande lasciate libere che proseguiranno ancora negli anni successivi.

JOHN BALL E WAT TYLER
IN INGHILTERRA

In Inghilterra le condizioni di vita nel 1300 erano arretrate di un secolo rispetto alla Francia. Lo dimostrava lo scarso incremento della popolazione che dalla invasione normanna (1066) era aumentata (1307) di sole cinquecentomila unità (da duemilioni a duemilionicinquecentomila), dei quali tre quarti erano lavoratori e servi, tenuti, come scrive Froissart, dai loro signori, come bestie.
L'agricoltura era trascurata a causa dell'allevamento delle pecore dal quale derivava un redditizio commercio della lana, venduta alle Fiandre. Ad arricchirsi con questo commercio erano i mercanti, che l'acquistavano per rivenderla ai fiamminghi.
Edoardo III, ricorreva ai prestiti di questi ricchi mercanti e rendendosi conto della fuga di ricchezza provocata dalla esportazione della lana, aveva attratto (1331) i tessitori fiamminghi, per la sua lavorazione sul posto, fondando così l'industria tessile nazionale e vietando contemporaneamente l'importazione di lana e tessuti dall'estero.
Oltre all'agricoltura, vi era lo sfruttamento delle miniere di carbone e di metalli come l'argento, il ferro, il piombo e lo stagno esportati all'estero.
Ciò nonostante la povertà era estrema e aveva fatto proliferare il numero di mendicanti (molti preferivano mendicare anziché sottoporsi al duro lavoro), ai quali provvedevano, nei limiti delle loro possibilità, monasteri, chiese e corporazioni. L'igiene era trascurata e solo i benestanti usufruivano di acqua corrente (ma non si lavavano giornalmente), rifornendosi con un sistema di tubazioni; il resto della popolazione si serviva di condotte e di pozzi. Le città erano oppresse dal tanfo delle concerie e delle latrine.
Denutrizione, malattie (le principali erano la gotta, i reumatismi, l'asma, la sciatica, la tubercolosi, l'idropisia, e malattie degli occhi e della pelle) e sporcizia, costituivano il terreno favorevole per la propagazione delle pestilenze (1349, 61, 68, 75, 90, 1438, 1464), che unitamente alle guerre decimavano la popolazione.
Il risultato fu la mancanza di manodopera e l'aumento dei prezzi. I proprietari terrieri erano costretti ad assumere uomini liberi pagando il doppio del salario e attirando gli affittuari ai quali proponevano condizioni più favorevoli rispetto al passato e commutando i benefici fiscali con pagamenti in danaro.
I prezzi erano tanto aumentati da costringere i signori a chiedere l'intervento del "Consiglio del re", che emanò un'ordinanza (1349) in base alla quale, "considerato che molti lavoratori e servi erano morti a causa della pestilenza e molti preferivano elemosinare e oziare piuttosto che procurarsi il lavoro", ordinava:
1. ogni persona abile nel fisico e di età inferiore a sessant'anni (al massimo però, come detto si raggiungevano i quarant'anni), era obbligata a prestar lavoro a chiunque lo richiedesse;
2. chi si allontanava dal servizio prima del tempo, sarebbe stato imprigionato;
3. i salari da corrispondere sarebbero stati quelli pagati in precedenza;
4. chiunque avesse chiesto un salario superiore, sarebbe stato imprigionato;
5. gli approvigionamenti potevano essere venduti a prezzi ragionevoli;
6. nessuno doveva elargire elemosine a chi era in grado di lavorare.
L'ordinanza non trovò applicazione, tanto da doversi far ricorso ad uno "Statuto dei lavoratori" (1351) che imponeva tariffe uguali a quelle corrisposte nel 1346. Un'altra legge (1360) decretò che i contadini che abbandonavano le terre prima della scadenza del contratto, sarebbero stati bollati col fuoco sulla fronte. Ulteriori misure furono prese negli anni successivi (1377-1381).
I salari crebbero ugualmente e il conflitto di classe aumentò, sobillato dai predicatori che spingevano alla ribellione.
Le rivendicazioni giungevano da più parti. Le città ancora soggette ai diritti feudali del signore e volevano governarsi da sé. I contadini sottoposti a servaggio chiedevano la libertà. Gli uomini liberi chiedevano l'abolizione dei diritti che gravavano su di loro. Gli affittuari chiedevano che l'affitto fosse abbassato a 4 pence all'anno per iugero.
La classe operaia odiava quella dei ricchi mercanti. Contadini, proletari e parroci denunciavano la pessima amministrazione degli ultimi anni di Edoardo III e di Riccardo II e chiedevano ragione delle disfatte militari successive al 1369, per le quali erano state pagate pesanti tasse.
Le persone più odiate erano l'arcivescovo di Sudbury, Roberto Hales, ministro di Riccardo II e Giovanni di Gaunt ((era il duca di Lancaster, così chiamato dal feudo di Gaunt), capo e protettore della corruzione, ritenuto responsabile delle incompetenze del governo.
Una prima rivolta ebbe luogo a Londra nell'ultimo anno di vita di Edoardo III (1377), proprio contro Giovanni di Gaunt, quando il Parlamento aveva concesso al re di riscuotere il testatico di un "groat" (la moneta d'argento del valore di mezzo scellino).
Nel 1379 fu votato un "testatico" proporzionale alla ricchezza posseduta, che andava dai dieci marchi per il più ricco (il duca di Lancaster), ad un <groat> per il più povero.
Nel 1380 il governo aveva bisogno di liquidità. Essendo ai limiti della bancarotta, erano stati dati in pegno i gioielli del re. C'era bisogno di centomila sterline e si pensò di introdurre una variante alla precedente tassazione, con l'imposizione di tre "groat" a testa per tutti i cittadini al di sopra dei quindici anni, con la clausola che in ogni distretto, il più ricco doveva aiutare il più povero e nel caso di marito e moglie nessuno doveva pagare più di una sterlina e meno di un "groat".
Nei distretti poveri il sistema non poteva funzionare. Data l'urgenza di danaro da parte del governo la riscossione si presentava difficile. Tra il 1380 e '81 le autorità ricevettero una serie di istruzioni per accelerare la riscossione che la resero ancora più caotica e difficile.
Questo stato di cose portò a ribellioni spontanee in vari centri, non organizzate e senza uno specifico obiettivo, ma, la rivolta dei contadini (1381), interessò tutto il paese e nei suoi contenuti si può considerare una rivolta contro il regime feudale, come sarà contro il sistema feudale, quella che scoppierà dopo circa centocinquant'anni (1525) in Germania (v. Carlo V tra Rinascimento, Riforma ecc.).
In questa rivolta emersero le due figure di John Ball e Wat Tyler che non si possono però considerare veri capi che organicamente avessero capeggiato la rivolta in tutto il regno.
Il primo era un predicatore, il secondo probabilmente un ex soldato esperto in tattica. che aveva dato una certa organizzazione alla moltitudine disordinata dei contadini.
John Ball, sulle tracce della predicazione religiosa di John Wicliffe (v. p. II), seppe interpretare le istanze del popolo, la cui situazione era stata aggravata dalle pestilenze e dalla limitazione delle libertà personali. Ball predicava l'uguaglianza e la comunione dei beni e non riconosceva il primato della nobiltà. La sua predicazione si fondava sulla domanda: "quando Adamo vangava ed Eva filava, chi era allora il gentiluomo?" (when Adam delved and Eve spann, who was then the gentlemen?), nel senso che all'origine non vi erano distinzioni di classi.
A Brentwood gli agenti del fisco furono lapidati. La stessa cosa avvenne in altri centri come Fobling, Corringham e st. Albans. A Londra si organizzarono riunioni. Nel Kent i collettori reali furono respinti con violenza. A Rochester fu assaltato e depredato il castello, aperte le segrete e liberati i prigionieri.
Una moltitudine sempre più crescente proveniente da tutti i villaggi del Kent, armata di archi, frecce, randelli, asce e spade, attaccò le abitazioni di proprietari terrieri, avvocati e funzionari governativi. A Canterbury fu saccheggiato il palazzo dell'arcivescovo Sudbury, furono aperte le prigioni, saccheggiati altri palazzi. La moltitudine guidata da Wat Tyler si diresse verso Londra.
John Ball si trovava imprigionato a Maidstone, ma fu liberato dai contadini e partecipò alla marcia di ventimila contadini che dal Kent e dall' Essex si diressero a Londra, accampandosi fuori le mura della città. Ball continuava a predicare alla folla "che sarebbe iniziato il regno della democrazia ispirata da Cristo, tutte le disuguaglianze sarebbero state livellate e non vi sarebbero stati più ricchi e poveri e ogni uomo sarebbe stato un re".
Un gruppo, capeggiato da Wat Tyler, riuscì ad entrare in città e si dette al saccheggio recandosi al Savoy, residenza dell'odiatissimo Giovanni di Gaunt. Tutto fu prima distrutto e saccheggiato, il mobilio buttato dalle finestre. Non era consentita la rapina: un ribelle che aveva tentato di rubare un bicchiere d'argento fu ucciso sul posto, poi il palazzo fu dato alle fiamme.
Alcuni ribelli nelle cantine, dopo essersi ubriacati si erano addormentati e perirono tra le fiamme. Furono anche saccheggiati il Temple, cittadella degli avvocati e il monastero di st. John, collegato al tesoriere Hales.
Re Riccardo con un gruppo di cortigiani s'incontrò con un gruppo di ribelli dell'Essex in un sobborgo denominato Mile End e con una parte dell'esercito capeggiato da Wat Tyler. Gli fu accordato ciò che chiedeva e cioè l'abolizione in tutto il regno dei "villeneige" e dei servizi feudali, che il possesso della terra fosse libero e concesso solo dietro pagamento di un canone di quattro soldi per iugero e che si ponesse fine ai monopoli e alle restrizioni sugli acquisti, oltre all'amnistia per i ribelli. Fu dato ordine a trenta scrivani di mettere per iscritto gli accordi.
Il re aveva opposto un solo rifiuto: quello della consegna al popolo dei traditori accusati della cattiva amministrazione (il vescovo Sudbury, come politico, e Hales ministro del tesoro), che il re promise sarebbero stati puniti in caso di provata colpevolezza.
Prima che i negoziati avessero termine, i ribelli si recarono alla Tower dove si trovava Sudbury e Hales. Sudbury stava celebrando la messa e dopo averlo preso e portato nel cortile gli misero la testa su un ceppo per tagliargliela. L'esecutore però non era esperto e dovette vibrare otto colpi d'accetta prima che la testa si staccasse. Dopo fu decapitato Hales. Alla testa di Sudbury fu fissata la mitra con un chiodo. Con quelle degli altri giustiziati, furono messe sulle picche e furono portate in processione per la città e successivamente collocate sul portale del Ponte di Londra (London Tower).
La mattina seguente il re chiese un altro incontro a Tyler, a Smithfield fuori Aldersgate. Riccardo si presentò accompagnato da duecento cavalieri tutti apparentemente disarmati, con le armi nascoste. Tyler si avvicinò al re accompagnato da un solo soldato.
Pare che Tyler avesse presentato altre richieste e si fosse comportato in maniera irriguardosa nei confronti del re. Un membro della scorta lo chiamò ladro e Tyler ordinò al suo soldato di ucciderlo. Il sindaco Walworth gli sbarrò la strada e Tyler lo colpì senza ferirlo in quanto Walworth sotto il mantello aveva l'armatura. Walworth ferì Tyler con una spada corta e un altro della scorta lo trapassò con la spada.
Tyler ferito ritornò dai suoi gridando al tradimento. Gli uomini di Tyler si erano preparati a scoccare le frecce quando il giovane re, coraggiosamente, avanzando sul suo cavallo disse loro che era il loro capo e chiese se volessero colpire il loro re. Aggiunse che avrebbe concesso ciò che chiedevano e avanzando li invitò a seguirlo. Mentre li conduceva verso Cherhenwell, Walworth si recò a Londra dove riuscì a radunare molti cittadini turbati dalle atrocità della rivolta e piccoli proprietari che temevano di perdere i loro beni.
I ribelli si dispersero senza spargimento di sangue. Ma altre rivolte seguirono nei distretti più vicini a Londra, nell'Anglia orientale, nel Cambridgeshire e in quelli più lontani. Ma il governo, ripresosi incominciò a instaurare l'ordine. Verso la fine del mese di giugno la situazione era quasi dappertutto sotto controllo.
Una deputazione di insorti si era recata dal re per chiedere di ratificare gli accordi. Il re rispose che erano stati concessi sotto costrizione e non aveva alcuna intenzione di mantenerli, aggiungendo "siete villani e villani rimarrete". Alcuni ribelli si rivoltarono, ma furono massacrati. Centinaia di persone furono arrestate; un centinaio furono condannati alla pena capitale.
John Ball fu catturato a Coventry e rifiutò di chiedere la grazia. Fu squartato e la sua testa con quella di Wat Tyler andò a sostituire sul Ponte di Londra quelle di Sudbury e Hales.
Il re si presentò in Parlamento (novembre) e nel fare la relazione degli accadimenti disse che se volevano affrancare i servi, lui era disposto ad accettare la loro decisione.
Il Parlamento decise a favore del mantenimento dei diritti feudali e tutto rimase come prima.

IN ITALIA:
I CIOMPI A FIRENZE

Nel settembre del 1301 nel cielo apparve una cometa, descritta come "una stella commata, con grandi raggi di fummo dietro, apparendo la sera di verso ponente e durò infino a gennaio, de la quale i savi astrologi dissono grandi significazioni di futuri pericoli e danni a la provincia d'Italia e a la città di Firenze, e massimamente perché il pianeta Saturno e quello di Marte in quell'anno s'erano congiunte due volte insieme nel mese di gennaio e di maggio, nel segno del Leone, e la luna scurata del detto mese di gennaio similmente nel segno del Leone, il quale si attribuisce a la provincia d'Italia".
La cometa, spiega il cronista, faceva probabilmente riferimento alla venuta di Carlo di Valois (fratello di Filippo il Bello che troveremo nella prossima parte) ed effettivamente rivolgimenti e sventure vi furono, come si erano verificati in passato e si sarebbero verificati in futuro, senza alcuna responsabilità della "stella commata".
La loro causa se non dovuta alle condizioni d'igiene e alla combinazione dei "virus" che producevano le pestilenze, risiedeva, come le guerre, le rivolte e i massacri per motivi religiosi, negli uomini e non c'era bisogno della cometa per annunciarle.
Firenze costituiva un centro di fermento rivoluzionario. In questa città, vi erano "operai", associati nelle "Arti", e "salariati" appartenenti a qualsiasi categoria.
La classe più umile e più mal pagata era formata da coloro che lavoravano a giornata la lana, pagati per sedici, diciotto ore di lavoro, con paghe inferiori al limite di sussistenza e in ambienti malsani. Erano chiamati "Ciompi della lana". Essi dipendevano esclusivamente dall'arbitrio dei loro padroni che stabilivano i prezzi dei salari e li tenevano in stato di semi-schiavitù. I lavoratori non potevano cambiare padrone in quanto l'Arte impediva agli altri di assumerli. Erano comunque obbligati a servire lo stesso padrone col quale s'indebitavano essendo la paga insufficiente ai loro stretti bisogni. Eventuali controversie non erano risolte dall'associazione ma da un ufficiale forestiero con ampi poteri che poteva far ricorso alla tortura e infliggere pene corporali.v Essi non erano neanche considerati cittadini come gli altri, in quanto era loro negata la possibilità di avere dei rappresentanti nelle cariche cittadine, non godendo dei diritti politici. Non avevano nemmeno il diritto di associarsi per proprio conto e ciò per evitare che potessero rendersi pericolosi.
Dopo la breve parentesi del governo dispotico del duca di Atene, Gualtieri VI di Brienne, finita con la sua cacciata (1342-43), vi fu una lotta tra l'alta e media borghesia con il popolo minuto, che terminerà con la costituzione di un governo oligarchico (1382).
Nel 1345, i Ciompi furono spinti da Ciuto Brandini a costituirsi in associazione (la prima sindacale di cui si abbia memoria), per resistere alle angherie dei padroni, con uno sciopero di protesta che finì con la decapitazione di Ciuto Brandini.
Fino al 1378, vi erano state continue agitazioni culminate nella rivolta dei Ciompi. Nel frattempo era stata istituita una nuova magistratura dei "Dieci di Libertà".
I Ciompi, fomentati insorsero (2 luglio), impadronendosi del Palazzo della Signoria. Fu nominato Gonfaloniere Michele di Lando, un modesto cardatore, e i Ciompi ottennero che alle sette Arti maggiori e quattordici minori, ne fossero aggiunte tre, dette "del popolo di Dio", di cui una rappresentava i Ciompi (con l'insegna dell'Angelo), le altre due altri artigiani, che se pur modesti, gestivano con proprie botteghe gli opifici (tintori e farsettai), che fino ad allora erano stati costretti a consociarsi in condizioni d'inferiorità alle altre. Ma costoro in effetti erano datori di lavoro, per cui gli interessi tra l'Arte dei Ciompi e queste altre due associazioni non coincidevano perfettamente. Comunque si giunse alla rappresentanza di tutte le categorie delle Arti maggiori, medie e minori, ciascuna con la propria rappresentanza.
Ma le agitazioni continuarono. I padroni delle fabbriche proclamarono la serrata e i Ciompi videro peggiorare le loro condizioni, per cui insorsero nuovamente (agosto) contro lo stesso Lando, ma furono sgominati e dispersi e la loro arte fu disciolta. Michele di Lando rimase come Gonfaloniere per quattro anni. Tra il 1378 e 1382 vi fu un susseguirsi di processi e pene capitali che finì con la estromissione di Lando dalla oligarchia della ricca borghesia di mercanti e banchieri e con la restaurazione del governo (1382), furono abolite tutte le riforme e si preparò il terreno per il principato di Cosimo de' Medici (1434-64).

COLA DI RIENZO
A ROMA

Ben altra matrice ebbe la rivolta a Roma, che aveva portato Cola di Rienzo a prendere nelle sue mani le redini del governo.
La città era in stato di assoluta anarchia. Come aveva scritto Cola di Rienzo (1313-1354): "omne lascivia, omne male, nulla iustitia, nullo freno, quello c'haveva più rascione, era che più poteva colla spada".
La parentesi di Cola dura poco (1347-53). Il personaggio era singolare. Figlio di un oste e di una lavandaia, dotato di un fisico prestante e di un bel sorriso, accreditò la voce (inventata ma pur avendo qualche riscontro nei particolari, metteva in dubbio l'onestà della madre), che fosse bastardo dell'imperatore Enrico VII.
Era, infatti, nato l'anno successivo a quello in cui l'imperatore era stato a Roma per l'incoronazione (1312). L'imperatore a causa dei torbidi, era stato incoronato in Laterano e non nella Basilica di s. Pietro. Ma egli volle andare a vedere ugualmente la Basilica e vi si recò in incognito, accompagnato da un romano che conosceva le strade. La notizia si sparse tra i guelfi che piantonarono la città per ammazzarlo, mettendo anche una taglia sulla sua testa. L'imperatore si rifugiò nell'osteria di Rienzo, padre di Cola, dove rimase nascosto per diversi giorni (dieci o quindici), fingendosi infermo. La madre, Maddalena, giovane e piacente non si sarebbe sottratta alle attenzioni dell'imperatore. Quando questo partì, il suo accompagnatore le rivelò chi fosse lo sconosciuto.
Le sue doti intellettive lo portarono a studiare i classici latini e, vivendo tra le rovine e le iscrizioni dell'antica Roma, a formarsi una cultura pre-umanistica. Era un sognatore che vivendo tra il popolo, del quale non gli sfuggiva la vita misera e grama, guardava alla classicità del passato.
I suoi studi notarili gli fecero ottenere (1343) l'incarico di ambasciatore, per conto dei "Boni homines" (Reggitori del popolo), presso il papa Clemente IV ad Avignone, per invitarlo a venire a Roma e per chiedere la convocazione del giubileo (1350).
Ad Avignone suscitò l'ammirazione di Francesco Petrarca che gli dedicò la canzone "Spirto gentil". Tornato a Roma con l'incarico di notaio della "Camera urbana", ebbe modo di parlare in difesa del popolo e di svolgere un discorso sulla "lex regia" che aveva conferito a Vespasiano il massimo dei poteri, che per Cola costituivano il simbolo della grandezza del popolo romano. Con allegorie, preannunciò il tempo della "grande giustizia" e dell' "antico buono stato".
Come abbiamo detto, Roma era in preda all'anarchia e Cola riuscì a portare dalla sua parte il vescovo Raimondo di Orvieto, vicario del papa, facendogli bandire il Parlamento. Salito in Campidoglio, alla presenza del popolo parlò delle tristi condizioni in cui versava Roma dichiarandosi disposto a dare la sua vita per amore del papa e per la salvezza del popolo.
Avendo a fianco il vicario del papa, gli furono concessi ampi poteri sulla città. Iniziò l'ascesa al potere che andava aumentando, in quanto disponeva di milizia e cavalieri che gli permisero di dare sicurezza alle strade e al commercio e presidiare un ampio territorio.
Si fece cingere in S. Maria Maggiore di sei corone simboliche e si fece consegnare una palla d'argento simbolo dell'impero. Le sue iniziative di politica nazionale e imperiale (nel 1348 aveva invitato tutti i Comuni e gli Stati italiani a mandare rappresentanti a Roma per l'elezione di un italiano alla carica imperiale), l'aver assoggettato molti comuni dello stato pontificio, l'aver fatto alleanza con Luigi d'Ungheria che aspirava al Regno di Napoli contro la regina Giovanna, preoccuparono il papa che mandò a Roma, prima un suo incaricato, Matteo vescovo di Verona e poi un legato, il cardinale Bertrando di Deux, con l'incarico di sospenderlo e di procedere nei suoi confronti come invasore dei beni della Chiesa e come sospetto di eresia.
Cola incominciò a perdere il contatto con la realtà. Lo sfarzo ed il lusso di cui si era circondato, le pesanti tasse e la scomunica, gli fecero alienare il favore del popolo. Ne profittarono i nobili per farlo insorgere. Cola dovette darsi alla fuga andando a rifugiarsi negli Abruzzi, presso i francescani eremiti ed eretici della Maiella, dove passava le sue giornate tra le conversazioni e le letture delle profezie del mago Merlino, Metodio, Gioacchino da Fiore e san Cirillo.
Un frate, Michele di Monte Santangelo, interpretando un oracolo di san Cirillo, lo convinse che fosse lui il predestinato a reggere le sorti dell'impero e del rinnovamento della Chiesa. Queste nuove speranze lo spinsero a recarsi a Praga (1450) dove ottenne udienza dal re Carlo IV, per invitarlo a venire in Italia. Ma il vescovo di Praga, poiché Cola era stato scomunicato (non solo da Bertrando ma, nel 1350, dal legato pontificio Annibaldo di Ceccano), lo fece imprigionare.
In questo periodo ebbe un'intensa attività epistolare. Il papa confermò la scomunica e su suo ordine fu tradotto ad Avignone per essere processato (1352). Essendo nel frattempo morto Clemente IV (1352), le varie intercessioni del re Carlo IV, dell'arcivescovo di Praga e di Petrarca, le gravi condizioni di Roma e dello Stato pontificio e una pubblica dichiarazione di ortodossia, indussero il nuovo papa, (Innocenzo VI), ad assolverlo e rimetterlo in libertà.
Il papa dette incarico al cardinale Egidio di Albornoz di restaurare il dominio pontificio a Roma e gli affiancò Cola. Venendo in Italia essi si fermarono a Montefiascone. Per poter entrare a Roma, Albornoz aveva bisogno di danaro per assoldare armati e trovò un capitano di ventura, frà Moriale, che gli concesse il prestito. Cola, dopo essersi fatto nominare senatore dal cardinale Albornoz, giunse a Roma (1354).
Il popolo lo accolse con favore, ma Cola aveva perso il controllo di se stesso comportandosi in maniera dissennata e tirannica. Fece uccidere frà Moriale che si era recato a Roma per farsi restituire il prestito dall'Albornoz. I suoi provvedimenti gli alienarono la simpatia del popolo, che fomentato dai nobili si rivoltò contro di lui. Cola tentò la fuga ma non gli riuscì. Fu trucidato ai piedi del Campidoglio (1354).

GUERRE PER CENTO ANNI

Abbiamo visto come gl'inglesi possedessero gran parte del territorio francese e non mancassero occasioni di guerre, combattute da una parte perché gl'inglesi oltre a voler ampliare i loro territori in Francia, miravano a conquistarne la corona. Dall'altra, perché i francesi quei territori glieli volevano togliere, senza riuscirvi e senza mai pensare di liberarsi di loro una volta per tutte, in quanto non li consideravano "stranieri", tutt'al più, solo nemici da combattere.
E' da dire che tra inglesi e francesi i rapporti erano di stretta parentela. Sin dall'epoca della conquista da parte dei normanni (naturalizzati francesi) dell'Inghilterra, alla corte normanno-inglese si parlava francese. A seguito di matrimoni incrociati, gl'inglesi acquisivano le doti (erano più che altro le donne francesi a sposare gl'inglesi), costituite da territori francesi, con la conseguenza che i feudatari inglesi avevano obblighi feudali nei confronti del re francese e, viceversa. Insomma, gl'inglesi in Francia erano a casa propria. Non a caso il principe di Galles aveva la sua corte a Bordeaux.
Nella storia tutto giunge a maturazione. In Francia le cose erano maturate lentamente. Vedremo (in p. II) che a cominciare da Filippo Augusto, si era entrati nell'ordine d'idea di un regno più compatto e con Filippo il Bello era incominciata a maturare l'idea di uno stato nazionale. Sarà Giovanna d'Arco ad avere avuto l' intuito "dello spirito nazionale" e trasmetterlo ai francesi.
Alla morte di Filippo IV il Bello (v. Parte II) gli erano succeduti i tre figli: Luigi X, Filippo V e Carlo IV. Alla morte di quest'ultimo, Edoardo III d'Inghilterra aveva rinnovato la sua pretese sul regno di Francia (1337) come discendente, per via materna di Ugo Capeto, ottenendo però dall'assemblea dei nobili francesi un rifiuto.
I motivi di guerra non potevano mancare per tutte e due le parti. La Scozia aveva un mare pescoso e i francesi andavano a rifornirsi di pesca in quei mari. Essa costituiva una spina nel fianco dell'Inghilterra e ad ogni guerra riceveva aiuto dai francesi. Le Fiandre erano il principale mercato che assorbiva la lana inglese e gl'inglesi mal sopportavano che quel mercato dipendesse dalle decisioni del re francese. Alla fine il conte di Fiandra, su suggerimento di Filippo VI, fece arrestare tutti gl'inglesi che si trovavano nelle Fiandre.
I tempi erano maturi per una guerra, che in pratica fu costituita da una serie di guerre, iniziate da parte degli inglesi come guerre di conquista per la corona di Francia, che portarono invece ad una svolta, perché terminarono con la loro definitiva cacciata dalla Francia.
A questa serie di guerre, iniziate nel 1337 e terminate nel 1453 (con alcune interruzioni 1360-69 e 1388-1406), gli storici avevano dato il nome di "Guerra dei Cento anni".
Furono cento anni e oltre, di distruzioni, violenze, massacri e fu la popolazione a pagarne per la maggior parte le conseguenze.
Esse infatti, furono tutte combattute su suolo francese e i combattimenti avvenivano su terreni coltivati, i cui raccolti erano distrutti unitamente ai villaggi e borghi compresi. Non finiva qui, perché le truppe mercenarie, assoldate dall'una e dall'altra parte, quando non combattevano erano lasciate libere e per approvvigionarsi vagavano per il territorio, lasciando dietro di sé saccheggi e distruzioni.
Già gl'inglesi erano stati provocati dagli arresti nelle Fiandre. Filippo rincarò la dose, aprendo direttamente le ostilità dichiarando la confisca della Guienna (1337). Edoardo III mandava al papa Benedetto XII, una lettera in cui indicava Filippo VI come "sedicente re di Francia".
Il giorno di Ognissanti il vescovo inglese, Lincoln, consegnava a Parigi la lettera di sfida di Edoardo III, con cui il re cavallerescamente annunciava l'inizio della guerra.
Tre giorni dopo gl'inglesi devastavano l'isola fiamminga di Cadzand. Nel 1340 la flotta inglese distruggeva centoquaranta dei centosettanta vascelli francesi a Sluys e così la guerra continuerà con alterne vicende e vicendevoli massacri.
A Sluys fu introdotta una nuova tecnica di battaglia navale con una nave di appoggio di uomini d'arme e di arcieri. Erano state costruite anche grandi piattaforme di legno con arcieri che lanciavano frecce ai soldati che erano sulle navi francesi. Gli arcieri inglesi usavano un tipo d'arco lungo, introdotto da Edoardo I, che riusciva a lanciare frecce a distanza di duecentosettanta metri e la velocità nel lancio era superiore a quella delle balestre.
Per farli allenare, Edoardo III, in vista delle ostilità con i francesi, aveva abolito qualsiasi tipo di passatempo all'infuori del tiro all'arco. A chi fabbricava archi e frecce con legno di tasso, venivano rimessi tutti i debiti.
Delle due parti, quella più svantaggiata era la francese che subiva la guerra sul suo territorio. In Francia poi non si erano adeguati alla nuova tecnica che sarà assunta dall'artiglieria. I francesi erano rimasti legati alla cavalleria, al senso dell'onore e al disdegno per un tipo di combattimento che non si svolgesse a cavallo.
Le frecce inglesi faranno strage di francesi sia sulle navi sia a cavallo. A Sluys, i francesi che erano sui ponti, furono tutti colpiti e cacciati in mare diventato rosso di sangue. Si disse che "i pesci avevano bevuto tanto sangue francese, che se avessero potuto parlare avrebbero parlato francese".
Il cronista Froissart riporta un aneddoto sulla sconfitta di Sluys. Nessuno dei nobili francesi osava comunicare a Filippo IV la sconfitta subita. Fu spinto avanti il suo giullare, che incominciò ad esclamare: "Oh quei codardi inglesi, quegl'inglesi codardi". Il re gli chiese cosa volesse dire e il giullare gli rispose: "non si sono gettati in mare come i nostri coraggiosi francesi". Fu firmata una tregua durata fino al 1346.
In quest'anno Edoardo III invase e distrusse la Normandia. Nel mese d'agosto dello stesso anno vi fu la battaglia di Crézy con un massacro di cavalieri francesi. I cavalieri francesi a cavallo con le lance corte furono fermati dalle lunghe picche dei soldati inglesi, mentre ai lati gli arcieri con le loro frecce facevano strage di cavalieri. I morti furono trentamila.
L'anno successivo (1347) Edoardo, dopo un anno d'assedio (fu usato per la prima volta il cannone), conquistò Calais (che rimase agli inglesi fino al 1558). Due anni dopo (1349) Calais si ribellò. Edoardo rinnovò l'assedio partecipando personalmente e in incognito all'assalto. Si trovò di fronte un cavaliere francese, Eustache de Ribeaumont che lo disarcionò due volte, ma poi fu fatto prigioniero dai cavalieri di Edoardo.
Dopo aver ripreso la città, al pranzo offerto da Edoardo ai suoi prigionieri, serviti dai cavalieri inglesi, Edoardo riconobbe ad Eustache il suo valore concedendogli come premio la sua corona che gli pose sulla testa, dicendogli di portarla per amor suo, per tutto l'anno ed aggiungendo: "So che siete allegro ed espansivo ed amate la compagnia delle signore e delle damigelle, perciò dite ovunque che ve l'ho data io e vi restituisco senza alcun riscatto la vostra libertà".
Seguì, dopo la falcidia della peste (1348-1350), l'altra carneficina di cavalieri alla battaglia combattuta a Maupertuis presso Poitiers (1356). La lezione di Crezy non era servita a niente! La battaglia fu persa dai francesi, perché i nobili avevano combattuto in maniera disorganica, ognuno per proprio conto, solo per dimostrare il proprio coraggio e valore.
Il re Giovanni II era stato fatto prigioniero dal Principe Nero (principe di Galles e figlio di Edoardo III, premorto al padre) e il Delfino (futuro Carlo V), che sostituiva il padre prigioniero, come reggente. Per riscattarlo, si impegnò a pagare a Edoardo III una somma ingente pari a tre milioni di corone d'oro, di cui la prima rata in 600mila corone.
Anche in questa occasione il re Giovanni compì un gesto cavalleresco. In sua sostituzione era stato consegnato agli inglesi il figlio secondogenito, duca d'Angiò, il quale, venendo meno alla parola data era fuggito dalla prigionia. Giovanni si presentò come prigioniero rimanendo a Londra ancora per poco, perché morì appena passato l'inverno (1364).
Gli succedette il Delfino, Carlo V, detto il Saggio, che morirà nel 1380. Edoardo III era morto nel 1377. Con la loro morte si chiudeva solo la prima parte della guerra dei Cento anni. Essa proseguirà rispettivamente, per la Francia, con Carlo VI, che alla morte del padre aveva dodici anni ed era sostituito nel governo dagli zii reggenti (il duca d'Angiò, il duca di Berry, il duca di Borgogna, fratelli del padre, e il duca di Borbone, fratello della madre ).
Carlo VI prenderà le redini del governo dal 1388 e rimarrà in buono stato di salute per soli quattro anni durante i quali governerà con saggezza, da meritarsi l'appellativo di Bien Aimé. Nel 1392 sarà preso da follia tanto da non riconoscere la moglie che supplicava di non continuare a tormentarlo. Carlo regnerà nominalmente in quelle condizioni fino alla morte (1422) sostituito dai suoi quattro zii che approfittando delle condizioni del nipote, spadroneggiano e dissanguano le casse dello Stato.
Carlo VI aveva preso in moglie Isabella di Baviera, una brunetta piccola e vivace che amava lo sfarzo delle feste, lo sfoggio e le stranezze della moda, i giochi (aveva istituito una "corte d'amore") e i piaceri del sesso (il suo compagno di giochi e d'amore era il brillante Luigi d'Orléans).
In poche parole la vita di corte era allegra e dispendiosa che, dati i tempi, avrebbe avuto bisogno di una maggiore austerità e ciò che più contava, di maggior risparmio.
In Inghilterra a Edoardo III era succeduto Riccardo II (1367-1400). Riccardo, alla morte di Giovanni di Gaunt-Lancaster (1399), avendo bisogno di fondi per una spedizione in Irlanda, ne confisca i beni, suscitando il raccapriccio della nobiltà. Il figlio di questo, Enrico di Bolingbroke, era stato diseredato dal padre e viveva in esilio, ma rientrato, aveva raccolto un esercito mettendo in condizione Riccardo di arrendersi e cedergli il trono (1399).
Riccardo II muore in carcere, non si sa se di stenti o perché ucciso. Con la sua morte ha termine la dinastia dei Plantageneti e la corona passa ai Lancaster. Enrico prende il nome di Enrico IV (1366-1413) e sposerà (1407) Caterina di Francia, figlia di Carlo VI.

 Carlo VII
 

GIOVANNA D'ARCO
E L'UNIFICAZIONE
DELLA FRANCIA

Tra il 1380 e il 1422 la Francia attraversava un periodo di caos istituzionale e le casse dello Stato erano state completamente svuotate. Di questo stato di cose ne avevano profittato gli alti funzionari che si erano assicurati grandi ricchezze, anche con la vendita dei seggi del Parlamento. A corte la vita della regina continuava nello sfarzo, tra feste e stranezze. Il potere era nelle mani del Consiglio del re, costituito da quattro membri chiamati "marmousets-ometti" (Bureau de la Riviére, Jean le Mercier, Jean de Montagu). Connestabile-primo ministro, era Olivier Clisson che riscuoteva la fiducia del re.
La Francia era in questa situazione, quando, salito al trono d'Inghilterra (1399), Enrico IV a ventisette anni e con grandi ambizioni, decise di conquistare definitivamente la Francia, sbarcando con un grosso esercito con artiglieria e macchine d'assedio (agosto 1415), alle foci della Senna.
L'esercito francese, composto di nobili cavalieri riuscì a radunarsi solo nel mese di ottobre a Rouen. I cavalieri insistevano sempre nello stesso errore di non accettare aiuto dai borghesi provenienti dalle città. Essi si trovavano nella campagna d'Azincourt, dove avevano passato un'intera notte, in attesa della battaglia, sui cavalli con le armature e sotto una pioggia battente e su un terreno coltivato reso melmoso dalla pioggia. Erano in cinquantamila e si trovavano in una situazione svantaggiosa a causa della pioggia.
Invano il duca di Berry aveva sconsigliato di combattere. I cavalieri erano disposti in ranghi serrati. Gl'inglesi avevano piantato pali acuti ad angolo nel terreno intorno agli arcieri. Alle undici, come sempre furono gli arcieri inglesi a dare inizio alla battaglia, attaccando la massa d'acciaio dei cavalieri con un nugolo di frecce. I cavalli imbizzarriti retrocedevano creando scompiglio. Molti cavalieri cadevano da cavallo e per l'armatura e il fango non poteva rialzarsi. Gl'inglesi piombarono su questa massa caotica con asce, mazze e spade e fecero un massacro. Di francesi ne morirono tra i settemila e diecimila. Gl'inglesi persero solo tra cinquecento e mille uomini.
Enrico rientrò in Inghilterra, per tornare ancora (1417) con un esercito, dopo essersi alleato con il duca di Borgogna, sbarcando a Trouville e iniziando la conquista della parte meridionale della Normandia. Dopodiché passava nella parte settentrionale, accampandosi davanti alla città di Rouen (1418).
La città era afflitta da miseria e carestia ed Enrico per non far morire quella povera gente permise che dodicimila persone attraversassero le sue linee per farle sopravvivere.
Nello stesso tempo però fu firmato un trattato tra i due monarchi di Francia e d'Inghilterra (Troyes), convalidato dal matrimonio tra Enrico V con la figlia di Carlo VI, Caterina.
In quest'occasione Carlo VI dichiarava che Enrico V, sposando Caterina, diventava figlio suo e della regina Isabella e ambedue ripudiavano il figlio Carlo "cosiddetto delfino" (sul quale si nutrivano dubbi di paternità per la vita scandalosa della madre). Il re d'Inghilterra veniva così riconosciuto erede del regno di Francia e avrebbe mantenuto la Normandia e le terre conquistate.
Enrico, subito dopo il matrimonio con Caterina, entrò trionfalmente, con Carlo VI a Parigi, andando ad alloggiare al Louvre. Dopo essere rientrato in Inghilterra e tornato ancora in Francia, era a Vincennes, quando si ammalò gravemente (1412) e, prima di morire (agosto), fece appena in tempo a dare disposizioni per la successione del figlio di dieci mesi (il futuro Enrico VI). Qualche mese dopo (ottobre), anche Carlo VI moriva.
Alla cerimonia funebre d'Enrico V, sotto le volte della basilica reale di s. Denis, per la prima volta risuonava la formula d'augurio recitata dall'araldo per il nuovo re, di Francia e d'Inghilterra: "lunga vita a Enrico, per grazia di Dio re di Francia e d'Inghilterra, nostro signore e sovrano".
Si dovrà giungere al 1453, per vedere gl'inglesi lasciare per sempre il suolo francese. Ciò era stato possibile solo a seguito dell'intervento di Giovanna d'Arco.
Era stato un caso unico nella storia, che una ragazza di campagna fosse riuscita a scuotere, non solo l'animo di un re, incerto e mediocre (Carlo VII), che, essendo stato disconosciuto, dubitava di se stesso e di tutto il popolo francese. Giovanna, definita da Pirenne "espressione sublime del sentimento nazionale dei contadini di Francia" aveva unificato gli animi del re e del popolo, che si sentì unito nella persona del re.
Indipendentemente dagli aspetti miracolistici che la Storia non può prendere in considerazione per motivi di pura razionalità, i cambiamenti che si erano verificati dopo l'intervento di Giovanna erano stati possibili perché essa era riuscita ad inculcare nel popolo francese l'idea che gl'inglesi erano "stranieri che occupavano il suolo francese". E fu con questa idea e con questo spirito che gl'inglesi, furono definitivamente cacciati dalla Francia.
Era stato suo il merito della liberazione di Orleans (1429). La sua cattura (1431) e il suo supplizio (1432) non avevano arrestato l'opera da lei iniziata. Nel 1435 Filippo di Borgogna, che fino a quel momento era stato alleato degli inglesi e da quell'alleanza aveva tratto forza, si riappacificò con il re di Francia, indebolendo la posizione degli inglesi.
Nel 1436 Parigi (tenuta dagli inglesi dal 1419) apre le porte al "re di Burges". Nel 1449 Rouen, capitale della Normandia, viene riconquistata; nel 1450 con la vittoria di Formigny i francesi conquistano il resto della Normandia, e nel 1453 conquistano Bordeaux, Bayonne e tutta la Guyenne e i due paesi firmano la pace, che poneva fine alla guerra dei Cento anni. Agli inglesi non rimane che Calais e il titolo di re di Francia che sarà usato vanamente fino al sec. XIX.
Sarà Luigi XI (figlio di Carlo VII) ad aggiungere ai territori tolti dal padre agli inglesi, la Cerdagna e il Rossiglione, acquistati dalla Spagna; ad acquistare alla morte del fratello La Rochelle; a prendere con la forza Alençon e Blois; a farsi lasciare per testamento da Renato d'Angiò la Provenza (1481); e, infine, gli ritornarono l'Angiò e il Maine. Con la cessione da parte delle Fiandre (1483) dell' l'Atrois e delle città di Arras e Douai, la Francia diventava finalmente uno stato unificato.
In Inghilterra l'unificazione avverrà un secolo dopo, con Enrico VII.

GLI ULTIMI MASSACRI DEL SECOLO
MEHEDIA

Nel 1390 Genova aveva mandato un'ambasceria a Carlo VI. Essa riferiva che la fama delle imprese dei cavalieri francesi era giunta fino alle lontane terre dell'India. A Genova sapevano che i francesi si trovavano in un periodo di tregua con l'Inghilterra e ritenevano che i cavalieri sarebbero stati ben lieti di intraprendere un'impresa guerresca.
Il doge (Antoniotto Adorno) chiedeva loro di compiere una spedizione contro i saraceni (3) della Barberia, che disturbavano i loro commerci e saccheggiavano le coste della Calabria e della Sicilia. Genova avrebbe fornito la flotta con provviste, arcieri e fanti. Il comando poteva essere affidato ad un principe della casa reale. Il re accettò e f designato al comando, il duca Luigi di Borbone ansioso di seguire le orme ("ritenute" ndr.) "gloriose" dell'antenato Luigi il Santo.
Il Consiglio del re dette precise disposizioni sul numero di cavalieri che potevano partire. Dovevano essere millecinquecento e nessuno poteva partire senza l'autorizzazione del sovrano.
I partecipanti dovevano equipaggiarsi a proprie spese e non potevano reclutare nessuno al di fuori dei loro domini. Risposero all'appello 1400/1500 cavalieri, ciascuno con il suo seguito. Erano in tutto tremilacinquecento, imbarcati a Marsiglia, dove trovarono ad attenderli una flotta di quaranta galere e venti navi mercantili.
Il duca di Borbone aveva provviste personali costituite da duecento botti di vino, duecento pezzi di pancetta e duemila polli (questi ultimi servivano per l'alimentazione di malati e feriti).
Prima della partenza si era presentato il problema della benedizione in quanto francesi e genovesi parteggiavano per i due diversi papi, uno ad Avignone l'altro a Roma. Esso fu salomonicamente risolto con una doppia benedizione, una per i francesi fatta da un vescovo avignonese ed una per i genovesi fatta da un vescovo romano.
Le navi presero il largo il primo luglio. Lo spettacolo era bellissimo a vedersi, con le vele delle navi spiegate al vento, i gonfaloni, i vessilli, le bandiere, gli scudi allineati sui bordi delle navi. La flotta fu colta da una tempesta che disperse le navi, ma tutte si ritrovarono a Malta, da dove fecero rotta per Mehedia (Mahdia).
I cristiani non conoscevano e non erano informati sulla città perché all'epoca si pensava solo a partire. Essa si trovava a cento miglia a sud-est di Tunisi, situata nell'incurvatura meridionale della costa africana. La città era ben situata, posta nel punto più alto di una stretta penisola, aveva una forma triangolare ed era circondata da solide mura. Aveva un porto fortificato difeso da una catena e da torri con catapulte per il lancio di pietre.
I crociati sbarcati, montarono le loro tende colorate davanti alla città, facendo passare tre giorni senza prendere iniziative. Alla sera del terzo giorno furono i berberi a fare un'incursione uscendo dalla città. Non riuscirono a sorprendere i cristiani i quali avevano appostato sentinelle che dettero l'allarme. I berberi furono respinti lasciando sul terreno trecento morti.
Nel frattempo da terra arrivarono truppe saracene che si accamparono dietro la città. La loro tattica era di non attaccare direttamente ma di fare incursioni quando il sole era alto.
Avevano cavalli veloci ed equipaggiamento leggero con corazze di tessuto trapunto o di cuoio. I cristiani invece, chiusi nelle loro corazze col sole che batteva a malapena riuscivano a respirare. Se inseguiti, i saraceni si disperdevano. Alcune volte attaccavano anche di notte.
Queste schermaglie duravano da sei-sette settimane senza portare ad alcun risultato concreto quando i cristiani incominciarono ad avvertire il problema dei rifornimenti che non erano regolari, anche se le navi genovesi facendo la spola andavano a rifornirsi in Sicilia e Calabria.
Il caldo, la sete, l'acqua cattiva creavano problemi, il vino ad alta gradazione dava sonnolenza. Il duca di Borbone seduto davanti alla sua bellissima e ricca tenda, si beava di tutta la sua alterigia. Non accettava di parlare con gli stranieri, mentre con i connazionali parlava solo tramite una terza persona creando imbarazzo, particolarmente nei nobili di rango inferiore.
Per prendere la città i cristiani decisero di fare una torre d'assalto, non avendo con sé arieti. Ne costruirono una larga alla base dodici metri e alta tre piani, in modo da sovrastare le mura.
Gli abitanti, chiusi nella città, stanchi di come stavano andando le cose, mandarono messi per trattare. Costoro chiesero il motivo per il quale erano venuti cavalieri francesi e inglesi, ai quali non avevano mai fatto alcun male. Se qualche disturbo avevano arrecato, dissero, lo avevano dato ai genovesi, essendo per loro naturale farlo tra vicini (rientrava nella loro tradizione e la religione consentiva compiere razzìe presso le tribù vicine ndr.).
I cristiani non sapendo cosa rispondere ma dovendo giustificare che la guerra era "giusta" (3), risposero che la facevano perché essi non avevano una fede propria ed erano quindi "infedeli" e ciò li rendeva nemici. Inoltre, aggiunsero, facevano la guerra perché "avevano crocifisso il figlio di Dio".
I saraceni risero di quest'affermazione, rispondendo che non erano stati loro ad uccidere Gesù Cristo, ma gli ebrei.
Le trattative continuarono con la proposta di una sfida tra dieci campioni per ciascuna parte. Molti cavalieri cristiani si mostrarono contrari perché una sfida non serviva a prendere la città. I più spavaldi offrirono di battersi in venti contro quaranta.
All'ora stabilita la voglia di battersi era venuta a tutti cavalieri che si presentarono per combattere, ma i saraceni non si fecero neanche vedere.
Oramai tutti con le loro armature erano eccitati e pronti a combattere. Decisero di attaccare l'accampamento saraceno che era numericamente superiore. Si combatté violentemente ma i cristiani a causa del caldo soffocavano nelle loro armature. Chi cadeva non riusciva ad alzarsi. Sul far della sera i cristiani si ritirarono nel loro accampamento, lasciando sul campo una sessantina di morti.
L'assedio oramai durava da due mesi e tutti si rendevano conto della sua inutilità. Si decise di fare un ultimo tentativo d'attacco alle mura. I saraceni combattevano valorosamente forti della promessa del Corano, del premio del paradiso per chi moriva combattendo. Dalle mura furono rovesciati olio bollente, pietre e frecce. La gran torre fu distrutta. Anche se l'esercito saraceno fu respinto, la città non fu presa.
Riprese le trattative i cristiani incominciarono a smobilitare l'accampamento. Del trattato con i saraceni ne rimasero soddisfatti sia i genovesi, che potettero riprendere i traffici e per un certo periodo non furono molestati dalle scorrerie saracene, sia i francesi che rimpatriarono convinti di aver vinto. Per loro era stato importante aver combattuto, aver compiuto un'impresa e aver dato prova di valore. La conquista dell'obiettivo era da considerarsi elemento secondario.
A Genova i crociati giunsero a metà ottobre. I francesi impiegarono altre sei settimane per giungere, attraverso le Alpi innevate, a Parigi.
Tutti furono festeggiati come vincitori. In fondo di crociati n'erano morti duecentosettantaquattro e il numero si poteva considerare nella norma.
Al re i cavalieri raccontarono la loro impresa e Carlo VI, per nulla scoraggiato dalla disavventura, promise che non appena avesse concluso la pace con gl'inglesi, sarebbe partito volentieri "per esaltare la fede cristiana e umiliare gl'infedeli".
Pochi anni dopo, un esercito sarebbe partito per combattere gl'infedeli, questa volta in altra direzione, precisamente a Nicopoli. Si preparava un'altra e peggiore sconfitta. Non aveva però importanza, perché per quelli che andavano a combattere, come scriverà un cavaliere cent'anni più tardi, "la guerra è seducente".

3) Il termine saraceno derivava da una tribù araba "sarqi" (orientale), tradotto in greco "sarakenòs" e quindi in latino (neologismo medievale) "saracenus" o "sarracenus", genericamente esteso agli arabi, musulmani e turchi.
4) Nel medioevo per giustificare le guerre, era stata elaborata l'idea di "guerra giusta". Si considerava tale la guerra che fosse dichiarata da un'autorità competente (sovrano), e avvenisse a seguito della violazione di un diritto, vale a dire che vi fosse una "giusta causa" .
S. Tommaso (Summa Theol.) aveva poi codificato il principio, aggiungendo un terzo motivo e, pertanto, ritenendo che la guerra potesse essere giusta:
I) se era dichiarata dall'autorità competente, cioè dal sovrano;
II) se aveva una giusta causa, vale a dire che vi fosse violazione di un diritto, a cui non si poteva porre una riparazione, e fosse quindi diretta contro un'ingiustizia;
III) se vi era una "retta intenzione in chi faceva la guerra", cioé l'intenzione di procurare il bene e di evitare il male (sic!).
Questi presupposti erano evidentemente adattabili ad ogni occasione, come la giustificazione tirata fuori dai cavalieri cristiani, che accusavano i saraceni di essere "infedeli" e di aver ucciso Cristo...che rimanda al racconto del lupo e della volpe!
Nel principio di guerra giusta era anche compreso "il diritto di preda" costituito dal diritto al saccheggio, fondato sulla teoria secondo la quale: "essendo il nemico ingiusto, non poteva avere diritti di proprietà" e il bottino costituiva la dovuta ricompensa per chi rischiava la vita per la "giusta causa".
Da queste considerazioni emerge che la guerra, per chi la fa è sempre giusta e purtroppo per l'umanità, non vi è stata e non vi potrà mai essere una "pace perpetua".
Honoré Bonet, priore benedettino, aveva scritto un commentario intitolato "L'albero delle battaglie" in cui analizzava le guerre con i loro effetti sociali e morali. Il priore Bonet si chiedeva se questo mondo può vivere in pace e senza conflitti. La sua risposta, valida per l'eternità (che trova conferma ai giorni nostri) è stata: No! Assolutamente impossibile!
L'idea della pace perpetua era stata espressa da J. de Castel che enunciava un piano di pace universale in "Memoires pour rendre la paix perpetuelle en Europe" (1712). Poi seguirà Kant che aveva scritto: "Per la pace perpetua" (1795).

NICOPOLI
L'ULTIMA CROCIATA

Il sultano ottomano Bayazid (1359-1403) era succeduto a Murad I (5) nel 1389 e dopo aver occupato la Bulgaria, Valacchia e Serbia, aveva dichiarato di voler occupare l'Ungheria e di voler giungere in Italia fino a Roma, dove avrebbe fatto sventolare le sue bandiere sui colli e foraggiare i suoi cavalli sull'altare di s. Pietro.
Il re Sigismondo d'Ungheria si era rivolto (1394-5) al papa Bonifacio IX, il quale aveva accettato e aveva rivolto ai cristiani l'invito a prendere la croce contro i Turchi.
Una crociata contro i turchi non si combatteva dal 1270; si era in un periodo di tregua con l'Inghilterra e i cavalieri francesi quando non combattevano erano in fermento.
Abbiamo visto che Carlo VI aveva espresso il desiderio di partire per una crociata, ma le condizioni della sua mente malata non gli permisero di farlo di persona. Nell'agosto 1395 il re Sigismondo d'Ungheria aveva mandato quattro cavalieri e un vescovo da Carlo VI per chiedere aiuto contro Bayazid.
L'invito fu comunque subito accolto. Capo della spedizione fu nominato il conte Giovanni di Nevers, figlio maggiore del duca di Borgogna, detto Giovanni Senza paura (v. supra: Armagnacchi e Borgognoni).
I cavalieri, con entusiasmo si prepararono a partire, come per andare ad un torneo. Erano duemila cavalieri e seimila tra arcieri e fanti.
Giovanni di Nevers dava un saggio dello sfarzo borgognone (testimoniato dalla miniatura della pagina Indice di questi articoli) con i duecento uomini del suo seguito tutti con livrea verde. Ventiquattro carri trasportavano tende e padiglioni di velluto verde, con quattro enormi stendardi con l'emblema della crociata e un'immagine della Vergine circondata dai gigli di Francia e dagli stemmi dei duchi di Borgogna e Nevers. Gualdrappe e drappi per le trombe erano anch'esse in velluto verde, come lo erano le aste delle lance. Drappi per le trombe e divise di dodici trombettieri avevano stemmi ricamati in oro e argento. Vi erano persino intarsi in avorio e pietre preziose. Per il servizio dei pasti vi erano piatti, tazze e stoviglie in peltro.
Tutte le spese della spedizione erano a carico della popolazione. Furono imposte tasse in tutti i domini borgognoni ed in più, s'impose il pagamento di un tributo a donne vecchi e bambini che non partecipavano alla crociata.
La partenza ebbe luogo a Digione. Ogni cavaliere nella sua luccicante armatura, scrive il cronista, preceduto da araldi in porpora e oro, sembrava un re. Si proseguì per Strasburgo, la Baviera, fino al Danubio. I cavalieri col seguito giunsero a Buda in luglio (1396).
Via mare invece, quarantaquattro navi veneziane trasportarono i cavalieri dell'Ordine di s. Giovanni provenienti da Rodi, attraverso l'Egeo e mar Nero giunsero al Danubio. Tutte le forze si riunirono all'esercito di Sigismondo seguendo le anse del Danubio.
Durante le soste i francesi davano segni di dissolutezza con pranzi, grandi bevute e divertimenti ai quali partecipavano prostitute portate al seguito. I sottoposti, con questi esempi, non si sentivano di essere da meno e abusavano delle donne dei paesi che attraversavano. Non mancavano saccheggi e maltrattamenti nei confronti degli abitanti di religione ortodossa, considerati scismatici. Inutili erano i richiami dei vescovi che li accompagnavano.
Prima di giungere a Nicopoli i crociati presero la fortezza di Vidin e Rahova (Orycova). Quest'ultima era un'importante città caduta sotto il dominio dei turchi, i crociati massacrarono la popolazione, portando con sé i prigionieri fino a Nicopoli.
Nicopoli, (odierna Nikopol) si trovava in un'importante zona strategica. Aveva una fortezza situata su un picco roccioso diviso in due da un crepaccio, con due cittadelle fortificate cinte da mura.
Quando arrivarono, i francesi, che della fortezza non avevano informazioni, si resero conto che non potevano prenderla Tra l'altro tutti i fondi ricevuti erano già stati spesi in beni voluttuari e, pensando al trasporto dei beni voluttuari, non si era pensato alle catapulte o ad altra attrezzatura per espugnare la città. Decisero quindi di porre l'assedio e prendere la fortezza per fame.
Nell'accampamento, tra lo sfarzo dei padiglioni e delle tende, non si pensava ad altro che allo sfoggio d'abiti preziosi, a feste, pranzi e grandi bevute.
Dopo due settimane giunse notizia che il Gran Turco (Bayazid) stava arrivando, ma non si dette peso alla notizia. Qualcuno, più attempato come il sire di Coucy, andò a fare una ricognizione ed ebbe un primo scontro con i turchi.
Il re Sigismondo riunì il Consiglio di guerra; egli conosceva la tattica dei turchi, che mandavano avanti un'accozzaglia di rozzi coscritti atti al saccheggio, per stancare il nemico. Poiché costoro non erano ritenuti degni di combattere con i cavalieri cristiani, Sigismondo suggerì di mandare avanti i soldati a piedi per affrontare il primo scontro seguiti dalla cavalleria francese che avrebbe potuto attaccare dopo questo primo impatto. Quindi sarebbero intervenuti gli ungheresi e gli altri alleati che avrebbero impedito alla cavalleria turca (sipahis) di aggredire la cavalleria francese ai lati.
I francesi con spavalderia si opposero, in quanto abituati ad attaccare per primi e nessuno li doveva precedere, perché per loro stare indietro era un disonore e non potevano a questo modo esporsi al disprezzo generale. Il principe di Nevers pretese anche di essere in prima linea, convinto che i turchi con le loro sciabole e spade non avrebbero potuto sostenere l'impeto delle loro lance.
Sigismondo, più tardi mandò un messaggero all'accampamento cristiano, dove si gozzovigliava, per avvertire che Bayazid era a sei ore di distanza. Tra i fumi dell'alcol si creò molta confusione e i cristiani, pensando di dover partire e non poter lasciare delle sentinelle a guardia dei prigionieri (presi a Rahova), decisero di massacrarli. Fu un'ignominia.
All'alba del giorno successivo, Sigismondo aveva mandato a dire che era stata avvistata l'avanguardia dei turchi e suggeriva di evitare di attaccare poiché non si avevano notizie sul grosso dell'esercito turco. Il principe di Nevers, riunì il Consiglio. I più impulsivi, ansiosi di attaccare, non presero in considerazione il suggerimento di Sigismondo, ritenendo che il re volesse prendere su di sé la gloria della battaglia. Qualcuno dei più anziani ritenne questo modo di agire piuttosto sconsiderato e presuntuoso, ma le teste più calde li tacciarono di nascondere la paura dietro la prudenza. Perciò si decise di partire.
I cavalieri con le loro splendide armature sui cavalli da battaglia erano seguiti dagli arcieri a cavallo. Raggiunti i turchi, affrontarono l'accozzaglia di coscritti, che non ebbero difficoltà a travolgere con la loro compattezza e con l'impeto dei loro cavalli. Ebbri per questo primo esito i cavalieri si lanciarono contro la fanteria senza però sapere a che cosa stessero andando incontro. Furono accolti da un nugolo di frecce e dalla strada sbarrata da una fila di pali appuntiti, dove molti cavalli finirono impalati e i cavalieri disarcionati.
Molti altri riuscirono a superare lo sbarramento mettendo in fuga la fanteria turca. Sui lati però la cavalleria turca tentava l'accerchiamento. Vi fu un combattimento disordinato con cavalli senza i cavalieri che fuggivano al galoppo. I valacchi e transilvani, credendo che la battaglia fosse perduta, disertarono. Sigismondo cercava di evitare l'accerchiamento.
Nel frattempo giunse un gruppo di millecinquecento cavalieri serbi comandati da Stefano Lazarevic che odiava gli ungheresi più dei turchi ed era corso in aiuto di Bayazid. La sconfitta per i cristiani (25 sett. 1396) fu memorabile come quella di Roncisvalle.
Il conte di Nevers con la sua guardia del corpo fu fatto prigioniero. I corpi dei turchi uccisi erano tanti che Bayazid ne rimase sconvolto. Poi gli riferirono del massacro dei prigionieri di Rahova e decise di vendicarsi. Lasciò in vita tutti i cavalieri che potevano pagare il riscatto e i giovani al di sotto dei vent'anni (costoro, come i ragazzi che venivano fatti prigionieri in altre occasioni, convertiti ed istruiti erano assegnati al servizio dei sultani come kapi kullari-servi, le ragazze finivano negli harem).
Tutti gli altri, legati in piccoli gruppi, li fece passare davanti a lui e ai cavalieri cristiani che volle tenere accanto per farli assistere allo spettacolo del sangue che sprizzava dai corpi e dalle teste tagliate. La mattanza durava ancora nel pomeriggio quando Bayazid decise di far smettere.
Molti cristiani riuscirono a fuggire e ad attraversare il Danubio vagando per i boschi. La maggior parte morì di stenti lungo la strada. Furono pochissimi quelli che riuscirono a tornare in patria.
I cavalieri cristiani avevano combattuto valorosamente, ma anche questa volta erano stati sconfitti per aver dato sfogo all'impulsività e agli istinti brutali anziché all'intelligenza. Avevano ripetuto gli stessi errori che erano stati fatti nelle battaglie di Poitiers e Crécy e Azincout, che nulla avevano loro insegnato sull'idea del coraggio e del valore, considerato fine a se stesso e che poteva andar bene per i tornei, non per le guerre.

5) Quella di Murad I, padre di Bahazid I (per gli occidentali Bayazet o Bayazid), era la dinastia di sultani che, completate le conquiste con la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II il Conquistatore, fu la protagonista dell'Impero ottomano (al quale dedicheremo altro articolo).

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