PER ALCUNI EPISODI TRUCULENTI SI SCONSIGLIA LA LETTURA AI GIOVANISSIMI

 

VAMPIRI

STORIA E LEGGENDA

 

MICHELE E. PUGLIA

 

SOMMARIO: LE PRIME NOTIZIE; ALTRE NOTIZIE; ROMANZI E RACCONTI;  PERSONAGGI STORICI:  VLAD L’IMPALATORE E LA CONTESSA BÁTHORY.

 

LE PRIME NOTIZIE

 

O

gni secolo ha avuto fenomeni, prodigi e apparizioni ai quali l’uomo non è mai riuscito a dare una spiegazione sulla base delle leggi  fisiche e naturali da lui conosciute. Non essendo in grado di dare delle spiegazioni razionali egli ha fatto ricorso al soprannaturale, attribuendoli  a seconda dei casi, alla potenza divina o a quella  demoniaca.

Tra i secoli XIV e XVI in Europa vi era stata l’intensa attività dell’Inquisizione attraverso la quale la Chiesa si era liberata di streghe e stregoni, accomunandoli nel peccato di eresia e punendoli con una morte atroce, quella ritenuta purificatrice delle fiamme. Quando questa ventata di umana follia era cessata e i processi  si erano esauriti, sull’argomento era caduto il silenzio.

Un centinaio di anni dopo, nella prima metà del XVIII secolo, era insorto un altro e ben diverso fenomeno, che aveva seminato terrore e raccapriccio.

In  seguito a notizie giunte dalla Germania (1739), si raccontava di apparizioni di  morti che risorgendo dalle loro tombe succhiavano il sangue dei vivi fino a farli morire. Questi ultimi, dopo morti, tornavano anch’essi in vita facendo ai vivi ciò che essi stessi avevano dovuto subire.

A questi esseri si dava il nome di “Oupiri” o “Vampiri” che in lingua “schiavona” (slava) significava “succhiatori di sangue-sanguisughe”.

In Vaticano queste notizie, seppur allarmanti si era ritenuto tenerle coperte da segreto, e proprio in Vaticano si era recato il cardinale Schrattembach, vescovo di Olmutz (Moravia), latore di una relazione che egli aveva fatto redigere dopo aver convocato un concistoro, per accertare la veridicità del morbo che dilagava nella sua diocesi.

Si trattava di  morti che dopo alcuni giorni tornavano in vita, presentendosi nelle case di parenti e amici, di giorno e di notte, conversando e perfino mangiando con loro, alle volte mettendosi a letto e invitando i presenti a fare altrettanto.

Ma avveniva che questi vampiri si presentassero non una sola volta ma ripetutamente,  avidi e ingordi di sangue lo succhiavano fino a quando non avevano reso esangui gli amici e parenti visitati che in pochi giorni, pallidi ed emaciati, senza che un qualsiasi rimedio potesse portar loro un ristoro, esalavano miseramente il loro ultimo respiro.   

Costoro, morendo in questo modo, divenivano anch’essi vampiri, e apparendo come gli altri, cagionavano la morte alla stessa maniera in cui essi l’avevano ricevuta, diffondendo tra la gente questa disgrazia come un morbo pestifero.

La conseguenza era che tutti i sepolcri dei cimiteri si riempivano, mentre il territorio delle province in cui il fenomeno si verificava si svuotavano degli abitanti, che in parte morivano, in parte fuggivano per sottrarsi all’influenza di questi raccapriccianti fenomeni.

L’unico rimedio che il cardinale Schrattembach riteneva valido, era quello di rivolgersi ai tribunali secolari che istruivano i processi sulla indicazione del nome del vampiro. Il verdetto finale comminava la su condanna, solennemente eseguita dal carnefice,  che aperto il sepolcro, con una larga spada, in presenza di tutto il popolo, ne recideva prima il capo e dopo, con una lancia gli apriva il petto e gli trapassava il cuore da parte a parte strappandoglielo  dal seno e richiudendo subito la bara.

In tal modo il vampiro cessava di ritornare. Ma erano molti quelli che non erano stati ancora giustiziati e continuavano a comparire procurando effetti calamitosi.

Ma ciò che destava nel cardinale maggior raccapriccio, era che molti vampiri., sebbene giustiziati erano ritrovati nelle tombe  ben coloriti, rubicondi, con gli occhi aperti, turgidi di sangue, come se fossero ancora vivi e in prospera salute. Costoro, colpiti con la lancia mandavano uno spaventoso urlo e dal petto fuoriuscivano fiotti di sangue, emesso con tanta abbondanza da bagnare non solo la bara ma da spargersi sul circostante terreno. Tutto ciò era orribile a vedersi e terribile a descriversi e concepirsi.

Questi avvenimenti, che potevano esser considerati racconti puerili fatti a fanciulli davanti al focolare nelle lunghe e tenebrose notti invernali,  non potevano esser messi in dubbio proprio per l’alta fonte da cui provenivano, quale era quella del cardinale che aveva portato a conoscenza del papa (Benedetto XIV) e dei cardinali del Santo Uffizio, la relazione predisposta dal suo concistoro.

In Vaticano non erano stati presi provvedimenti, ma Benedetto XIV (Prospero Lambertini 1740-1758) era ben informato sull’argomento come era risultato da un riferimento fatto nella revisione all’enciclica “De servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione” (1749), nel capitolo della resurrezione dei morti (l. IV, t. IV, p. I, cap. XXI, par. 4, p. 323-324).

Questa enciclica, emanata dal papa Clemente XII (Lorenzo Corsini 1730-1740), nella sua precedente edizione non faceva alcun riferimento a questo argomento, che comunque veniva trattato con la dovuta prudenza, così com’era stato presentato da alcuni medici nelle “gazzette” dell’epoca.

Le “gazzette” di Vienna riferivano di ripetute apparizioni di vampiri e della strage di molte persone alle quali essi erano apparse e riportavano l’elenco di nomi e cognomi, non solo dei vampiri ma di quelli che a causa loro erano morti.

Il Supremo Magistrato per ordine espresso dell’imperatore (Carlo VI 1711-1740), aveva incaricato alti ufficiali, cancellieri, notai con l’ordine espresso di recarsi personalmente sui luoghi nei quali i vampiri erano soliti apparire, cioè in Moravia, Slesia e Alta Ungheria, ed ivi giunti istruire rigorosi processi sulla identità e veridicità dei fatti e fare circostanziate relazioni  di ciò che avevano visto, inteso ed osservato.

Nel “Mercurio Istorico e Politico” del 1736 (stampato in Olanda e ristampato a Venezia), al paragrafo “Ungheria” era riportata una circostanziata  relazione delle apparizioni e delle stragi cagionate da questi vampiri, attestate da due ufficiali del magistrato di Belgrado e da un ufficiale delle truppe di Gradisca (Schiavonia, poi Friuli), testimoni oculari degli atti e dei fatti riportati (documentati nel “Mercurio Istorico e Politico”).

Nel villaggio di Kifilova a tre leghe da Gradisca, un vecchio di settantadue anni, tre giorni dopo essere stato seppellito, era apparso di notte a suo figlio chiedendogli di mangiare e dopo aver mangiato era scomparso. Il giorno seguente il figlio raccontò ai suoi vicini quanto gli era successo. La notte seguente gli si presentò nuovamente il padre, per chiedergli ancora del cibo. Non si seppe se il figlio glielo avesse dato, perché la mattina seguente lo trovarono morto nel suo letto. Lo stesso giorno, nello stesso villaggio, cinque o sei persone si ammalarono  e in pochi giorni morirono una dopo l’altra.

Il “baglivo” del luogo, avvertito, mandò una relazione al magistrato di Belgrado che diede incarico a un ufficiale e a un carnefice, di recarsi sul posto per eseguire gli accertamenti. L’ufficiale imperiale si recò a Gradisca e fu testimone di un fatto  di cui si era spesso udito parlare e di cui era stata fatta anche una relazione.

Furono aperte tutte le bare di quelli che erano morti nelle due ultime settimane. Aperta quella del vecchio, questo fu trovato con gli occhi aperti e il viso di color vermiglio, con una respirazione naturale, ma non v’erano dubbi che fosse morto e si concluse che fosse un vampiro. Il carnefice gli conficcò lo spiedo nel cuore, fu fatto un rogo su cui il cadavere fu incenerito. Esaminati il cadavere del figlio e degli altri, non fu riscontrato alcun indizio di  vampirismo.

“Non siamo dei creduloni”, scrive lo storico che riporta i fatti, “e riconosciamo che le leggi della fisica non ci soccorrono nella comprensione di questi fatti, ma non possiamo mettere in dubbio che essi siano stati giuridicamente accertati da persone di riconosciuta serietà”. Egli quindi continua nel riferire altri fatti.

In un cantone ungherese, detto Oppidum Heidonum (Heidu-Bihar), di là dal Tibisco, tra questo fiume che irriga la fortunata regione del Tockaj e la Transilania, vi è una popolazione chiamata comunemente Heiduch-Aiduchi, che crede nei morti resurgenti, chiamati vampiri, che succhiano il sangue  dei vivi, e mentre questi smagriscono i cadaveri si riempiono tanto di sangue che gli vien fuori dai condotti e dai pori.

Questi fatti sono riferiti da persone degne di fede, la cui parola non può esser messa in dubbio, essendone stati testimoni.

Erano ormai passati cinque anni da un incidente occorso a un carro di fieno, dal quale un Aiduco di nome Arnaldo Paolo, abitante di Medraiga, era rimasto schiacciato. Trenta giorni dopo la sua morte, morirono quattro persone, nella maniera in cui muoiono quelli che sono aggrediti dai vampiri.

Venne allora alla memoria che questo Arnaldo Paolo spesso raccontava che dalle parti del Kossovo, verso la frontiera della Serbia turca, era stato tormentato da un vampiro turco. E’ noto che quelli che sono succhiati dai vampiri a loro volta succhiano il sangue degli altri. Ma Arnaldo Paolo aveva trovato il sistema per guarire, mangiando terra del sepolcro del vampiro e fregando il proprio corpo con il suo  sangue. Nonostante questa precauzione dopo la morte divenne egli stesso vampiro. Fu quindi sotterrato quaranta giorni dopo essere morto e fu trovato cadavere ma con tutti i segni di un arcivampiro.

Il suo corpo era ben conservato, il viso colorito, le unghie cresciute come i capelli e la barba, era pieno di sangue fluido che scorreva per tutto il corpo avvolto da un lenzuolo. Il “baglivo” del luogo, esperto in vampirismo, dopo averlo fatto dissotterrare, gli fece conficcare nel cuore uno spiedo acuminato che lo trapassò da parte a parte e il morto emise un urlo come se fosse stato vivo. Gli fu poi tagliata la testa e dopo averla bruciata, le ceneri furono gettate nella Sava. Si fece lo stesso con i cadaveri di quattro persone morte di vampirismo per evitare che facessero morire altre persone.

Ma tutti questi accorgimenti si erano rivelati inutili perché poco tempo dopo, questi fatti funesti ricominciarono e molti abitanti dello stesso villaggio perirono.

Nello spazio di tre mesi diciassette persone di vario sesso ed età morirono di vampirismo, alcune senza neanche ammalarsi, altre dopo aver penato per due tre giorni. Si riferiva anche di una donna chiamata Stanoscia, figlia dell’aiduco Totuitzo, ch’era andata a dormire in perfetta salute, si era svegliata a metà della notte tutta tremante, urlando orribilmente che il figlio dell’aiduco Millo l’aveva quasi strozzata mentre dormiva. Dopo di che aveva languito  e in capo a tre giorni era morta. Il figlio di Millo fu dissotterrato e fu accertato essere un vampiro.

Il fenomeno, continuava, nonostante gli accorgimenti presi. Le autorità del luogo, con i medici e chirurghi si chiesero come mai, nonostante gli accorgimenti usati, i fenomeni di vampirismo continuassero. Dopo ricerche, si scoprì che il defunto Arnaldo Paolo, non solo aveva succhiato il sangue delle quattro persone indicate, ma aveva succhiato il sangue al bestiame di cui si erano cibati i quattro ed altri, fra i quali il figlio di Millo.

Si decise quindi di dissotterrare tutti quelli che erano morti negli ultimi tempi e su una quarantina di cadaveri ne furono trovati diciassette con evidenti segni di vampirismo. A tutti fu trapassato il cuore e tagliata la testa, quindi bruciati e le ceneri buttate nel fiume.

Tutte queste esecuzioni avevano avuto luogo con l’osservanza delle disposizioni di legge ed attestate da ufficiali di presidio, dai chirurghi ufficiali di reggimento e dai principali abitanti del luogo.

I verbali furono inviati al Consiglio imperiale di guerra a Vienna,  che aveva incaricato due commissari militari per accertare la verità di tutti questi fatti denunciati dal “baglivo” Batriar, dai principali aiduchi, sottoscritti dal primo tenente Battuer del reggimento di Alessandro Wurtemberg, e dal chirurgo maggiore del reggimento Frustemburch, Clickstenger, e da altri chirurghi, tra i quali il capitano Guoichitz di servizio a Stallath.

Per concludere su tutti questi racconti, si può citare una lettera in cui si riferiva un fatto accertato da una deputazione di Belgrado, ordinata dalla maestà imperiale di Carlo VI di gloriosa memoria ed eseguita da sua altezza serenissima il duca Carlo Alessandro del Wurtemberg, allora vicerè del regno di Serbia.

Questo principe aveva mandato la deputazione composta per metà da ufficiali militari e metà da ufficiali civili, con l’Uditore generale del regno, per andare in un villaggio dove un vampiro famoso, morto tre anni prima, aveva fatto una strage  immane tra i suoi parenti, poiché questi succhiatori  prediligono la propria specie.

La deputazione era formata da persone irreprensibili e fra queste vi era il luogotenente dei granatieri del reggimento del principe Wurtemberg e ventiquattro granatieri dello stesso reggimento. Giunta sul luogo, trovò che nello spazio di quindici giorni il vampiro, zio di cinque nipoti, li aveva ammazzati quasi tutti: l’ultima era una bella ragazza che era stata succhiata per due volte e fu trovata in grave stato di debolezza e d’infermità.

Per porre fine a questa tragedia la commissione deputata si recò al cimitero di un villaggio non molto distante da Belgrado dove, aperto il sepolcro si trovò un uomo perfettamente intiero e in apparenza sano, con gli occhi socchiusi, i capelli, i peli del corpo, la barba, le unghie, i denti come di una persona vivente e il cuore gli palpitava. Lo si tirò fuori dal sepolcro e gli si trapassò il cuore con una lancia di ferro rotondo e acuto e ne uscì una certa materia biancastra e fluida mista a sangue e questo era in maggior quantità e non mandava cattivo odore. Poi gli fu mozzata la testa con un’ascia e gli uscì un quantità maggiore di quella materia che era uscita dal cuore, ugualmente biancastra mista a sangue. Ciò fatto fu rimesso nella fossa coprendolo con molta calce viva per consumarlo più presto, e da quel momento, la nipote che era stata succhiata cominciò a migliorare in salute.

Nel punto in cui le persone vengono succhiate, appariva una certa macchia dal colore turchino che non è sempre allo stesso posto ma ora in una, ora in altra parte del corpo. Questo è un fatto noto, accertato dagli atti più autentici e passato sotto gli occhi di più di un migliaio di persone, tutte degne di fede.     

 

ALTRE NOTIZIE

 

I

n libro di “Memorie” pubblicato nel 1693/94 si racconta di “Oupiri” o “Vampiri” apparsi in Polonia e maggiormente in Russia, da mezzogiorno a mezzanotte che succhiano il sangue degli uomini e degli animali vivi e in tanta abbondanza che talvolta gli esce dalla bocca, dal naso e particolarmente dalle orecchie, finché, non di rado il cadavere nel sepolcro nuota  nel proprio sangue. Questo redivivo o “Oupiro”, ovvero il Demonio che è in lui, uscito dalla propria sepoltura si reca di notte dai suoi parenti e dai suoi amici, li stringe e succhia loro il sangue fino a far perdere loro le forze, estenuandoli fino a farli, a poco a poco, morire.

Questa persecuzione non si ferma a una sola persona ma si estende a tutta la famiglia, quando non si decapiti il “resurgente” o non gli si apra il cuore dissotterrando il suo cadavere che si trova nel sepolcro, molle, flessibile, carnoso e rubicondo, anche se morto da lungo tempo. Dal suo corpo esce  una gran quantità di sangue che alcuni raccolgono, lo mescolano con la farina e ne fanno pane che mangiano quotidianamente affinché li preservi dalla vessazione dello spirito, che non ritorna più.

In altra fonte storica si raccontava di notizie che giungevano ancora dall’Ungheria, Moravia, Slesia, Boemia e Polonia, che riferivano ancora di morti, da molti anni o anche da pochi mesi, che ritornavano a camminare, parlare e inquietare i villaggi, offendere uomini e animali, succhiare il sangue dei loro parenti, portare malattie e portare anche la morte.

L’unico modo per potersi liberare delle visite moleste di questi esseri e delle inquietudini che arrecavano, era quello conosciuto: dissotterrarli, tagliare loro la testa, trafiggere e strappargli il cuore, impalarli e bruciarli.

Anche su questi casi si davano informazioni così puntuali e singolari, e si raccontavano  circostanze così precise, che non si poteva in alcun dubitare che tutte quelle notizie che raccontavano di morti che uscivano dai loro sepolcri causando i danni descritti, fossero veritiere.

Questi “resurgenti” chiamati “vampiri”, si riferiva,  erano persone morte da più o meno gran tempo, che uscite dalle loro sepolture travagliavano i viventi, uomini e animali, ai quali succhiavano il sangue, facevano gran fracasso, giravano per le case e spesso causavano la morte.

Alcuni credevano che costoro non fossero veramente morti ma che fossero stati seppelliti ancora in vita e quindi che ritornassero naturalmente, uscendo dai loro sepolcri. Altri credevano invece che fossero effettivamente morti ma che potevano in qualche modo riprendere il proprio corpo, perché quando si sotterravano, il loro corpo rimaneva integro, col sangue vermiglio e fluido e con le membra flessibili e maneggevoli. Altri ancora credevano che fosse il Demonio che li faceva apparire servendosi di loro, per cagionare tutto il male che essi facevano  agli uomini e agli animali.

Sua Altezza reale il duca di Lorena, Leopoldo I, fratello del principe Carlo all’epoca  vescovo di Olmutz e d’Osnabruch, aveva mandato in Moravia il signor di Vassimont, consigliere della Camera dei conti di Bar, avendo dalle pubbliche voci inteso essere in quel paese cosa ordinaria e comune vedere uomini morti che partecipavano ai pranzi, sedendosi a tavola con persone che avevano conosciuto in vita. Ma se facevano a qualcuno degli astanti un solo cenno con la testa, quegli infallibilmente, dopo pochi giorni moriva.

Di questi avvenimenti se ne assicurò il signor di Vassimont, prendendo precise informazioni da persone degne di fede, tra cui un vecchio parroco, che asseriva di averne visti parecchi.

I vescovi e i preti del paese, avevano scritto a Roma per avere dei suggerimenti, ma non avevano ricevuto risposta.

Si pensò di dissotterrare i corpi di coloro che comparivano nel modo descritto e di bruciarli o distruggerli in qualche altro modo per liberarsi delle inopportunità di questi spettri, come raccontava il parroco.

Sempre in Moravia, si raccontava che in un villaggio era morta una donna assistita dai sacramenti cristiani e seppellita nel cimitero. Quattro giorni dopo, gli abitanti del villaggio sentirono gran rumore ed uno strepito straordinario e videro comparire un fantasma ora in forma di cane, ora di uomo, non ad una sola ma a più persone, a tutte cagionando gravissimi dolori, a chi afferrando la gola, a chi stringendo il petto fino a soffocarli. Dava ad essi grandi percosse sul corpo provocando una debolezza estrema, e tutti erano ricoperti di sudore come dopo un lungo e faticoso percorso.

Anche nel villaggio di Blovv in Boemia, si verificarono simili accadimenti. Un pastore del villaggio, dopo essere morto, ricomparve più volte chiamando per nome alcune persone che dopo otto giorni morirono.

I paesani dissotterrarono il corpo del pastore e gli conficcarono un palo in mezzo al corpo da fissarlo al suolo. Costui però se ne rideva di loro dicendo che avevano fatto bene a dargli un bastone che gli sarebbe servito per difendersi dai cani suscitando in molti grande spavento e facendone morire più di quanti ne aveva fatti morire prima. Gli abitanti del villaggio lo consegnarono al carnefice perché portasse via il cadavere e lo bruciasse, ma quello urlava come un furioso, muovendo mani e piedi come se fosse vivo e quando fu trafitto mandò grida feroci e sparse gran quantità di sangue vivo e vermiglio. Finalmente lo bruciarono e quel fantasma finì di apparire e di nuocere.

Lo stesso avvenne per altri “resurgenti” che quando li cavavano dalle tombe li trovavano coloriti in viso, con le carni morbide e palpabili, senza vermi e senza fradiciume, ma solo con un gran fetore.    

Si raccontava di altri fantasmi visti sulle montagne della Slesia e della Moravia, muoversi di giorno e di notte e si vedevano muoversi anche le cose che loro appartenevano, senza che si scorgesse la persona che le muoveva.

Il solo rimedio contro queste apparizioni era quello di decapitare e bruciare i loro corpi. Ma queste esecuzioni avevano luogo solo dopo un processo e dopo aver esaminato i testimoni e il corpo dissotterrato, per accertare se si trovassero i segni della mobilità e flessibilità delle membra e della fluidità del sangue e la incorruzione delle carni. Ma si verificava anche che quei fantasmi comparivano per tre o quattro giorni dopo l’esecuzione.

Alcune volte si differiva per sei, sette giorni la sepoltura e quando non andavano in  putrefazione e le membra rimanevano flessibili e mobili come se fossero vivi, si bruciavano.

Si asseriva come cosa certa che le vesti di costoro si muovevano senza che alcuno le toccasse e si era visto  da non molto tempo a Olmutz uno spettro che gettava dei sassi e creava trambusto tra gli abitanti.  

Fin qui le notizie di fatti considerati e riconosciuti veridici. Successivamente si svilupperà la fantasia dei narratori con  racconti irreali e fantastici

 

PRIMI

 ROMANZI E RACCONTI

 

I

l ‘700 è stato il secolo della bellezza, vista sia nei suoi risvolti solari sia in quelli notturni dell’orrido-che-diventa-bello e dà luogo (il termine “gotico” originariamente  spregiativo, in quanto collegato ai barbari germanici, era stato poi usato per qualificare l’espressione artistica medievale) al “romanzo gotico”, in cui la vita si svolge nelle tenebre della notte e l’ambiente  è costituito da cimiteri, cripte, grotte, castelli e conventi diroccati, rovine, foreste (accanto ai quali si era sviluppata anche la “poesia sepolcrale”), tutti elementi che introdurranno al “romanticismo”.

 Tra il 1764 e il 1796, in Inghilterra, di romanzi gotici ne furono pubblicati quattro: Il “Castello di Otranto” di Horace Walpole (1764), “Vathek” (1786) di William Beckford, “I misteri di Udolfo” di Ann Radcliffe (1764-1822) (vedi più avanti), e infine “The Monk” (Il Monaco) di Matthew Gregory Lewis .

In quest’ultimo le descrizioni di crudeltà e atroci torture si avvicinano a quelle del Marchese de Sade (1740-1814) (che non fa mancare nei suoi romanzi una buona dose di “noire”) e il suo successo fu pari allo scandalo sollevato dal sacrilegio del personaggio del romanzo: il monaco Ambrosio, abate del convento dei cappuccini di Madrid..

Il “Castello di Otranto”, non si sa bene se per un’idea dell’autore o del traduttore, era stato presentato come lavoro trovato nella libreria di un’antica famiglia cattolica dell’Inghilterra del nord, stampato a Napoli nel 1529, tradotto dall’originale italiano di Onofrio Muralto, canonico della chiesa di s. Nicola di Otranto.

L’efficacia suggestiva del libro è fuori qualsiasi dubbio: temi, percorsi e personaggi si ritroveranno nei romanzi pubblicati in epoca posteriore.

A questi romanzi  si aggiunsero “The Champion of Virtue” (1777) di Clara Reev (1729-1807), ripubblicato l’anno successivo col titolo “The old English Baron”, la raccolta in tre volumi “The Recess” (1783-85) di Sophia Lee ed altri scritti da Charlotte Smith (1750-1824): “Emmeline”; “The Orphan of the Castle”; “Ethelinde”; “The recluse of the Lake”.

Questi romanzi non sono propriamente “vampireschi”.

Sarà  Wolfgang Goethe che scrivendo (1797) “La fidanzata di Corinto”, sotto forma di “ballata” inserisce il primo personaggio di donna vampiro, “una silente, pura fanciulla con l’abito bianco e velo, con intorno alla fronte una nera fascia rilucente d’oro, dalle membra di ghiaccio e dal cuore che non batte, che il giovane forestiero (sbarcato a Corinto per sposare la sorella), riscalderà, ma che perderà la vita succhiatagli dalle labbra, da colei alla quale quella vita fu negata”.

Il primo vampiro invece,  appare (1813) in un poemetto di lord Byron, “Giaurro”, il monaco vampiro (ripreso dal personaggio della Radcliffe) che rappresenta il tipo fatale dell’uomo byroniano, che ha causato la morte di Leila e nasconde il suo sinistro passato sotto il suo saio di frate. “Torvo e non di questa terra è il ceffo che balena sotto il suo tenebroso cappuccio. Il lampo di quell’occhio dilatato svela troppe cose di tempi trascorsi; benché mobile e dubbia la sua espressione, il riguardante spesso si pentirà d’averlo fissato, poiché entro vi sta in agguato quel fascino senza nome, che sebbene lui stesso ineffabile, parla d’uno spirito ancora elevato e non spento che pretende e mantiene supremazia”.

Questo personaggio è in strettissimo rapporto con “Schedoni”, creato da Ann Radcliffe, nel romanzo  “L’Italiano” (The Italian or The Confessional or the Blak Penitents) in cui Vincentio di Vivaldi s’innamora  di Ellena-Rosalba, contro il volere della famiglia di lei che si oppone al matrimonio e si serve di un losco individuo, il monaco Schedoni appunto, dalle origini ignote ma che si suppongono di alti natali e decaduta fortuna, che porta in se tracce di spente passioni e il sospetto di terribili colpe.

Il personaggio ebbe molta fortuna e fu imitato, come detto da Byron Quello della Radcliffe era stato descritto: “Dalla figura alta e benché estremamente magra le sue membra erano grandi e sgraziate e come andava a grandi passi, avvolto nelle nere vesti del suo ordine, v’era qualcosa di terribile nel suo aspetto: qualcosa di quasi  sovrumano. Il cappuccio inoltre gettandogli un’ombra di livido pallore sul volto, ne aumentava la fierezza e conferiva un carattere quasi d’orrore ai suoi grandi occhi melanconici. La sua non era la malinconia di un cuore sensitivo ferito, ma apparentemente quella di una natura tetra e feroce”

Occorrerà arrivare al 1819, anno in cui in Inghilterra, nel “New Monthly Magazine” appare un racconto “The Vampire” scritto da John William Polidori, medico di Byron che a lui era legato anche da amicizia,  erroneamente firmato da George Gordon Byron. Polidori era medico di origine italiana, laureato ad Edimburgo che, due anni dopo la pubblicazione dell’articolo, deluso sia della professione medica sia della letteratura (aveva scritto un altro racconto: “Ernestus Berthold” or “The Modern Oedipus” e tentato un libro di filosofia “An Essay upon the Source of Position Pleasure), si suicidava.

L’idea del racconto era venuta due anni prima (1816), in una noiosa serata di pioggia, nei dintorni di Ginevra, in cui, raccolti attorno  a un gran fuoco di legna, si trovavano Mary Shelley (1797-1851), allora diciottenne, Percy Bisshe Shalley  e Polidori che si divertivano leggendo storie tedesche di fantasmi. Queste letture destarono il burlesco desiderio di emulazione, decisero di scrivere ognuno un racconto che si fondasse su un evento naturale.

Ma, scriveva Mary Shelley, il tempo si fece bello, gli altri due mi lasciarono per un’escursione sulle Alpi e fra gli splendidi panorami che si presentarono ai loro occhi, perdettero ogni ricordo delle loro macabre fantasie. Il suo racconto sarebbe stato l’unico dei tre.

Ma non fu così perché al suo, si aggiunse quello di Polidori.

Il personaggio di Mary Shelley era un uomo senza nome creato dal dottor Frankenstein al quale sarà dato il nome del suo creatore e il titolo del libro sarà:  “Frankenstein or The Modern Prometeus”, la cui trama è oggi conosciuta attraverso i film che i vari registi di successo  continuano a proporre al pubblico.

Il personaggio creato da Polidori si chiamava “Lord Ruthwen” le cui femminee e torbide fattezze, così com’erano state descritte, corrispondevano a quelle di Lord Byron.  Lord Ruthwen era un giovane libertino che, ucciso in Grecia, diventa vampiro e seduce Audrey, sorella del suo amico, soffocandola durante la notte delle nozze.  

Nel 1821  è pubblicato “Smarra ou le démon de la nuit” di  Charles Emmanuel Nodier (1780-1844) un démone che uccide due amanti e riesce a far credere che il colpevole sia l’italiano Lorenzo che finisce decapitato. Seguito nel 1826 da “Guzla” di Prosper Merimée (1803-1870) in cui lo scrittore fa morire il vampiro  respinto dalla bella Sofia che gli preferisce una persona  ricca,  sposata per interesse; lei però muore morsa alla gola dal fantasma.

La pubblicazione del racconto di Polidori aveva generato altri racconti come “Varney the vampire” di Thomas Preskett Prest, “The Monk” di Mattew Gregory Lewis, “Melmoth the Vanderer” di Charles Robert Maturin;  “The mysteries of Udolpho” e “The italian” (sopra indicato) di Ann Radcliffe.

Questi romanzi furono seguiti dalla pubblicazione (1872) di una raccolta di “Glass Darkly”, racconti neri di Joseph Sheridan Le Fanu (n. Dublino 1814-1873), scrittore e narratore, dalla natura eclettica nel campo della classicità, del diritto, della letteratura inglese e nel campo della tradizione folkloristica irlandese, della teosofia e dell’occultismo.

Le Fanu scrisse diversi romanzi, ma si distinse particolarmente come creatore di storie di mistero e del soprannaturale, nella prima produzione rappresentata da “Ghost Stories and the Tales of Mystery” (1851). Questo genere rappresentò l’aspetto dominante della sua ultima produzione, che pur essendo l’ultima del periodo gotico, ebbe degli aspetti originali e innovativi.

Si trattava di “Glass Darkly” (1872) con cinque racconti uno dei quali era, “Carmilla”,  che dopo “La fidanzata di Corinto” di Wolfgang Goethe, rappresentava un’altra figura di donna vampiro in una delle più belle storie di vampiri. 

Carmilla è un fantasma che si presenta (dopo un secolo) col nome di Mircalla (suo anagramma) Karnestein, uccisa da un vampiro e divenuta lei stessa  vampiro, che seduce e vampirizza una fanciulla seducente di nome Laura. La sua tomba viene aperta e il suo corpo è ancora ben conservato e sguazza nel sangue. Quando le viene conficcato un paletto nel cuore lancia un urlo lacerante. Le viene quindi tagliata la testa e  bruciata.

Dopo questi romanzi si giunse a “Dracula” di Bram Stoker (n. a Dublino 1847 m. 1912), che, appena pubblicato (1897) riscuoteva uno strepitoso successo, mantenuto anche nel tempo, tutt’ora confermato dal rinnovarsi della riproduzione cinematografica.

Dracula, nel racconto di Harker è descritto:  “Col volto grifagno, l’arco del naso sottile con le narici particolarmente dilatate; la fronte alta, a cupola, i capelli radi sulle tempie ma per il resto abbondanti. Assai folte le sopracciglia, quasi unite alla radice del naso, cespugliose tanto che i peli sembravano attorcigliarvisi. La bocca, per quel tanto che mi riusciva vederla sotto i baffi folti, era dura d’un taglio alquanto crudele, con bianchi denti segnatamente aguzzi, i quali sporgevano su labbra la cui rossa pienezza rivelava una vitalità stupefacente in un uomo così attempato. Quanto al resto, orecchie pallide, assai appuntite all’estremità superiore; mento marcato e deciso, guance sode ancorché affilate, L’effetto complessivo era di uno straordinario pallore. Finora avevo notato solo il palmo delle mani, sembravano piuttosto bianche e fini, trovandole, adesso che le avevo sott’occhio invece piuttosto grossolane, larghe con dita tozze. Strano a dirsi, i peli crescevano in mezzo al palmo. Le unghie erano lunghe e di bella forma e assai appuntite. Come il conte si è chinato verso di me e le sue mani mi hanno sfiorato, non ho potuto reprimere un brivido. Può darsi che il suo alito fosse fetido, certo è che un’orribile sensazione di nausea mi ha invaso e per quanto facessi, mi è stato impossibile celarla”.

Il libro aveva segnato il passaggio tra i precedenti romanzi gotici e il “thriller” moderno. L’idea a Stoker era venuta da un incubo avuto in una notte, dopo una cena in compagnia di uno studioso ungherese, Arminius Vambery, in cui aveva fatto una scorpacciata di gamberi in insalata. Stoker però, prima di mettersi a scrivere il romanzo, aiutato da Vambery, si era documentato leggendo i romanzi che erano stati già pubblicati, ma facendo anche ricerche storiche su  Vlad Dracula detto Vlad Tepes-Impalatore.

Dopo “Dracula”, Stoker aveva scritto un racconto intitolato “Dracula Guest” (L’ospite di Dracula), ma l’aveva messo da parte  perché lo riteneva troppo vicino al racconto del romanzo. Esso fu successivamente pubblicato dalla moglie, dopo la sua morte.

 

VLAD TEPES  DRACULA

 

PERSONAGGI STORICI

VLAD L’IMPALATORE

E LA CONTESSA BÁTHORY

 

V

lad (n. 1431) era il secondo figlio del principe di Valacchia anch’egli di nome Vlad e di Cneajna Musatin dei principi di Moldavia; oltre al primogenito Mircea e a un fratello minore,  Radu il Bello, aveva un fratellastro, nato dall’amante del principe, Caltuna, anch’egli di nome Vlad, detto il Monaco.  

I due Vlad (padre e figlio) avevano lo stesso soprannome di Dracul, in relazione all’Ordine del Drago di cui Vlad padre era stato insignito dall’imperatore del Sacro Romano Impero,  Sigismondo del Lussemburgo. Questo Ordine (istituito nel 1378), come altri (Templari, Teutonici) era un ordine monastico-cavalleresco che, diversamente dagli altri (istituiti per la difesa dei pellegrini in Terrasanta)  si prefiggeva di combattere i turchi, cioè i nemici più prossimi ai confini dei propri territori. L’Ordine aveva come simbolo il Drago (il nemico da abbattere: nella leggenda s. Giorgio aveva ucciso il Drago che equivaleva anche al Diavolo), e Dracul quindi equivaleva a “figlio del drago o del diavolo” (in riferimento ai turchi, poi frainteso quando Vlad figlio era stato associato ai vampiri).

Vlad abitava il castello nella città fortificata di Schassburg (ora Sighisoara in Romania) che costituiva nodo di transito tra Costantinopoli, la Germania e città anseatiche, il mar Baltico e la Polonia.

Vlad padre, a seguito delle conquiste turche (la Valacchia era tributaria dei turchi dal 1396), era diventato vassallo del sultano ottomano Murad II (1421-51) che aveva invitato il suo vassallo con i due figli alla sua corte di Gallipoli e nel momento in cui aveva lasciato andare il padre, aveva trattenuto con l’inganno, in ostaggio, i due figli. Vlad aveva sette anni e aveva carattere ribelle contrariamente a Radu più remissivo e compiacente tanto da entrare nelle grazie di Murad e acquisire un’educazione turca.

Nei sette anni in cui Vlad era stato alla corte di Murad (era riuscito a fuggire nel 1448) aveva maturato un odio feroce e implacabile contro i turchi (può darsi che fosse stato sodomizzato come avveniva di norma ai ragazzi di quella età), che, quando ne ebbe occasione faceva impalare (la morte era lenta e atroce in quanto il corpo col suo peso scendeva lentamente). Per questo fu chiamato Tepes.

Nel 1447 il vecchio principe moriva assassinato,  per la sua politica filo-turca, da Jhon Hunyadi, che aveva fatto accecare e poi seppellire vivo anche il figlio Mircea

Dal 1451 al 1457 Vlad si  era rifugiato presso Hunyadi, l’uccisore del padre e del fratello col quale aveva instaurato un rapporto di fiducia e amicizia. Ma nel 1456 Hunyadi moriva.

Nel 1457 Vlad diventa principe di Valacchia e si stabilisce nel castello di Sibiu che si trovava in posizione strategica e in prossimità del confine con la Valacchia, osteggiato però dai boiari sassoni del principato. Fu in questo periodo che ebbe inizio la sua fama sanguinaria, attaccando villaggi e massacrando migliaia di persone (1460); il primato lo ebbe la città di Brasov le cui colline circostanti erano diventate una foresta di pali con le vittime impalate dilaniate dagli avvoltoi.

Nel 1461 troviamo Vlad combattere contro i turchi (Mehemet II (1451-81) aveva nel frattempo (1453) conquistato Costantinopoli),  seminando, dal Danubio al Mar Nero, terrore, morte e distruzione e massacrando uomini donne e bambini. I turchi erano sistematicamente impalati. Nel 1462 vi fu la reazione del sultano che fece invadere la Valacchia con un grosso esercito. Vlad, non potendo affrontare l’esercito, rispose con la guerriglia e la terra bruciata, infliggendo grosse perdite ai turchi. Conquistando la città di Tirgoviste, capitale del suo principato, si racconta che Vlad avesse fatto impalare ventimila turchi e Murad decise di ritirarsi dalla Valacchia instaurando sul trono il fratello, Radu il Bello.

Vlad si era recato presso il re d’Ungheria, Mattia Corvino per chiedere aiuto, ma Mattia lo trattenne prigioniero. Probabilmente questa prigionia era durata quattro anni (1462-1466). Durante questi anni Vlad era divenuto amico di Mattia, si era convertito alla religione cattolica e aveva sposato, in seconde nozze,  una cugina del re, Ilona Szigaly (la conversione avveniva normalmente nei matrimoni con cattolici e con ortodossi; in Ungheria erano cattolici), e dal matrimonio aveva avuto due figli. Egli abitava a Pest. la città di fronte a Buda,

Passò gli ultimi due anni combattendo contro i turchi. Morì (1476) assassinato dai suoi. Vlad era in cima a una collina e sarebbe sceso dalla collina per vedere meglio i suoi uomini che massacravano i turchi, alcuni di questi lo scambiarono per turco e lo colpirono con una lancia. Potrebbe essere stato ucciso da uno dei suoi boiari. Comunque i turchi lo decapitarono inviando la testa al sultano a Costantinopoli.

Si racconta che il suo corpo (se fosse stato il suo), fu sepolto nel monastero dell’isola di Snagov, a trenta chilometri dalla città, ma la tomba quando fu aperta fu trovata vuota.

Vlad detto Dracula non era stato un vampiro ma solo feroce e sanguinario come lo erano tutti i guerrieri del suo tempo. Sarà la leggenda ad attribuirgli atrocità maggiori di quelle che effettivamente aveva compiute, e il romanzo di Bram Stocker ad immortalarlo come vampiro.

 

 

ELISABETH BÁTHORY

 

E

rzseberth Bàthory, appartenente alla antica famiglia dei principi Bathory di Transilvania, era nata (1560) nel castello di famiglia di Cachtice

La famiglia era di nobiltà medievale e i matrimoni avvenuti per generazioni tra parenti avevano minato la stirpe con tare genetiche. Elisabetta che rivelerà quelle particolari forme di piacere sadico, era epilettica; uno zio era satanista; la zia, Karla Bàthory, aveva predisposizioni lesbiche e aveva iniziato la nipote a questo genere di rapporti; il fratello Stephen era ubriacone e lussurioso.

All’età di undici anni era stata promessa in sposa a un membro dell’aristocrazia magiara. Ferenc Nadasy. Elisabeth amava giocare con i figli dei contadini e a tredici anni uno di questi l’aveva messa incinta. La madre la mandò in un lontano castello di famiglia dove diede alla luce un figlio di cui non si seppe più nulla. A quindici anni  fu celebrato il matrimonio con Nadasy, soprannominato “cavaliere nero” per il suo modo di vestire in nero.

Nadasy era sempre assente per andare a combattere i turchi che, uguagliando la moglie in crudeltà, si divertiva a seviziare. Elisabeth sfogava sulle giovani domestiche e sulle contadine prima del suo  villaggio, e successivamente degli altri villaggi, fatte rapire per torturarle  mordendole ferocemente fino a strappare brandelli di carne, per poi farle morire, oppure mettendo loro in mano monete o chiavi arroventate o  sul viso ferri roventi.

Aveva raccolto attorno a sé personaggi in una specie di “corte di miracoli” che avrebbero fatto la felicità del pittore fiammingo Bruegel, con un maggiordomo nano, tre streghe riconosciute, la sua nutrice e un servitore sadico di nome Thorko, esperto in magia nera ai cui segreti aveva iniziato la sua padrona.

Si racconta che per porre un freno allo sfiorire della sua giovinezza e all’avanzare del  suo decadimento fisico, facesse il bagno nel sangue di giovani vergini, ma non era vero. A lei piaceva la tortura, mordere sul viso, sui seni e strappare la carne alle vittime fino a farle morire, oppure bruciare i peli del pube o farle mettere nude sulla neve, gettando sul loro corpo acqua fredda, o farle mettere nude all’aperto spalmate di miele e attendere che fossero divorate da api, mosche, formiche e insetti. Di tutte queste vittime aveva regolarmente tenuto il conto in un registro. Erano state seicentocinquanta.

Il pastore luterano del villaggio di Cachtice, Andras Berthoni, prima di morire aveva messo per iscritto tutto ciò che la gente del villaggio raccontava della contessa. Il suo successore  Janos Ponikenusz trovò lo scritto e lo consegnò a un cugino di Elisabetta, conte Thurzo.

Costoro per accertare la veridicità del racconto, si recarono di nascosto al castello (1610) e sorpresero Elisabetta nella sala delle torture, coperta di sangue e circondata da corpi mutilati.

Seguì un processo con la condanna dei complici; le tre streghe furono condannate al  rogo; Elisabetta fu condannata ad essere murata viva in una cella; il cibo le veniva passato da un buco praticato nel muro. Fu trovata morta, in questa condizione, dopo quattro anni (1614).

 

FINE

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