Elisabetta  I -  Ritratto del Setaccio

Pinacoteca - Siena

 

 

          RINASCIMENTO MAGICO

             ALLA CORTE DI ELISABETTA I

       E NEL  TEATRO

           DI MARLOWE  E  SHAKESPEARE

 

       OMAGGIO A FRANCES YATES

      (1899-1981)

 

(Estratto dagli articoli “Carlo V tra Rinascimento, Riforma e Controriforma” e “L’Inghilterra dai Tudor agli Stuart” di prossima pubblicazione)

 

di

Michele E. Puglia

 

PREMESSA IL REGNO DI ELISABETTA E L’IDEA IMPERIALE; L’ESOTERISMO OCCULTO DI MELANCOLIA I DI ALBRECHT DÜHRER E IL TRATTATO DI ROBERT BURTON; JOHN CASE E L’ARISTOTELISMO DI OXFORD; IL NEOPLATONISMO ITALIANO GIUNGE IN INGHILTERRA, JOHN DEE; E WALTER RALEIGH; LA FILOSOFIA OCCULTA E LE TINTE FOSCHE DELLA LETTERATURA ELISABETTIANA: IL DOCTOR FAUSTUS DI MARLOWE; JHON LYLY CREA L’EUFUMISMO E FRANCIS BACON ISTITUZIONALIZZA L’IPOCRISIA; LA MAGIA NELLE TRAGEDIE DI SHAKESPEARE; CONFERENZE SULLA LETTERATURA DRAMMATICA DELL’ETA’ ELISABETTIANA DI WILLIAM HAZLITT.

 

PREMESSA

 

S

uccessivamente agli studi condotti durante la prima metà del ‘900 dal gruppo di storici dell’arte quali Erwin Panofsky (1892-1968), Edgar Wind (1900-1971), Fritz Saxl (1890-1948), Ernest Hans Joseph Gombrich (1909-2001) (1) e la storica e scrittrice Frances Yates che onoriamo con questo studio, quest’ultima si era fatta portatrice della nuova chiave di lettura iniziata dai primi, della storiografia dell’Arte e del Teatro.

Secondo G. Wind (Pagan Mysteries in the Renaissances), gli artisti rinascimentali,  attraverso gli studi neoplatonici del ‘400 di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino (v. in Articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc., nella parte  dedicata agli “Umanisti maghi”), che avevano studiato Platone attraverso gli ultimi esponenti del paganesimo come, Plotino (205-270), Porfirio (233-305), Giamblico (250?-330), Plutarco di Atene, (da non confondere con lo storico) (IV-V sec.), e Proclo (412-485), e attraverso gli stessi studi condotti su Ermete Trismegisto (che non era il personaggio mitico contemporaneo di Mosè. che si credeva fosse l’autore del Corpus Hermeticum, proveniente dall’Antico Egitto, ma in effetti un autore cristiano del IV sec.d.C.), avevano tratto notizie su misteri, riti di iniziazione e magici che avevano poi trasfuso nelle loro opere d’arte di quel periodo, che portano celati significati magici neoplatonici ed ermetici, che a tutt’oggi attendono ancora di essere interamente svelati.

Proprio a seguito di questi studi, la pittura rinascimentale riprendeva i temi mitologici ereditati dal medioevo, ma attraversati dalla cultura neoplatonica sfociata nelle speculazioni dell’astrologia, della filosofia naturale (magia), e dell’orfismo (2).

Relativamente alla astrologia valeva l’idea diffusa da Pomponazzi (1462-1524, v. in Cronologia del 1500)  in “De naturalium effectum admirandorum causis, sive ad incantationibus liber” (Delle osservazioni degli effetti delle cause naturali, ovvero libro degli incantesimi) in cui Pomponazzi riaffermava il suggestivo  principio che “negli astri si raccolgono le virtù sparse per l’universo e dagli astri, e ridiscendono per penetrare nella natura e nell’anima umana, per cui questa è capace a volte di compiere miracoli”. 

Gli artisti che avevano prodotto quadri come Raffaello, la “Storia di Psiche” Tintoretto, di “Mercurio e le Grazie” e “Bacco e Arianna”, Botticelli la “Primavera” e la “Nascita di Venere”, Piero di Cosimo (1462-1521) la “Morte e Venere”, Tiziano, “Leda e Bacco” e ”L’amor sacro e l’amor profano”, erano stati influenzati dalle idee diffuse da Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.

Quindi, le figure apparentemente mitologiche come Mercurio nella “Primavera” di Botticelli e la figura centrale di “Venere”, rappresentano in effetti i pianeti che inviano a chi osserva il quadro, influssi benefici e lo stesso “Zefiro” che soffia, non rappresenta solo il vento, ma Zefiro soffia lo “spirito del mondo” che costituisce il canale attraverso il quale si diffondono gli influssi delle stelle.

Il quadro, in genere, nella concezione rinascimentale è un talismano che attraverso le figure rappresentate, cattura gli influssi benefici e salutari delle stelle e dei pianeti e li invia al suo osservatore.

In quest’ottica va letto il quadro di Benozzo Gozzoli, che rappresenta Lorenzo de’ Medici (poi il Magnifico) all’età di dodici anni (v. in Specchio dell’Epoca: L’assassinio di Giuliano de’ Medici), concepito dall’autore come un quadro propiziatorio per la futura grandezza  di Lorenzo, ...e non si può dire che non avesse avuto l’effetto desiderato!

Con la conseguenza che i pittori rinascimentali, i quali ai nostri occhi sono già grandi per le opere  sublimi che ci hanno lasciato, sono ancora più grandi per il significato occulto che hanno impresso alle loro opere, che a distanza di secoli di studi, non ancora si è risusciti a decifrare.

Ecco perché opere con riferimenti magici e con riferimenti agli influssi dei pianeti, come le indicate “Primavera” e la “Nascita di Venere” di Botticelli, o “Marte e Venere” di Piero di Cosimo, “Leda e il Bacco”, “l’Amor sacro e l’amor profano” di Tiziano e tante altre,  non sono ancora completamente decifrate.

 

1) In Botticelli’s Mythologies: Study in The Neoplatonic Symbolism of his Circle - 1945) e Frances Yates (1899-1981).

(2) L’orfismo, di cui Platone secondo Proclo, sarebbe stato l’erede, si fonda su un sistema trinitario della trasmutazione, data dallo sviluppo dell’universo in triadi e dalla coincidenza dei contrari nell’unità che sono i principi applicati alle composizioni più ermetiche e ne costituiscono la struttura nascosta.

 

 

IL REGNO DI ELISABETTA

 E L’IDEA IMPERIALE

 

N

ella storia del mondo vi sono state epoche che per una serie di circostanze favorevoli hanno avuto una particolare impronta di splendore, lasciando nell’intera umanità un indelebile ricordo: ai secoli di Pericle, del Rinascimento italiano e di Luigi XIV ricordati da Voltaire, è da aggiungere quello di Elisabetta in cui (come aveva scritto Schlegel) “emersero tra gli altri, personaggi come Spenser, Shakespeare e Milton (ma anche altri che incontreremo in questo articolo ndr.) che avevano esaurito tutto ciò che in un paese vi sia di notevole e di grande nei secoli XVI e XVII”.

Il secolo le aveva donato grandi personaggi che erano stati i fautori del “Rinascimento  elisabettiano” (iniziato con la regina, si esaurirà con la morte di Giacomo I), i quali (non tutti menzionati nel presente articolo), gli avevano impresso una incancellabile impronta, sviluppando una stagione culturale che veniva a  essere rappresentata al vertice, dalla regina.

Con la conseguenza che in lei si concentrava anche l’identità del paese, da lei retto con un potere quasi assoluto, seppur sotto il controllo di un  Parlamento, il quale, mentre a Elisabetta aveva perdonato gli strappi al potere assoluto, non lo perdonerà invece  a Carlo I, che finirà col perdere la testa sul patibolo.

E’ con Elisabetta che si afferma l’idea imperiale, collegata a quella della sovranità assoluta, del periodo in cui i re inglesi - anche quelli leggendari arturiani,  continuavano nei Tudor in quanto rappresentanti della antica stirpe britannica.

Si supponeva infatti che Elisabetta discendesse dal re Artù, e che, tornata al potere si era fatta fautrice di una Chiesa britannica pura, difesa dalla cavalleria (1) religiosa contro le forze del male, identificate al momento nei tentativi ispano-papali di dominio universale.

L’Inghilterra aveva raggiunto questa piena autorità con l’indipendenza da Roma, nel momento in cui si era liberata dalla invadente e condizionante sovranità papale.

La glorificazione della monarchia dei Tudor che raggiunge l’apice con Elisabetta, si basava sul fatto che la riforma tudoriana, come istituzione imperiale a carattere religioso, aveva eliminato il papa e reso il sovrano indipendente da Roma e capo supremo della Chiesa e dello Stato.

Elisabetta rappresentava quindi il mito imperiale che aveva le sue radici nella mistica della antica monarchia britannica, e il simbolo della “vergine” usato sin dall’inizio del regno di Elisabetta, rappresentata nella numerosissime xilografie  (Crispin de Passe, ripreso da Isaac Olivier) con la spada della Giustizia posta sulla Bibbia.E la circostanza che la regina fosse nubile, esaltava il simbolo della vergine imperiale “Astrea”.

Di queste idee si era fatto portavoce John Dee che nel destino imperiale di Elisabetta, vedeva il potenziamento della flotta militare che avrebbe consentito l’espansione sui mari (Dee era autore del libro  General and rare memorials pertayning to the perfect art  of navigation”, v. sotto, che voleva essere una specie di piano politico della monarchia britannica con  suggerimenti che Dee dava, con argomentazioni storiche, “per la difesa e l’’accrescimento della maestà regale e dignità imperiale della nostra sovrana  e signora Elisabetta”).

Anche Shakespeare (v. sotto), scrive Yates, aveva una visione della società strettamenmte collegata alla sua fede per la monarchia in quanto principio di ordine e strumento predestinato da Dio per mantenere sulla terra un  ordine giusto, corrispondente al governo divino del cosmo. E l’idea che egli avesse della monarchia un’ampia prospettiva universale, traspare dalle sue raffigurazioni. E’ giusto quindi, prosegue Yates, parlare di “tema imperiale” che è il titolo del noto libro di Wilson Knight. “The imperial Theme”.   

L’imperialismo britannico di Dee, si collegava alla storia di Goffredo di Monmouth (v. Articoli: Il vino, storia, miti, religioni) che si fondava sulla discendenza  dei monarchi britannici da Bruto, di origine troiana e collegata a Virgilio e al mito imperiale.

Artù era il presunto discendente di Bruto, “l’esempio religioso più mistico e rappresentativo del cristianesimo imperiale, sacro e britannico”.

D’altro canto, il mito  dell’idea imperiale era collegato a quello, come detto, di Astrea, “la vergine che durante l’età dell’oro, quando gli uomini erano casti, onorevoli, pietosi, piacenti, zelanti di ben operare, veraci e onesti, abitava sulla terra, ma quando gli uomini diventarono adulteri, crudeli, superbi, mentitori, bestemmiatori, la Giustizia se ne andò in cielo ponendosi tra i due segni dello Zodiaco, il Leone e la Libra”.

Da notare che nel simbolismo della “vergine imperiale”, scrive Yates, la regina era presentata come “Trionfo della Pudicizia”, la cui idea è connessa a quella della purezza della religione riformata che penetrò il protestantesimo elisabettiano con il suo elemento di puritanesimo, espresso attraverso forme cortesi e cavalleresche che diedero luogo ai tornei con i quali si festeggiava il giorno dell’assunzione al trono (avvenuta il 17.nov.1558).

Questi tornei si svolgevano in un clima di fasto tra cene, balli e spettacoli, descritti da Philip Sidney in “The Comtesse of Pembrok’s Arcadia” (che costituiva la versione aggiornata del precedente testo indicato come “Vecchia Arcadia”) e furono organizzati da Henry Lee  fino al suo ritiro (1590) sostituito dal terzo conte di Cumberland, George Clifford.

Uno dei più  memorabili di questi tornei, fu quello di Woodstock (1575) in cui fu rappresentato il “Racconto di Hemete l’eremita” che era tanto piaciuto a Elisabetta, che aveva chiesto al poeta George Gascoigne (1539-1578)  di scriverne la trama (che pubblicheremo in altra sezione)  Gascoigne l’aveva riportata in un libretto rilegato in marocchino rosso (di cui una copia abbiamo trovato, su indicazione di Yates, presso la British Library), nelle versioni (oltre alla inglese),conosciute da Elisabetta, latina, italiana e francese.   

 

1) A Corte si era instaurato un regime cavalleresco al quale i cortigiani improntano le buone ed eleganti maniere studiate sui libri cortesi italiani di Baldassar Castiglione, Stefano Guazzo e Monsignor Della Casa, accompagnate dall’intelligenza, dall’abilità di compenetrarsi e destreggiarsi da chi si attende i favori della regina e quindi tende alla scalata politica che porta con sé potere e ricchezza, per cui occorreva intelligenza, creatività, prontezza, con la concorrente audacia e astuzia per combattere l’avversario.  

 

 

 

Albrecht Dürer – Melencolia I

 

 

L’ESOTERISMO OCCULTO

DI MELANCHOLIA I

DI ALBRECHT  DÜRER

E IL TRATTATO DI

ROBERT BURTON

 

 

L

e nuove idee magico-astrologiche, sorte in Italia, si affermarono anche all’estero e le troviamo in Germania trasfuse nelle opere di Dührer (1471-1528), che dopo i suoi viaggi in Italia, ispirato dagli studi magico-umanistici di Pico della Mirandola, di Marsilio Ficino (De vita), Johannes Reuchlin (De verbo mirifico) e Cornelio Agrippa (v. sotto in nota Neoplatonismo ecc.), aveva creato capolavori come “Il cavaliere e la morte” “Il diavolo” “San Gerolamo nello studio” e particolarmente dal brano “Saturn and Melancholia” (in “De occulta philosophia” di Agrippa) era derivato “Melancholia” (1512), meglio, “Melencholia I”, con la I, come scrive Yates, numero romano di “prima”, in quanto era stata seguita da Melencholia II (secondo Yates andata perduta), e da una III, che avrebbe completato il ciclo.

Vi è invece chi propende per una interpretazione esoterica, e ritiene trattarsi della lettera I di “Ignoranza”, contraddistinta dal colore nero, con lettura del quadro in chiave massonica (si veda Louis Barmon, L’esoterismo  di Albert Dührer, Luni Editore), che non possiamo condividere in quanto i principi massonici, ancorché “speculativi”, all’epoca non erano ancora diffusi.

Quelle idee magico-astrologiche, erano poi passate nell’Inghilterra elisabettiana, dove si affermava il mito di Diana, di Astrea e della Vergine, tutto a edificazione, come vedremo più avanti,  della grande regina.

Quest’opera, magico-astrologica per eccellenza, estremamente complessa è stata ambientata in un luogo freddo e solitario, non lontano dal mare che si intravede sullo sfondo, appena rischiarato da un barlume di luna, come si deduce dalle ombre della clessidra sulla parete e dal funesto bagliore di una cometa. La figura è alata, con il volto scuro, con un compasso, accovacciata su una bassa lastra di pietra, in prossimità di un edificio incompiuto, accompagnata da un putto imbronciato che appollaiato su una mola abbandonata, scribacchia qualcosa sulla lavagna, con un cane scheletrico che pare scosso da brividi. Nel cielo un pipistrello pronuncia eternamente un’unica cupa parola: Melencholia I.

Lo strano assortimento di oggetti sotto un cielo tenebroso popolato di segni, nel loro significato simbolico, nonostante scritti notevoli, non ancora è stato svelato.

L’unica cosa di cui si può esser certi è che l’immagine, triste, col volto scuro e il capo appoggiato sulla mano non è altri che “Saturno”.

L’idea medievale faceva rientrare Saturno tra le quattro categorie di temperamenti umani designati in base agli umori, che secondo le fonti arabe, collegati agli astri (1), erano: temperamento sanguigno, attivo, fiducioso, fortunato ed estroverso: questi temperamenti risultavano buoni governanti e uomini d’affari, collegato agli astri Venere e Giove;  temperamento collerico portato agli scontri, collegato a Marte; temperamento  flemmatico: attribuito a persone tranquille, un po’ letargiche, collegate alla Luna; temperamento melanconico:  determinato dall’eccesso di bile nera nel sangue, che portava alle possessioni demoniache, invasamenti, abbandoni al pianto o al vaniloquio e denotava le persone tristi, infelici, sfortunate, condannate alle occupazioni più servili e spregiate: questo temperamento era collegato appunto con Saturno.

Di conseguenza il melanconico era scuro di carnagione, nero di capelli e nel volto. La sua tipica posizione fisica, espressiva di tristezza e depressione era quella della mano che sorregge la testa. Le sue attività, quelle  della misurazione nel calcolo e nel conto: misurare la terra o contare il denaro,   erano considerate attività di più basso livello di quelle influenzate dagli altri pianeti: in Melencolia di Dürer vediamo infatti il colorito livido, la carnagione scura, la testa sostenuta dalla mano, nella posizione della persona pensierosa.

La Melancholia era stata definita da Platone (Timeo)  “morbo sacro” e l’argomento era stato approfondito da Marsilio Ficino nel trattato “De studiosorum sanitate tuenda” in cui è affrontato il complesso di cause e  risvolti fisiologici, psicologici e astrologici, accompagnati da suggerimenti che dovevano essere osservati “dagli studiosi” per evitare che l’influsso melanconico potesse produrre forme di esaurimento, spossatezza, indebolimento

Il Rinascimento aveva in ogni caso rivalutato la figura di “Saturno” portandolo al suo grado più alto, e ritenendo che la melanconia fosse un segno di genialità, quello dei grandi uomini, dei grandi pensatori, dei profeti, dei veggenti religiosi. Essere melanconico era segno di genialità, le sue caratteristiche: gli studi di calcolo e di misurazioni che elevavano  l’uomo al livello della divinità.

Cornelio Agrippa (v. sotto par. Il neoplatonismo, n. 7) nel “De occulta philosophia” si occupa della Melancolia descrivendone i tre stadi: l'umore di Saturno, caratteristica dei pensatori, attraverso l'allontanarsi dai sensi e dalle cose del mondo il genio è preso da “furor” e, a seconda che si concentri sull'immaginazione, sulla ragione o sull'intelletto, raggiungerà l'apice nelle arti, nella politica o nella religione.

Questa nuova qualificazione di Saturno fu ripresa rifacendosi ad Aristotele, che nell’opera “Problemata phisica” attribuisce la malinconia agli eroi e ai grandi uomini.

La spiegazione derivava dalla considerazione che il delirio eroico, l’esaltazione (furor), che secondo Platone è fonte di ogni ispirazione, combinandosi con la malinconia produce genialità.

Tutti gli uomini eminenti sono melanconici come Ercole, filosofi come Empedocle e Platone e tutti i poeti. Questa teoria fu trasfusa nel neoplatonismo e accettata in tutta Europa.

Oltre alla melanconia rappresentata da Saturno vi erano anche gli altri dei della mitologia che avevano caratteristiche particolari nella loro ambiguità, come l’eloquente Mercurio che rappresentava il silenzio; Apollo ispiratore della frenesia, o della moderazione; Minerva, contemporaneamente dea della pace e della guerra; il dio Pan che si nascondeva nel multiforme Proteo.

Il problema della melanconia si trasferisce in Inghilterra  dove viene affrontato da Robert Burton (1576-1639-40), con l’opera “L’Anatomia della malinconia (The Anatomy of Melancholy del 1621), in cui Burton, sotto il nome di Democritus junior, scrive una monografia completa sulla melanconia considerata, secondo l'idea del Rinascimento, una manifestazione morbosa dell'organismo, trattandone le cause ed esaminandone i sintomi, descrivendone le fasi più caratteristiche e i casi più strani, citando i vari rimedi e metodi di cura proposti nei secoli precedenti da medici e  scienziati.

L'opera è preceduta da un lungo prologo che spiega e giustifica la scelta dell'argomento e il sistema della trattazione, ed è divisa in tre grandi parti, due delle quali parlano della malinconia in generale e l'ultima, della malinconia amorosa e di quella religiosa.

La caratteristica principale di quest’opera di ampio respiro, consiste nel particolare sistema di composizione, dato che l'autore accompagna ogni periodo del suo argomento con una infinita varietà di insolite osservazioni e con abbondanti citazioni e aneddoti presi in gran parte da scrittori medici dei secc. XIV e XV ormai dimenticati, e da filosofi, come Democrito, Luciano, Erasmo, ecc.

Burton in ques’opera fa sfoggio della sua erudizione di studioso, filosofo, astrologo, matematico, accompagnando il tutto da una vena di contrastante  umorismo. Essa  ebbe grande successo per l’originalità della trattazione, che sotto vari aspetti studia e presenta le forme più varie e più complesse della vita umana, ed anche per la ricchezza di citazioni curiose e di aneddoti, ampiamente sfruttati dagli scrittori che lo seguirono nei secoli successivi, in particolare da parte di giovani letterati che ebbero la possibilità di attingervi  per poter dare l’impressione di una certa erudizione (Gino Lupi).

 

1) Dai quattro elementi primordiali degli antichi filosofi greci costituiti da acqua, aria, terra e fuoco, sono poi derivati i dodici segni zodiacali: aria: cancro, scorpione e pesci; acqua: bilancia, gemelli e acquario; terra: toro, vergine e capricorno; e fuoco: ariete, leone e sagittario.

 

 JOHN CASE E

 L’ARISTOTELISMO

DI OXFORD   

 

J

ohn Case (1539-1601), dopo aver esercitato l’attività di “tutoring” privato aveva avuto (1583) una cattedra di insegnamento a Oxford.

Autore di “Lapis philosophicus” commentario in 8 libri della fisiologia di Aristotele,  suggerisce sistemi di guarigione fondati sull’uso di metalli e pietre preziose, in cui si avverte la presenza non solo di Marsilio Ficino, ben inserito nella cultura inglese ma anche dell’aristotelismo padovano propugnato da Jacopo Zabarella (1533-1589) e dell’aristotelismo degli umanisti (avversato dal ramismo*), del gesuita Francisco de Toledo (1532-1596) e della Scuola gesuitica di Coimbra e in Italia dall’antitradizionalista  Mario Nizolio (1498-1576)

Aveva scritto anche opere filosofiche quali la “Summa” sulla dialettica e “Speculum” su questioni di etica e sulla filosofia politica dell’Inghilterra dell’epoca, “Sphaera civitatis” commissionata dal lord Burghley con la raffigurazione, nel frontespizio di Elisabetta, raffigurata come “primo mobile” del regno, opera poderosa che doveva costituire una confutazione al “Principe” di Machiavelli che non era stato tradotto in inglese, del quale però erano state pubblicate (in lingua originale) diverse edizioni da parte del tipografo John Wolf.

Case avversava il paracelsismo diffuso nel regno e mentre ironizzava sugli alchimisti credeva che Edward Kelley (sodale di John Dee) avesse davvero ottenuto l’oro usando la pietra filosofale.

Le sue opere furono utilizzate per la formazione culturale umanistica di generazioni di studenti oxoniani, futuri gentlemens, teologi ed ecclesiastici. 

 

*) Pierre de la Ramée detto Ramo (1515-1572)  intendeva sconfessare tutta l’opera di Aristotele. Con la sua dissertazione per la tesi di laurea “Quaecumque ab Aristotele  dicta essent, commentitia esse” sosteneva che tutto ciò che aveva detto Aristotele fosse falso, particolarmente ne contestava la “logica”, e per questo fu fatto oggetto di persecuzione in quanto gli fu interdetto l’insegnamento (1543) e dopo aver ottenuto la cattedra di eloquenza e filosofia al Collegio di Francia dovette allontanarsi da Parigi. Dopo essersi convertito al calvinismo fu ulteriormente perseguitato e dovette fuggire, come tanti altri francesi a Ginevra e Losanna e dopo essere tornato a Parigi fu ucciso nella strage della notte di s. Bartolomeo (v. sopra). Scrisse anche molte altre opere quali “Dialectica partitiones” poi pubblicata (1553) col titolo “Institutionum dialecticarum libri III”.

Ramo si occupò anche di linguistica, sostenendo la lingua volgare, pur dando importanza al latino e greco di cui scrisse la grammatica. Scrisse molte altre opere tra le quali “Aristotelicae adversiones” e “Institutiones Dialecticae” condannate da Francesco I di Francia.   

 

 

 IL NEOPLATONISMO ITALIANO

GIUNGE IN INGHILTERRA

 

JOHN DEE

 

I

n Inghilterra, sebbene il Rinascimento italiano in genere (1) e neoplatonico  in particolare, fosse giunto in ritardo, era giunto giusto in tempo per esaltare la corte di Elisabetta dove era stato pienamente e attivamente coltivato, seppur fortemente contrastato (i sintomi della caccia alle streghe si avvertono già nel “Doctor Faust” di Marlowe, v. sotto).

Introdotto da John Dee e Walter Raleig, i quali, dopo essere stati gratificati dalla regina e aver riscosso grandi successi, erano poi caduti in disgrazia, morendo dimenticati e in povertà, a distanza di dieci anni l’uno (1582), dall’altro (1592).

Dopo di loro, era stato Edmund Spenser a interpretare il neoplatonismo nel frattempo divenuto “elisabettiano” con le opere “Faerie Quenne” (La regina delle fate, v. sotto) e “Four Himnes” (1596).

John Dee (1527-1608), era classicamente umanista (aveva proposto alla regina Maria I di raccogliere tutti i manoscritti esistenti in Inghilterra e i libri che si trovavano presso i monasteri), dalla mente acuta e potenza intellettiva che gli permisero di spaziare dagli studi dell’antichità alle discipline scientifiche (geometria, astronomia, matematica e numerologia, geografia).

Le sue ricerche alchemiche ed esoteriche (faceva parte del gruppo dei cabalisti cristiani della corrente di Johannes Reuchlin e di Cornelio Agrippa), lo fecero considerare un evocatore di diavoli, mentre per mezzo della cabala egli si riteneva evocatore degli Angeli con i quali sosteneva di parlare unitamente a Edward Kelley (1555-1594) il quale a sua volta sosteneva, come abbiamo detto innanzi, di essere riuscito a fabbricare l’oro per mezzo della pietra filosofale.

Pur avendo contribuito con i suoi studi (2) a far brillare la cultura elisabettiana, e pur avendo fedelmente servito Elisabetta, negli ultimi anni della sua vita cadde in disgrazia presso la regina, e tacciato di stregoneria muore povero e isolato.

Mentore del mito e del misticismo arturiano applicato all’idea dell’imperialismo britannico dell’epoca elisabettiana, egli stesso si riteneva discendente da un antico principe britannico e imparentato con i Tudor e con la stessa Elisabetta.

Aveva raccolto una biblioteca con migliaia di libri tra i quali vi erano le opere di Raimondo Lullo, Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa e Francesco Giorgi (v. note 5, 6, 7, 8, 9, 10), che attestano quali fossero i suoi interessi culturali, messi a disposizione di amici e studiosi, con la sua casa frequentata  da cortigiani, poeti e scrittori, navigatori e matematici, storici ed antiquari.

Particolarmente legato alla famiglia Dudley della quale Robert, futuro conte di Leicester, era stato suo allievo e sarà sostenitore delle sue idee.

Destinato ad essere personaggio di Corte  in quanto figlio di un funzionario di Enrico VIII, manifestò le sue idee e il suo movimento nella prefazione “De Trigono” scritta nella traduzione del testo di Euclide di Henry Billingsley (pubblicata nel 1570) (v. note 2  e 3).

Dee, rappresentante del neoplatonismo rinascimentale, aveva dato importanza al numero e alle scienze matematiche. Egli crede (con Pico della Mirandola, inventore della cabala cristiana) che “attraverso i numeri si procede all’indagine e alla comprensione di ogni realtà conoscibile”.

Il suo “neoplatonismo” si collega alla cabala rinascimentale in quanto si fonda sul “De occulta philosophia  di Cornelio Agrippa (6) , che si basa sulla distinzione  del mondo in tre sfere: quella naturale (terrestre), quella celeste e quella sovra-celeste degli spiriti o intelligenze o angeli (v. in Articoli, Carlo V ecc. P.II, par. Gli umanisti maghi).

Il numero è la chiave dell’Universo: concetto accentuato da Johannes Reuchlin, con una combinazione di pitagorismo e cabala, proseguito da Dee in campo matematico, da lui approfondito a causa delle istruzioni e consulenze a navigatori, artigiani e tecnici che gli venivano richieste.

Dee si impadronì anche degli elementi di teoria matematica astratta, in particolare della teoria delle proporzioni secondo la concezione dell’architetto romano Vitruvio (De Architectura, I sec. a.C.), considerando l’architettura la regina delle scienze e l’unica disciplina alla quale  quelle matematiche sono correlate.

Dee comunque, per la teoria delle proporzioni si richiama all’artista e teorico Albrecht Dürer (autore di: Vier Bücher von Menshlicher Proportion - Quattro libri sulla proporzione dei corpi umani, 1528).

“La filosofia occulta nel periodo elisabettiano”, scrive Yates,  non fu un interesse secondario di pochi adepti: fu la filosofia principale dell’epoca che traeva origine da Dee e dal suo movimento (Yates considera John Dee con Giordano Bruno (10), i due grandi filosofi dell’ Inghilterra elisabettiana in: “Giordano Bruno e la cultura rinascimentale europea)”.

 La cabala cristiana di Dee fa da sfondo al neoplatonismo cabalistico dell’epica di Edmund Spenser (1552?-1599), considerato da Yates “il Virgilio dell’età dell’oro elisabettiana”, poeta che faceva parte della cerchia di John Dee, esponente del cabalismo e numerologia rinascimentale, dal pensiero marcatamente filosofico-neoplatonico che traspare nel suo famoso dramma “The Faerie Qeene” (La regina delle fate) in cui la regina Maria I è impersonata da Duessa, che rappresenta la “Chiesa cattolica”, bella d’aspetto ma in effetti ripugnante, in omaggio alla regina Elisabetta, e questo emerge più chiaramente nei  Four Hymnes (Quattro Inni), di ispirazione platonica.

Spenser  aveva scritto anche un “Discorso sullo stato attuale dell’Irlanda (A View of the Present State of Ireland, scritto nel 1596, pubblicato nel 1633), di grande interesse per la biografia del poeta, e illustra il quinto libro della Regina delle fate che contiene la leggenda di Artegall, o la Giustizia, la quale vuole immortalare il protettore del poeta (4).

 “The Faerie Queene” (La regina delle fate) è un poema in stanze (su metro inventato da Spenser, e adoperato successivamente dai poeti inglesi che lo seguirono) che doveva essere di dodici libri (ciascuno diviso in dodici canti), ma il poeta ne lasciò solo sei, oltre ad alcuni frammenti.

Spenser si era ispirato non solo all'Ariosto e al Tasso ma agli umanisti inventori di emblemi e imprese, in cui rientrano le intenzioni allegoriche del poema.

L’opera è incentrata sulla figura di Elisabetta della quale il mago Merlino dopo aver narrato  del ritorno al potere della dinastia imperiale troiana e britannica; dell’unione delle due case di York e Lancaster nei Tudor, predice il successivo avvento della vergine regina: “than shall ea royal virgin raine” (verrà allora il regno di una vergine regina). 

Nella lettera introduttiva, indirizzata a Walter Raleigh (v. sotto), il poeta scrive che per rendere più interessante la sua opera l’ha colorita di una “finzione storica”, con la storia del principe Artù (Arthur), nel quale si trovano unite tutte le virtù che un grand'uomo deve possedere. La regina delle fate rappresenta la Gloria in astratto, e in particolare “l'eccellentissima e gloriosissima persona nella nostra sovrana la Regina” (adombrata anche con i nomi di Belphoebe, Mercilla e Gloriana).

La regina tiene corte, bandita per dodici giorni, ogni giorno offre l’occasione a ciascun cavaliere di distinguersi e ognuno di essi personifica una virtù.

Il primo libro, preceduto da una dedica alla regina Elisabetta, in cui il poeta dichiara di aver mutato in tromba, la zampogna pastorale, contiene le avventure del cavaliere della Croce Rossa (the Red Cross Knight), modellato su san Giorgio, che dovrebbe impersonare la Santità (la Chiesa anglicana). Egli viene alla Corte di Gloriana e udendo che un orribile drago funesta le terre governate dai genitori della vergine Una (la verità o la vera religione), si reca con costei e col fedele scudiero a uccidere il mostro.

Nella Caverna degli Errori trovano un drago che a ogni momento dà alla luce orrendi figli (allegoria delle aberrazioni). Il cavaliere abbaglia il mostro con lo scudo incantato, e poi lo decapita: i figli, bevendo il suo velenoso sangue, muoiono. Dopo, il cavaliere e Una incontrano un vecchio dal venerabile aspetto (simile all'eremita che l’Angelica di Ariosto incontra dopo la fuga). Egli è Archimago (l'ipocrisia), che ha la lussuria di quell'eremita e il magico potere di Atlante; a questo punto la trama acquista una complessità ariostesca.

Il cavaliere, fuggendo alle tentazioni di Archimago, incontra Sanstoy, un cavaliere saraceno, accompagnato da Duessa che nasconde il suo vero aspetto sotto l’apparente bellezza, rappresentando la Chiesa cattolica (reincarnazione dell'Alcina di Ariosto). Seguono varie avventure in foreste incantate, palazzi allegorici; Una, libera il cavaliere caduto nei lacci di Duessa, che smaschera il suo aspetto deforme; il cavaliere è condotto presso madonna Umiltà (circondata da Fidelia e Speranza) e assistito da Obbedienza, Penitenza e Rimorso, nonché dal santo eremita Contemplazione.

Così purgatosi lo spirito, affronta il tremendo drago contro il quale aveva intrapreso la spedizione, e lo uccide; dopo altre peripezie il cavaliere sposa Una.

Il secondo libro contiene le avventure di sir Guyon, Il cavaliere della Temperanza, i suoi combattimenti con Pirocle (Pyrocles: il furore) e Cimocle (Chymocles), la sua visita alla caverna di Mammone e alla Casa della Temperanza, e la sua distruzione di Acrasia (l'Intemperanza) e del suo Verziere di Delizie (Bower of Bliss).

Il decimo canto contiene una cronaca dei re britanni da Bruto a Uther, e dal Re degli Elfi a Gloriana (Elisabetta); il quarto l'episodio di Faone e Cristabella, imitato da quello di Ariodante e Ginevra (dell'Orlando furioso).

Il terzo libro narra la leggenda della Castità, simboleggiata da Britomarte (Britomart, la regia donzella che s'innamora di Arthegall le cui sembianze ha visto in uno specchio magico) e da Belfebe (Belphoebe).

Il quarto libro narra la leggenda di Triamondo (Triamond) e Cambello (Cambell). Il primo è il cavaliere dell'Amicizia e combatte col secondo per decidere quale dei pretendenti di Canace dovrà averla; il combattimento resta indeciso e i due giurano eterna amicizia; alla fine Triamondo sposa Canace. Nello stesso libro vi è la storia di Scudamore (Scudamour) e di Amoretta (Amoret), la quale, subito dopo il matrimonio con Scudamore, è rapita dall'incantatore Busirane e da lui imprigionata finché non la libera Britomarte.

Il quinto libro contiene le avventure di Arthegall, il cavaliere della Giustizia, e varie allusioni ad avvenimenti storici del regno d'Elisabetta, tra cui la disfatta degli Spagnoli nei Paesi Bassi, l'esecuzione di Maria Stuarda, ed altro.

Il sesto libro infine, contiene le avventure di sir Calidore, che rappresenta la Cortesia. Il frammento riguarda l'allegoria della Mutevolezza (Mutability), sesto e settimo canto della “leggenda della Costanza”, che doveva formare il settimo libro.

L'opera si era meritata nel tempo grandi elogi e per la Yates, “è paragonabile alla Divina Commedia, dove i gironi dell’inferno sono le sfere capovolte del Paradiso...e rappresenta il conflitto tra il bene e il male in uno scenario cosmico: i cavalieri  spenseriani che rappresentano le virtù, devono combattere gli opposti e negativi dei loro temperamenti, i sette peccati capitali”.

 

1)  Il merito di aver messo a contatto la società inglese con quella rinascimentale  italiana è da attribuire a William Painter (1540?-1594) che con il libro “Il Palazzo del Piacere (The Palace of Pleasure, beautified, adorned, and well furnished with Pleassant Histories and Excellent Nouels... chosen and selected out of Divers Good and Commendable Authors), costituito da una raccolta di novelle (che inizialmente erano sessanta, pubblicate nel 1566-'67 e poi aumentarono fino a giungere a centouno nel 1575)), tratte (e tradotte) da fonti più disparate: dai classici (Erodoto, Aulo Gellio, Plutarco) ai novellieri italiani e francesi (Boccaccio, Bandello, Margherita di Navarra).

Da queste Novelle, che riportavano uno spaccato della vita italiana, Painter ne aveva estratte ed elaborate ventisei, dando preferenza a motivi tragici, in cui aveva accentuato gli eccitamenti del sangue e della lussuria, dando così dell’Italia una immagine fastosa e sinistra rendendola celebre per gli adulteri, delitti, assassini e avvelenamenti che avvenivano nelle sue corti, immagine perpetuata dai drammaturghi elisabettiani. E Il Palazzo del piacere, divenne una inesauribile riserva di trame e motivi a cui attinsero a piene mani i maggiori drammaturghi elisabettiani, tra i quali  Shakespeare, le cui opere, notoriamente ispirate a Bandello (es.”Giulietta e Romeo”) o a Boccaccio (es. “Tutto è bene quel che finisce bene”), trovarono il seme nel libro di Painter, che costituisce il primo esempio di novellistica in prosa inglese.

 2) Molti degli scritti di Dee sono rimasti inediti, tra le sue opere stampate:  A supplication to Queen Mary for the Recovery and Preservation  of Ancient Writers and Monuments” (Supplica alla regina Maria per la custodia e conservazione ecc.); “De Monade Hierogliphica” (tradotta in francese nel 1925); “De Trigono”, riportato nella introduzione agli Elementi di Euclide pubblicati nel 1570 e “A True & Faithful Relation of wath passed for many Years between Dr. J.D. and Some Spirits”, in cui parla di ciò che era accaduto per diversi anni tra lui ed alcuni Spiriti  (pubblicato da  Casaubon nel 1659).  

3) Contemporaneamente alla pubblicazione della “Tempesta” di Shakespeare (1610-1612) apparve L’Alchimista di Ben Jonson (The Alchemist) il  cui personaggio Sottile (Subtle),  che  si ispira come Prospero della Tempesta, a John Dee e altri alchimisti contemporanei come Kelley, e teologi come Hugh Broughton, tutti considerati dei ciarlatani e imbroglioni.

Ben Jonson racconta (in forma dialogica) che durante la peste, avendo Lovewit lasciato la sua casa a Londra in custodia del suo servo Face, costui v'introduce alcuni suoi compari, l'alchimista, e la sua compagna Dol Common, e la casa viene usata per attirarvi dei gonzi a cui l'alchimista promette la pietra filosofale: tra le vittime sono Sir Epicure Mammon, cavaliere avido e lascivo; due puritani, Tribulation Wholesome e Ananias; Kastril, un giovane attaccabrighe che cerca un buon partito per la sorella Dame Pliant, e altri. Surly, un giocatore, s'accorge della frode e cerca di smascherarla presentandosi in veste di Spagnolo; alla fine le fila del complicato intreccio si avviano alla soluzione, che risulta in una gara tra Subtle e Face non solo per portare a buon fine le rispettive trame, ma anche per eliminare la possibilità di successo dell'antico compare divenuto ora rivale. Face, riesce a vincere la gara; tornato Lovewit, si riconcilia con lui e finisce con lo sposare Dame Pliant, mentre Subtle e Dol si dànno alla fuga.

4) Spenser, non potendo prescindere dai ricordi personali, della ribellione irlandese (1598), dà una interpretazione personale in quanto ne era rimasto rovinato. Egli esamina i mali dell'Irlanda, e li riduce a tre gruppi: quelli dipendenti dalle leggi, quelli inerenti al modo di vita e quelli originati dalla religione. Ogni tanto, consigli e visioni sono interrotti da vere e proprie invettive, come quella famosa, che “Dio forse conserva l'Irlanda in questo stato d'agitazione per qualche segreto castigo che le verrà dall'Inghilterra”.

Tra le varie considerazioni sull'ignoranza, in genere, del popolo irlandese,  egli mostra grande interesse per le espressioni della poesia popolare che ebbe tanto influsso sulla sua poesia. E sostiene la necessità di una forte politica di repressione, dà suggerimenti per l'abolizione dei costumi locali, accompagnate da considerazioni forti e non proprio umanitarie.

Nell’opera si avverte l'influsso del “Principe” di Machiavelli, per es. dove sostiene la necessità di usar medicine forti per l'Irlanda, di non lasciarsi impressionare dall'accusa di crudeltà, di fondare colonie e fortezze.

5) Raimondo Lullo (n. 1235-1315), catalano, alchimista e cabalista, filosofo e  mistico dalla cultura enciclopedica. Aveva avuto una vita avventurosa ed ebbe interessi nei vari campi del sapere umano che riversò,  in maniera brillante nei suoi libri, tanto da meritarsi il titolo di doctor illuminatus. Contemporaneo di Abrham Abulafia (1235-1316), pose le basi della “Qabbalh mistica” medievale che mirava alla comunione con Dio attraverso la perfezione individuale, intellettuale e spirituale.

Scrisse ben duecentoquarantatre opere che spaziano dalla teologia alla polemica religiosa, mostrandosi ostile all’averroismo: “Libre de gentilibus et tribus sapientibus”, “Liber de quinque sapientibus”  Liber de Deo et Jesu Christo”, “Disputatio fidei et intellectus”, “Disputatio Raymundi christiani et Hamar saraceni”; alla  mistica: “Liber de contemplaciò”; alla filosofia con la celebre  Ars magna seu Ars compendiosa inveniendi veritatem”, fondamentale nella cultura del Rinascimento in cui trovò molti seguaci in Pico della Mirandola e particolarmente in Giordano Bruno, in quanto in essa si sosteneva che ogni scienza ha dei principi diversi da quelli delle altre, ma vi deve essere una scienza generale che contenga tutti i principi delle altre, “Liber de anima rationali”, “Ars demonstrativa”, “Liber de assensu et descensu intellectus”, “Arbor philosophiae desideratae”, “Declaratio Raymundi;”; “I dodici principi della filosofia”; alla letteratura con  Blanquerna”, il primo romanzo con spunti autobiografici di contenuto filosofico e sociale e un altro romanzo “Felix de la maravelles del mon”. Si era occupato di alchimia introducendo la formula della preparazione dell’acido nitrico e scrivendo  il  Trattato della Quinta Essenza ovvero de’ Secreti della Natura”, “Albero della scienza”, “Testamento dell’arte chimica universale”. Infine il libro allegorico-dottrinale per i cavalieri, “Libro dell’Ordine della cavalleria” (Libro de Orde de cavaileria) e due poemetti: “Desconvort” e “Cant de Ramòn”.

6) Giovanni Pico della Mirandola ( 1463-1494), filosofo e umanista, quasi coetaneo di Marsilio Ficino (v. sotto),  aveva avuto una vita avventurosa. Dotato di una memoria prodigiosa aveva studiato ebraico e caldaico approfondendo gli studi sulla cabala ebraica (v. Francesco Giorgi, e Cornelio Agrippa ), attraverso la quale si poteva dimostrare l’esistenza di Dio e sull’astrologia e magia con influssi di tipo occulto ed esoterico come gli inni orfici e gli oracoli caldaici.

Aveva elaborato la Qabbalah, di Abulafia (che conoscendo l’ebraico operava sulle lettere ebraiche) e di Lullo (che non conosceva l’ebraico e operava sulle lettere latine).

Aveva operato una fusione tra la cabala e la magia distinguendo una cabala teoretica e una cabala pratica: quest’ultima la considerava magia cabalistica. Sosteneva inoltre che la magia naturale  senza la cabala pratica sarebbe stata priva di significato. Aveva approfondito gli studi della filosofia aristotelica, attraverso i commentatori greci ed arabi, maturando l’idea che le varie correnti filosofiche si erano sviluppate dalle precedenti attraverso una concordia tra le varie scuole.

Aveva scritto quindi le “Conclusiones filosophicae, cabalisticae et theologicae”, preparando novecento tesi che costituivano un estratto di tutte le filosofie, ma con influssi di magia ermetica e cabala, con cui dimostrava di poter entrare in contatto con le sfere angeliche. Queste tesi avrebbero dovuto essere discusse a Roma. Ma alcune di queste tesi suscitarono le reazioni di diversi teologi che convinsero il papa Innocenzo VIII a sottoporre le Conclusiones all’esame di una commissione. Pico aveva nel frattempo scritto una introduzione al dibattito intitolata  De hominis dignitate”, trasformata in “Oratio” quando il dibattito sulle tesi era stato annullato e a sua difesa aveva preparato una “Apologia”, ma questi scritti a nulla valsero per convincere i teologi e il papa che condannava le tesi incriminate. Pico dovette fuggire recandosi in Francia, poi rientrò a Firenze dove visse sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico che lo ospitò in una villa a Fiesole fino alla morte prematura  in quanto fu assassinato dal poco raccomandabile nipote Galeotto. L’opera sulla “Dignità dell’uomo è da considerare una delle massime espressioni dell’Umanesimo. In campo religioso era sulle stesse posizioni di Gerolamo Savonarola, nel senso che auspicava una riforma (Ad Leonem X de reformandis moribus oratio), del quale aveva scritto una biografia “Vita patris H. Savonarolae”. Tra le altre opere: “De studio divinae et humanae sapientiae”; “Liber de imaginatione”; “Examen vanitatis doctrine gentium et veritatis christianae disciplinae”; “De studio divinae et humanae philosophiae”.  Tra le sue opere è considerata la maggiore  “Heptaplus” commento in sette libri ai primi 27 versetti del Genesi; De ente et uno, le Epistolae. 

La sua incrollabile fede religiosa lo porta a considerare la inutilità della ragione, affermando che la Rivelazione è l’unica fonte di verità e di salvezza dell’uomo.  Condanna quindi la filosofia come anche l’astrologia, ma difende la “magia” e la “cabala” che associa all’ermetismo, e in maniera fumosa per non incorrere nei rigori della Chiesa.

7) Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535)  considerato a torto il principe della magia nera e degli stregoni, il negromante per eccellenza. Autore del “De occulta philosophia” e “De vanitate scientiarum” in cui nega tutto ciò che aveva affermato nel libro precedente, per non incorrere nelle maglie dell’Inquisizione!). Il “De occulta philosophia” è il testo fondamentale della magia e della cabala, espressione della filosofia magica del Rinascimento (v. Pico della Mirandola e Francesco Giorgi). Agrippa ritiene che l’Universo sia una formula matematica in cui si  esprime Dio: essa è libro e parola di Dio, è armoniosa musicalità divina. Matematica, grammatica e musica sono aspetti della logica universale, cioè della espressione divina. L’Universo secondo Agrippa è diviso in tre mondi: il mondo  degli elementi della natura terrestre; il mondo delle stelle; il mondo sovraceleste degli spiriti o intelligenze  o angeli. La magia naturale agisce nel mondo degli elementi; la magia celeste, agisce nel mondo delle stelle; la magia religiosa agisce nel mondo sovraceleste  degli spiriti e intelligenze che possono essere evocati come li evocava John Dee. Cornelio Agrippa, Francesco Giorgi, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, influenzarono tutti la filosofia neoplatonica che sfociava nella magia, cabala, numerologia rinascimentali, anche fuori dell’Italia. Nel  De vanitate”, meglio “De incertitudine et vanitate omnium scientiarum et artium” come detto, scritto per non incorrere nei rigori della Inquisizione,  Agrippa mette in discussione tutto il sapere dell’uomo che ritiene non abbia alcun valore e che non si può conoscere nulla e in nulla vi può essere certezza.

8) Johannes Reuchlin (1455-1522) fa parte del gruppo dei teorici della “cabala cristiana” che  mirava a dimostrare che la cabala provava le verità del cristianesimo. Venuto in Italia ed entrato in contatto con Pico della Mirandola ne accolse le sue idee sulla cabala cristiana, che trasfuse  nel  “De verbo mirifico”  e “De arte cabalistica” che combinata con la numerologia pitagorica,la   proponeva come nuova filosofia cristiana che avrebbe dovuto sostituire la Scolastica. Con questo suo metodo egli dimostrava che il nome Gesù corrispondeva,  con la manipolazione delle lettere ebraiche (traducibili in numeri), al nome del Messia, trovando anche delle corrispondenze tra la gnosi ebraica e la dottrina di Ermete Trismegisto (v. in Cronologia del 1500) alla quale veniva data una interpretazione cristiana. Lo studio della cabala, della magia e dell’ermetismo ebbero influenza sul neoplatonismo rinascimentale e sui movimenti riformisti sia protestanti (Riforma) sia cristiani (Controriforma).

9) Francesco Giorgi (n. 1466) della nobile casata dei Zorzi, monaco umanista autore di “De armonia mundi” e “Scripturam Sacram Problemata”, ambedue messi all’Indice.  Studioso di ebraismo, aveva approfondito gli aspetti  della “cabala cristiana”, che si poneva accanto a quella di Pico della Mirandola (v. prossima Cronologia del 1400, 1494), che ne fu il fondatore e di Marsilio Ficino (v. prossima Cronologia del 1400, 1499) in Italia, e di Johannes Reuchlin ed Enrico Cornelio Agrippa von Nettesheim in Germania, John Dee (v. prossima Conologia del  1600,  1608) in Inghilterra.

Nel “De armonia mundi” Giorgi riprende le tesi cabalistiche di Pico della Mirandola e la tradizione  numerologica pitagorico-platonica elaborata da Agrippa e propone  l’armonia universale sulla base del “De Architectura” di Vitruvio.

Giorgi mette in relazione le gerarchie angeliche con i pianeti, e i loro influssi (senza annullare il libero arbitrio), dando una classificazione degli “umori” planetari riscontrabili nell'individuo e propone un metodo magico per contattare gli angeli corrispondenti.

10) Marsilio Ficino (1433-1499) filosofo platonico, umanista, medico e musicista. Con la sua opera di riesame filosofico del platonismo e neoplatonismo segna il passaggio dalla fase filologica a quella filosofica dell’Umanesimo come affermazione della centralità dell’uomo nell’universo e la rivalutazione della storia umana. Aveva tradotto e commentato i “Dialoghi” di Platone e le “Enneadi” di Plotino (considerato “il fido Acate”). Lorenzo il Magnifico gli aveva dato l’incarico (1463) di tradurre dal greco in latino il “Corpus Hermeticum” attribuito ad Ermete Trismegisto, opera che si credeva proveniente dall’Antico Egitto che concordava  con la tradizione pitagorica, platonica, stoica, neoplatonica e con i libri dello Pseudo-Dionigi. Peraltro le sue idee neoplatoniche lo portarono a vedere nel cosmo forze di natura psichica, che lo avvicinavano all’astrologia e alla magia, ponendosi con questi studi  accanto  all’amico e sodale Pico della Mirandola. Credeva nella forza magica della preghiera come mezzo curativo e credeva nell’influenza degli astri. Aveva scritto: “De Voluptate”, “De christiana religione”, “Theologia Platonica de animorum immortalitate”, molte traduzione di scrittori e storici greci e il “Liber de vita libri tres”  dedicato a Lorenzo il Magnifico, che comprende tre trattati: “De Voluptate, “De christiana religione, “Theologia Platonica, molte traduzioni di scrittori e storici greci e il “Liber de vita”  dedicato a Lorenzo il Magnifico, che comprende tre trattati: “De studiosorum sanitate tuenda”, “De vita longa ad Philippum Valorem” e “De vita coelitus comparanda ad Mathiam  Corvinum”, che insieme alla traduzione di opere demonologiche, ebbe larga diffusione e gli procurò l’accusa di magia e negromanzia dalle quali si difese con l’ ”Apologia”.  L’eredità ricevuta dagli studi  di Platone e dell’ermetismo, fu raccolta da Giordano Bruno.

11) Giordano Bruno  (n. 1548-1600), arso sul rogo a Roma in Campo dei Fiori, martire della libertà di pensiero, della dignità dell’uomo, della tolleranza, del diritto dell’uomo a difendere le proprie idee e manifestarle liberamente e dell’Amore che la  religione che per prima lo aveva predicato, lo aveva  calpestato. Con la morte di Bruno, arrestato a Venezia dov’era ospite di Giovanni Mocenigo, che con questo tradimento aveva infangato il nome della sua nobile casata,  si inaugurava  un nuovo secolo di oscurantismo e persecuzione religiosa con tanti innocenti che dopo i secoli precedenti continueranno ancora, per tutto il secolo ed oltre, senza quella conclamata pietà cristiana, ad essere bruciati sul rogo, torturati, in tltimo da una mordacchia di ferro, messa alla bocca per non farli parlare, come avevano fatto con Giordano.  

Bruno è stato il più grande pensatore e filosofo del Rinascimento: basti dire che aveva avuto l’intuito della grandezza dell’Universo e della possibilità che vi siano diversi Universi, che solo in epoca contemporanea sono state confermate con la scoperta di miliardi di galassie.  

Studioso del Corpus hermeticum e di Ermete Trismegisto che si riteneva fosse vissuto in epoca precedente a quella di Mosé e avesse preannunciato il cristianesimo e la cui sapienza avesse ispirato Platone e i platonici. Egli riteneva che il ritorno alla religione magica degli egiziani (v. Cronologia del 1500) avrebbe costituito il rimedio alle guerre, persecuzioni e alle miserie dell’Europa e che gli egiziani traevano questa magia dai poteri cosmici che essi riuscivano a trasfondere nelle statue dei loro dei, poteri cosmici con influssi benefici che Marsilio Ficino cercava di catturare con talismani solari e incantesimi.

Questi spunti tratti dall’Asclepius facevano ritenere a Giordano Bruno che quella religione (egiziana), migliore del cristianesimo, era stata distrutta da questa. Ma s. Agostino aveva condannato proprio quei passi come malvagio culto dei demoni, da questo (scrive la Yates) era derivata la fama demoniaca di Bruno.

Quanto all’universo mondo, Bruno aveva avuto l’intuito, precedendo le future scoperte (superando Newton, Galileo, Copernico Tyco Brahe), non tanto, “della Terra vivente che si muove intorno al divino sole”, ma “degli innumerevoli mondi che si muovono come grandi animali con una loro propria vita nell’universo infinito” (De l’ infinito, universo e mondi).

Dopo essere stato a Parigi presso la corte di Enrico III, Bruno si reca in Inghilterra (1583) dove a Oxford, senza esserne invitato tiene conferenze che avevano suscitato le rumorose reazioni di quei dottori, e ridicolizzato sia per la sua gestualità sia per il suo latino con forte accento napoletano, ma anche per aver esposto a memoria le teorie di Ficino (ben note a quei professori), senza evidentemente citarne la fonte, per cui fu accusato di plagio. Egli comunque in quel suo soggiorno di due anni (1583-85) pubblica cinque dialoghi, due dedicati a Sidney, gli altri tre dedicati all’ambasciatore francese Michel de Castelnau de Mauvissiére dal quale era ospitato: Della cena delle ceneri (in cui si vendica delle contestazioni accusando gli oxonensi di essere “pedanti”; De la causa, principio et uno, in cui si rammarica per i torbidi causati dai suoi attacchi contro i dottori di Oxford, aggravando la sua posizione in quanto difende i frati di Oxford del periodo precedente alla Riforma, mostrando di preferirli ai riformati; De l’infinito, universo e mondi, in cui, come detto, enuncia la sua visione di un universo infinito e di innumerevoli mondi; Lo spaccio della bestia trionfante, dedicato a sir Philip Sidney, in cui espone un piano di una riforma universale,  morale e religiosa; La cabala del Cavallo pegaseo, con l’adattamento della cabala ebraica; De eroici furori, dedicato anche a Philip Sidney, con sonetti accompagnati da commenti che chiariscono i significati filosofici e mistici delle singole poesie.

In queste opere brillanti e singolari, scrive Yates, Bruno appare come propagatore di una nuova filosofia  e cosmologia, di una nuova etica e religione che poggia in larga misura sulla sua fama.  

E

WALTER RALEIGH

 

 

W

alter Raleigh (1552-1618) era personaggio di spicco alla Corte di Elisabetta; avventuriero e scrittore, dopo aver combattuto  in Francia per gli ugonotti (1569-76), aveva seguito il fratellastro nella spedizione di Terranova; fu inviato in Irlanda contro i ribelli e giunto a Londra fu introdotto a Corte dal conte di Laicester,  e con il suo fisico aitante, (così  come piacevano a Elisabetta) divenne favorito della regina.

Raleigh guidò una spedizione nel Nuovo Mondo (1584) impossessandosi di un vasto territorio che in onore della regina e della sua conclamata verginità (come abbiamo visto, tutti i riferimenti di scrittori, letterati e artisti erano ipocritamente indirizzati alla castità pubblica della regina, mentre in fatto di castità privata le cose stavano in ben altro modo!), chiamò Virginia (il cui territorio non corrisponde all’attuale Stato), ponendo le basi della espansione coloniale inglese nel continente americano.

Ritornato in Inghilterra, come capitano delle guardie, organizzò la difesa che doveva affrontare lo sbarco dell’ Invincibile  Armada spagnola (1588), che non ebbe luogo in quanto la fortuna fu dalla parte della regina e l’Armada andò dispersa e distrutta da una tempesta.

L’anno successivo alla sconfitta della Armada (1589) Richard Hakluyt (1553-1616), pubblica  l’opera  “Le principali navigazioni, viaggi e scoperte della Nazione inglese, fatte per mare e per terra alle più remote e distanti parti della terra nell'ambito di questi 1500 anni” (The Principal Navigations Voyages and Discoveries of the English Nations, made by Sea or Over Land to the most remote and farthest distant Quarters of the Earth, at any time within the compass of these 1500 Years).

Essa comprende circa 220 viaggi, oltre ai documenti relativi, quali patenti, istruzioni e lettere e costituisce il massimo corpo d'informazione sui viaggi del XVI sec., opera che fu ispirata dalla precedente raccolta di G.B. Ramusio (in Cronologia del 1500,v. 1557) e dedicata a sir Francis Walsingham al quale riassume l’idea e il contenuto dell’opera.

Raleigh fu fatto arrestare dalla capricciosa regina (da una parte pretendeva fedeltà dai suoi amanti... mentre lei si concedeva le sue libertà), per una relazione che Raleigh aveva avuto con  Elizabeth Throngmorton,

Nello stesso periodo, infatti,  sempre l’onnipresente conte di Leicester, aveva presentato a Corte il  figliastro Robert Devereux, conte di Essex, cugino in secondo grado di Elisabetta, non ancora ventenne, il quale con il suo aspetto attraente e la sua giovinezza affascinò la cinquantatreenne regina, ed entrò nei suoi favori che continuarono anche dopo che Essex aveva sposato segretamente la figlia di sir Francis Walsinghan.

Con i favori accordatigli dalla regina, egli divenne ricco e potente ma, nel momento in cui era andato ad affrontare delle non fortunate imprese contro la Spagna e alle Azzorre, la sua stella cominciò a declinare.

Elisabetta aveva i suoi alti e bassi e a volte gli dimostrava benevolenza, altre volte freddezza, e si era sdegnata per le avventure amorose che più o meno segretamente si intrecciavano a Corte (come peraltro avveniva presso le altre Corti, particolarmente quella di Francia), mentre nella apparenza della esteriorità si inneggiava alla rigorosa osservanza della morale.  

Riconciliatosi con la regina, Essex riesce a farsi mandare in Irlanda contro i ribelli cattolici (v. in Schede: Breve storia d’Irlanda), come Lord Deputato. Egli era prode, ma privo di genio militare, e in questa  missione fallisce, accettando la tregua con Tyrone, capo dei ribelli.  

Al rientro accuse e sospetti si aggravano su di lui e dopo una severa e umiliante ammonizione è privato della redditizia imposta doganale dei vini dolci che Elisabetta gli aveva concesso in monopolio anni prima.

A questo punto Essex non ragiona più, perde il controllo e inizia una corrispondenza con Giacomo re di Scozia (che Elisabetta temeva in quanto aspirante al trono d’Inghilterra). Commette l’errore di  raccogliere i suoi seguaci e dirigersi verso la City, sperando di sollevare Londra e portare la regina ad accettare le sue condizioni. Ma non riesce nel suo intento ed è arrestato; condotto alla Torre è condannato alla decapitazione. Muore così all’età di quarantaquattro anni, precedendo di due anni (1601) quella della sua sovrana e amante.

Essex aveva lasciato un epistolario che rivelava la sua vena di scrittore colto e raffinato.

Raleigh, tornato libero (1595) si imbarca  impadronendosi dell’isola di Trinidad ed esplora la Guiana. E’ nominato dalla regina conte di Jersey, ma con la morte della sua protettrice (1603), cessa anche la sua fortuna in quanto fu fatto imprigionare da Giacomo I, perché sospettato di tradimento per aver congiurato in favore di Arabella Stuart e condannato a morte: la condanna però non fu eseguita e una volta liberato (1616), morì due anni dopo (1618).      

Raleigh fu apprezzato scrittore per il suo stile personale e suggestivo, privo della pedanteria tipica dei suoi contemporanei. Scrisse saggi di argomento politico e relazioni dei suoi viaggi, ma la sua  opera principale, scritta durante i dodici anni di prigionia nella Torre di Londra, fu la “Storia del mondo” (History of the World). in tre volumi.

L'opera, partendo dalla creazione, attraverso la storia ebraica e degli Egizi e un'ampia trattazione della mitologia greca e romana, arriva fino alla caduta dell'impero macedone.

Questa storia è interessante soprattutto per lo stile semplice che si sviluppa tra un insieme di miracoli, tradizioni, pettegolezzi e resoconti ai quali lo scrittore presta fede attribuendovi importanza storica.

Nelle ultime pagine Raleigh nell’apostrofare la “Morte”, ribadisce il suo convincimento, già espresso nella prefazione “che le vie del Signore conducono sempre il colpevole alla giusta punizione”.

 

 

       LA FILOSOFIA OCCULTA

       E LE TINTE FOSCHE DELLA

         LETTERATURA ELISABETTIANA:

 IL DOCTOR FAUSTUS

 DI MARLOWE

 

 

I

n Inghilterra come abbiamo detto, contro la filosofia occulta rinascimentale si erano scatenate reazioni violente. Le polemiche del continente, scrive Yates, sono presenti negli atteggiamenti dei poeti, nella stessa figura del Doctor Faustus di Marlowe. che suscita una sorta di ossessione per le streghe nel cuore del mondo elisabettiano.

Chapman (1) replica in forma oscura, con la sua difesa della “malinconia ispirata” e questi problemi profondi sono costantemente presenti in Shakespeare, le cui grandi creazioni: Amleto, Lear, Prospero, sono considerate come appartenenti alle fasi tarde della filosofia occulta rinascimentale che si dibatteva  fra gli spasimi della reazione.

“Questo”, scrive Yates, “è il momento che io colgo essere il momento shakespeariano, l’ora in cui il Rinascimento inizia ad attraversare la dura prova della reazione”.

La melanconia di Amleto è ossessionata da questi particolari: re Lear ne è sopraffatto; solo Prospero rappresenta una formulazione tarda nell’arte creativa  della filosofia occulta del Rinascimento.

Christopher Marlowe (1564-1593), rappresenta il mondo magico del Rinascimento sviluppatosi sotto la regina Elisabetta, e le sue tragedie risentono del clima di stregoneria che si respirava in quel periodo

La sua potenza espressiva può esser messa sullo stesso piano di Shakespeare che aveva preceduto, e del quale avrebbe potuto eguagliarne la fama, se per la sua vita piuttosto sregolata non fosse stato ucciso in una taverna di Deptford quando non aveva ancora compiuto i trent’anni.

La causa della sua tragica fine non è molto chiara: chi affermava che fosse stato pugnalato da un ruffiano suo rivale, per un amore mecenario;  l’ipotesi più probabile è quella che sia stato ucciso in una rissa con altre spie, per motivi di danaro o di servizio, in quanto egli  faceva parte del servizio segreto di spionaggio  alle dipendenze di Francis Walshingham, segretario di Stato; o addirittura fosse stato assassinato per ordine di Walter Raleigh perché facente parte di un gruppo di ribelli atei e senza scrupoli.

Marlowe aveva mostrato il suo innato talento fin dal tempo degli studi universitari durante i quali traduce  gli Amori di Ovidio e la Farsaglia di Lucano, poi passa alla stesura  di Didone in “Queen of Carthage” e del “Tambourlaine the Greath” quindi il “Massacre of Paris” e “The Jew of Malta”, “Edward II” e “Doctor Faustus”. Infine scrisse un poema rimasto incompiuto, ma considerato uno dei migliori poemetti mitologici dell’età elisabettiana “Hero and Leander”.

Le sue opere maggiori sono il Tamerlano, Faust e l’Ebreo di Malta che si possono considerare una trilogia, legate da un filo magico-esoterico  e si incentrano su una figura di grande personalità, ognuna delle quali rappresenta le umane aspirazioni.

In “Tamerlano” il personaggio rappresenta una delle più perfette espressioni del principe machiavellico rinascimentale, con la brama del potere, mentre nel “Giudeo di Malta” Marlowe introduce un personaggio che aspira alla ricchezza e rappresenta un eroe antimachiavellico, Barabas , l’ebreo privato delle sue ricchezze, che spinto dall’odio e dalla bramosia del denaro, divenuto a sua volta governatore dell’isola, si vendica con persecuzioni, omicidi  ed altro, e in questa parte preclude e adombra spinte antisemitiche.

Nel Faust, Marlowe torna al gigantismo rinascimentale e nella figura di Faust esprime il suo mutamento spirituale e intellettuale e l’aspirazione alla sapienza. Con quest’opera probabilmente volle rivaleggiare, con risultati mediocri Robert Green con fra’ Bacone e fra’ Bungay (2)

La Tragica storia del doctor Faustus (Tragical History of Doctor Faustus) è un dramma in versi e in prosa, senza divisione in atti  (composta nel 1592, fu  pubblicata anonima nel 1601 e, dopo la morte di Elisabetta, nel 1604, col nome dell'autore).  

Faust è il maggior teologo della sua città e in sottigliezza dialettica nessuno può vantarsi di essergli superiore. Non contento di questa sua superiorità, egli decide di cimentarsi in un’altra arte, quello della magia per penetrare nel regno del mistero e acquistare poteri magici. Rinnegata la fede e chiesto e ottenuto l'aiuto del diavolo Mephistophilis, per suo mezzo stipula un patto di sangue con Lucifero.

Faust riceve ventiquattro anni di sicura vita, con Mefistofele ai suoi servizi, potrà diventare spirito. ma la sua anima, alla sua morte, dovrà appartenere al diavolo.

Dotato di tale potere, Faust si prepara a compiere cose meravigliose che lo renderanno l'uomo più celebre e potente del mondo. Invano l'angelo buono, in eterna lotta con quello cattivo, cerca di ricondurlo sulla retta via.

Faust va a Roma dove si fa beffe dei cardinali e del Papa e riesce a liberare l'antipapa Bruno; dà quindi spettacolo del suo potere magico all'imperatore di Germania e alla sua corte; fra l'altro fa spuntare un paio di corna sulla testa di un cortigiano che lo beffava. Questi per vendicarsi gli tende un agguato, da cui Faust ne esce indenne, e dal mago è condannato a dover portare sempre le corna in fronte. Cosi Faust passa la vita beffandosi, a suo piacere e nei modi più strani, di tutti: nessuno osa rinfacciargli alcunché, dal momento che con un gesto egli lo può far ammutolire; nessuno può ucciderlo perché per ventiquattro anni Faust è immortale.

Ma nell’avvicinarsi dello scadere del termine nella sua coscienza incomincia a sorgere il rimorso. Insoddisfatto di tante esperienze Faust desidera anche il bacio dell'immortale bellezza greca: il bacio di Elena.

E’ famoso il verso con cui egli saluta l'apparizione dell'eroina: “Fu questo il volto che lanciò mille navi?” (“Was this the face that launch'd a thousand ships?”). Quando arriva l'ora temuta, egli vorrebbe poterla fermare, prolungarla, ingrandirla, ma invano, egli muore implorando e i suoi studenti trovano il suo cadavere lacerato dai diavoli.

Fonte di Marlowe è una traduzione inglese del popolare “Libro di Faust” stampato in Germania dove era sorto il mito (v. sotto). Marlowe potrebbe averne avuto  conoscenza da un  manoscritto, prima che fosse stampato (1592), perché a quella data il suo dramma era già composto.

Il testo che ci è pervenuto in due principali versioni: una dell’in-quarto del 1604 e l’altra dell’in-quarto del 1616, molto corrotta e piena di interpolazioni dovute ai vari attori e impresari che vi aggiunsero a loro piacimento spunti comici e buffonate.

L’opera è di grande respiro, come nel Tamerlano, l'eroe dell'imperialismo politico; Faust è invece l'eroe dell'eccellenza umana spinta fino ai suoi estremi confini di conoscenza e di godimento. Con questo studio della figura umana Marlowe introduce un nuovo tipo di teatro che riscuote fortuna e sarà sviluppato da Shakespeare.

Non a caso Hyppolite Taine aveva considerato Marlowe, anticipatore di Shakespeare, come il Perugino lo era stato di Raffaello; l'autore ci presenta, non il simbolo filosofico di Goethe, bensì l'uomo vivo, sensuale, personale; la creatura primitiva e impulsiva, schiava delle sue passioni, crogiuolo di desideri, di contraddizioni e di follie, la quale, con brividi di voluttà e di angoscia, si lascia deliberatamente rotolare lungo la china del suo precipizio”.

Nacque così la leggenda dell’uomo che poteva ottenere poteri magici facendo un patto con Satana.

Sull’esistenza storica del personaggio non vi sono dubbi, anche se si è parlato spesso di due Faust, uno più vecchio, di nome Johannes, l'altro, più giovane, di nome di Jörg (Giorgio).

Quello vero però è stato uno solo: pseudo-umanista, “mago”, pseudo-medico,  alchimista, avventuriero e “philosophus philosophorum” come si autodefiniva, il quale con la sua vita errabonda e sregolata, con le sue gesta e con le sue vanterie aveva colpito l'immaginazione popolare.

Sarebbe nato a Knittlingen, nel Wurttenberg, verso il 1480. E della sua esistenza ne fu testimone addirittura il saggio Melantone (nativo di Breten) e quasi suo conterraneo; avrebbe studiato a Cracovia, dove la “magia” alla fine di quel secolo era ancora compresa fra le materie di insegnamento.    

Nel 1507 l'abate Johannes Trithemius in una sua lettera parlava di un medico ciarlatano di nome Georg Faust.

A Geluhausen, si sarebbe presentato spavaldamente come “magister Georgius Sabellicus, Faustus junior, fons necromanticorum, astrologus, magus secundus, chiromanticus, aeromanticus, pyromanticus, in hydra arte  secundus (pronostico secondo l'esame delle urine).  

Nel 1513 un noto umanista, Mutianus Rufus, asserisce di averlo incontrato a Erfurt, in un albergo, e di aver udito con le proprie orecchie le sue spacconate: “Audivi garrientem in hospitio. Non castigavi jactantiam. Quid aliena insania ad me?” (In albergo ascoltavo le sue chiacchiere. Non lo rimproverai per le sue millanterie. E, quasi rimproverandosi per non aver in qualche modo reagito: “Perché gli eccessi sono estranei alla mia persona?)

Ma soprattutto lo incontrò Melantone (fra il 1525 e 1532), a Wittenberg; che per il severo “praeceptor Germaniae” era stato peggio che se avesse incontrato il diavolo: “turpissima bestia et cloaca multorum diabolorum” nonché “turpissimus nebulo (turpissimo fannullone), inquinatissimae vitae (dalla ignobilissima vita)”, in quanto il dottore lo aveva minacciato di fargli volar via i piatti su per la cappa del camino, nel momento in cui egli si sarebbe messo a tavola!

Si trattava di un medico di Worms di grande esperienza che aveva viaggiato molto, che era versato e aveva grande abilità in medicina, nella chiromanzia, nella fisiognomica, nella previsione del futuro ed altre arti affini; diceva di chiamarsi Faustus cioé fausto, fortunato, favorito dalla fortuna.

In religione affermava che non vi era bisogno di venerare Cristo perché egli stesso era in grado di compiere gli stessi miracoli come e quando voleva; affermava inoltre che poteva in qualunque momento mettere a disposizione i testi perduti di Platone e di Aristotele, di Plauto e di Terenzio; prevedeva l'avvenire; “svelava misteri”(dicebat arcana multa”).

E certamente era un ciarlatano, impostore ammaliatore, imbonitore e demoniaco fascinatore, e come i fascinatori dei tempi passati e presenti, aveva talento e carisma per affascinare e turlupinare il prossimo; essendo convincente e persuasivo, riusciva a suscitare grande ammirazione e credulità, riscuotendo credibilità e fiducia estrema.

Un esempio lo abbiano dal caso di Franz von Sickingen, a Kreuznach (1507), che, come direttore di una scuola, non aveva esitato ad affidargli l'educazione dei ragazzi...dei quali Faustus ne approfittò instaurando con essi “turpi rapporti di fornicazione” (turpissimum fornicationis genus).

E, nel 1520, il Principe Vescovo di Bamberga gli aveva versato ben dieci fiorini d'oro per farsi fare l'oroscopo, e, nel 1528, il Consiglio Comunale di Ingolstadt, mentre lo metteva al bando dalla città, si faceva rilasciare prudentemente, una impegnativa promessa scritta... “che non si sarebbe in alcun modo vendicato”!

Nel 1536 l'umanista Joachimus Camerarius, professore a Tubinga, si rivolgeva a lui per ottenere il pronostico sull'esito della terza guerra tra Carlo V e Francesco I. E nel 1539 Filippo Sergardi, “Stadtphysicus” di Worms, registrava nell’ Index Sanitatis un suo soggiorno nella città, dove annotava che “furono in molti coloro che si erano fatti ingannare”. Verso il 1540, tornato in patria morì oscuramente, probabilmente a Stanfen, Melantone aveva commentato che  era morto strangolato dal Diavolo”!

Secondo le “Cronache di Erfurt” di H. Schedel, era stato lo stesso Faust a vantarsi di avere stretto un patto col diavolo, tanto che un monaco francescano, Georg Klinge, il quale abitava nel convento di fronte, tentò invano di fargli capire ragione e di convertirlo, e infine, non essendo riuscito a nulla, lo denunciò al Rettore Magnifico, ottenendone l'espulsione dalla città.

Come sempre è avvenuto per le leggende esse si mescolano  alla fama della figura del personaggio, con la sua esaltazione dopo la morte.

 

1) George Chapman (1559?-1634) aveva scritto il poemetto esoterico (pubblicato nel 1594) L’ombra della notte”  (The Shadow of Night) in cui nell’oscura notte della contemplazione sorge Cinzia che rappresenterebbe  contemporaneamente  le forze della mente ed Elisabetta in uno dei suoi ruoli imperiali.  Esso contiene l'Hymnus in Noctem e l'Hymnus in Cynthiam, elogio della notte, considerata come simbolo del raccoglimento, della pace, dello studio, di tutto ciò che nella vita ha un valore superiore.

Verso chi inneggiava alla notte, si opponeva la corrente di  chi vedeva nella notte la fonte di ogni male, la mezzana di ogni delitto, l'immagine dell'inferno, che avevano trovato tipica espressione nel poemetto di Shakespeare (pubblicato nel 1594) “Lucrezia violentata” (v. sotto).

Secondo la Yates, Chapman con Raleig ed altri personaggi come Reginald Scot (1538?-1599) autore de “La scoperta della  stregoneria” (The Discovery of Witchcraft), in cui Scot metteva in ridicolo gli incantesimi, gli scongiuri e le benedizioni dei papisti, dalla quale Shakespeare aveva tratto “Sogno di una notte di mezza estate”, sir George Carey e il matematico e astronomo Thomas Harriot avevano creato, secondo Yates, una School  of Nigth (alla quale, come si è detto,  si era contrapposto Shakespeare ed altri)  in cui, oltre al culto per la Notte, per la Luna, simbolo dell’impero (come il Sole lo era del papato)  si coltivava il culto per Cinzia, la regina (da cui erano derivati gli Inni innanzi indicati), e la contemplazione intellettuale.

Chapman scrisse altre opere come, la tragedia “Bussy d’Ambois” che ha un seguito con “La Vendetta di Bussy d'Ambois” (The Revenge of Bussy d'Ambois);  La Congiura e la Tragedia  del duca di Biron” (da leggere alla francese ndr.), (The Conspiracy and Tragedy of Charles, Duke of Biron). I suoi personaggi sono portatori di teorie filosofiche riprese da Seneca, Epitteto, ed altri filosofi dell’antichità; fu ottimo traduttore dell’Iliade e dell’Odissea.

“La leggenda di Lucrezia romana”, narrata da Tito Livio (I, 58 segg.), per l'insegnamento morale e la particolare tragica suggestione della sua morte, aveva ispirato diversi artisti e poeti, particolarmente  nel Rinascimento, come quella di Hans Sachs (1494-1576), scritta nel 1527) e di Thomas Kyd, il quale dilata la tragedia a tinte fosche preannunciata nelle poesie di  sir Philip Sidney (1554-1586).

“Lucrezia violentata” (The Rape of Lucrece) di Kyd, dedicata a Henry Wriothesley, conte di Southampton, ripete l'episodio tradizionale: Violata da Sesto Tarquinio (Tarquin), Lucrezia, dopo aver chiesto al padre e al marito Collatino (Collatine) di vendicarla, si uccide. Il poemetto si chiude nel momento in cui Bruto e Collatino si accingono a trasportare attraverso Roma il corpo della vittima e a eccitare i Romani a bandire Tarquinio.

Thomas Kyd (1558-1594) come abbiamo detto, dilata la tragedia a tinte fosche preannunciata nelle poesie di  sir Philip Sidney (1554-1586), il più ammirato gentiluomo di corte, le cui opere appaiono dopo la sua morte.

Tra di esse “Arcadia” (1590) che si richiama all’omonimo romanzo pastorale di Sannazzaro, contenente osservazioni politico-morali e il trattato “Defence of Poesie” (1595) , che costituisce il primo esame critico della letteratura inglese.

Tra le diverse tipologie, se ne ritrova una, del genere che si rifà alla drammaturgia di Gian Battista Giraldi, il quale aveva messo in scena vicende orride e raccapriccianti, che troviamo, accompagnata con versi di carattere morale, in “University Wits”.

Questo tema viene ingigantito da Kyd nel dramma The Spanish Tragedy” opera  che sebbene non molto apprezzata da intellettuali più sofisticati, ebbe enorme successo presso il grosso pubblico, per la potenza degli effetti scenografici.

A Kyd è attribuita la prima redazione dell’Ur-Hamlet da cui Shakespeare avrebbe tratto l’adattamento di “Cornelia”; dell’omonima tragedia di Robert Garnier (del 1574), “Soliman and Perseda”, e la traduzione de “Il padre di famiglia” di T. Tasso, col nome “The Housebolder’s Philosophie”.

Kyd faceva parte della cerchia di Marlowe e, coinvolto nell’accusa di ateismo rivolta a quest’ultimo, fu imprigionato e torturato; uscito dal carcere finì la sua vita in povertà come lo stesso Marlowe,  morto un anno prima di lui (1593).

La Tragedia spagnola” (The Spanish Tragedy, fu scritta (1586/87) per soddisfare il gusto del pubblico che chiedeva sempre nuove produzioni a tinte forti, e si può definire il dramma della vendetta.

Horatio, figlio di Jeronimo, Grande di Spagna, viene barbaramente trucidato mentre parla d'amore alla principessa spagnola Bellimperia. Questa e Jeronimo, giurano di scoprire e punire gli assassini. Per raggiungere il suo scopo il vecchio Jeronimo finge di essere impazzito dal dolore; quando sa che Bellimperia è costretta a sposare l'uccisore di Horatio, propone che alle nozze si rappresenti una tragedia. E questa non sarà finta, ma reale  e piena di terrore perché tutti gli invitati alla festa saranno trucidati o metteranno essi stessi fine alla propria vita.

Kyd aveva ripreso da Seneca  non tanto la struttura dell'opera, quanto le scene di orrore,  nell'idea del fantasma che nel prologo racconta gli avvenimenti passati.

Kyd, come detto, con l’orrido (*), aveva cercato di soddisfare le richieste del pubblico, senza preoccuparsi di approfondire i caratteri dei personaggi come farà Shakespeare con l’Amleto, il quale, per questo suo personaggio si era ispirato proprio  a questa tragedia che presso il pubblico ebbe grande e durevole successo.

2) Robert Greene (1558-1592) ebbe vita torbida e sembra avesse contatti con la malavita londinese; negli opuscoli e schizzi autobiografici raccolti sotto il titolo di Canny-catching (Dell'arte di abbindolar merli: 1591-1592, lasciando interessanti riproduzioni dei bassifondi).

Con la commedia Fra’ Bacone e Fra’ Bungay (The Honrable History of Friar Bacon and Friar Bungay) in versi e prosa, come detto, Greene volle probabilmente rivaleggiare con il Faust di Marlowe ma non ne fu all’altezza.

La commedia segue un doppia traccia. Una parte è formata dalla vicenda di Frate Bacone, dedito alla magia, che, con l'aiuto di Frate Bungay, fabbrica una testa di bronzo ed evoca il Diavolo per dare a essa la favella. Il Diavolo promette che la testa parlerà nello spazio di un mese: quando parlerà per la prima volta, occorrerà  che uno dei due maghi la senta personalmente prima che essa abbia finito di parlare, altrimenti tutto il lavoro andrà perduto. Bacone veglia giorno e notte per tre settimane; poi, per poter dormire, passa la guardia al servo con l'incarico di destarlo non appena la testa parli. La testa comincia a parlare, ma il servo crede che non valga la pena destare il padrone per le poche parole che essa dice, sicché, finite le ultime parole, la testa cade e va in frantumi.

Nell’altra traccia il principe Edoardo (che forse è colui che divenne re Edoardo I) s'innamora della bellissima figlia del guardacaccia di Freshingfield, Margherita, vedendola occupata nella sua latteria e ricevendo dalle mani di lei una tazza di latte. Il principe incarica Lacy, conte di Lincoln, di fargli da intermediario e di conquistargli il cuore della giovane. Lacy a sua volta s'innamora di Margherita e ne è ricambiato. Il principe, adirato, vuole uccidere il traditore che poi perdona e consente all'unione dei due innamorati. Lacy mette alla prova la ragazza fingendosi costretto dal re a sposare una dama spagnola. Disperata, Margherita decide di farsi monaca; ma Lacy torna e la sposa.

Questa parte, è ripresa da un libretto in prosa: The Famous History of Friar Bacon. che raccoglie leggende relative al famoso erudito e filosofo francescano Roger Bacon (1214?-1294; da non confondere con Francis Bacon del presente saggio) e all'altro francescano Thomas Bungay (vissuto intorno al 1290), ambedue creduti dediti a pratiche di magia. A questo materiale Greene ha mescolato inganni reciproci dei due personaggi e loro gare di magia dinnanzi a sovrani.

Altre opere di Grene: Pandosto o Dorasto e Faunia (Pandosto or Dorastus and Fawnia), e con Thomas Lodge (1558?-1625) la commedia “Uno specchio per Londra e l’Inghilterra  (A Looking-Glass for London and England); scrisse inoltre “Menaphon  Quattro soldi d’ingegno comprati con un milione di pentimento” (A Groatsworth of Wit bought with a Million of Repentance), in cui si alternano parti inventate e parti autobiografiche.

 

*) La passione degli inglesi per le tinte fosche di racconti tragici e truculenti, come è stato detto, era derivata dai racconti che giungevano in Inghilterra dalle corti rinascimentali italiane, di delitti, uccisioni,  avvelenamenti, agguati, amori finiti tragicamente e corruzione. Tra gli altri, era giunta la tragica storia di Vittoria Accoramboni (che racconteremo, nei suoi aspetti storici in altro articolo) da cui John Webster (1570-80-1825-34) (autore anche della “Duchessa di Malfi”), aveva tratto la tragedia “Il Diavolo Bianco o Vittoria Corambona” (“The White Devil or Vittoria Corombona”, rappresentata nel 1611-12 e pubblicata nel 1612),  modificando l’intreccio e cambiando i nomi ai protagonisti della storia che si svolge nella seconda metà del 500.

Nella tragedia forte, sanguinosa, che si svolge in una atmosfera di ombre e agguati, Webster adatta il racconto secondo la sua fantasia: Il duca di Bracciano, marito di Isabella, sorella del duca di Firenze, si era presto stancato della moglie innamorandosi di un'altra donna bellissima, Vittoria, moglie di un suo cortigiano di nome Camillo. La conquista di Vittoria si presenta difficile per complicazioni e inconvenienti che devono essere superati, senza poter risalire al duca. Questo trova un aiuto nell’ambizioso fratello di Vittoria, Flamineo che, sperando di cattivarsi l'amicizia del duca, si presta all’ignobile misfatto. Lo aiuta così a sedurre  la sorella Vittoria e combina con lui il piano per sbarazzarsi del marito Camillo e della moglie Isabella. Flamineo tende un tranello a Camillo che muore, mentre il duca stesso avvelena la moglie Isabella, facendo perfidamente avvelenare le labbra di un suo ritratto: in sua assenza, la fedele e innamorata Isabella bacia l’effige dello sposo e muore. Ma il popolo indignato chiede si faccia luce su questi efferati delitti: Vittoria viene così accusata di adulterio e di omicidio e condannata, ma  all’ improvviso appare il duca che la trae in salvo facendola sua sposa. Il duca di Firenze nell’intento di vendicare l’assassinio della sorella Isabella, manda due suoi sicari a uccidere Flamineo (che aveva ucciso il fratello minore per un diverbio quasi sotto gli occhi della madre) e Vittoria, mentre il duca di Bracciano muore avvelenato.

 

 

JOHN LYLY

CREA L’EUFUMISMO

E FRANCIS BACON

 ISTITUZIONALIZZA L’ IPOCRISIA

 

 

J

ohn Lyly (1554?-1606) rappresentante del platonismo derivato da Marsilio Ficino per la sua opera (1579) “Eufue o l’Anatomia dello spirito” (Euphues, or the Anatomy of Wit),  seguito (1580) da “Eufue e la sua Inghilterra” (Euphues and his England), aveva tratto ispirazione dal Filocolo del Boccaccio e dai libri cortesi e d'amore del  Cinquecento italiano.

La trama del racconto è un pretesto per discussioni di platonismo corrente di tipo concettista, che nel Cinquecento veniva insegnato nelle nostre accademie, e, senza portare contributi di pensiero, serviva nella conversazione e nella galanteria.

Con intenti moralistici, Lyly descrive le avventure di un giovane ateniese, Eufue, nella corrotta Napoli: il riferimento di Lyly è agli studenti di Oxford nella corrotta società degli inglesi italianazzati di Londra, che Lyly accusa di irreligione e di immoralità.

Nel seguito, Eufue col suo amico Filauto (Philautus), un italiano incontrato a Napoli nella prima parte dell'opera, giunge in Inghilterra, e seguono le loro avventure. Eufue tornato in Grecia scrive una lettera alle dame d'Italia, rappresentata ne “Lo specchio di Eufue per l'Europa” (Euphue‘s  Glass for Europe), in cui descrive l'Inghilterra, le sue istituzioni, le sue dame, i suoi gentiluomini, la sua regina, con elogio di tutto ciò che sia inglese contrapposto all'attacco contro l’italianismo della prima parte del romanzo.

L’eufumismo di Lyly  aveva tratto ispirazione dall’ “alto estilo” (alto stile) dello  spagnolo Antonio de Guevara (1480?-1545?), autore del “Libro aureo dell'imperatore Marco Aurelio(Libro llamado Relox de prèncipes o Libro àureo del emperador Marco Aurelio) (1) e dal libro “Il Maestro” di  Roger Ascham (1515-1568) (2).

L’eufumismo di Lyly trova il suo cultore in Francis Bacon (3), che nei “Saggi” (Essay or Counsels Civil and Moral), di “consigli civili e morali  ne raccoglie inizialmente 28 (i primi dieci pubblicati nel 1597), aumentati a 38 nell'edizione del 1612 e portati infine a 58.

Nel 1638 apparve una traduzione latina, dovuta tutta o in parte a Bacone stesso, col titolo “Sermones fideles sive interiora rerum”.

A parte il pregevole contenuto di questi Saggi, essi hanno impresso un segno indelebile alla letteratura inglese, la cui tradizione saggistica continua ancora oggi, in una lingua che tende alla semplicità e quasi diventa secchezza, col risultato della “frase breve,incisiva e di effetto” (che trova un tipico esempio nelle celebri frasi  lapidarie di Oscar Wilde).

Accanto a queste doti stilistiche positive, trovano riscontro aspetti negativi propri dell'epoca: di eufuismo, inteso come ipocrisia morale (di cui ne abbiamo avuto  un esempio, come si è visto, nella stessa vita della Corte elisabettiana) e di poesia “trascendentale”, con tendenza alla stravaganza.

Bacone, non si sottrae alla “ipocrisia morale” dell’epoca: era infatti uomo di mondo, avido di onori e di successo sociale, e l’intento dei suoi saggi è quello di offrire  consigli civili e morali” con un fine utilitaristico di saggezza facile e di comune esperienza di vita (seppur fondate su testi e tesi autorevoli), con cui dà norme di comportamento per  ben riuscire nella vita.

Dopo Lyly è Francesco Bacone a istituzionalizzare l’ipocrisia in quanto egli insegna che  i mezzi principali per agire, sono quelli di riscuotere la fiducia degli altri”, finendo col consigliare di “essere abitualmente riservati in modo da esser capaci di fingere quando non se ne possa fare a meno”.

Egli poi suggerisce la sobrietà e la dignità, disapprovando i balli e le recite mascherate  che ritiene essere  giochi indegni di gente seria; ma, poiché a corte recite mascherate e non e balli non mancavano, aggiunge... “poiché piacciono ai principi, siano almeno eleganti e variopinti”!

E così continuando, non fa altro che dar valore alla esteriorità... e alla ipocrisia, che in Italia si sviluppa con altri connotati! (4).

 

1) Il Marco Aurelio si compone di due parti che sono due opere a sé stanti: una biografia romanzesca dell'imperatore filosofo, e un trattato di etica politica nel quale è incorporata la narrazione.

E’ uno dei tanti trattati moralistico-politici in cui il realismo di Machiavelli è sostituito da una apparente concezione del monarca, umanistica e cristiana.    

Fingendo di tradurre un vecchio manoscritto fiorentino, dove si trovano inserite immaginarie lettere di Marco Aurelio, Guevara ragiona sul principe cristiano (libro 1º), sul suo modo di comportarsi nei confronti della moglie e dei figli (libro 2º), e sul suo modo di esercitare il governo (libro 3º).

Lo stile dell’opera è quello classico dell’epoca barocca, la cui prosa è legata a una ampollosa retorica e alla erudita interpretazione di luoghi e ricordi classici. Segue una trama di invettive, lunghi discorsi in forma epistolare, dove si parla della pace e della guerra, del sentimento naturale della giustizia, intercalata da  aneddoti, tra i quali il famoso “Villano del Danubio”, che protesta presso il senato di Roma, rivendicando i diritti naturali dell'uomo.

L’opera fu tradotta in inglese da John Bourchier, Lord Berners (1469?-1533) e pubblicata nel 1534, ebbe una influenza determinante sul barocco inglese e sull’ “eufuismo” che Lyly, come abbiamo visto,  aveva sviluppato.

Una insolita opera legata all’eufuimismo è “La nobile arte (The Gentle Craft). di Thomas Deloney (1543?-1600?), pubblicata nel 1598, costituita da una serie di novelle, dedicate all'arte del calzolaio, in cui Deloney passa in rassegna i calzolai famosi della leggenda e della storia.

La corporazione era allora molto popolare in Inghilterra, i cui componenti erano noti per le ballate che componevano, ove narravano i fatti dei loro colleghi antichi e contemporanei, e i viaggi che facevano, per vendere le loro mercanzie. Iniziando da san Ugo, martire sotto Diocleziano, Deloney passa a san Crispino, santo dei calzolai, perseguitato dall'imperatore Massimino; a Simon Eyre, calzolaio che al tempo di Enrico VI divenne sindaco di Londra e fondò il mercato del cuoio di Leadenhall e istituì, diventando così popolare, un giorno di ferie per i suoi colleghi, ai quali, in quell'occasione, era offerto un rinfresco; a Riccardo Castelar, che al tempo di Enrico VII morì ricco,  lasciando il suo patrimonio ai poveri e agli ospedali.

Altre storie sono quella di Mastro Peachey e i suoi uomini, dove è vivacemente narrata una solenne bastonatura che il calzolaio infligge a insolenti cortigiani e si racconta come Tom Drim, uno dei lavoranti del Peachey, fosse respinto da una vedova; e quella di Tom Now-Now, calzolaio e menestrello.

In tutte queste storie si intrecciano incidenti, scene dal vivo di figure, di amori popolari con serve d'osteria, di rapporti tra padroni e lavoranti con descrizioni della vita degli operai, durante il lavoro e nei divertimenti. Particolarmente nelle prime storie, Deloney tende all'Eufumismo che espone in uno stile ricco, con metafore, e di greve eleganza. Ma nelle scene più popolari diventa agile e gaio. Fra i narratori elisabettiani è il più sciolto e il suo dialogo è il più naturale e il più realistico. Diversi da quelli di Thomas Nashe, i suoi eroi non sono tipi da romanzo picaresco, ma operai ai quali Dekker si ispirò nella sua “Festa dei calzolai”.

2)  Roger Ascham (1515-1568), precettore della principessa Elisabetta, aveva scritto “Il  Maestro” (The Scholemaster), pubblicato postumo (1570), uno dei più venerati trattati di educazione del Rinascimento inglese. Il testo aveva avuto origine da una discussione avvenuta durante un pranzo con il ministro William Cecil (nel 1563), mentre la Corte si trovava a Windsor per sfuggire alla peste di Londra. La discussione si era aggirata soprattutto intorno ai metodi educativi dell’epoca, e la prima parte costituisce una denuncia dei difetti di quella educazione, dovuti soprattutto alla durezza della disciplina punitiva, alla incomprensione dei maestri, ai genitori che mandavano i figli a Corte dove  apprendevano a vivere pigramente e a darsi al gioco. Asham considerava anche i viaggi fonte di corruzione, particolarmente quelli in Italia, da dove il giovane ritornava con concezioni errate in fatto di morale, di politica e di religione. Ascham, tuttavia, aveva tenuto a precisare  che le sue idee sui pericoli dei viaggi non erano suggerite dal disprezzo per le lingue straniere, e, visto che non aveva molto elogiato l’Italia, della lingua italiana, che egli, dopo la lingua greca e  latina, amava e gli piaceva  sopra ogni altra. Riteneva invece che la lettura dei libri poteva dare  quel compimento che si cercava nel viaggio. Anche i libri in voga non trovavano la sua completa approvazione, e condannava la immoralità dei romanzi cavallereschi compresa la “Morte di Arthu”  di Thomas Malory. Questa era un’opera corposa di ben ventun libri, diviso in tre parti  (scritta nel 1470), che  rappresentava la traduzione e fusione  delle varie leggende di re Artù e di Lancillotto. Thomas Malory era un gentiluomo di Warwikshire, il quale,  dedito a una vita avventurosa fatta di violenze e ruberie, finì in prigione dove morì dopo aver portato a termine, in quindici anni di lavoro,  il suo libro dal quale molti scrittori attinsero, compreso Spenser per il libro sulla Regina delle Fate.

“Il Maestrooccupa  un posto centrale fra “Il Governante di Thomas Elyot e l’ “Eufue, dal quale Lyly prende il nome dell'eroe dei suoi romanzi.

3) Francesco Bacone (1561-1626) era  nipote del ministro (Segretario di Stato e Lord tesoriere) William Cecil (Lord Burghley), il maggiore statista dell’epoca elisabettiana. Considerato da chi segue la poco storica linea esoterico-massonica degli Iniziati, figlio naturale della (sterile) regina Elizabetta e Lord Leicester e considerato quindi, il legittimo erede al trono di Inghilterra. Quando fu bandito dalla regina, egli si recò in Francia e fece parte della  società segreta di scrittori, le “Pleiadi”,  che aveva per fine il perfezionamento della lingua francese. Più tardi Bacone avrebbe fondato simili società Inghilterra,  migliorando la lingua inglese con la traduzione della versione della Bibbia “King James” e sempre secondo la linea esoterica, sarebbe stato lui l’autore delle tragedie di Shakespeare, che conterrebbero, in codice, la storia della sua vita e gli insegnamenti della “Fratellanza Bianca Universale”.

Bacone è da considerare il padre dell'empirismo inglese e progettò una riforma di tutte le scienze con La grande restaurazione (Instauratio magna), concepita secondo un piano generale di riforma della scienza di cui furono eseguite solo alcune parti. Delle sei sezioni previste ne apparvero solo due complete e una terza incompleta. La prima, costituita da “Dignità e progresso delle scienze” (De Dignitate et augmentis scientiarum); la seconda Novum Organum Scientiarum  pubblicate postume col titolo di “Sylva Sylvarum”,  che lo pongono come l’iniziatore della scienza moderna.

Della terza non rimangono che materiali relativi alla filosofia naturale che furono la “Nuova Atlantide” (New Atlantis) scritta intorno al 1621 poi tradotta in latino (Nova Atlantis), rimasta frammentaria, ricca di echi rosacrociani (come aveva scritto Yates), in cui  mostrava, in una specie di romanzo scientifico utopistico, uno Stato ideale con una società in cui si studiasse nel migliore dei modi la natura, a beneficio dell'umanità. Il titolo richiama l’Atlantide di cui parla Platone nel Timeo e nel Crizia, che sarebbe scomparsa in seguito a un cataclisma (e ancora oggi, dopo oltre duemila anni sta facendo impazzire gli studiosi che non riescono a individuarla!).  

L'opera è svolta in forma di narrazione:  durante  un viaggio dal Perù alla Cina e al Giappone in seguito all'approdo forzato, su un’ isola dove si trova la città-stato ideale di Bensalem, in cui vive una comunità cabbalistico-cristiana  appartata dal resto del mondo, per condurre una vita saggia, non turbata da relazioni con altri popoli; essa aveva come simbolo una croce rossa e il nome di Gesù e praticava, non una comune filosofia cristiana ortodossa, ma la filosofia occulta, sospettata di magia costituita dalla scienza baconiana.

Nell'isola vi è una “Casa di Salomone”, o “Collegio dell'opera dei sei giorni”, che cura gli studi e le ricerche. Ogni dodici anni vengono inviati nei paesi esteri dei dotti e ricercatori, incaricati di svolgere in incognito una missione di ricerca, al fine di riportare nell'isola la notizia di tutte le scoperte che fossero state fatte nei paesi visitati e di cui fossero venuti a conoscenza. Scopo della “Casa” è quello di estendere la conoscenza dei fenomeni naturali e il potere dell'uomo. In essa vengono riuniti tutti i mezzi possibili per raggiungere questo scopo, atti alle esperienze più svariate, dall'esame del sottosuolo a ciò che vi è di più alto, dall'allevamento di animali e piante, alla preparazione delle più varie bevande e allo studio di fenomeni termici e luminosi.

Bacone con quest’opera vuole attuare l’idea espressa ne “La grande restaurazione” esprimendo, in forma, in parte mitica e in parte mistica, le aspirazioni proprie  di quell'età di una società in cui fosse la ragione a dominare in un mondo nel quale unica legge fosse quella della  natura appena  ritrovata dall’Umanesimo.

La massoneria e i rosacrociani, ritengono che Bacone avesse fatto parte del comitato fondatore dell’ Ordine Massonico e avrebbe patrocinato la Società dei “Rosa Croce”, vale a dire dell’Ordine rosacrociano originale, che non lo considera morto nel 1626, ma che ritiene che egli si fosse finto morto, assistendo anche ai suoi funerali, trasferendosi  nel ritiro di Rakoczy (in Transilvania) per ricevere l'iniziazione finale.

4) La tradizione italiana della ipocrisia è più consolidata, con radici che affondano nel cattolicesimo e nella fanatica repressione operata dalla Santa Inquisizione (con grandi esempi in Leonardo che scrive all’inverso con grafia speculare (...non solo perché è mancino!), o Galileo che ritratta ma poi sussurra, se è vero che l’abbia pronunciata, la frase “eppur si muove”!) .

Nella stessa epoca (1641) appare un “trattatello di arte della prudenza” di Torquato Accetto (sec. XVII) intitolato “Della dissimulazione honesta” col quale l’autore napoletano, non affronta direttamente la “ipocrisia  (generalmente conosciuto sotto questo aspetto) ma egli non affronta direttamente l’argomento, se ne tiene alla larga, ma più sottilmente, possiamo dire in maniera “bizantina”  - del riconoscere...ma non troppo! - ... come siamo abituati in Italia -; da qui il titolo (e le argomentazioni) sulla  dissimulazione onesta”  che Accetto  definisce “la dissimulazione è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello che è” (e si riporta a Virgilio, e ad altri autori risalendo ad Aristotele) da cui cerca di tener lontana la forma più grave della “ipocrisia vera e propria” che porta alla “menzogna”. La sua “dissimulazione”, è più sottile ed è quella alla quale è necessario ricorrere nelle relazioni sociali, come egli dice “a fin di bene”. Per questo motivo egli suggerisce l’antico  detto “qui nescit fingere, nescit vivere”, chi non sa fingere non sa vivere. Accetto conclude con un interrogativo che è un bell’esempio  che giustifica la sua “dissimulazione onesta”,  che per lui è un accorgimento onesto e non cattivo, perché dà quiete all'animo, impedisce o almeno limita le cattive azioni alle quali conduce questo mondo fatto di corruzione  (e magari fosse così visto che ai tempi attuali la corruzione ha raggiunto limiti insopportabili...e chi se ne lamenta è tacciato di essere falso moralista! ndr.): “Quando un che doverebbe perire di fame ha fortuna di poter dar il cibo a molti, quando un ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno ha qualche degnità e quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe vivere se tu non accommodassi i sensi a così duri oggetti?” Come dire, siate ipocriti, ma con giudizio!

 

 

LA MAGIA

NELLE TRAGEDIE DI

WILLIAM  SHAKESPEARE

 

 

Frances Yates seguendo il filone magico, ha dato una nuova chiave di lettura alle tragedie shakespeariane, sostenendo che sulla dimensione esoterica di Shakespeare si aprono molteplici e affascinanti prospettive  di ulteriori ricerche, rammaricandosi di non aver potuto andare oltre nei suoi studi, come per esempio non ha potuto approfondire la figura del “frate rinascimentale” di “Giulietta e Romeo(1) .

Ci auguriamo che questi nuovi orizzonti tracciati dalla Yates non siano lasciati “unica vox” e siano proseguiti da studiosi delle nuove generazioni. Noi, nel nostro piccolo, rendiamo omaggio alla storica riprendendo ciò che essa ha scritto nelle sue opere (riportate a fine articolo).

La produzione di Shakespeare (*), scrive Yates, si svolge nell’ultimo ventennio tra ‘500 e ‘600, epoca in cui si era sviluppato il feroce attacco contro il neoplatonismo rinascimentale che aveva avuto come vittima illustre Giordano Bruno. E così l’autrice passa in rassegna le tragedie in cui essa trova riferimenti a noti personaggi storici.

Nel Re Lear Yates trova rispecchiata la figura di John Dee in povertà e disgrazia presso la regina, vecchio, sfinito e mal ricompensato pur avendo dedicato la sua vita alla monarchia britannica, con allusioni al suo occultismo, attraverso le presunte possessioni diaboliche di Tom o’  Bedlam. 

In questa tragedia (scritta dopo  la morte di Elisabetta), la storia di re Lear, delle sue figlie e della fedele Cordelia (ripresa dalla Cronaca britannica della Faerie Qeene di Spenser), costituisce il preliminare storico di Gloriana (Elisabetta) e del suo mondo messianico.

Nella Cronaca britannica si parla della leggenda della discendenza da Bruto  dei re britannici, adattata al regnante Giacomo I.

Con la figura di Tom o’ Bedlam, che gesticola accanto a Lear sulla landa battuta dalla bufera, Shakespeare introduceva il tema della demonologia in uno scenario melanconico. La cosa straordinaria, scrive Yates, è che questi demoni nella notte di re Lear sono delle finzioni: Tom o’ Bedlam in realtà è Edgardo travestito che simula la possessione demoniaca

Ne “La Tempesta”  scritta anche dopo la morte di Dee, egli è adombrato nella figura di Prospero presentato come un mago buono  in un tempo in cui la pratica della magia era considerata come un capo di accusa  della propaganda reazionaria.

In quest’opera troviamo il mago Prospero  evocatore di spiriti che riflette  l’influenza del “De occulta philosophia” di Agrippa (messo in luce, precisa Yates, da Franke Kermode nel 1954). La magia di Prospero, prosegue Yates,  è magia bianca, sottolineata dall’enfasi della castità contenuta nei consigli di Prospero all’amante di sua figlia e in altre parti dell’opera. La magia bianca nobile, intllettuale e pura di Prospero è contrapposta alla magia nera, vile e sozza, della strega malvagia Sicorace e di suo figlio. Prospero usa “De occulta philosophia” per evocare gli spiriti buoni  (il nome di Ariel è menzionato nel libro di Agrippa) e prende il sopravvento e il controllo sulla cattiva magia della strega.

Il linguaggio della Tempesta, scive Yates, “è completamente impregnato di spirito alchemico e della relativa idea di trasformazione” (citando i versi: A ben cinque tese sul fondo giace tuo padre. Di coralli son fatte le sue ossa - Full fathom five the father lies. Of his boues are coral made), concludendo, scrive Yates: “Per quanto Shakespeare non abbia mai impugnato una bacchetta, nè pensato se stesso come mago egli è un mago,  maestro dell’uso incantatore delle parole e della poesia come magia. Questa fu l’arte in cui eccelse e  che Prospero simboleggia.

E Yates non si ferma qui e si chiede:- Di che genere è la magia di Prospero?

E risponde: Il problema è stato molto discusso negli anni recenti e non espongo nulla di sorprendente  osservando che Prospero, come mago sembra agire sulla falsariga del famoso manuale di magia del Rinascimento di Cornelio Agrippa, il “De occulta philosophia” (v. sopra). Per primo Frank Kermode, nella edizione Arden (1954) ha indicato Agrippa come ispiratore dell’arte di Prospero. Prospero in qualità di mago, dice Kermode, esercita una disciplina basata sulla su una virtuosa conoscenza; la sua arte è la conquista  di “un intelletto puro e alleato ai poteri degli dei  senza i quali (e quì Kermode cita direttamente da Agrippa) non giungeremo mai felicemente a scontare le cose arcane e a compiere opere prodigiose” .

In breve, conclude Yates Prospero ha appreso quella “occulta philosophia” insegnata da Agrippa e sa come metterla in pratica. Inoltre, come Agrippa, Shakespeare chiarisce assai bene nella “Tempesta” come la nobile intellettuale , virtuosa magia del vero mago sia del tutto diversa dalla vile, e sozza stregoneria e negromanzia. Prospero è agli antipodi della strega Sicorace e del suo malvagio figliolo. In verità Prospero, in quanto mago buono ha una missione riformatrice: egli purifica il mondo della sua isola dalla perfida magia della strega, ricompensa i personaggi buoni e punisce i malvagi. E’ un giudice equo o un sovrano virtuoso e riformatore che si avvale dei suoi poteri magico-scientifici a fin di bene. Il trionfo di una riforma liberale e protestante in Enrico VIII ha il suo corrispettivo nel La Tempesta, nel trionfo di un mago riformatore nel mondo fantastico dell’isola incantata. E qual’è il sistema intellettuale entro cui funziona la magia. E quì Yates introduce  il concetto sviluppato da Agrippa dell’ Universo diviso in tre mondi: il mondo  degli elementi della natura terrestre; il mondo delle stelle; il mondo sovraceleste degli spiriti o intelligenze  o angeli. La magia naturale agisce nel mondo degli elementi; la magia celeste, agisce nel mondo delle stelle; la magia religiosa agisce nel mondo sovraceleste  degli spiriti e intelligenze che possono essere evocati dal mago nobile (sopra, nota 7 par Il Neoplatonismo ecc., abbiamo fatto riferimento alle evocazioni di John Dee nda), i nemici di questo  genere di evocazione la chiamarono “evocazione diabolica” a causa del pericolo di evocazione degli spiriti maligni o demoni invece degli angeli. Prospero ha il potere evocatore e compie le sue invocazione  ma per mezzo del suo spirito, Ariel che egli evoca a suo piacimento. Prospero, dice Yates, tra la magia e la cabala, di Agrippa,  sembra usare la magia evocatrice cabalistica, piuttosto che la magia risanatrice di Cerimone o la profonda magia naturale che pervade “Il racconto d’inverno”. E’ inevitabile, conclude Yates pensando a Prospero ricordare John Dee, proseguendo sulla figura e sulla prefazione all’Euclide di cui abbiamo parlato a proposito dello sfortunato  Dee.     

Nel “Mercante di Venezia” si avverte l’influenza della cabala cristiana  di Francesco Giorgi. Le fate di Shakespeare  sono affini  alla “Regina delle Fate per la loro lealtà e per la fervida difesa della castità.

Le fate, nelle “Allegre comari di Windsor”, contengono riferimenti alla regina, all’Ordine della Giarrettiera e alla Cappella della Giarrettiera a Windsor.

Le fate sono utilizzate  per indicare una morale di castità e puniscono  Falstaff per la sua lussuria, scrivono con i fiori il motto dell’Ordine della Giarrettiera (Honny soit qui male y pense) e ne decorano la Cappella; sono le paladine della pudicizia, di una regina casta e della sua pura cavalleria; hanno il compito  di operare la magia bianca  per salvaguardare la regina e il suo ordine cavalleresco dagli influssi malefici.

Le fate elisabettiane, precisa Yates, non sono di derivazione folcloristica popolare, ma derivano dalle leggende arturiane e dalla magia bianca della cabala cristiana.

Yates trova che la maggior espressione del  mondo fatato di Shakepeare, si riscontra nel Sogno di una notte di mezza estate, (ripreso, come già detto, da The Discovery of Witchcraft  - La scoperta della stregoneria - di Reginald Scot), dramma magico sugli amanti incantati ambientato nel mondo notturno rischiarato dalla luna, dove le fate sono al servizio di un re e di una regina fatati. In esso si trova abbozzato il ritratto di Elisabetta descritta come vergine vestale con una casta Luna che sconfigge gli assalti di Cupido: “l’augusta vestale” è la sintesi del culto di Elisabetta quale emblema della “riforma imperiale” (v. sopra).

La metafora di Elisabetta vergine, prosegue la Yates, è rappresentata  nel famoso ritratto  di Elisabetta col setaccio dai ricordi petrarcheschi, che rappresenta la castità della Vergine vestale Tuccia del Trionfo della Pudicizia (dei Trionfi); sul setaccio vi è l’iscrizione “A terra il ben mal dimora in Terra”; dietro di lei (non visibili nella nostra riproduzione) si erge la colonna con alla base una corona imperiale e la scritta “Stancho riposo e riposato affanno”; il globo al suo fianco mostra le isole britanniche che alludono alla sua investitura regale in terra d’occidente, secondo la descrizione di Shakespeare (...Cupido armato d’arco, ed ecco puntarlo su una vestale, bella sul trono, in terra d’occidente. Scoccò il dio fanciullo...ed ecco vidi il suo strale fiammeggiante trascolorare ai casti  raggi della rorida luna e l’augusta vestale passar oltre  tutta assorta nei suoi vergini pensieri, intatta ); il globo reca il motto “Tutto vede e molto mancha” . Dietro la regina, alla sua destra, sulla colonna vi sono nove medaglioni che raccontano la storia di Didone e Enea, con, dal basso, sulla corona imperiale, da destra verso sinistra Enea che fugge da Troia; l’arrivo dei troiani a Cartagine;  l’incontro di Enea e Didone nel tempio di Giunone. La serie superiore mostra Enea e Didone insieme; il banchetto durante il quale si innamorano, con il suonatore d’arpa cieco, Iopa in primo piano; Didone e Enea mentre cacciano; l’ultima serie mostra Mercurio mentre annuncia a Enea che deve partire: Didone sul rogo: la partenza dei troiani. Sullo sfondo cavalieri che (secondo Yates) potrebbero essere impegnati a scacciare il dominio del male sul mondo, istituendo il governo del puro impero della casta Vergine Imperiale.

In “Pene d’amor perdute” Shakespeare fa riferimento innanzitutto alla “School of Night-Scuola della notte” che, come accennato sopra, nell’epoca elisabettiana vedeva riuniti matematici, poeti, filosofi dediti allo studio della cabala proveniente dall’opera di Chapman  “The Shadow of the Night” (Lo Spirito della Notte) in cui si allude, come ritiene Yates, alla malinconia  ispirata (v. sopra in Melancolia di  Dürer) che costituisce un trattato essenziale della trama principale in cui Byron rappresenta il saturnino  buono e la bruna Rosalina, nera come la pece, rappresenta il “furor ispirato” (vale a dire la malinconia).

In “Come vi piace”  è richiamata la teoria di Cornelio Agrippa sulla melanconia, in cui troviamo Jaques (che nel nome evoca Aiax), l’emblema  della follia melanconica. Egli nella foresta di Arden osservando le scene di vita dell’uomo, dalla culla alla tomba, ha l’ispirazione dettata dalla malinconia, quella di voler fare la morale ai tempi ed è prossimo alla follia, perchè, come ha imparato dal buffone “Pietra di paragone”, la libertà del pazzo è quella di dire ciò che pensa, l’ispirazione della malinconia è quella di dire la verità .

Il personaggio preannuncia il più famoso melanconico di tutti i tempi, “Amleto”, il principe di Danimarca.

La tragedia si apre nella più profonda oscurità della notte con un’apparizione spaventosa: lo spettro del padre. L’atmosfera occulta, scrive Yates, ha una forte intensità. Nella notte tenebrosa Amleto è combattuto  da melanconici problemi  e la Yates si chiede: la sua è l’ispirata melanconia che dona l’ispirazione poetica rispetto a una situazione infelice e gli dice come comportarsi rettamente e profeticamente in tale situazione? O si tratta di un sintomo di debolezza simile alla melanconia delle streghe, che lo rende piegato alla possessione diabolica e all’inganno di spiriti maligni? Questi, dice Yates, erano gli interrogativi posti da Amleto ed erano i problemi che infuriavano a quel tempo.

In  “Machbeth” infine, scritto dopo la morte di Elisabetta, il mondo di Machbeth e della moglie è veramente una “Scuola della Notte” dove le streghe incitano all’assassinio. La profonda condanna di questo atto è proclamata a suon di tromba dagli angeli e dai “celesti cherubini” la cui armonia universale si ode soltanto nella forma del giudizio e la magia che precorre il dramma è la magia cattiva e la negromanzia è quella malefica.

“Cimbelino”,  sebbene abbia un lieto fine, fu stranamente inserito dagli editori nelle tragedie: il racconto è romanzesco, un masque, in ogni caso si tratta di storia britannica che ricorre nella “Storia dei re di Britannia” di Goffredo di Monmouth (v. sopra), come predecessore di re Artù (allo stesso modo di re Lear, v. sopra), da cui Shakespeare ne prende i soggetti, i due figli di Cimbelino,  Guiderio e Arvirago, lasciandosi poi guidare dalla sua fervida fantasia.

Il regno di Cimbelino, ci dice Yates, come riferisce Spenser in “Faerie Queene” (v. sopra), era coinciso con quello contemporaneo di Augusto a Roma, sotto il quale era nato Cristo e nella sua storia Shakespeare trova elementi capaci di esprimere i presagi di un nuovo mondo spirituale, in cui si preannuncia una nuova rivelazione, simile alla rivelazione di Cristo.

La scrittrice sottolinea che Shakespeare “attinge a quei filoni di pensiero che seguivano l’interpretazione tradizionale della idea imperiale secondo la quale l’Impero romano fu santificato e cristianizzato perché Cristo aveva scelto di nascere sotto il regno dell’imperatore Augusto”, aggiungendo che “la justitia e la pax  universale e imperiale, furono santificate grazie a quella nascita e attraverso l’interpretazione della profezia di Virgilio (IV ecloga) riferita sia alla pace, sia alla giustizia  dell’età aurea di Augusto, sia alla nascita di Cristo, Principe della Pace, avvenuta in quel tempo”.  

“Questa interpretazione cristianizzata dell’impero, spiega Yates, e il simbolismo che la accompagnava, erano noti nell’Inghilterra dei Tudor, costituendo parte integrante della propaganda per il monarca che aveva attuato la riforma della Chiesa”.

 

1) Giulietta e Romeo. La trama della storia dei due amanti, prima di giungere a  Shakespeare che l’aveva resa immortale, aveva avuto un lungo percorso: ripresa da Luigi da Porto (1485-1529) dal “Novellino” di Masuccio Salernitano (sec. XV), essa si svolgeva a Siena. Luigi da Porto su quella trama, aveva scritto (1524) “Giulietta e Romeo” cambiando così i nomi originari di Giannozza e Mariotto  e trasportando il racconto a Verona, con due redazioni di quest’opera, una intitolata “Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti” e l’altra “Historia di due amanti”, la cui storia è ambientata al tempo della signoria di Bartolomeo della Scala (1300-1304) e sulla base del verso di Dante (che era stato ospite proprio di Bartolomeo)  vieni a veder Montecchi e Cappelletti” (Capuleti), alle quali era stata attribuita la sanguinosa rivalità,  in cui era stato inserita la storia d’amore l’amore di Giulietta per Romeo. Matteo Bandello (1485-1561) tra le sue Novelle aveva riportato il racconto di Luigi da Porto e Pierre Boisteau (1485-1561) lo aveva a sua volta divulgato e la sua versione fu introdotta in Inghilterra,inserita nei racconti del “Palazzo del Piacere” di William Painter (v. sopra nota 1, par. Il neoplatonismo italiano ecc.)  e liberamente interpretata da Arthur Brooke nel poema “The tragic History of Romeo and Juliet”  (1562), da cui  Shakespeare aveva ripreso il racconto (1591/95).

*) Ci sembra il caso di riferire, per mera curiosità, che della genialità di Shakespeare, anche nei secoli successivi, nessuno ha mai avuto dubbi. L’unico ad averlo criticato con il suo innato sarcasmo, è stato il benamato e ammirato Voltaire, il quale aveva, sebbene inutilmente, scritto (1776) all'Accademia di Francia, perché impedisse la stampa della traduzione del teatro shakespeariano, condotta da Le Tourneur, dando di Shakespeare la famigerata definizione (che a noi fa solo sorridere) di “selvaggio ubriaco” e “barbaro istrione”.

Contro Voltaire si era scagliato il letterato italiano Giuseppe Baretti (1719-1789) che  conduceva rivista “La Frusta Letteraria”, il quale indignato, replicò con un libro di quasi duecento pagine  Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire” con cui difendeva il genio shakespeariano nella sua libertà espressiva e nella sua irrazionalità, che lo rendevano incomprensibile al gusto classicheggiante francese, legato ai canoni classici di Omero, Corneille e Racine ed essenzialmente letterario e razionalista, del quale Voltaire era l'erede. Baretti col suo libro esordisce raccontando un aneddoto di Voltaire che dice a una signora che le opere di Shakespeare sono un enorme letamaio e la signora avrebbe risposto che con quel letame era stata fertilizzata una Terra piuttosto ingrata.

Voltaire, com’è noto, si aspettava fama e onori (che nella sua epoca non gli erano mancati), con le sue opere teatrali, pur ammirate nel suo secolo, ma dimenticate nei secoli successivi. Il suo errore era stato quello di non essersi reso conto che mentre i suoi canoni erano legati alla classicità del passato (mirava a raggiungere Racine e Corneille), Shakespeare stava correndo verso il futuro. La modernità di Voltaire e la sua fama immortale è  derivata dalle opere filosofiche alle quali non aveva dato nessuna importanza e che scriveva come “divertissement”.... che ha offerto  a noi e continuerà a dare nei secoli futuri.

 

 

CONFERENZE

SULLA LETTERATURA DRAMMATICA

 DELL’ETA’ ELISABETTIANA

 DI WILLIAM HAZLITT

 

Chiudiamo l’argomento con il riferimento a un fondamentale e famoso testo della Letteratura Inglese, che purtroppo nessun editore italiano (per imprescrutabili motivi la cui comprensione sfugge ai comuni mortali) si è mai sognato di tradurre: è il testo delle Conferenze sulla Letteratura Drammatica dell’età elisabettiana (Lectures on the Dramatic Literature of the Age of Elizabeth) del critico inglese William Hazlitt (1778-1830).  

Si tratta di una serie di otto conferenze (tenute nel 1820 alla Surrey Institution e pubblicate nello stesso anno), che non riguardano esclusivamente il teatro dell’epoca elisabettiana con la quale non si intende strettamente il periodo di regno di Elisabetta ma tutto il periodo che, iniziato dalla riforma protestante, si esaurisce nell’epoca di Carlo I e di Carlo II, e più precisamente fino alla chiusura dei teatri (1642): le conferenze infatti abbracciano tanto i primordi del teatro inglese quanto i successori di Shakespeare.

Esse non seguono uno stretto ordine cronologico:

Nella prima, di carattere introduttivo, l'autore insiste sull'elemento nazionale che si ritrova nella letteratura elisabettiana, mettendo in rilievo l'individualismo e il sentimento umano che da essa emergono e come la riforma servisse ad esaltarla, confutando il celebre detto di Samuel Johnson: “che gli elisabettiani fossero ricercati perché rari e che non sarebbero stati rari se fossero stati molto apprezzati dai contemporanei”.

Nella seconda, terza e quarta passa a trattare dei contemporanei di Shakespeare, da Lyly e Marlowe fino a Ben Jonson, Ford e Massinger.

Nella quinta, facendo un considerevole passo indietro, tratta delle origini del teatro inglese, parlando dell'intermezzo di John Heywood. “I quattro PP” (The Four PP), delle commedie anonime, “L'ago della comare Gurton” (Gammer Gurton's Needle) e “Il ritorno del Parnaso” (The Return from Parnassus), l'unica parte conosciuta allora della trilogia “Parnassus” venuta alla luce più tardi, e di altri drammi di epoche diverse come la commedia, pure anonima, “L'allegro diavolo di Edmonton” (The Merry Devil of Edmonton), e infine la rappresentazione morale “Lingua”, di Thomas Tomkis  (1607).

Nella sesta si occupa della poesia lirica e particolarmente di “William Drummond of Hawthornden”, di Ben Jonson, di Robert Herrick e di Andrew Marvell e del romanzo pastorale-cavalleresco di Sir Philip Sidney, “Arcadia”.

Nella settima illustra l'arte di Bacone, di Sir Thomas Browne e di Jeremy Taylor; nell'ultima infine, per concludere, Hazlitt paragona lo spirito della letteratura antica con quello della letteratura moderna e il teatro tedesco con quello elisabettiano.

E’ da dire che in effetti l’unico autore elisabettiano che Hazlitt conoscesse intimamente era Shakespeare, al quale aveva dedicato degli studi sui “Caratteri dei Personaggi delle opere di Shakeseare” (Characters of Shakespeare's Plays) (1), rivaleggiando non tanto con Coleridge, di cui ignorò completamente le conferenze, quanto con August Wilhelm Schlegel.

Hazlitt, sia nell’uno sia nell’altro testo non si curò di fare critica storica o filologica, ma mirò alla loro divulgazione, facendo così conoscere gli autori elisabettiani, illustrandone le caratteristiche e mettendone in rilievo i passi più belli o più significativi.

Tutto ciò non era molto diverso da quanto Charles Lamb aveva inteso fare dodici anni prima con i suoi “Esempi dei poeti drammatici inglesi” (2). Anche con i giudizi di Lamb, Hazlitt si trovò assai spesso d'accordo e poiché la critica  elisabettiana era appena agli inizi, Hazlitt seguì il proprio gusto letterario che pareggiò quello di Lamb.

 

1) Hazlitt nei “Personaggi delle opere di Shakespeare (Characters of Shakespeare's Plays) del 1817, prendendo lo spunto dalla rivalutazione dell'opera shakespeariana compiuta in quegli anni da Schlegel, confuta i giudizi dati su Shakespeare da Johnson, incapace per forma mentale, di comprendere le variegate  sfumature delle sue opere, e si propone, esaminando particolarmente i drammi, di provare come ogni singolo carattere in Shakespeare sia individuale, come quelli della vita stessa, e sia impossibile trovarne due simili.

Egli incomincia con l'analizzare “Cimbelino”, in cui vede il più bel dramma storico di Shakespeare, accentrato intorno alla inalterabile fedeltà di Imogene. Poi rivolge speciale attenzione a quelle che sono generalmente stimate le quattro principali tragedie shakespeariane: “Re Lear”, superiore per profonda intensità della passione; l’immaginoso “Macbeth”, con la rozza austerità di un’antica cronaca, ravvivata dalla sbrigliata fantasia di un poeta; la bellezza di “Otello” che si dipana nelle possenti alternative del sentimento, e nella figura di Jago, esempio di morbosa attività intellettuale, unita a una perfetta indifferenza morale; in “Amleto” ammira il raffinato sviluppo del pensiero e del sentimento e il carattere del protagonista “fatto di linee ondulate” e “flessibile come un'onda del mare”; “Timone di Atene”, è l'unico dramma di Shakespeare in cui il sentimento dominante sia l'ipocondria; “Troilo e Cressida”, slegato e frammentario, contiene tuttavia molte cose belle per la fusione del ridicolo e dell'ironico, con il maestoso e l'appassionato. Nella “Tempesta”, caratteri umani e fantastici, drammatico e grottesco sono fusi con arte insuperabile. In Giulietta e Romeo, l'unico dramma shakespeariano interamente fondato su una storia d'amore, tutto parla l'ardente e sacro linguaggio della passione.

Hazlitt passa poi ad analizzare la serie dei drammi storici che danno uno splendido quadro del “buon tempo antico”. Analizzando poi le commedie shakespeariane, che Hazlitt definisce “commedie della natura” in contrapposizione alle commedie artificiali di Congreve e della sua scuola. Hazlitt osserva come “La notte dell'Epifania” sia una costante fusione di romantico e di entusiasmo, “I due gentiluomini di Verona  un abbozzo che contiene però passi altamente poetici, il “Racconto d'inverno”,  un insieme delizioso di passione tragica, dolcezza romantica e umorismo comico, “Tutto è bene quel che finisce bene” un'incantevole commedia tratta da una novella del Boccaccio. Nel “Mercante di Venezia” , Shylock  è un “robusto odiatore” e la scena del processo un capolavoro di abilità drammatica; “Le allegre comari di Windsor” sono amene, ma Falstaff (inserito nella commedia per espressa richiesta di Elisabetta) ha perduto in esse spirito ed eloquenza. Dopo qualche breve cenno alle altre commedie minori e ai poemi e sonetti, Hazlitt conclude che soltanto nelle opere drammatiche Shakespeare è grande, “perché soltanto rappresentando gli altri diveniva veramente se stesso”. In queste sue analisi, Hazlitt ci dà un esempio di filosofia della vita e della natura umana.

2) Charles Lamb (1775-1834), aveva raccolto e commentato con note critiche ed estetiche in “Esempi di poeti drammatici inglesi che vissero intorno all'epoca di Shakespeare” (Specimens of English Dramatic Poets who lived about the Time of Shakespear), una antologia di drammaturghi “elisabettiani”, di autori come Thomas Kyd, Christopher Marlowe, John Marston, Thomas Middleton, Cyril Tourneur, John Webster, John Ford, Philip Massinger, Beaumont e Fletcher, Ben Jonson e altri.

Charles Lamb è stato il primo autore a rivelare al pubblico la vasta produzione di tutto il periodo elisabettiano, rivelando le inaspettate bellezze di questi autori che, all’infuori di Jonson, Beaumont e Fletcher erano assolutamente sconosciuti. I suoi “brevi e succosi commenti”, pur non penetrando nello spirito delle opere, invogliano il lettore a conoscere l’intera opera di cui egli riporta l’estratto. L’opera segna una data importante nella critica romantica e nella storia della fortuna del dramma inglese

 

 

 

BIBLIOGRAFIA DI FRANCES YATES.

 

GLI ARGOMENTI DI RIFERIMENTO A FRANCES A. YATES  SONO STATI TRATTI DALLE OPERE: ASTREA: L’IDEA DELL’IMPERO NEL CINQUECENTO; CABBALA E OCCULTISMO NELL’ETA’ ELISABETTIANA; GIORDANO BRUNO E LA CULTURA EUROPEA DEL RINASCIMENTO; GIORDANO BRUNO E LA TRADIZIONE ERMETICA; L’ARTE DELLA MEMORIA; GLI ULTIMI DRAMMI DI SHAKESPEARE: UN TENTATIVO DI APPROCCIO. 

 

 

FINE