Elisabetta I - Ritratto del
Setaccio
Pinacoteca -
Siena
RINASCIMENTO MAGICO
ALLA CORTE DI ELISABETTA I
E NEL TEATRO
DI MARLOWE E SHAKESPEARE
OMAGGIO
A FRANCES YATES
(1899-1981)
(Estratto dagli
articoli “Carlo V tra Rinascimento, Riforma e Controriforma” e “L’Inghilterra
dai Tudor agli Stuart” di prossima pubblicazione)
di
Michele E.
Puglia
PREMESSA
IL REGNO DI ELISABETTA E L’IDEA IMPERIALE;
L’ESOTERISMO OCCULTO DI MELANCOLIA I DI ALBRECHT DÜHRER E IL TRATTATO DI ROBERT
BURTON;
JOHN CASE E L’ARISTOTELISMO DI OXFORD;
IL NEOPLATONISMO ITALIANO GIUNGE IN INGHILTERRA,
JOHN DEE;
E WALTER RALEIGH;
LA FILOSOFIA OCCULTA E LE TINTE FOSCHE DELLA LETTERATURA ELISABETTIANA: IL DOCTOR FAUSTUS DI MARLOWE;
JHON LYLY CREA L’EUFUMISMO E FRANCIS BACON ISTITUZIONALIZZA L’IPOCRISIA;
LA MAGIA NELLE TRAGEDIE DI SHAKESPEARE;
CONFERENZE SULLA LETTERATURA DRAMMATICA DELL’ETA’ ELISABETTIANA DI WILLIAM HAZLITT.
PREMESSA
S |
uccessivamente agli
studi condotti durante la prima metà del ‘900 dal gruppo di storici dell’arte
quali Erwin Panofsky (1892-1968), Edgar Wind (1900-1971), Fritz Saxl
(1890-1948), Ernest Hans Joseph Gombrich (1909-2001) (1) e la storica e
scrittrice Frances Yates che onoriamo con questo studio, quest’ultima si era
fatta portatrice della nuova chiave di lettura iniziata dai primi, della
storiografia dell’Arte e del Teatro.
Secondo G. Wind (Pagan Mysteries in the Renaissances),
gli artisti rinascimentali,
attraverso gli studi neoplatonici del ‘400 di Pico della Mirandola e
Marsilio Ficino (v. in Articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc., nella parte
dedicata agli “Umanisti maghi”),
che avevano studiato Platone attraverso gli ultimi esponenti del paganesimo
come, Plotino (205-270), Porfirio (233-305), Giamblico (250?-330), Plutarco di
Atene, (da non confondere con lo storico) (IV-V sec.), e Proclo (412-485), e
attraverso gli stessi studi condotti su Ermete Trismegisto (che non era il
personaggio mitico contemporaneo di Mosè. che si credeva fosse l’autore del Corpus Hermeticum, proveniente dall’Antico Egitto, ma in effetti
un autore cristiano del IV sec.d.C.), avevano tratto notizie su misteri,
riti di iniziazione e magici che avevano poi trasfuso nelle loro opere d’arte di
quel periodo, che portano celati significati magici neoplatonici ed ermetici,
che a tutt’oggi attendono ancora di essere interamente
svelati.
Proprio a seguito
di questi studi, la pittura rinascimentale riprendeva i temi mitologici
ereditati dal medioevo, ma attraversati dalla cultura neoplatonica sfociata
nelle speculazioni dell’astrologia, della filosofia naturale (magia), e
dell’orfismo (2).
Relativamente alla
astrologia valeva l’idea diffusa da Pomponazzi
(1462-1524, v. in Cronologia del 1500) in “De naturalium effectum admirandorum causis,
sive ad incantationibus liber” (Delle osservazioni degli effetti delle cause
naturali, ovvero libro degli incantesimi) in cui Pomponazzi riaffermava il
suggestivo principio che “negli astri si raccolgono le virtù sparse
per l’universo e dagli astri, e ridiscendono per penetrare nella natura e
nell’anima umana, per cui questa è capace a volte di compiere
miracoli”.
Gli artisti che
avevano prodotto quadri come Raffaello, la “Storia di Psiche” Tintoretto, di “Mercurio e le Grazie” e “Bacco e Arianna”, Botticelli la “Primavera” e la “Nascita di Venere”, Piero di Cosimo
(1462-1521) la “Morte e Venere”,
Tiziano, “Leda e Bacco” e ”L’amor sacro e l’amor profano”, erano stati
influenzati dalle idee diffuse da Pico della Mirandola e Marsilio
Ficino.
Quindi, le figure
apparentemente mitologiche come Mercurio nella “Primavera” di Botticelli e la figura
centrale di “Venere”, rappresentano
in effetti i pianeti che inviano a chi osserva il quadro, influssi benefici e lo
stesso “Zefiro” che soffia, non
rappresenta solo il vento, ma Zefiro soffia lo “spirito del mondo” che costituisce il
canale attraverso il quale si diffondono gli influssi delle stelle.
Il quadro, in
genere, nella concezione rinascimentale è un talismano che attraverso le figure
rappresentate, cattura gli influssi
benefici e salutari delle stelle e dei pianeti e li invia al suo
osservatore.
In quest’ottica va
letto il quadro di Benozzo Gozzoli, che rappresenta Lorenzo de’ Medici (poi il Magnifico) all’età di dodici anni (v.
in Specchio dell’Epoca: L’assassinio di Giuliano de’ Medici), concepito
dall’autore come un quadro
propiziatorio per la futura grandezza
di Lorenzo, ...e non si può dire che non avesse avuto l’effetto
desiderato!
Con la conseguenza
che i pittori rinascimentali, i quali ai nostri occhi sono già grandi per le
opere sublimi che ci hanno
lasciato, sono ancora più grandi per il significato occulto che hanno impresso
alle loro opere, che a distanza di secoli di studi, non ancora si è risusciti a
decifrare.
Ecco perché opere
con riferimenti magici e con riferimenti agli influssi dei pianeti, come le
indicate “Primavera” e la “Nascita di Venere” di Botticelli, o “Marte e Venere” di Piero di Cosimo, “Leda e il Bacco”, “l’Amor sacro e l’amor profano” di
Tiziano e tante altre, non sono
ancora completamente decifrate.
1) In Botticelli’s Mythologies: Study in The Neoplatonic Symbolism of
his Circle - 1945) e Frances Yates (1899-1981).
(2) L’orfismo, di
cui Platone secondo Proclo, sarebbe stato l’erede, si fonda su un sistema
trinitario della trasmutazione, data dallo sviluppo dell’universo in triadi e
dalla coincidenza dei contrari nell’unità che sono i principi applicati alle
composizioni più ermetiche e ne costituiscono la struttura nascosta.
IL REGNO DI
ELISABETTA
E L’IDEA IMPERIALE
N |
ella
storia del mondo vi sono state epoche che per una serie di circostanze
favorevoli hanno avuto una particolare impronta di splendore, lasciando
nell’intera umanità un indelebile ricordo: ai secoli di Pericle, del
Rinascimento italiano e di Luigi XIV ricordati da Voltaire, è da aggiungere
quello di Elisabetta in cui (come aveva scritto Schlegel) “emersero tra gli altri, personaggi come
Spenser, Shakespeare e Milton (ma anche altri che incontreremo in questo
articolo ndr.) che avevano esaurito tutto
ciò che in un paese vi sia di notevole e di grande nei secoli XVI e
XVII”.
Il
secolo le aveva donato grandi personaggi che erano stati i fautori del “Rinascimento elisabettiano” (iniziato con la
regina, si esaurirà con la morte di Giacomo I), i quali (non tutti menzionati
nel presente articolo), gli avevano impresso una incancellabile impronta,
sviluppando una stagione culturale che veniva a essere rappresentata al vertice, dalla
regina.
Con la
conseguenza che in lei si concentrava anche l’identità del paese, da lei retto
con un potere quasi assoluto, seppur sotto il controllo di un Parlamento, il quale, mentre a Elisabetta
aveva perdonato gli strappi al potere assoluto, non lo perdonerà invece a Carlo I, che finirà col perdere la
testa sul patibolo.
E’ con Elisabetta
che si afferma l’idea imperiale,
collegata a quella della sovranità
assoluta, del periodo in cui i re inglesi - anche quelli leggendari
arturiani, continuavano nei Tudor
in quanto rappresentanti della antica stirpe britannica.
Si supponeva
infatti che Elisabetta discendesse dal re Artù, e che, tornata al potere si era
fatta fautrice di una Chiesa britannica pura, difesa dalla cavalleria (1) religiosa contro le forze del male,
identificate al momento nei tentativi ispano-papali di dominio
universale.
L’Inghilterra aveva
raggiunto questa piena autorità con l’indipendenza da Roma, nel momento in cui
si era liberata dalla invadente e condizionante sovranità papale.
La glorificazione
della monarchia dei Tudor che raggiunge l’apice con Elisabetta, si basava sul
fatto che la riforma tudoriana, come istituzione imperiale a carattere
religioso, aveva eliminato il papa e reso il sovrano indipendente da Roma e
capo supremo della Chiesa e dello Stato.
Elisabetta
rappresentava quindi il mito
imperiale che aveva le sue radici nella mistica della antica monarchia
britannica, e il simbolo della “vergine” usato sin dall’inizio del regno di
Elisabetta, rappresentata nella numerosissime xilografie (Crispin de Passe, ripreso da Isaac
Olivier) con la spada della Giustizia posta sulla Bibbia.E la circostanza che la
regina fosse nubile, esaltava il simbolo della vergine imperiale “Astrea”.
Di queste idee si
era fatto portavoce John Dee che nel destino imperiale di Elisabetta, vedeva il
potenziamento della flotta militare che avrebbe consentito l’espansione sui mari
(Dee era autore del libro “General and rare memorials pertayning to the
perfect art of navigation”, v.
sotto, che voleva essere una specie di piano politico della monarchia britannica
con suggerimenti che Dee dava, con
argomentazioni storiche, “per la difesa e
l’’accrescimento della maestà regale e dignità imperiale della nostra
sovrana e signora Elisabetta”).
Anche Shakespeare
(v. sotto), scrive Yates, aveva una visione della società strettamenmte
collegata alla sua fede per la monarchia in quanto principio di ordine e
strumento predestinato da Dio per mantenere sulla terra un ordine giusto, corrispondente al governo
divino del cosmo. E l’idea che egli avesse della monarchia un’ampia prospettiva
universale, traspare dalle sue raffigurazioni. E’ giusto quindi, prosegue Yates,
parlare di “tema imperiale” che è il titolo del noto libro di Wilson Knight.
“The imperial Theme”.
L’imperialismo
britannico di Dee, si collegava alla storia di Goffredo di Monmouth (v.
Articoli: Il vino, storia, miti, religioni) che si fondava sulla
discendenza dei monarchi britannici
da Bruto, di origine troiana e collegata a Virgilio e al mito imperiale.
Artù era il
presunto discendente di Bruto, “l’esempio
religioso più mistico e rappresentativo del cristianesimo imperiale, sacro e
britannico”.
D’altro canto, il
mito dell’idea imperiale era
collegato a quello, come detto, di Astrea, “la vergine che durante l’età dell’oro,
quando gli uomini erano casti, onorevoli, pietosi, piacenti, zelanti di ben
operare, veraci e onesti, abitava sulla terra, ma quando gli uomini diventarono
adulteri, crudeli, superbi, mentitori, bestemmiatori, la Giustizia se ne andò in
cielo ponendosi tra i due segni dello Zodiaco, il Leone e la Libra”.
Da notare che nel
simbolismo della “vergine imperiale”,
scrive Yates, la regina era presentata come “Trionfo della Pudicizia”, la cui idea è
connessa a quella della purezza della religione riformata che penetrò il
protestantesimo elisabettiano con il suo elemento di puritanesimo, espresso
attraverso forme cortesi e cavalleresche che diedero luogo ai tornei con i quali
si festeggiava il giorno dell’assunzione al trono (avvenuta il 17.nov.1558).
Questi tornei si
svolgevano in un clima di fasto tra cene, balli e spettacoli, descritti da
Philip Sidney in “The Comtesse of
Pembrok’s Arcadia” (che costituiva la versione aggiornata del precedente
testo indicato come “Vecchia
Arcadia”) e furono organizzati da Henry Lee fino al suo ritiro (1590) sostituito dal
terzo conte di Cumberland, George Clifford.
Uno dei più memorabili di questi tornei, fu quello
di Woodstock (1575) in cui fu rappresentato il “Racconto di Hemete l’eremita” che era
tanto piaciuto a Elisabetta, che aveva chiesto al poeta George Gascoigne
(1539-1578) di scriverne la trama
(che pubblicheremo in altra sezione)
Gascoigne l’aveva riportata in un libretto rilegato in marocchino rosso
(di cui una copia abbiamo trovato, su indicazione di Yates, presso la British
Library), nelle versioni (oltre alla inglese),conosciute da Elisabetta, latina,
italiana e francese.
1) A Corte si era
instaurato un regime cavalleresco al quale i cortigiani improntano le buone ed
eleganti maniere studiate sui libri cortesi italiani di Baldassar Castiglione,
Stefano Guazzo e Monsignor Della Casa, accompagnate dall’intelligenza,
dall’abilità di compenetrarsi e destreggiarsi da chi si attende i favori della
regina e quindi tende alla scalata politica che porta con sé potere e ricchezza,
per cui occorreva intelligenza, creatività, prontezza, con la concorrente
audacia e astuzia per combattere l’avversario.
Albrecht Dürer –
Melencolia I
L’ESOTERISMO
OCCULTO
DI MELANCHOLIA
I
DI ALBRECHT DÜRER
E IL TRATTATO DI
ROBERT BURTON
L |
e nuove idee magico-astrologiche, sorte in Italia, si
affermarono anche all’estero e le troviamo in Germania trasfuse nelle opere di
Dührer (1471-1528), che dopo i suoi viaggi in Italia, ispirato dagli studi
magico-umanistici di Pico della Mirandola, di Marsilio Ficino (De vita), Johannes Reuchlin (De verbo
mirifico) e Cornelio Agrippa (v. sotto in nota Neoplatonismo ecc.), aveva creato
capolavori come “Il cavaliere e la
morte” “Il diavolo” “San Gerolamo nello studio” e
particolarmente dal brano “Saturn and Melancholia” (in “De occulta philosophia”
di Agrippa) era derivato “Melancholia”
(1512), meglio, “Melencholia I”,
con la I, come scrive Yates, numero romano di “prima”, in quanto era stata seguita da
Melencholia II (secondo Yates andata perduta), e da una III, che avrebbe
completato il ciclo.
Vi è invece chi
propende per una interpretazione esoterica, e ritiene trattarsi della lettera I
di “Ignoranza”, contraddistinta dal
colore nero, con lettura del quadro
in chiave massonica (si veda Louis Barmon, L’esoterismo di Albert Dührer, Luni Editore), che non
possiamo condividere in quanto i principi massonici, ancorché “speculativi”, all’epoca non erano ancora
diffusi.
Quelle idee magico-astrologiche, erano poi passate
nell’Inghilterra elisabettiana, dove si affermava il mito di Diana, di Astrea e della Vergine, tutto a edificazione, come
vedremo più avanti, della grande regina.
Quest’opera, magico-astrologica per eccellenza,
estremamente complessa è stata ambientata in un luogo freddo e solitario, non
lontano dal mare che si intravede sullo sfondo, appena rischiarato da un barlume
di luna, come si deduce dalle ombre della clessidra sulla parete e dal funesto
bagliore di una cometa. La figura è alata, con il volto scuro, con un compasso,
accovacciata su una bassa lastra di pietra, in prossimità di un edificio
incompiuto, accompagnata da un putto imbronciato che appollaiato su una mola
abbandonata, scribacchia qualcosa sulla lavagna, con un cane scheletrico che
pare scosso da brividi. Nel cielo un pipistrello pronuncia eternamente un’unica
cupa parola: Melencholia I.
Lo strano
assortimento di oggetti sotto un cielo tenebroso popolato di segni, nel loro
significato simbolico, nonostante scritti notevoli, non ancora è stato
svelato.
L’unica cosa di cui
si può esser certi è che l’immagine, triste, col volto scuro e il capo
appoggiato sulla mano non è altri che “Saturno”.
L’idea medievale
faceva rientrare Saturno tra le quattro categorie di temperamenti umani
designati in base agli umori, che secondo le fonti arabe, collegati agli astri
(1), erano: temperamento sanguigno,
attivo, fiducioso, fortunato ed estroverso: questi temperamenti risultavano
buoni governanti e uomini d’affari, collegato agli astri Venere e Giove; temperamento collerico portato agli
scontri, collegato a Marte; temperamento flemmatico: attribuito a persone
tranquille, un po’ letargiche, collegate alla Luna; temperamento melanconico: determinato dall’eccesso di bile nera nel sangue, che portava alle
possessioni demoniache, invasamenti, abbandoni al pianto o al vaniloquio e
denotava le persone tristi, infelici, sfortunate, condannate alle occupazioni
più servili e spregiate: questo temperamento era collegato appunto con Saturno.
Di conseguenza il melanconico era scuro di carnagione,
nero di capelli e nel volto. La sua tipica posizione fisica, espressiva di
tristezza e depressione era quella della mano che sorregge la testa. Le sue
attività, quelle della misurazione
nel calcolo e nel conto: misurare la terra o contare il denaro, erano considerate attività di più
basso livello di quelle influenzate dagli altri pianeti: in Melencolia di Dürer vediamo infatti il
colorito livido, la carnagione scura, la testa sostenuta dalla mano, nella
posizione della persona pensierosa.
La Melancholia era
stata definita da Platone (Timeo) “morbo sacro” e l’argomento era stato
approfondito da Marsilio Ficino nel trattato “De studiosorum sanitate tuenda” in cui è
affrontato il complesso di cause e
risvolti fisiologici, psicologici e astrologici, accompagnati da
suggerimenti che dovevano essere osservati “dagli studiosi” per evitare che
l’influsso melanconico potesse produrre forme di esaurimento, spossatezza,
indebolimento
Il Rinascimento
aveva in ogni caso rivalutato la figura di “Saturno” portandolo al suo grado più
alto, e ritenendo che la melanconia
fosse un segno di genialità, quello dei grandi uomini, dei grandi pensatori, dei
profeti, dei veggenti religiosi. Essere melanconico era segno di genialità, le
sue caratteristiche: gli studi di calcolo e di misurazioni che elevavano l’uomo al livello della divinità.
Cornelio Agrippa
(v. sotto par. Il neoplatonismo, n. 7) nel “De occulta philosophia” si occupa della
Melancolia descrivendone i tre stadi: l'umore di Saturno, caratteristica dei
pensatori, attraverso l'allontanarsi dai sensi e dalle cose del mondo il genio è
preso da “furor” e, a seconda che si concentri sull'immaginazione, sulla ragione
o sull'intelletto, raggiungerà l'apice nelle arti, nella politica o nella
religione.
Questa nuova
qualificazione di Saturno fu ripresa rifacendosi ad Aristotele, che nell’opera
“Problemata phisica” attribuisce la
malinconia agli eroi e ai grandi uomini.
La spiegazione
derivava dalla considerazione che il delirio eroico, l’esaltazione (furor), che secondo Platone è fonte di ogni ispirazione, combinandosi
con la malinconia produce genialità.
Tutti gli uomini
eminenti sono melanconici come Ercole, filosofi come Empedocle e Platone e tutti
i poeti. Questa teoria fu trasfusa nel neoplatonismo e accettata in tutta
Europa.
Oltre alla
melanconia rappresentata da Saturno vi erano anche gli altri dei della mitologia
che avevano caratteristiche particolari nella loro ambiguità, come l’eloquente
Mercurio che rappresentava il
silenzio; Apollo ispiratore della
frenesia, o della moderazione; Minerva, contemporaneamente dea della
pace e della guerra; il dio Pan che
si nascondeva nel multiforme Proteo.
Il problema della
melanconia si trasferisce in Inghilterra dove viene affrontato da Robert Burton
(1576-1639-40), con l’opera “L’Anatomia
della malinconia” (The Anatomy
of Melancholy del 1621), in cui Burton, sotto il nome di Democritus junior, scrive una monografia
completa sulla melanconia
considerata, secondo l'idea del Rinascimento, una manifestazione morbosa
dell'organismo, trattandone le cause ed esaminandone i sintomi, descrivendone le
fasi più caratteristiche e i casi più strani, citando i vari rimedi e metodi di
cura proposti nei secoli precedenti da medici e scienziati.
L'opera è preceduta
da un lungo prologo che spiega e giustifica la scelta dell'argomento e il
sistema della trattazione, ed è divisa in tre grandi parti, due delle quali
parlano della malinconia in generale e l'ultima, della malinconia amorosa e di
quella religiosa.
La caratteristica
principale di quest’opera di ampio respiro, consiste nel particolare sistema di
composizione, dato che l'autore accompagna ogni periodo del suo argomento con
una infinita varietà di insolite osservazioni e con abbondanti citazioni e
aneddoti presi in gran parte da scrittori medici dei secc. XIV e XV ormai
dimenticati, e da filosofi, come Democrito, Luciano, Erasmo, ecc.
Burton in
ques’opera fa sfoggio della sua erudizione di studioso, filosofo, astrologo,
matematico, accompagnando il tutto da una vena di contrastante umorismo. Essa ebbe grande successo per l’originalità
della trattazione, che sotto vari aspetti studia e presenta le forme più varie e
più complesse della vita umana, ed anche per la ricchezza di citazioni curiose e
di aneddoti, ampiamente sfruttati dagli scrittori che lo seguirono nei secoli
successivi, in particolare da parte di giovani letterati che ebbero la
possibilità di attingervi per poter
dare l’impressione di una certa erudizione (Gino Lupi).
1) Dai quattro
elementi primordiali degli antichi filosofi greci costituiti da acqua, aria,
terra e fuoco, sono poi derivati i dodici segni zodiacali: aria: cancro, scorpione e pesci; acqua: bilancia, gemelli e acquario; terra: toro, vergine e capricorno; e fuoco: ariete, leone e
sagittario.
JOHN CASE E
L’ARISTOTELISMO
DI OXFORD
J |
ohn Case
(1539-1601), dopo aver esercitato l’attività di “tutoring” privato aveva avuto (1583) una
cattedra di insegnamento a Oxford.
Autore di “Lapis philosophicus” commentario in 8
libri della fisiologia di Aristotele,
suggerisce sistemi di guarigione fondati sull’uso di metalli e pietre
preziose, in cui si avverte la presenza non solo di Marsilio Ficino, ben
inserito nella cultura inglese ma anche dell’aristotelismo padovano propugnato
da Jacopo Zabarella (1533-1589) e dell’aristotelismo degli umanisti (avversato
dal ramismo*), del gesuita Francisco de Toledo (1532-1596) e della Scuola
gesuitica di Coimbra e in Italia dall’antitradizionalista Mario Nizolio
(1498-1576)
Aveva scritto anche
opere filosofiche quali la “Summa”
sulla dialettica e “Speculum” su
questioni di etica e sulla filosofia politica dell’Inghilterra dell’epoca, “Sphaera civitatis” commissionata dal
lord Burghley con la raffigurazione, nel frontespizio di Elisabetta, raffigurata
come “primo mobile” del regno, opera
poderosa che doveva costituire una confutazione al “Principe” di Machiavelli che non era
stato tradotto in inglese, del quale però erano state pubblicate (in lingua
originale) diverse edizioni da parte del tipografo John Wolf.
Case avversava il
paracelsismo diffuso nel regno e mentre ironizzava sugli alchimisti credeva che
Edward Kelley (sodale di John Dee) avesse davvero ottenuto l’oro usando la
pietra filosofale.
Le sue opere furono
utilizzate per la formazione culturale umanistica di generazioni di studenti
oxoniani, futuri gentlemens, teologi ed ecclesiastici.
*) Pierre de la
Ramée detto Ramo (1515-1572) intendeva sconfessare tutta l’opera di
Aristotele. Con la sua dissertazione per la tesi di laurea “Quaecumque ab Aristotele dicta essent, commentitia esse”
sosteneva che tutto ciò che aveva detto Aristotele fosse falso, particolarmente
ne contestava la “logica”, e per
questo fu fatto oggetto di persecuzione in quanto gli fu interdetto
l’insegnamento (1543) e dopo aver ottenuto la cattedra di eloquenza e filosofia
al Collegio di Francia dovette allontanarsi da Parigi. Dopo essersi convertito
al calvinismo fu ulteriormente perseguitato e dovette fuggire, come tanti altri
francesi a Ginevra e Losanna e dopo essere tornato a Parigi fu ucciso nella
strage della notte di s. Bartolomeo (v. sopra). Scrisse anche molte altre opere
quali “Dialectica partitiones” poi
pubblicata (1553) col titolo “Institutionum dialecticarum libri
III”.
Ramo si occupò anche
di linguistica, sostenendo la lingua volgare, pur dando importanza al latino e
greco di cui scrisse la grammatica. Scrisse molte altre opere tra le quali “Aristotelicae adversiones” e “Institutiones Dialecticae” condannate da
Francesco I di Francia.
IL NEOPLATONISMO
ITALIANO
GIUNGE IN
INGHILTERRA
JOHN DEE
I |
n Inghilterra,
sebbene il Rinascimento italiano in genere (1)
e neoplatonico
in particolare, fosse giunto in
ritardo, era giunto giusto in tempo per esaltare la corte di Elisabetta dove era
stato pienamente e attivamente coltivato, seppur fortemente contrastato (i
sintomi della caccia alle streghe si avvertono già nel “Doctor Faust” di Marlowe, v. sotto).
Introdotto da John
Dee e Walter Raleig, i quali, dopo essere stati gratificati dalla regina e aver
riscosso grandi successi, erano poi caduti in disgrazia, morendo dimenticati e
in povertà, a distanza di dieci anni l’uno (1582), dall’altro (1592).
Dopo di loro, era
stato Edmund Spenser a interpretare il neoplatonismo nel frattempo divenuto “elisabettiano” con le opere “Faerie Quenne” (La regina delle fate, v.
sotto) e “Four Himnes” (1596).
John Dee
(1527-1608), era classicamente
umanista (aveva proposto alla regina Maria I di raccogliere tutti i manoscritti
esistenti in Inghilterra e i libri che si trovavano presso i monasteri), dalla
mente acuta e potenza intellettiva che gli permisero di spaziare dagli studi
dell’antichità alle discipline scientifiche (geometria, astronomia, matematica e
numerologia, geografia).
Le sue ricerche
alchemiche ed esoteriche (faceva parte del gruppo dei cabalisti cristiani della
corrente di Johannes Reuchlin e di Cornelio Agrippa), lo fecero considerare un
evocatore di diavoli, mentre per mezzo della cabala egli si riteneva evocatore
degli Angeli con i quali sosteneva di parlare unitamente a Edward Kelley
(1555-1594) il quale a sua volta sosteneva, come abbiamo detto innanzi, di
essere riuscito a fabbricare l’oro per mezzo della pietra
filosofale.
Pur avendo
contribuito con i suoi studi (2) a far brillare la
cultura elisabettiana, e pur avendo fedelmente servito Elisabetta, negli ultimi
anni della sua vita cadde in disgrazia presso la regina, e tacciato di
stregoneria muore povero e isolato.
Mentore del mito e
del misticismo arturiano applicato all’idea dell’imperialismo britannico
dell’epoca elisabettiana, egli stesso si riteneva discendente da un antico
principe britannico e imparentato con i Tudor e con la stessa Elisabetta.
Aveva raccolto una
biblioteca con migliaia di libri tra i quali vi erano le opere di Raimondo
Lullo, Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa e Francesco Giorgi (v. note 5, 6, 7, 8,
9, 10), che attestano
quali fossero i suoi interessi culturali, messi a disposizione di amici e
studiosi, con la sua casa frequentata
da cortigiani, poeti e scrittori, navigatori e matematici, storici ed
antiquari.
Particolarmente
legato alla famiglia Dudley della quale Robert, futuro conte di Leicester, era
stato suo allievo e sarà sostenitore delle sue idee.
Destinato ad essere
personaggio di Corte in quanto
figlio di un funzionario di Enrico VIII, manifestò le sue idee e il suo
movimento nella prefazione “De
Trigono” scritta nella traduzione del testo di Euclide di Henry Billingsley
(pubblicata nel 1570) (v. note 2 e 3).
Dee, rappresentante
del neoplatonismo rinascimentale,
aveva dato importanza al numero e alle scienze matematiche. Egli crede (con Pico
della Mirandola, inventore della cabala cristiana) che “attraverso i numeri si procede all’indagine
e alla comprensione di ogni realtà conoscibile”.
Il suo “neoplatonismo” si collega alla cabala
rinascimentale in quanto si fonda sul “De
occulta philosophia” di
Cornelio Agrippa (6) , che si basa
sulla distinzione del mondo in tre
sfere: quella naturale (terrestre), quella celeste e quella sovra-celeste degli
spiriti o intelligenze o angeli (v. in Articoli, Carlo V ecc. P.II, par. Gli
umanisti maghi).
Il numero è la
chiave dell’Universo: concetto accentuato
da Johannes
Reuchlin, con una combinazione di pitagorismo e cabala, proseguito da Dee
in campo matematico, da lui approfondito a causa delle istruzioni e consulenze a
navigatori, artigiani e tecnici che gli venivano
richieste.
Dee si impadronì
anche degli elementi di teoria matematica astratta, in particolare della teoria
delle proporzioni secondo la concezione dell’architetto romano Vitruvio (De Architectura, I sec. a.C.),
considerando l’architettura la regina delle scienze e l’unica disciplina alla
quale quelle matematiche sono
correlate.
Dee comunque, per
la teoria delle proporzioni si richiama all’artista e teorico Albrecht Dürer
(autore di: Vier Bücher von Menshlicher
Proportion - Quattro libri sulla proporzione dei corpi umani, 1528).
“La filosofia
occulta nel periodo elisabettiano”, scrive
Yates, “non fu un interesse secondario di pochi
adepti: fu la filosofia principale dell’epoca che traeva origine da Dee e dal
suo movimento (Yates considera
John Dee con
Giordano Bruno (10),
i due grandi
filosofi dell’ Inghilterra elisabettiana in: “Giordano Bruno e la cultura
rinascimentale europea)”.
La cabala cristiana di Dee fa da sfondo
al neoplatonismo cabalistico dell’epica di Edmund Spenser
(1552?-1599), considerato da
Yates “il Virgilio dell’età dell’oro
elisabettiana”, poeta che faceva parte della cerchia di John Dee, esponente
del cabalismo e numerologia rinascimentale, dal pensiero marcatamente
filosofico-neoplatonico che traspare nel suo famoso dramma “The Faerie Qeene” (La regina delle fate)
in cui la regina Maria I è impersonata da Duessa, che rappresenta la “Chiesa cattolica”, bella d’aspetto ma in
effetti ripugnante, in omaggio alla regina Elisabetta, e questo emerge più
chiaramente nei Four Hymnes (Quattro Inni), di
ispirazione platonica.
Spenser aveva scritto anche un “Discorso sullo stato
attuale dell’Irlanda (A View of the
Present State of Ireland, scritto nel 1596, pubblicato nel 1633), di grande
interesse per la biografia del poeta, e illustra il quinto libro della Regina delle fate che contiene la
leggenda di Artegall, o la Giustizia, la quale vuole immortalare il protettore
del poeta (4).
“The Faerie Queene” (La regina delle
fate) è un poema in stanze (su metro inventato da Spenser, e adoperato
successivamente dai poeti inglesi che lo seguirono) che doveva essere di dodici
libri (ciascuno diviso in dodici canti), ma il poeta ne lasciò solo sei, oltre
ad alcuni frammenti.
Spenser si era
ispirato non solo all'Ariosto e al Tasso ma agli umanisti inventori di emblemi e
imprese, in cui rientrano le intenzioni allegoriche del poema.
L’opera è
incentrata sulla figura di Elisabetta della quale il mago Merlino dopo aver
narrato del ritorno al potere della
dinastia imperiale troiana e britannica; dell’unione delle due case di York e
Lancaster nei Tudor, predice il successivo avvento della vergine regina: “than
shall ea royal virgin raine” (verrà allora il regno di una vergine regina).
Nella lettera
introduttiva, indirizzata a Walter Raleigh (v. sotto), il poeta scrive che per
rendere più interessante la sua opera l’ha colorita di una “finzione storica”, con la storia del
principe Artù (Arthur), nel quale si
trovano unite tutte le virtù che un grand'uomo deve possedere. La regina delle fate rappresenta la
Gloria in astratto, e in particolare “l'eccellentissima e gloriosissima persona
nella nostra sovrana la Regina” (adombrata anche con i nomi di Belphoebe, Mercilla e Gloriana).
La regina tiene corte, bandita per dodici giorni, ogni
giorno offre l’occasione a ciascun cavaliere di distinguersi e ognuno di essi
personifica una virtù.
Il primo libro,
preceduto da una dedica alla regina Elisabetta, in cui il poeta dichiara di aver
mutato in tromba, la zampogna pastorale, contiene le
avventure del cavaliere della Croce
Rossa (the Red Cross Knight), modellato su san Giorgio, che dovrebbe impersonare la
Santità (la Chiesa anglicana). Egli
viene alla Corte di Gloriana e udendo
che un orribile drago funesta le terre governate dai genitori della vergine Una (la verità o la vera religione), si reca
con costei e col fedele scudiero a uccidere il mostro.
Nella Caverna degli Errori trovano un drago
che a ogni momento dà alla luce orrendi figli (allegoria delle aberrazioni). Il
cavaliere abbaglia il mostro con lo scudo incantato, e poi lo decapita: i figli,
bevendo il suo velenoso sangue, muoiono. Dopo, il cavaliere e Una incontrano un vecchio dal venerabile
aspetto (simile all'eremita che l’Angelica di Ariosto incontra dopo la fuga).
Egli è Archimago (l'ipocrisia), che ha la lussuria di
quell'eremita e il magico potere di Atlante; a questo punto la trama acquista
una complessità ariostesca.
Il cavaliere,
fuggendo alle tentazioni di Archimago, incontra Sanstoy, un cavaliere saraceno,
accompagnato da Duessa che nasconde
il suo vero aspetto sotto l’apparente bellezza, rappresentando la Chiesa cattolica (reincarnazione dell'Alcina di Ariosto). Seguono varie
avventure in foreste incantate, palazzi allegorici; Una, libera il cavaliere caduto nei
lacci di Duessa, che smaschera il suo
aspetto deforme; il cavaliere è condotto presso madonna Umiltà (circondata da Fidelia e Speranza) e assistito da Obbedienza, Penitenza e Rimorso, nonché dal santo eremita Contemplazione.
Così purgatosi lo
spirito, affronta il tremendo drago contro il quale aveva intrapreso la
spedizione, e lo uccide; dopo altre peripezie il cavaliere sposa Una.
Il secondo libro
contiene le avventure di sir Guyon, Il
cavaliere della Temperanza, i
suoi combattimenti con Pirocle
(Pyrocles: il furore) e Cimocle (Chymocles), la sua visita alla
caverna di Mammone e alla Casa della Temperanza, e la sua
distruzione di Acrasia (l'Intemperanza) e del suo Verziere di Delizie (Bower of Bliss).
Il decimo canto
contiene una cronaca dei re britanni da Bruto a Uther, e dal Re degli Elfi a Gloriana (Elisabetta); il quarto
l'episodio di Faone e Cristabella, imitato da quello di Ariodante e Ginevra (dell'Orlando furioso).
Il terzo libro
narra la leggenda della Castità,
simboleggiata da Britomarte (Britomart, la regia donzella che
s'innamora di Arthegall le cui
sembianze ha visto in uno specchio magico) e da Belfebe (Belphoebe).
Il quarto libro
narra la leggenda di Triamondo
(Triamond) e Cambello (Cambell). Il
primo è il cavaliere dell'Amicizia e
combatte col secondo per decidere quale dei pretendenti di Canace dovrà averla;
il combattimento resta indeciso e i due giurano eterna amicizia; alla fine Triamondo sposa Canace. Nello stesso libro vi è la
storia di Scudamore (Scudamour) e di
Amoretta (Amoret), la quale, subito
dopo il matrimonio con Scudamore, è
rapita dall'incantatore Busirane e da
lui imprigionata finché non la libera Britomarte.
Il quinto libro
contiene le avventure di Arthegall,
il cavaliere della Giustizia, e varie
allusioni ad avvenimenti storici del regno d'Elisabetta, tra cui la disfatta
degli Spagnoli nei Paesi Bassi, l'esecuzione di Maria Stuarda, ed altro.
Il sesto libro
infine, contiene le avventure di sir
Calidore, che rappresenta la
Cortesia. Il frammento riguarda l'allegoria della Mutevolezza (Mutability), sesto e
settimo canto della “leggenda della
Costanza”, che doveva formare il settimo libro.
L'opera si era
meritata nel tempo grandi elogi e per la Yates, “è paragonabile alla Divina Commedia, dove i
gironi dell’inferno sono le sfere capovolte del Paradiso...e rappresenta il
conflitto tra il bene e il male in uno scenario cosmico: i cavalieri spenseriani che rappresentano le virtù,
devono combattere gli opposti e negativi dei loro temperamenti, i sette peccati
capitali”.
1) Il merito di aver messo a
contatto la società inglese con quella rinascimentale italiana è da attribuire a
William Painter (1540?-1594) che con il
libro “Il Palazzo del
Piacere” (The Palace of
Pleasure, beautified, adorned, and well furnished with Pleassant Histories and
Excellent Nouels... chosen and selected out of Divers Good and Commendable
Authors), costituito da una raccolta di novelle (che inizialmente erano
sessanta, pubblicate nel 1566-'67 e poi aumentarono fino a giungere a centouno
nel 1575)), tratte (e tradotte) da fonti più disparate: dai classici (Erodoto,
Aulo Gellio, Plutarco) ai novellieri italiani e francesi (Boccaccio, Bandello,
Margherita di Navarra).
Da queste Novelle,
che riportavano uno spaccato della vita italiana, Painter ne aveva estratte ed
elaborate ventisei, dando preferenza a motivi tragici, in cui aveva accentuato
gli eccitamenti del sangue e della lussuria, dando così dell’Italia una immagine
fastosa e sinistra rendendola celebre per gli adulteri, delitti, assassini e
avvelenamenti che avvenivano nelle sue corti, immagine perpetuata dai
drammaturghi elisabettiani. E Il Palazzo del piacere, divenne una
inesauribile riserva di trame e motivi a cui attinsero a piene mani i maggiori
drammaturghi elisabettiani, tra i quali Shakespeare, le cui opere, notoriamente
ispirate a Bandello (es.”Giulietta e
Romeo”) o a Boccaccio (es. “Tutto è
bene quel che finisce bene”), trovarono il seme nel libro di Painter, che
costituisce il primo esempio di novellistica in prosa
inglese.
2) Molti degli scritti di Dee sono
rimasti inediti, tra le sue opere stampate: “A supplication to Queen Mary for the
Recovery and Preservation of
Ancient Writers and Monuments” (Supplica alla regina Maria per la custodia e
conservazione ecc.); “De Monade
Hierogliphica” (tradotta in francese nel 1925); “De Trigono”, riportato nella
introduzione agli Elementi di Euclide pubblicati nel 1570 e “A True &
Faithful Relation of wath passed for many Years between Dr. J.D. and Some
Spirits”, in cui parla di ciò che era accaduto per diversi anni tra lui ed
alcuni Spiriti (pubblicato da Casaubon nel 1659).
3)
Contemporaneamente alla pubblicazione della “Tempesta” di Shakespeare (1610-1612)
apparve L’Alchimista di Ben Jonson (The
Alchemist) il cui personaggio
Sottile (Subtle), che si ispira come Prospero della Tempesta, a
John Dee e altri alchimisti contemporanei come Kelley, e teologi come Hugh
Broughton, tutti considerati dei ciarlatani e imbroglioni.
Ben Jonson racconta
(in forma dialogica) che durante la peste, avendo Lovewit lasciato la sua casa a
Londra in custodia del suo servo Face, costui v'introduce alcuni suoi compari,
l'alchimista, e la sua compagna Dol Common, e la casa viene usata per attirarvi
dei gonzi a cui l'alchimista promette la pietra filosofale: tra le vittime sono
Sir Epicure Mammon, cavaliere avido e lascivo; due puritani, Tribulation
Wholesome e Ananias; Kastril, un giovane attaccabrighe che cerca un buon partito
per la sorella Dame Pliant, e altri. Surly, un giocatore, s'accorge della frode
e cerca di smascherarla presentandosi in veste di Spagnolo; alla fine le fila
del complicato intreccio si avviano alla soluzione, che risulta in una gara tra
Subtle e Face non solo per portare a buon fine le rispettive trame, ma anche per
eliminare la possibilità di successo dell'antico compare divenuto ora rivale.
Face, riesce a vincere la gara; tornato Lovewit, si riconcilia con lui e finisce
con lo sposare Dame Pliant, mentre Subtle e Dol si dànno alla fuga.
4) Spenser, non
potendo prescindere dai ricordi personali, della ribellione irlandese (1598), dà
una interpretazione personale in quanto ne era rimasto rovinato. Egli esamina i
mali dell'Irlanda, e li riduce a tre gruppi: quelli dipendenti dalle leggi,
quelli inerenti al modo di vita e quelli originati dalla religione. Ogni tanto,
consigli e visioni sono interrotti da vere e proprie invettive, come quella
famosa, che “Dio forse conserva l'Irlanda
in questo stato d'agitazione per qualche segreto castigo che le verrà
dall'Inghilterra”.
Tra le varie
considerazioni sull'ignoranza, in genere, del popolo irlandese, egli mostra grande interesse per le
espressioni della poesia popolare che ebbe tanto influsso sulla sua poesia. E
sostiene la necessità di una forte politica di repressione, dà suggerimenti per
l'abolizione dei costumi locali, accompagnate da considerazioni forti e non
proprio umanitarie.
Nell’opera si
avverte l'influsso del “Principe” di
Machiavelli, per es. dove sostiene la necessità di usar medicine forti per
l'Irlanda, di non lasciarsi impressionare dall'accusa di crudeltà, di fondare
colonie e fortezze.
5) Raimondo Lullo
(n. 1235-1315), catalano, alchimista e cabalista, filosofo e mistico dalla cultura enciclopedica.
Aveva avuto una vita avventurosa ed ebbe interessi nei vari campi del sapere
umano che riversò, in maniera
brillante nei suoi libri, tanto da meritarsi il titolo di doctor illuminatus. Contemporaneo di
Abrham Abulafia (1235-1316), pose le basi della “Qabbalh mistica” medievale che mirava
alla comunione con Dio attraverso la perfezione individuale, intellettuale e
spirituale.
Scrisse ben
duecentoquarantatre opere che spaziano dalla teologia alla polemica religiosa,
mostrandosi ostile all’averroismo: “Libre de gentilibus et tribus sapientibus”,
“Liber de quinque sapientibus” “Liber de Deo et Jesu Christo”, “Disputatio fidei et intellectus”, “Disputatio Raymundi christiani et Hamar
saraceni”; alla mistica: “Liber de contemplaciò”; alla filosofia
con la celebre “Ars magna seu Ars compendiosa inveniendi
veritatem”, fondamentale nella cultura del Rinascimento in cui trovò molti
seguaci in Pico della Mirandola e particolarmente in Giordano Bruno, in quanto
in essa si sosteneva che ogni scienza ha dei principi diversi da quelli delle
altre, ma vi deve essere una scienza generale che contenga tutti i principi
delle altre, “Liber de anima
rationali”, “Ars demonstrativa”,
“Liber de assensu et descensu
intellectus”, “Arbor philosophiae
desideratae”, “Declaratio
Raymundi;”; “I dodici principi della
filosofia”; alla letteratura con “Blanquerna”, il primo romanzo con spunti
autobiografici di contenuto filosofico e sociale e un altro romanzo “Felix de la maravelles del mon”. Si era
occupato di alchimia introducendo la formula della preparazione dell’acido
nitrico e scrivendo il “Trattato della Quinta Essenza ovvero de’ Secreti della Natura”, “Albero della scienza”, “Testamento dell’arte chimica
universale”. Infine il libro allegorico-dottrinale per i cavalieri, “Libro dell’Ordine della cavalleria”
(Libro de Orde de cavaileria) e due poemetti: “Desconvort” e “Cant de
Ramòn”.
6) Giovanni Pico
della Mirandola ( 1463-1494), filosofo e umanista, quasi coetaneo di Marsilio
Ficino (v. sotto), aveva avuto una
vita avventurosa. Dotato di una memoria prodigiosa aveva studiato ebraico e
caldaico approfondendo gli studi sulla cabala ebraica (v. Francesco Giorgi, e
Cornelio Agrippa ), attraverso la quale si poteva dimostrare l’esistenza di Dio
e sull’astrologia e magia con influssi di tipo occulto ed esoterico come gli
inni orfici e gli oracoli caldaici.
Aveva elaborato la
Qabbalah, di Abulafia (che conoscendo l’ebraico operava sulle lettere ebraiche)
e di Lullo (che non conosceva l’ebraico e operava sulle lettere latine).
Aveva operato una
fusione tra la cabala e la magia distinguendo una cabala teoretica e una
cabala pratica: quest’ultima la considerava magia cabalistica.
Sosteneva inoltre che la magia naturale senza la cabala pratica sarebbe
stata priva di significato. Aveva approfondito gli studi della filosofia
aristotelica, attraverso i commentatori greci ed arabi, maturando l’idea che le
varie correnti filosofiche si erano sviluppate dalle precedenti attraverso una
concordia tra le varie scuole.
Aveva scritto quindi
le “Conclusiones filosophicae, cabalisticae et theologicae”, preparando
novecento tesi che costituivano un
estratto di tutte le filosofie, ma con influssi di magia ermetica e cabala, con
cui dimostrava di poter entrare in contatto con le sfere angeliche. Queste tesi
avrebbero dovuto essere discusse a Roma. Ma alcune di queste tesi suscitarono le
reazioni di diversi teologi che convinsero il papa Innocenzo VIII a sottoporre
le Conclusiones all’esame di una commissione. Pico aveva nel frattempo
scritto una introduzione al dibattito intitolata “De hominis dignitate”, trasformata in
“Oratio” quando il dibattito sulle
tesi era stato annullato e a sua difesa aveva preparato una “Apologia”,
ma questi scritti a nulla valsero per convincere i teologi e il papa che
condannava le tesi incriminate. Pico dovette fuggire recandosi in Francia, poi
rientrò a Firenze dove visse sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico che lo
ospitò in una villa a Fiesole fino alla morte prematura in quanto fu assassinato dal poco
raccomandabile nipote Galeotto. L’opera sulla “Dignità dell’uomo” è da considerare una delle
massime espressioni dell’Umanesimo. In campo religioso era sulle stesse
posizioni di Gerolamo Savonarola, nel senso che auspicava una riforma (Ad Leonem X de reformandis moribus
oratio), del quale aveva scritto una biografia “Vita patris H. Savonarolae”. Tra le
altre opere: “De studio divinae et
humanae sapientiae”; “Liber de imaginatione”; “Examen vanitatis doctrine gentium
et veritatis christianae disciplinae”; “De studio divinae et humanae
philosophiae”. Tra le sue opere
è considerata la maggiore
“Heptaplus” commento in sette libri ai primi 27 versetti del Genesi; De
ente et uno, le Epistolae.
La sua incrollabile
fede religiosa lo porta a considerare la inutilità della ragione, affermando che
la Rivelazione è l’unica fonte di verità e di salvezza dell’uomo. Condanna quindi la filosofia come anche
l’astrologia, ma difende la “magia” e
la “cabala” che associa
all’ermetismo, e in maniera fumosa per non incorrere nei rigori della
Chiesa.
7) Enrico Cornelio
Agrippa di Nettesheim (1486-1535)
considerato a torto il principe della magia nera e degli stregoni, il negromante per eccellenza. Autore del
“De occulta philosophia” e “De vanitate scientiarum” in cui nega
tutto ciò che aveva affermato nel libro precedente, per non incorrere nelle
maglie dell’Inquisizione!). Il “De
occulta philosophia” è il testo fondamentale della magia e della cabala,
espressione della filosofia magica del Rinascimento (v. Pico della Mirandola e
Francesco Giorgi). Agrippa ritiene che l’Universo sia una formula matematica in
cui si esprime Dio: essa è libro e
parola di Dio, è armoniosa musicalità divina. Matematica, grammatica e musica
sono aspetti della logica universale, cioè della espressione divina. L’Universo
secondo Agrippa è diviso in tre mondi: il mondo degli elementi della natura terrestre;
il mondo delle stelle; il mondo sovraceleste degli spiriti o intelligenze o angeli. La magia naturale agisce nel
mondo degli elementi; la magia celeste, agisce nel mondo delle stelle; la magia
religiosa agisce nel mondo sovraceleste
degli spiriti e intelligenze che possono essere evocati come li evocava
John Dee. Cornelio Agrippa, Francesco Giorgi, Pico della Mirandola e Marsilio
Ficino, influenzarono tutti la filosofia neoplatonica che sfociava nella magia,
cabala, numerologia rinascimentali, anche fuori dell’Italia. Nel “De vanitate”, meglio “De incertitudine et vanitate omnium
scientiarum et artium” come detto, scritto per non incorrere nei rigori
della Inquisizione, Agrippa mette
in discussione tutto il sapere dell’uomo che ritiene non abbia alcun valore e
che non si può conoscere nulla e in nulla vi può essere
certezza.
8) Johannes Reuchlin
(1455-1522) fa parte del gruppo dei teorici della “cabala cristiana” che mirava a dimostrare che la cabala
provava le verità del cristianesimo. Venuto in Italia ed entrato in contatto con
Pico della Mirandola ne accolse le sue idee sulla cabala cristiana, che trasfuse
nel
“De verbo mirifico” e “De arte cabalistica” che combinata
con la numerologia pitagorica,la proponeva come nuova filosofia
cristiana che avrebbe dovuto sostituire la Scolastica. Con questo suo
metodo egli dimostrava che il nome Gesù corrispondeva, con la manipolazione delle lettere
ebraiche (traducibili in numeri), al nome del Messia, trovando anche delle
corrispondenze tra la gnosi ebraica e la dottrina di Ermete Trismegisto (v. in
Cronologia del 1500) alla quale veniva data una interpretazione cristiana. Lo
studio della cabala, della magia e dell’ermetismo ebbero influenza sul
neoplatonismo rinascimentale e sui movimenti riformisti sia protestanti
(Riforma) sia cristiani (Controriforma).
9) Francesco Giorgi
(n. 1466) della nobile casata dei Zorzi, monaco umanista autore di
“De armonia
mundi” e “Scripturam
Sacram Problemata”, ambedue messi
all’Indice. Studioso di ebraismo,
aveva approfondito gli aspetti
della “cabala cristiana”, che
si poneva accanto a quella di Pico della Mirandola (v. prossima Cronologia del
1400, 1494), che ne fu il fondatore e di Marsilio Ficino (v. prossima Cronologia
del 1400, 1499) in Italia, e di Johannes Reuchlin ed Enrico Cornelio Agrippa von
Nettesheim in Germania, John Dee (v. prossima Conologia del 1600, 1608) in
Inghilterra.
Nel
“De armonia
mundi” Giorgi riprende le
tesi cabalistiche di Pico della Mirandola e la tradizione numerologica pitagorico-platonica
elaborata da Agrippa e propone
l’armonia universale sulla base del “De Architectura” di
Vitruvio.
Giorgi
mette in relazione le gerarchie angeliche con i pianeti, e i loro influssi
(senza annullare il libero arbitrio), dando una classificazione degli “umori” planetari riscontrabili
nell'individuo e propone un metodo magico per contattare gli angeli
corrispondenti.
10) Marsilio Ficino
(1433-1499) filosofo platonico, umanista, medico e musicista. Con la sua opera
di riesame filosofico del platonismo e neoplatonismo segna il passaggio dalla
fase filologica a quella filosofica dell’Umanesimo come affermazione della
centralità dell’uomo nell’universo e la rivalutazione della storia umana. Aveva
tradotto e commentato i “Dialoghi” di
Platone e le “Enneadi” di Plotino
(considerato “il fido Acate”). Lorenzo il Magnifico gli aveva dato
l’incarico (1463) di tradurre dal greco in latino il “Corpus Hermeticum” attribuito ad Ermete
Trismegisto, opera che si credeva proveniente dall’Antico Egitto che
concordava con la tradizione
pitagorica, platonica, stoica, neoplatonica e con i libri dello Pseudo-Dionigi.
Peraltro le sue idee neoplatoniche lo portarono a vedere nel cosmo forze di
natura psichica, che lo avvicinavano all’astrologia e alla magia, ponendosi con
questi studi accanto all’amico e sodale Pico della Mirandola.
Credeva nella forza magica della preghiera come mezzo curativo e credeva
nell’influenza degli astri. Aveva scritto: “De Voluptate”, “De christiana religione”, “Theologia Platonica de animorum
immortalitate”, molte traduzione di scrittori e storici greci e il “Liber
de vita libri tres” dedicato a
Lorenzo il Magnifico, che comprende tre trattati: “De Voluptate”, “De christiana religione”, “Theologia Platonica”, molte traduzioni di scrittori
e storici greci e il “Liber de vita” dedicato a Lorenzo il Magnifico, che
comprende tre trattati: “De studiosorum sanitate tuenda”, “De vita longa ad
Philippum Valorem” e “De vita coelitus comparanda ad Mathiam Corvinum”, che insieme alla
traduzione di opere demonologiche, ebbe larga diffusione e gli procurò l’accusa
di magia e negromanzia dalle quali si difese con l’ ”Apologia”. L’eredità ricevuta dagli studi di Platone e dell’ermetismo, fu raccolta
da Giordano Bruno.
11) Giordano
Bruno (n. 1548-1600), arso sul rogo
a Roma in Campo dei Fiori, martire della libertà di pensiero, della dignità
dell’uomo, della tolleranza, del diritto dell’uomo a difendere le proprie idee e
manifestarle liberamente e dell’Amore
che la religione che per prima lo
aveva predicato, lo aveva calpestato. Con la morte di Bruno,
arrestato a Venezia dov’era ospite di Giovanni Mocenigo, che con questo
tradimento aveva infangato il nome della sua nobile casata, si inaugurava un nuovo secolo di oscurantismo e
persecuzione religiosa con tanti innocenti che dopo i secoli precedenti
continueranno ancora, per tutto il secolo ed oltre, senza quella conclamata
pietà cristiana, ad essere bruciati sul rogo, torturati, in tltimo da una
mordacchia di ferro, messa alla bocca per non farli parlare, come avevano fatto
con Giordano.
Bruno è stato il più
grande pensatore e filosofo del Rinascimento: basti dire che aveva avuto
l’intuito della grandezza dell’Universo e della possibilità che vi siano diversi
Universi, che solo in epoca contemporanea sono state confermate con la scoperta
di miliardi di galassie.
Studioso del Corpus hermeticum e di Ermete
Trismegisto che si riteneva fosse vissuto in epoca precedente a quella di Mosé e
avesse preannunciato il cristianesimo e la cui sapienza avesse ispirato Platone
e i platonici. Egli riteneva che il ritorno alla religione magica degli egiziani
(v. Cronologia del 1500) avrebbe costituito il rimedio alle guerre, persecuzioni
e alle miserie dell’Europa e che gli egiziani traevano questa magia dai poteri cosmici che essi riuscivano a
trasfondere nelle statue dei loro dei, poteri cosmici con influssi benefici che
Marsilio Ficino cercava di catturare con talismani solari e incantesimi.
Questi spunti tratti
dall’Asclepius facevano ritenere a
Giordano Bruno che quella religione
(egiziana), migliore del cristianesimo, era stata distrutta da questa. Ma s.
Agostino aveva condannato proprio quei passi come malvagio culto dei demoni, da
questo (scrive la Yates) era derivata la fama demoniaca di
Bruno.
Quanto all’universo
mondo, Bruno aveva avuto l’intuito, precedendo le future scoperte (superando
Newton, Galileo, Copernico Tyco Brahe), non tanto, “della Terra vivente che si muove intorno al
divino sole”, ma “degli innumerevoli
mondi che si muovono come grandi animali con una loro propria vita nell’universo
infinito” (De l’ infinito, universo e mondi).
Dopo essere stato a
Parigi presso la corte di Enrico III, Bruno si reca in Inghilterra (1583) dove a
Oxford, senza esserne invitato tiene conferenze che avevano suscitato le
rumorose reazioni di quei dottori, e ridicolizzato sia per la sua gestualità sia
per il suo latino con forte accento napoletano, ma anche per aver esposto a
memoria le teorie di Ficino (ben note a quei professori), senza evidentemente
citarne la fonte, per cui fu accusato di plagio. Egli comunque in quel suo
soggiorno di due anni (1583-85) pubblica cinque dialoghi, due dedicati a Sidney,
gli altri tre dedicati all’ambasciatore francese Michel de Castelnau de
Mauvissiére dal quale era ospitato: Della
cena delle ceneri (in cui si vendica delle contestazioni accusando gli
oxonensi di essere “pedanti”; De la
causa, principio et uno, in cui si rammarica per i torbidi causati dai suoi
attacchi contro i dottori di Oxford, aggravando la sua posizione in quanto
difende i frati di Oxford del periodo precedente alla Riforma, mostrando di
preferirli ai riformati; De l’infinito,
universo e mondi, in cui, come detto, enuncia la sua visione di un universo
infinito e di innumerevoli mondi; Lo
spaccio della bestia trionfante, dedicato a sir Philip Sidney, in cui espone
un piano di una riforma universale,
morale e religiosa; La cabala del
Cavallo pegaseo, con l’adattamento della cabala ebraica; De eroici furori, dedicato anche a
Philip Sidney, con sonetti accompagnati da commenti che chiariscono i
significati filosofici e mistici delle singole poesie.
In queste opere
brillanti e singolari, scrive Yates, Bruno appare come propagatore di una nuova
filosofia e cosmologia, di una
nuova etica e religione che poggia in larga misura sulla sua fama.
E
WALTER RALEIGH
W |
alter Raleigh
(1552-1618) era personaggio di spicco alla Corte di Elisabetta; avventuriero e
scrittore, dopo aver combattuto in
Francia per gli ugonotti (1569-76), aveva seguito il fratellastro nella
spedizione di Terranova; fu inviato in Irlanda contro i ribelli e giunto a
Londra fu introdotto a Corte dal conte di Laicester, e con il suo fisico aitante, (così come piacevano a Elisabetta) divenne
favorito della regina.
Raleigh guidò una
spedizione nel Nuovo Mondo (1584) impossessandosi di un vasto territorio che in
onore della regina e della sua conclamata verginità (come abbiamo visto, tutti i riferimenti di scrittori, letterati e
artisti erano ipocritamente
indirizzati alla castità pubblica
della regina, mentre in fatto di castità
privata le cose stavano in ben altro modo!), chiamò Virginia (il cui territorio non
corrisponde all’attuale Stato), ponendo le basi della espansione coloniale
inglese nel continente americano.
Ritornato in
Inghilterra, come capitano delle guardie, organizzò la difesa che doveva
affrontare lo sbarco dell’ Invincibile Armada spagnola (1588), che non ebbe
luogo in quanto la fortuna fu dalla parte della regina e l’Armada andò dispersa e distrutta da
una tempesta.
L’anno successivo
alla sconfitta della Armada (1589)
Richard Hakluyt (1553-1616), pubblica
l’opera “Le principali navigazioni, viaggi e
scoperte della Nazione inglese, fatte per mare e per terra alle più remote e
distanti parti della terra nell'ambito di questi 1500 anni” (The Principal
Navigations Voyages and Discoveries of the English Nations, made by Sea or Over
Land to the most remote and farthest distant Quarters of the Earth, at any time
within the compass of these 1500 Years).
Essa comprende
circa 220 viaggi, oltre ai documenti relativi, quali patenti, istruzioni e
lettere e costituisce il massimo corpo d'informazione sui viaggi del XVI sec.,
opera che fu ispirata dalla precedente raccolta di G.B. Ramusio (in Cronologia
del 1500,v. 1557) e dedicata a sir Francis Walsingham al quale riassume l’idea e
il contenuto dell’opera.
Raleigh fu fatto
arrestare dalla capricciosa regina (da una parte pretendeva fedeltà dai suoi
amanti... mentre lei si concedeva le sue libertà), per una relazione che Raleigh
aveva avuto con Elizabeth
Throngmorton,
Nello stesso
periodo, infatti, sempre
l’onnipresente conte di Leicester, aveva presentato a Corte il figliastro Robert Devereux, conte di
Essex, cugino in secondo grado di Elisabetta, non ancora ventenne, il quale con
il suo aspetto attraente e la sua giovinezza affascinò la cinquantatreenne
regina, ed entrò nei suoi favori che continuarono anche dopo che Essex aveva
sposato segretamente la figlia di sir Francis Walsinghan.
Con i favori
accordatigli dalla regina, egli divenne ricco e potente ma, nel momento in cui
era andato ad affrontare delle non fortunate imprese contro la Spagna e alle
Azzorre, la sua stella cominciò a declinare.
Elisabetta aveva i
suoi alti e bassi e a volte gli dimostrava benevolenza, altre volte freddezza, e
si era sdegnata per le avventure amorose che più o meno segretamente si
intrecciavano a Corte (come peraltro avveniva presso le altre Corti,
particolarmente quella di Francia), mentre nella apparenza della esteriorità si
inneggiava alla rigorosa osservanza della morale.
Riconciliatosi con
la regina, Essex riesce a farsi mandare in Irlanda contro i ribelli cattolici
(v. in Schede: Breve storia d’Irlanda), come Lord Deputato. Egli era prode, ma
privo di genio militare, e in questa missione fallisce, accettando la tregua
con Tyrone, capo dei ribelli.
Al rientro accuse e
sospetti si aggravano su di lui e dopo una severa e umiliante ammonizione è
privato della redditizia imposta doganale dei vini dolci che Elisabetta gli
aveva concesso in monopolio anni prima.
A questo punto
Essex non ragiona più, perde il controllo e inizia una corrispondenza con
Giacomo re di Scozia (che Elisabetta temeva in quanto aspirante al trono
d’Inghilterra). Commette l’errore di raccogliere i suoi seguaci e dirigersi
verso la City, sperando di sollevare Londra e portare la regina ad accettare le
sue condizioni. Ma non riesce nel suo intento ed è arrestato; condotto alla
Torre è condannato alla decapitazione. Muore così all’età di quarantaquattro
anni, precedendo di due anni (1601) quella della sua sovrana e
amante.
Essex aveva
lasciato un epistolario che rivelava la sua vena di scrittore colto e raffinato.
Raleigh, tornato
libero (1595) si imbarca
impadronendosi dell’isola di Trinidad ed esplora la Guiana. E’ nominato
dalla regina conte di Jersey, ma con la morte della sua protettrice (1603),
cessa anche la sua fortuna in quanto fu fatto imprigionare da Giacomo I, perché
sospettato di tradimento per aver congiurato in favore di Arabella Stuart e
condannato a morte: la condanna però non fu eseguita e una volta liberato
(1616), morì due anni dopo (1618).
Raleigh fu
apprezzato scrittore per il suo stile personale e suggestivo, privo della
pedanteria tipica dei suoi contemporanei. Scrisse saggi di argomento politico e
relazioni dei suoi viaggi, ma la sua opera principale, scritta durante i
dodici anni di prigionia nella Torre di Londra, fu la “Storia del mondo” (History of the
World). in tre volumi.
L'opera, partendo
dalla creazione, attraverso la storia ebraica e degli Egizi e un'ampia
trattazione della mitologia greca e romana, arriva fino alla caduta dell'impero
macedone.
Questa storia è
interessante soprattutto per lo stile semplice che si sviluppa tra un insieme di
miracoli, tradizioni, pettegolezzi e resoconti ai quali lo scrittore presta fede
attribuendovi importanza storica.
Nelle ultime pagine
Raleigh nell’apostrofare la “Morte”,
ribadisce il suo convincimento, già espresso nella prefazione “che le vie del Signore conducono sempre il
colpevole alla giusta punizione”.
IL DOCTOR
FAUSTUS
DI MARLOWE
I |
n Inghilterra come
abbiamo detto, contro la filosofia occulta rinascimentale si erano scatenate
reazioni violente. Le polemiche del continente, scrive Yates, sono presenti
negli atteggiamenti dei poeti, nella stessa figura del Doctor Faustus di Marlowe. che suscita
una sorta di ossessione per le streghe nel cuore del mondo
elisabettiano.
Chapman (1) replica
in forma oscura, con la sua difesa della “malinconia ispirata” e questi problemi
profondi sono costantemente presenti in Shakespeare, le cui grandi creazioni: Amleto, Lear, Prospero, sono considerate come
appartenenti alle fasi tarde della filosofia occulta rinascimentale che si
dibatteva fra gli spasimi della
reazione.
“Questo”, scrive Yates, “è il momento che io colgo essere il momento
shakespeariano, l’ora in cui il Rinascimento inizia ad attraversare la dura
prova della reazione”.
La melanconia di Amleto è ossessionata da questi
particolari: re Lear ne è
sopraffatto; solo Prospero
rappresenta una formulazione tarda nell’arte creativa della filosofia occulta del
Rinascimento.
Christopher Marlowe
(1564-1593), rappresenta il mondo magico del Rinascimento sviluppatosi sotto la
regina Elisabetta, e le sue tragedie risentono del clima di stregoneria che si
respirava in quel periodo
La sua potenza
espressiva può esser messa sullo stesso piano di Shakespeare che aveva
preceduto, e del quale avrebbe potuto eguagliarne la fama, se per la sua vita
piuttosto sregolata non fosse stato ucciso in una taverna di Deptford quando non
aveva ancora compiuto i trent’anni.
La causa della sua
tragica fine non è molto chiara: chi affermava che fosse stato pugnalato da un
ruffiano suo rivale, per un amore mecenario; l’ipotesi più probabile è quella che sia
stato ucciso in una rissa con altre spie, per motivi di danaro o di servizio, in
quanto egli faceva parte del
servizio segreto di spionaggio alle
dipendenze di Francis Walshingham, segretario di Stato; o addirittura fosse
stato assassinato per ordine di Walter Raleigh perché facente parte di un gruppo
di ribelli atei e senza scrupoli.
Marlowe aveva
mostrato il suo innato talento fin dal tempo degli studi universitari durante i
quali traduce gli Amori di Ovidio e
Le sue opere
maggiori sono il Tamerlano, Faust e l’Ebreo di Malta che si possono
considerare una trilogia, legate da un filo magico-esoterico e si incentrano su una figura di grande
personalità, ognuna delle quali rappresenta le umane aspirazioni.
In “Tamerlano” il personaggio rappresenta
una delle più perfette espressioni del principe machiavellico rinascimentale, con la brama del potere, mentre nel
“Giudeo di Malta” Marlowe introduce
un personaggio che aspira alla ricchezza e rappresenta un eroe
antimachiavellico, Barabas , l’ebreo
privato delle sue ricchezze, che spinto dall’odio e dalla bramosia del denaro,
divenuto a sua volta governatore dell’isola, si vendica con persecuzioni,
omicidi ed altro, e in questa parte
preclude e adombra spinte antisemitiche.
Nel Faust, Marlowe torna al gigantismo
rinascimentale e nella figura di Faust esprime il suo mutamento spirituale e
intellettuale e l’aspirazione alla sapienza. Con quest’opera probabilmente volle
rivaleggiare, con risultati mediocri Robert Green con fra’ Bacone e fra’ Bungay (2)
La Tragica storia del doctor
Faustus (Tragical History
of Doctor Faustus) è un dramma in versi e in prosa, senza divisione in atti (composta nel 1592, fu pubblicata anonima nel 1601 e, dopo la
morte di Elisabetta, nel 1604, col nome dell'autore).
Faust
è il maggior
teologo della sua città e in sottigliezza dialettica nessuno può vantarsi di
essergli superiore. Non contento di questa sua superiorità, egli decide di
cimentarsi in un’altra arte, quello della magia per penetrare nel regno del
mistero e acquistare poteri magici. Rinnegata la fede e chiesto e ottenuto
l'aiuto del diavolo Mephistophilis,
per suo mezzo stipula un patto di sangue con Lucifero.
Faust riceve
ventiquattro anni di sicura vita, con Mefistofele ai suoi servizi, potrà
diventare spirito. ma la sua anima, alla sua morte, dovrà appartenere al
diavolo.
Dotato di tale
potere, Faust si prepara a compiere
cose meravigliose che lo renderanno l'uomo più celebre e potente del mondo.
Invano l'angelo buono, in eterna lotta con quello cattivo, cerca di ricondurlo
sulla retta via.
Faust
va a Roma dove si
fa beffe dei cardinali e del Papa e riesce a liberare l'antipapa Bruno; dà
quindi spettacolo del suo potere magico all'imperatore di Germania e alla sua
corte; fra l'altro fa spuntare un paio di corna sulla testa di un cortigiano che
lo beffava. Questi per vendicarsi gli tende un agguato, da cui Faust ne esce indenne, e dal mago è
condannato a dover portare sempre le corna in fronte. Cosi Faust passa la vita beffandosi, a suo
piacere e nei modi più strani, di tutti: nessuno osa rinfacciargli alcunché, dal
momento che con un gesto egli lo può far ammutolire; nessuno può ucciderlo
perché per ventiquattro anni Faust è
immortale.
Ma nell’avvicinarsi
dello scadere del termine nella sua coscienza incomincia a sorgere il rimorso.
Insoddisfatto di tante esperienze Faust desidera anche il bacio
dell'immortale bellezza greca: il bacio
di Elena.
E’ famoso il verso
con cui egli saluta l'apparizione dell'eroina: “Fu questo il volto che lanciò mille
navi?” (“Was this the face that
launch'd a thousand ships?”). Quando arriva l'ora temuta, egli vorrebbe
poterla fermare, prolungarla, ingrandirla, ma invano, egli muore implorando e i
suoi studenti trovano il suo cadavere lacerato dai
diavoli.
Fonte di Marlowe è
una traduzione inglese del popolare “Libro di Faust” stampato in Germania
dove era sorto il mito (v. sotto). Marlowe potrebbe averne avuto conoscenza da un manoscritto, prima che fosse stampato
(1592), perché a quella data il suo dramma era già composto.
Il testo che ci è
pervenuto in due principali versioni: una dell’in-quarto del 1604 e l’altra
dell’in-quarto del 1616, molto corrotta e piena di interpolazioni dovute ai vari
attori e impresari che vi aggiunsero a loro piacimento spunti comici e
buffonate.
L’opera è di grande
respiro, come nel Tamerlano, l'eroe
dell'imperialismo politico; Faust è
invece l'eroe dell'eccellenza umana spinta fino ai suoi estremi confini di
conoscenza e di godimento. Con questo studio della figura umana Marlowe
introduce un nuovo tipo di teatro che riscuote fortuna e sarà sviluppato da
Shakespeare.
Non a caso
Hyppolite Taine aveva considerato Marlowe, “anticipatore di Shakespeare, come il
Perugino lo era stato di Raffaello; l'autore ci presenta, non il simbolo
filosofico di Goethe, bensì l'uomo vivo, sensuale, personale; la creatura
primitiva e impulsiva, schiava delle sue passioni, crogiuolo di desideri, di
contraddizioni e di follie, la quale, con brividi di voluttà e di angoscia, si
lascia deliberatamente rotolare lungo la china del suo precipizio”.
Nacque così la
leggenda dell’uomo che poteva ottenere poteri magici facendo un patto con
Satana.
Sull’esistenza
storica del personaggio non vi sono dubbi, anche se si è parlato spesso di due
Faust, uno più vecchio, di nome Johannes, l'altro, più giovane, di nome di Jörg
(Giorgio).
Quello vero però è
stato uno solo: pseudo-umanista, “mago”, pseudo-medico, alchimista, avventuriero e “philosophus philosophorum” come si
autodefiniva, il quale con la sua vita errabonda e sregolata, con le sue gesta e
con le sue vanterie aveva colpito l'immaginazione popolare.
Sarebbe nato a
Knittlingen, nel Wurttenberg, verso il 1480. E della sua esistenza ne fu
testimone addirittura il saggio Melantone (nativo di Breten) e quasi suo
conterraneo; avrebbe studiato a Cracovia, dove la “magia” alla fine di quel secolo era
ancora compresa fra le materie di insegnamento.
Nel
A Geluhausen, si
sarebbe presentato spavaldamente come “magister Georgius Sabellicus, Faustus
junior, fons necromanticorum, astrologus, magus secundus, chiromanticus,
aeromanticus, pyromanticus, in hydra arte
secundus” (pronostico secondo
l'esame delle urine).
Nel 1513 un noto
umanista, Mutianus Rufus, asserisce di averlo incontrato a Erfurt, in un
albergo, e di aver udito con le proprie orecchie le sue spacconate: “Audivi garrientem in hospitio. Non castigavi
jactantiam. Quid aliena insania ad me?” (In albergo ascoltavo le sue
chiacchiere. Non lo rimproverai per le sue millanterie. E, quasi rimproverandosi
per non aver in qualche modo reagito: “Perché gli eccessi sono estranei alla mia
persona?)
Ma soprattutto lo
incontrò Melantone (fra il 1525 e 1532), a Wittenberg; che per il severo “praeceptor Germaniae” era stato peggio
che se avesse incontrato il diavolo: “turpissima bestia et cloaca multorum
diabolorum” nonché “turpissimus
nebulo (turpissimo fannullone), inquinatissimae vitae (dalla ignobilissima
vita)”, in quanto il dottore lo aveva minacciato di fargli volar via i
piatti su per la cappa del camino, nel momento in cui egli si sarebbe messo a
tavola!
Si trattava di un
medico di Worms di grande esperienza che aveva
viaggiato molto, che era versato e aveva
grande abilità in medicina, nella chiromanzia, nella fisiognomica, nella
previsione del futuro ed altre arti affini; diceva di chiamarsi Faustus cioé
fausto, fortunato, favorito dalla fortuna.
In religione
affermava che non vi era bisogno di venerare Cristo perché egli stesso era in
grado di compiere gli stessi miracoli come e quando voleva; affermava inoltre
che poteva in qualunque momento mettere a disposizione i testi perduti di
Platone e di Aristotele, di Plauto e di Terenzio; prevedeva l'avvenire; “svelava misteri”(“dicebat arcana multa”).
E certamente era un
ciarlatano, impostore ammaliatore, imbonitore e demoniaco fascinatore, e come i fascinatori dei tempi passati e
presenti, aveva talento e carisma per affascinare e turlupinare il prossimo;
essendo convincente e persuasivo, riusciva a suscitare grande ammirazione e
credulità, riscuotendo credibilità e fiducia estrema.
Un esempio lo
abbiano dal caso di Franz von Sickingen, a Kreuznach (1507), che, come direttore
di una scuola, non aveva esitato ad affidargli l'educazione dei ragazzi...dei
quali Faustus ne approfittò instaurando con essi “turpi rapporti di fornicazione”
(turpissimum fornicationis genus).
E, nel 1520, il
Principe Vescovo di Bamberga gli aveva versato ben dieci fiorini d'oro per farsi
fare l'oroscopo, e, nel 1528, il Consiglio Comunale di Ingolstadt, mentre lo
metteva al bando dalla città, si faceva rilasciare prudentemente, una
impegnativa promessa scritta... “che non
si sarebbe in alcun modo vendicato”!
Nel 1536 l'umanista
Joachimus Camerarius, professore a Tubinga, si rivolgeva a lui per ottenere il
pronostico sull'esito della terza guerra tra Carlo V e Francesco I. E nel 1539
Filippo Sergardi, “Stadtphysicus” di
Worms, registrava nell’ Index
Sanitatis un suo soggiorno nella città, dove annotava che “furono in molti coloro che si erano fatti
ingannare”. Verso il 1540, tornato in patria morì oscuramente, probabilmente
a Stanfen, Melantone aveva commentato
che “era morto strangolato dal Diavolo”!
Secondo le “Cronache di Erfurt” di H. Schedel, era
stato lo stesso Faust a vantarsi di avere stretto un patto col diavolo, tanto
che un monaco francescano, Georg Klinge, il quale abitava nel convento di
fronte, tentò invano di fargli capire ragione e di convertirlo, e infine, non
essendo riuscito a nulla, lo denunciò al Rettore Magnifico, ottenendone
l'espulsione dalla città.
Come sempre è
avvenuto per le leggende esse si mescolano alla fama della figura del personaggio,
con la sua esaltazione dopo la morte.
1) George Chapman
(1559?-1634) aveva scritto il poemetto esoterico (pubblicato nel 1594)
“L’ombra della notte” (The Shadow of Night) in cui nell’oscura
notte della contemplazione sorge Cinzia che rappresenterebbe contemporaneamente le forze della mente ed Elisabetta in
uno dei suoi ruoli imperiali. Esso
contiene l'Hymnus in Noctem e l'Hymnus in Cynthiam, elogio della notte,
considerata come simbolo del raccoglimento, della pace, dello studio, di tutto ciò che nella vita ha un valore
superiore.
Verso chi inneggiava
alla notte, si opponeva la corrente di chi vedeva nella notte la fonte di ogni male, la mezzana di ogni delitto, l'immagine dell'inferno, che avevano
trovato tipica espressione nel poemetto di Shakespeare (pubblicato nel 1594) “Lucrezia
violentata” (v.
sotto).
Secondo la Yates,
Chapman con Raleig ed altri personaggi come Reginald Scot (1538?-1599) autore de
“La scoperta della stregoneria” (The Discovery of
Witchcraft), in cui Scot metteva in ridicolo gli incantesimi, gli scongiuri e le
benedizioni dei papisti, dalla quale Shakespeare aveva tratto “Sogno di una notte di mezza estate”, sir
George Carey e il matematico e astronomo Thomas Harriot avevano creato, secondo
Yates, una “School of Nigth” (alla quale, come si è detto, si era contrapposto Shakespeare ed
altri) in cui, oltre al culto per la Notte,
per la Luna, simbolo dell’impero (come il Sole lo era del papato) si coltivava il culto per Cinzia, la regina (da cui erano derivati gli Inni innanzi indicati), e la
contemplazione intellettuale.
Chapman scrisse
altre opere come, la tragedia “Bussy
d’Ambois” che ha un seguito con “La
Vendetta di Bussy d'Ambois” (The Revenge of Bussy d'Ambois); “La Congiura e la Tragedia del duca di Biron” (da leggere alla
francese ndr.), (The Conspiracy and Tragedy of Charles, Duke of Biron). I suoi
personaggi sono portatori di teorie filosofiche riprese da Seneca, Epitteto, ed
altri filosofi dell’antichità; fu ottimo traduttore dell’Iliade e
dell’Odissea.
“La leggenda di
Lucrezia romana”, narrata da Tito
Livio (I, 58 segg.), per l'insegnamento morale e la particolare tragica
suggestione della sua morte, aveva ispirato diversi artisti e poeti,
particolarmente nel Rinascimento,
come quella di Hans Sachs (1494-1576), scritta nel 1527) e di Thomas Kyd, il
quale dilata la tragedia a tinte fosche preannunciata nelle poesie di sir Philip Sidney
(1554-1586).
“Lucrezia
violentata” (The Rape of
Lucrece) di Kyd, dedicata a Henry Wriothesley, conte di Southampton, ripete
l'episodio tradizionale: Violata da Sesto Tarquinio (Tarquin), Lucrezia, dopo
aver chiesto al padre e al marito Collatino (Collatine) di vendicarla, si
uccide. Il poemetto si chiude nel momento in cui Bruto e Collatino si accingono
a trasportare attraverso Roma il corpo della vittima e a eccitare i Romani a
bandire Tarquinio.
Thomas Kyd
(1558-1594) come abbiamo detto, dilata la tragedia a tinte fosche preannunciata
nelle poesie di sir Philip Sidney
(1554-1586), il più ammirato gentiluomo di corte, le cui opere appaiono dopo la
sua morte.
Tra di esse “Arcadia” (1590) che si richiama
all’omonimo romanzo pastorale di Sannazzaro, contenente osservazioni
politico-morali e il trattato “Defence of
Poesie” (1595) , che costituisce il primo esame critico della letteratura
inglese.
Tra le diverse
tipologie, se ne ritrova una, del genere che si rifà alla drammaturgia di Gian
Battista Giraldi, il quale aveva messo in scena vicende orride e
raccapriccianti, che troviamo, accompagnata con versi di carattere morale, in
“University Wits”.
Questo tema viene
ingigantito da Kyd nel dramma “The Spanish Tragedy” opera che sebbene non
molto apprezzata da intellettuali più sofisticati, ebbe enorme successo presso
il grosso pubblico, per la potenza degli effetti scenografici.
A Kyd è attribuita
la prima redazione dell’Ur-Hamlet da
cui Shakespeare avrebbe tratto l’adattamento di “Cornelia”; dell’omonima
tragedia di Robert Garnier (del 1574), “Soliman and Perseda”, e la traduzione de
“Il padre di famiglia” di T. Tasso,
col nome “The Housebolder’s Philosophie”.
Kyd faceva parte
della cerchia di Marlowe e, coinvolto nell’accusa di ateismo rivolta a
quest’ultimo, fu imprigionato e torturato; uscito dal carcere finì la sua vita
in povertà come lo stesso Marlowe,
morto un anno prima di lui (1593).
“La Tragedia spagnola” (The Spanish
Tragedy, fu scritta
(1586/87) per soddisfare il gusto del pubblico che chiedeva sempre nuove
produzioni a tinte forti, e si può definire il dramma della vendetta.
Horatio, figlio di
Jeronimo, Grande di Spagna, viene barbaramente trucidato mentre parla d'amore
alla principessa spagnola Bellimperia. Questa e Jeronimo, giurano di scoprire e
punire gli assassini. Per raggiungere il suo scopo il vecchio Jeronimo finge di
essere impazzito dal dolore; quando sa che Bellimperia è costretta a sposare
l'uccisore di Horatio, propone che alle nozze si rappresenti una tragedia. E
questa non sarà finta, ma reale e
piena di terrore perché tutti gli invitati alla festa saranno trucidati o
metteranno essi stessi fine alla propria vita.
Kyd aveva ripreso da
Seneca non tanto la struttura
dell'opera, quanto le scene di orrore, nell'idea del fantasma che nel prologo
racconta gli avvenimenti passati.
Kyd, come detto, con
l’orrido (*), aveva cercato di soddisfare le richieste del pubblico, senza
preoccuparsi di approfondire i caratteri dei personaggi come farà Shakespeare
con l’Amleto, il quale, per questo suo personaggio si era ispirato proprio a questa tragedia che presso il pubblico
ebbe grande e durevole successo.
2) Robert Greene
(1558-1592) ebbe vita torbida e sembra avesse contatti con la malavita
londinese; negli opuscoli e schizzi autobiografici raccolti sotto il titolo di
Canny-catching (Dell'arte di
abbindolar merli: 1591-1592, lasciando interessanti riproduzioni dei
bassifondi).
Con la commedia
Fra’ Bacone e Fra’
Bungay (The Honrable
History of Friar Bacon and Friar Bungay) in versi e prosa, come detto, Greene
volle probabilmente rivaleggiare con il Faust di Marlowe ma non ne fu
all’altezza.
La commedia segue un
doppia traccia. Una parte è formata dalla vicenda di Frate Bacone, dedito alla
magia, che, con l'aiuto di Frate Bungay, fabbrica una testa di bronzo ed evoca
il Diavolo per dare a essa la favella. Il Diavolo promette che la testa parlerà
nello spazio di un mese: quando parlerà per la prima volta, occorrerà che uno dei due maghi la senta
personalmente prima che essa abbia finito di parlare, altrimenti tutto il lavoro
andrà perduto. Bacone veglia giorno e notte per tre settimane; poi, per poter
dormire, passa la guardia al servo con l'incarico di destarlo non appena la
testa parli. La testa comincia a parlare, ma il servo crede che non valga la
pena destare il padrone per le poche parole che essa dice, sicché, finite le
ultime parole, la testa cade e va in frantumi.
Nell’altra traccia
il principe Edoardo (che forse è colui che divenne re Edoardo I) s'innamora
della bellissima figlia del guardacaccia di Freshingfield, Margherita, vedendola
occupata nella sua latteria e ricevendo dalle mani di lei una tazza di latte. Il
principe incarica Lacy, conte di Lincoln, di fargli da intermediario e di
conquistargli il cuore della giovane. Lacy a sua volta s'innamora di Margherita
e ne è ricambiato. Il principe, adirato, vuole uccidere il traditore che poi
perdona e consente all'unione dei due innamorati. Lacy mette alla prova la
ragazza fingendosi costretto dal re a sposare una dama spagnola. Disperata,
Margherita decide di farsi monaca; ma Lacy torna e la sposa.
Questa parte, è
ripresa da un libretto in prosa: The Famous History of
Friar Bacon. che raccoglie
leggende relative al famoso erudito e filosofo francescano Roger Bacon
(1214?-1294; da non confondere con Francis Bacon del presente saggio) e
all'altro francescano Thomas Bungay (vissuto intorno al 1290), ambedue creduti
dediti a pratiche di magia. A questo materiale Greene ha mescolato inganni
reciproci dei due personaggi e loro gare di magia dinnanzi a sovrani.
Altre opere di
Grene: Pandosto o Dorasto e Faunia (Pandosto or Dorastus and
Fawnia), e con Thomas Lodge (1558?-1625) la commedia “Uno specchio per Londra e
l’Inghilterra (A Looking-Glass
for London and England); scrisse inoltre “Menaphon” “Quattro soldi d’ingegno comprati con un
milione di pentimento” (A Groatsworth of Wit bought with a Million of
Repentance), in cui si alternano parti inventate e parti autobiografiche.
*) La passione degli
inglesi per le tinte fosche di racconti tragici e truculenti, come è stato
detto, era derivata dai racconti che giungevano in Inghilterra dalle corti
rinascimentali italiane, di delitti, uccisioni, avvelenamenti, agguati, amori finiti
tragicamente e corruzione. Tra gli altri, era giunta la tragica storia di
Vittoria Accoramboni (che racconteremo, nei suoi aspetti storici in altro
articolo) da cui John Webster (1570-80-1825-34) (autore anche della “Duchessa di Malfi”), aveva tratto la
tragedia “Il Diavolo Bianco o Vittoria
Corambona” (“The White Devil or
Vittoria Corombona”, rappresentata nel 1611-12 e pubblicata nel 1612), modificando l’intreccio e cambiando i
nomi ai protagonisti della storia che si svolge nella seconda metà del
500.
Nella tragedia
forte, sanguinosa, che si svolge in una atmosfera di ombre e agguati, Webster
adatta il racconto secondo la sua fantasia: Il duca di Bracciano, marito di
Isabella, sorella del duca di Firenze, si era presto stancato della moglie
innamorandosi di un'altra donna bellissima, Vittoria, moglie di un suo
cortigiano di nome Camillo. La conquista di Vittoria si presenta difficile per
complicazioni e inconvenienti che devono essere superati, senza poter risalire
al duca. Questo trova un aiuto nell’ambizioso fratello di Vittoria, Flamineo
che, sperando di cattivarsi l'amicizia del duca, si presta all’ignobile
misfatto. Lo aiuta così a sedurre la sorella Vittoria e combina con lui il
piano per sbarazzarsi del marito Camillo e della moglie Isabella. Flamineo tende
un tranello a Camillo che muore, mentre il duca stesso avvelena la moglie
Isabella, facendo perfidamente avvelenare le labbra di un suo ritratto: in sua
assenza, la fedele e innamorata Isabella bacia l’effige dello sposo e muore. Ma
il popolo indignato chiede si faccia luce su questi efferati delitti: Vittoria
viene così accusata di adulterio e di omicidio e condannata, ma all’ improvviso appare il duca che la
trae in salvo facendola sua sposa. Il duca di Firenze nell’intento di vendicare
l’assassinio della sorella Isabella, manda due suoi sicari a uccidere Flamineo
(che aveva ucciso il fratello minore per un diverbio quasi sotto gli occhi della
madre) e Vittoria, mentre il duca di Bracciano muore avvelenato.
JOHN LYLY
CREA L’EUFUMISMO
E FRANCIS
BACON
ISTITUZIONALIZZA L’ IPOCRISIA
J |
ohn Lyly
(1554?-1606) rappresentante del platonismo derivato da
Marsilio Ficino per la sua opera (1579) “Eufue o l’Anatomia
dello spirito” (Euphues, or the
Anatomy of Wit), seguito (1580) da
“Eufue e la sua
Inghilterra” (Euphues and his
England), aveva tratto ispirazione dal Filocolo del Boccaccio e dai libri
cortesi e d'amore del Cinquecento
italiano.
La trama del
racconto è un pretesto per discussioni di platonismo corrente di tipo concettista,
che nel Cinquecento veniva insegnato nelle nostre accademie, e, senza portare
contributi di pensiero, serviva nella conversazione e nella galanteria.
Con intenti
moralistici, Lyly descrive le avventure di un giovane ateniese, Eufue, nella
corrotta Napoli: il riferimento di Lyly è agli studenti di Oxford nella corrotta
società degli inglesi italianazzati di Londra, che Lyly accusa
di irreligione e di immoralità.
Nel seguito, Eufue
col suo amico Filauto (Philautus), un italiano incontrato a Napoli nella prima
parte dell'opera, giunge in Inghilterra, e seguono le loro avventure. Eufue
tornato in Grecia scrive una lettera alle dame d'Italia, rappresentata ne “Lo specchio di Eufue per l'Europa”
(Euphue‘s Glass for Europe), in cui
descrive l'Inghilterra, le sue istituzioni, le sue dame, i suoi gentiluomini, la
sua regina, con elogio di tutto ciò che sia inglese contrapposto all'attacco
contro l’italianismo della prima parte del romanzo.
L’eufumismo di Lyly aveva tratto ispirazione dall’ “alto estilo” (alto stile) dello spagnolo Antonio de Guevara
(1480?-1545?), autore del “Libro aureo
dell'imperatore Marco Aurelio”
(Libro llamado
Relox de prèncipes o Libro àureo del emperador Marco Aurelio)
(1)
e dal libro
“Il
Maestro” di Roger Ascham
(1515-1568) (2).
L’eufumismo di Lyly
trova il suo cultore in Francis Bacon (3), che nei
“Saggi” (Essay or
Counsels Civil and Moral), di “consigli
civili e morali” ne raccoglie
inizialmente 28 (i primi dieci pubblicati nel 1597), aumentati a 38
nell'edizione del 1612 e portati infine a 58.
Nel 1638 apparve
una traduzione latina, dovuta tutta o in parte a Bacone stesso, col titolo
“Sermones fideles sive
interiora rerum”.
A parte il
pregevole contenuto di questi Saggi, essi hanno impresso un segno indelebile
alla letteratura inglese, la cui tradizione saggistica continua ancora oggi, in
una lingua che tende alla semplicità e quasi diventa secchezza, col risultato
della “frase breve,incisiva e di effetto”
(che trova un tipico esempio nelle celebri frasi lapidarie di Oscar Wilde).
Accanto a queste
doti stilistiche positive, trovano riscontro aspetti negativi propri dell'epoca:
di eufuismo, inteso come ipocrisia morale (di cui ne abbiamo
avuto un esempio, come si è visto,
nella stessa vita della Corte elisabettiana) e di poesia “trascendentale”, con tendenza alla
stravaganza.
Bacone, non si
sottrae alla “ipocrisia morale”
dell’epoca: era infatti uomo di mondo, avido di onori e di successo sociale, e
l’intento dei suoi saggi è quello di offrire “consigli civili e morali” con un fine
utilitaristico di saggezza facile e di comune esperienza di vita (seppur fondate
su testi e tesi autorevoli), con cui dà norme di comportamento per ben riuscire nella vita.
Dopo Lyly è
Francesco Bacone a istituzionalizzare l’ipocrisia in quanto egli insegna
che “i mezzi principali per agire, sono quelli di
riscuotere la fiducia degli altri”, finendo col consigliare di “essere abitualmente riservati in modo da
esser capaci di fingere quando non se ne possa fare a meno”.
Egli poi suggerisce
la sobrietà e la dignità, disapprovando i balli e le recite mascherate che ritiene essere giochi indegni di gente seria; ma,
poiché a corte recite mascherate e non e balli non mancavano, aggiunge... “poiché piacciono ai principi, siano almeno
eleganti e variopinti”!
E così continuando,
non fa altro che dar valore alla esteriorità... e alla ipocrisia, che in Italia
si sviluppa con altri connotati! (4).
1) Il
Marco
Aurelio si compone di due
parti che sono due opere a sé stanti: una biografia romanzesca dell'imperatore
filosofo, e un trattato di etica politica nel quale è incorporata la narrazione.
E’ uno dei tanti
trattati moralistico-politici in cui il realismo di Machiavelli è sostituito da
una apparente concezione del monarca, umanistica e cristiana.
Fingendo di tradurre
un vecchio manoscritto fiorentino, dove si trovano inserite immaginarie lettere
di Marco Aurelio, Guevara ragiona sul principe cristiano (libro 1º), sul suo
modo di comportarsi nei confronti della moglie e dei figli (libro 2º), e sul suo
modo di esercitare il governo (libro 3º).
Lo stile dell’opera
è quello classico dell’epoca barocca, la cui prosa è legata a una ampollosa
retorica e alla erudita interpretazione di luoghi e ricordi classici. Segue una
trama di invettive, lunghi discorsi in forma epistolare, dove si parla della
pace e della guerra, del sentimento naturale della giustizia, intercalata da
aneddoti, tra i quali il famoso “Villano del Danubio”, che protesta
presso il senato di Roma, rivendicando i diritti naturali dell'uomo.
L’opera fu tradotta
in inglese da John Bourchier, Lord Berners (1469?-1533) e pubblicata nel 1534,
ebbe una influenza determinante sul barocco inglese e sull’ “eufuismo” che Lyly, come abbiamo visto,
aveva sviluppato.
Una insolita opera
legata all’eufuimismo è “La nobile
arte” (The Gentle Craft). di Thomas Deloney
(1543?-1600?), pubblicata nel 1598, costituita da una serie di novelle, dedicate
all'arte del calzolaio, in cui Deloney passa in rassegna i calzolai famosi della
leggenda e della storia.
La corporazione era
allora molto popolare in Inghilterra, i cui componenti erano noti per le ballate
che componevano, ove narravano i fatti dei loro colleghi antichi e
contemporanei, e i viaggi che facevano, per vendere le loro mercanzie. Iniziando
da san Ugo, martire sotto Diocleziano, Deloney passa a san Crispino, santo dei
calzolai, perseguitato dall'imperatore Massimino; a Simon Eyre, calzolaio che al
tempo di Enrico VI divenne sindaco di Londra e fondò il mercato del cuoio di
Leadenhall e istituì, diventando così popolare, un giorno di ferie per i suoi
colleghi, ai quali, in quell'occasione, era offerto un rinfresco; a Riccardo
Castelar, che al tempo di Enrico VII morì ricco, lasciando il suo patrimonio ai poveri e
agli ospedali.
Altre storie sono
quella di Mastro Peachey e i suoi uomini, dove è vivacemente narrata una solenne
bastonatura che il calzolaio infligge a insolenti cortigiani e si racconta come
Tom Drim, uno dei lavoranti del Peachey, fosse respinto da una vedova; e quella
di Tom Now-Now, calzolaio e menestrello.
In tutte queste
storie si intrecciano incidenti, scene dal vivo di figure, di amori popolari con
serve d'osteria, di rapporti tra padroni e lavoranti con descrizioni della vita
degli operai, durante il lavoro e nei divertimenti. Particolarmente nelle prime
storie, Deloney tende all'Eufumismo
che espone in uno stile ricco, con metafore, e di greve eleganza. Ma nelle scene
più popolari diventa agile e gaio. Fra i narratori elisabettiani è il più
sciolto e il suo dialogo è il più naturale e il più realistico. Diversi da
quelli di Thomas Nashe, i suoi eroi non sono tipi da romanzo picaresco, ma
operai ai quali Dekker si ispirò nella sua “Festa dei
calzolai”.
2) Roger Ascham (1515-1568), precettore
della principessa Elisabetta, aveva scritto “Il Maestro” (The
Scholemaster), pubblicato postumo (1570), uno dei più venerati trattati
di
educazione del
Rinascimento inglese. Il testo aveva avuto origine da una discussione avvenuta
durante un pranzo con il ministro William Cecil (nel 1563), mentre la Corte si
trovava a Windsor per sfuggire alla peste di Londra. La discussione si era
aggirata soprattutto intorno ai metodi educativi dell’epoca, e la prima parte
costituisce una denuncia dei difetti di quella educazione, dovuti soprattutto
alla durezza della disciplina punitiva, alla incomprensione dei maestri, ai
genitori che mandavano i figli a Corte dove apprendevano a vivere pigramente e a
darsi al gioco. Asham considerava anche i viaggi fonte di corruzione,
particolarmente quelli in Italia, da dove il giovane ritornava con concezioni
errate in fatto di morale, di politica e di religione. Ascham, tuttavia, aveva
tenuto a precisare che le sue idee
sui pericoli dei viaggi non erano suggerite dal disprezzo per le lingue
straniere, e, visto che non aveva molto elogiato l’Italia, della lingua
italiana, che egli, dopo la lingua greca
e latina, amava e gli piaceva sopra ogni altra. Riteneva invece che
la lettura dei libri poteva dare quel compimento che si cercava nel
viaggio. Anche i libri in voga non trovavano la sua completa approvazione, e
condannava la immoralità dei romanzi cavallereschi compresa la “Morte di Arthu” di Thomas Malory. Questa era un’opera
corposa di ben ventun libri, diviso in tre parti (scritta nel 1470), che rappresentava la traduzione e
fusione delle varie leggende di re
Artù e di Lancillotto. Thomas Malory era un gentiluomo di Warwikshire, il
quale, dedito a una vita
avventurosa fatta di violenze e ruberie, finì in prigione dove morì dopo aver
portato a termine, in quindici anni di lavoro, il suo libro dal quale molti scrittori
attinsero, compreso Spenser per il libro sulla Regina delle Fate.
“Il
Maestro”
occupa un posto centrale fra “Il
Governante” di Thomas Elyot e
l’ “Eufue”, dal quale Lyly
prende il nome dell'eroe dei suoi romanzi.
3) Francesco Bacone
(1561-1626) era
nipote del ministro
(Segretario di Stato e Lord tesoriere) William Cecil (Lord Burghley), il
maggiore statista dell’epoca elisabettiana. Considerato da chi segue la poco
storica linea esoterico-massonica degli Iniziati, figlio naturale della
(sterile) regina Elizabetta e Lord Leicester e considerato quindi, il legittimo
erede al trono di Inghilterra. Quando fu bandito dalla regina, egli si recò in
Francia e fece parte della società
segreta di scrittori, le “Pleiadi”,
che aveva per fine il
perfezionamento della lingua francese. Più tardi Bacone avrebbe fondato simili
società Inghilterra, migliorando la
lingua inglese con la traduzione della versione della Bibbia “King James” e
sempre secondo la linea esoterica, sarebbe stato lui l’autore delle tragedie di
Shakespeare, che conterrebbero, in codice, la storia della sua vita e gli
insegnamenti della “Fratellanza Bianca
Universale”.
Bacone è da
considerare il padre dell'empirismo
inglese e progettò una riforma di tutte le scienze con “La grande
restaurazione”
(Instauratio magna), concepita secondo un piano generale di
riforma della scienza di cui furono eseguite solo alcune
parti. Delle sei sezioni
previste ne apparvero solo due complete e una terza incompleta. La prima, costituita
da “Dignità e progresso
delle scienze” (De Dignitate et
augmentis scientiarum); la
seconda “Novum Organum
Scientiarum” pubblicate postume
col titolo di “Sylva
Sylvarum”, che lo pongono come l’iniziatore della
scienza moderna.
Della terza non
rimangono che materiali relativi alla filosofia naturale che furono la
“Nuova
Atlantide” (New Atlantis)
scritta intorno al 1621 poi tradotta in latino (Nova Atlantis), rimasta frammentaria, ricca di echi rosacrociani (come aveva
scritto Yates), in cui mostrava, in
una specie di romanzo scientifico utopistico, uno Stato ideale con una società
in cui si studiasse nel migliore dei modi la natura, a beneficio dell'umanità.
Il titolo richiama l’Atlantide di cui
parla Platone nel Timeo e nel Crizia, che sarebbe scomparsa in seguito a un
cataclisma (e ancora oggi, dopo oltre duemila anni sta facendo impazzire gli studiosi che non riescono
a individuarla!).
L'opera è svolta in
forma di narrazione: durante un viaggio dal Perù alla Cina e al
Giappone in seguito all'approdo forzato, su un’ isola dove si trova la
città-stato ideale di Bensalem, in cui vive una comunità cabbalistico-cristiana appartata dal resto del mondo, per
condurre una vita saggia, non turbata da relazioni con altri popoli; essa aveva
come simbolo una croce rossa e il nome di Gesù e praticava, non una comune
filosofia cristiana ortodossa, ma la filosofia occulta, sospettata di magia
costituita dalla scienza
baconiana.
Nell'isola vi è una
“Casa di Salomone”, o “Collegio dell'opera dei sei giorni”, che
cura gli studi e le ricerche. Ogni dodici anni vengono inviati nei paesi esteri
dei dotti e ricercatori, incaricati di svolgere in incognito una missione di
ricerca, al fine di riportare nell'isola la notizia di tutte le scoperte che
fossero state fatte nei paesi visitati e di cui fossero venuti a conoscenza.
Scopo della “Casa” è quello di
estendere la conoscenza dei fenomeni naturali e il potere dell'uomo. In essa
vengono riuniti tutti i mezzi possibili per raggiungere questo scopo, atti alle
esperienze più svariate, dall'esame del sottosuolo a ciò che vi è di più alto,
dall'allevamento di animali e piante, alla preparazione delle più varie bevande
e allo studio di fenomeni termici e luminosi.
Bacone con
quest’opera vuole attuare l’idea espressa ne “La grande restaurazione” esprimendo, in
forma, in parte mitica e in parte mistica, le aspirazioni proprie di quell'età di una società in cui fosse
la ragione a dominare in un mondo nel quale unica legge fosse quella della natura appena ritrovata dall’Umanesimo.
La massoneria e i
rosacrociani, ritengono che Bacone avesse fatto parte del comitato fondatore
dell’ Ordine Massonico e avrebbe
patrocinato la Società dei “Rosa
Croce”, vale a dire dell’Ordine
rosacrociano originale, che non lo considera morto nel 1626, ma che ritiene
che egli si fosse finto morto, assistendo anche ai suoi funerali,
trasferendosi nel ritiro di Rakoczy
(in Transilvania) per ricevere l'iniziazione finale.
4) La tradizione
italiana della ipocrisia è più
consolidata, con radici che affondano nel cattolicesimo e nella fanatica
repressione operata dalla Santa Inquisizione (con grandi esempi in Leonardo che
scrive all’inverso con grafia speculare (...non solo perché è mancino!), o
Galileo che ritratta ma poi sussurra, se è vero che l’abbia pronunciata, la
frase “eppur si muove”!) .
Nella stessa epoca
(1641) appare un “trattatello di arte
della prudenza” di Torquato Accetto (sec. XVII) intitolato “Della dissimulazione
honesta” col quale l’autore
napoletano, non affronta direttamente la “ipocrisia” (generalmente conosciuto sotto questo
aspetto) ma egli non affronta direttamente l’argomento, se ne tiene alla larga,
ma più sottilmente, possiamo dire in maniera “bizantina” - del riconoscere...ma non troppo! -
... come siamo abituati in Italia -;
da qui il titolo (e le argomentazioni) sulla “dissimulazione onesta” che Accetto definisce “la dissimulazione è una industria di non far
veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello che è”
(e si riporta a Virgilio, e ad altri autori risalendo ad Aristotele) da cui cerca di tener lontana la forma
più grave della “ipocrisia vera e
propria” che porta alla “menzogna”.
La sua “dissimulazione”, è più sottile ed è quella alla quale è necessario
ricorrere nelle relazioni sociali, come egli dice “a fin di bene”. Per questo motivo egli
suggerisce l’antico detto “qui nescit fingere, nescit vivere”, chi
non sa fingere non sa vivere. Accetto conclude con un interrogativo che è un
bell’esempio che giustifica la sua
“dissimulazione onesta”, che per lui è un accorgimento onesto e
non cattivo, perché dà quiete all'animo, impedisce o almeno limita le cattive
azioni alle quali conduce questo mondo fatto di corruzione (e magari fosse così visto che ai
tempi attuali la corruzione ha raggiunto limiti insopportabili...e chi se ne
lamenta è tacciato di essere falso
moralista! ndr.): “Quando un che
doverebbe perire di fame ha fortuna di poter dar il cibo a molti, quando un
ignorante è riputato dotto da chi sa meno di lui, quando un indegno ha qualche
degnità e quando un vile si tiene per nobile, come si potrebbe vivere se tu non
accommodassi i sensi a così duri oggetti?” Come dire, siate ipocriti, ma con
giudizio!
LA MAGIA
NELLE TRAGEDIE
DI
WILLIAM SHAKESPEARE
Frances Yates
seguendo il filone magico, ha dato una nuova chiave di lettura alle tragedie
shakespeariane, sostenendo che sulla dimensione esoterica di Shakespeare si
aprono molteplici e affascinanti prospettive di ulteriori ricerche, rammaricandosi di
non aver potuto andare oltre nei suoi studi, come per esempio non ha potuto
approfondire la figura del “frate
rinascimentale” di “Giulietta e Romeo”
(1) .
Ci auguriamo che
questi nuovi orizzonti tracciati dalla Yates non siano lasciati “unica vox” e siano proseguiti da
studiosi delle nuove generazioni. Noi, nel nostro piccolo, rendiamo omaggio alla
storica riprendendo ciò che essa ha scritto nelle sue opere (riportate a fine
articolo).
La produzione di
Shakespeare (*), scrive Yates, si
svolge nell’ultimo ventennio tra ‘500 e ‘600, epoca in cui si era sviluppato il
feroce attacco contro il neoplatonismo
rinascimentale che aveva avuto come vittima illustre Giordano Bruno. E così
l’autrice passa in rassegna le tragedie in cui essa trova riferimenti a noti
personaggi storici.
Nel
“Re Lear” Yates trova
rispecchiata la figura di John Dee in povertà e disgrazia presso la regina,
vecchio, sfinito e mal ricompensato pur avendo dedicato la sua vita alla
monarchia britannica, con allusioni al suo occultismo, attraverso le presunte
possessioni diaboliche di Tom o’ Bedlam.
In questa tragedia
(scritta dopo la morte di
Elisabetta), la storia di re Lear, delle sue figlie e della fedele Cordelia (ripresa dalla Cronaca britannica della Faerie Qeene di
Spenser), costituisce il preliminare storico di Gloriana (Elisabetta) e del suo mondo
messianico.
Nella Cronaca britannica si parla della
leggenda della discendenza da Bruto
dei re britannici, adattata al regnante Giacomo
I.
Con la figura di Tom o’ Bedlam, che gesticola accanto a
Lear sulla landa battuta dalla bufera, Shakespeare introduceva il tema della
demonologia in uno scenario melanconico. La cosa straordinaria, scrive Yates, è
che questi demoni nella notte di re Lear sono delle finzioni: Tom o’ Bedlam in realtà è Edgardo travestito che simula la
possessione demoniaca
Ne
“La Tempesta” scritta anche dopo la morte di Dee, egli
è adombrato nella figura di Prospero
presentato come un mago buono
in un tempo in cui la pratica della magia era considerata come un capo di
accusa della propaganda
reazionaria.
In quest’opera
troviamo il mago Prospero evocatore di spiriti che riflette l’influenza del “De occulta philosophia” di Agrippa
(messo in luce, precisa Yates, da Franke Kermode nel 1954). La magia di Prospero, prosegue
Yates, è magia bianca, sottolineata dall’enfasi
della castità contenuta nei consigli di Prospero all’amante di sua figlia e in
altre parti dell’opera. La magia bianca nobile, intllettuale e pura di Prospero
è contrapposta alla magia nera, vile e sozza, della strega malvagia Sicorace e
di suo figlio. Prospero usa “De
occulta philosophia” per evocare gli spiriti buoni (il nome di Ariel è menzionato nel libro
di Agrippa) e prende il sopravvento e il controllo sulla cattiva magia della
strega.
Il linguaggio della
Tempesta, scive Yates, “è completamente
impregnato di spirito alchemico e della relativa idea di trasformazione”
(citando i versi: A ben cinque tese sul
fondo giace tuo padre. Di coralli son fatte le sue ossa - Full fathom five the father lies. Of his
boues are coral made), concludendo, scrive Yates: “Per quanto Shakespeare non abbia mai
impugnato una bacchetta, nè pensato se stesso come mago egli è un mago, maestro dell’uso incantatore delle
parole e della poesia come magia. Questa fu l’arte in cui eccelse e che Prospero simboleggia.
E Yates non si
ferma qui e si chiede:- Di che genere è
la magia di Prospero?
E risponde: Il
problema è stato molto discusso negli anni recenti e non espongo nulla di
sorprendente osservando che
Prospero, come mago sembra agire sulla falsariga del famoso manuale di magia del
Rinascimento di Cornelio Agrippa, il “De
occulta philosophia” (v. sopra). Per primo Frank Kermode, nella edizione
Arden (1954) ha indicato Agrippa come ispiratore dell’arte di Prospero. Prospero
in qualità di mago, dice Kermode, esercita una disciplina basata sulla su una
virtuosa conoscenza; la sua arte è la conquista di “un intelletto puro e alleato ai poteri degli
dei senza i quali (e quì
Kermode cita direttamente da Agrippa) non
giungeremo mai felicemente a scontare le cose arcane e a compiere opere
prodigiose” .
In breve, conclude
Yates Prospero ha appreso quella “occulta philosophia” insegnata da Agrippa e sa
come metterla in pratica. Inoltre, come Agrippa, Shakespeare chiarisce assai
bene nella “Tempesta” come la nobile
intellettuale , virtuosa magia del vero mago sia del tutto diversa dalla vile, e
sozza stregoneria e negromanzia. Prospero è agli antipodi della strega Sicorace
e del suo malvagio figliolo. In verità Prospero, in quanto mago buono ha una
missione riformatrice: egli purifica il mondo della sua isola dalla perfida
magia della strega, ricompensa i personaggi buoni e punisce i malvagi. E’ un
giudice equo o un sovrano virtuoso e riformatore che si avvale dei suoi poteri
magico-scientifici a fin di bene. Il trionfo di una riforma liberale e
protestante in Enrico
VIII ha il suo
corrispettivo nel La
Tempesta, nel trionfo di un
mago riformatore nel mondo fantastico dell’isola incantata. E qual’è il sistema
intellettuale entro cui funziona la magia. E quì Yates introduce il concetto sviluppato da Agrippa
dell’ Universo diviso in
tre mondi: il mondo degli elementi
della natura terrestre; il mondo delle stelle; il mondo sovraceleste degli
spiriti o intelligenze o angeli. La
magia naturale agisce nel mondo degli elementi; la magia celeste, agisce nel
mondo delle stelle; la magia religiosa agisce nel mondo sovraceleste degli spiriti e intelligenze che possono
essere evocati dal mago nobile (sopra, nota 7 par Il Neoplatonismo ecc., abbiamo
fatto riferimento alle evocazioni di John Dee nda), i nemici di questo genere di evocazione la chiamarono “evocazione diabolica” a causa del
pericolo di evocazione degli spiriti maligni o demoni invece degli angeli.
Prospero ha il potere evocatore e compie le sue invocazione ma per mezzo del suo spirito, Ariel che
egli evoca a suo piacimento. Prospero, dice Yates, tra la magia e la cabala, di
Agrippa, sembra usare la magia
evocatrice cabalistica, piuttosto che la magia risanatrice di Cerimone o la
profonda magia naturale che pervade “Il
racconto d’inverno”. E’ inevitabile, conclude Yates pensando a Prospero
ricordare John Dee, proseguendo sulla figura e sulla prefazione all’Euclide di
cui abbiamo parlato a proposito dello sfortunato Dee.
Nel
“Mercante di
Venezia” si avverte
l’influenza della cabala cristiana
di Francesco Giorgi. Le fate di Shakespeare sono affini alla “Regina delle
Fate” per la loro lealtà
e per la fervida difesa della castità.
Le fate, nelle
“Allegre comari di
Windsor”, contengono
riferimenti alla regina, all’Ordine della
Giarrettiera e alla Cappella della
Giarrettiera a Windsor.
Le fate sono
utilizzate per indicare una morale
di castità e puniscono Falstaff per
la sua lussuria, scrivono con i fiori il motto dell’Ordine della Giarrettiera
(Honny soit qui male y pense) e ne
decorano la Cappella; sono le paladine della pudicizia, di una regina casta e
della sua pura cavalleria; hanno il compito di operare la magia bianca per salvaguardare la regina e il suo
ordine cavalleresco dagli influssi malefici.
Le fate
elisabettiane, precisa Yates, non sono di derivazione folcloristica popolare, ma
derivano dalle leggende arturiane e dalla magia bianca della cabala cristiana.
Yates trova che la
maggior espressione del mondo
fatato di Shakepeare, si riscontra nel Sogno di una notte di mezza
estate, (ripreso, come
già detto, da The Discovery of
Witchcraft - La scoperta della
stregoneria - di Reginald Scot), dramma
magico sugli amanti incantati ambientato nel mondo notturno rischiarato dalla
luna, dove le fate sono al servizio di un re e di una regina fatati. In esso si
trova abbozzato il ritratto di Elisabetta descritta come vergine vestale con una casta Luna che
sconfigge gli assalti di Cupido: “l’augusta vestale” è la sintesi del
culto di Elisabetta quale emblema della “riforma imperiale” (v.
sopra).
La metafora di
Elisabetta vergine, prosegue la Yates, è rappresentata nel famoso ritratto di “Elisabetta col setaccio”
dai ricordi petrarcheschi, che
rappresenta la castità della Vergine vestale Tuccia del Trionfo della Pudicizia (dei Trionfi); sul setaccio vi è
l’iscrizione “A terra il ben mal dimora
in Terra”; dietro di lei (non visibili nella nostra riproduzione) si erge la
colonna con alla base una corona imperiale e la scritta “Stancho riposo e
riposato affanno”; il globo al suo fianco mostra le isole britanniche che
alludono alla sua investitura regale in terra d’occidente, secondo la
descrizione di Shakespeare (...Cupido
armato d’arco, ed ecco puntarlo su una vestale, bella sul trono, in terra
d’occidente. Scoccò il dio fanciullo...ed ecco vidi il suo strale fiammeggiante
trascolorare ai casti raggi della
rorida luna e l’augusta vestale passar oltre tutta assorta nei suoi vergini pensieri,
intatta ); il globo reca il motto “Tutto vede e molto mancha” . Dietro la
regina, alla sua destra, sulla colonna vi sono nove medaglioni che raccontano la
storia di Didone e Enea, con, dal basso, sulla corona imperiale, da destra verso
sinistra Enea che fugge da Troia; l’arrivo dei troiani a Cartagine; l’incontro di Enea e Didone nel tempio
di Giunone. La serie superiore mostra Enea e Didone insieme; il banchetto
durante il quale si innamorano, con il suonatore d’arpa cieco, Iopa in primo
piano; Didone e Enea mentre cacciano; l’ultima serie mostra Mercurio mentre
annuncia a Enea che deve partire: Didone sul rogo: la partenza dei troiani.
Sullo sfondo cavalieri che (secondo Yates) potrebbero essere impegnati a
scacciare il dominio del male sul mondo, istituendo il governo del puro impero
della casta Vergine Imperiale.
In “Pene d’amor
perdute” Shakespeare fa
riferimento innanzitutto alla “School of Night-Scuola della notte” che, come
accennato sopra, nell’epoca elisabettiana vedeva riuniti matematici, poeti,
filosofi dediti allo studio della cabala proveniente dall’opera di Chapman “The Shadow of the Night” (Lo Spirito
della Notte) in cui si allude, come ritiene Yates, alla malinconia ispirata (v. sopra in Melancolia di Dürer) che costituisce un trattato essenziale della
trama principale in cui Byron rappresenta il saturnino buono e la bruna Rosalina, nera come la
pece, rappresenta il “furor ispirato”
(vale a dire la malinconia).
In “Come vi piace” è richiamata la
teoria di Cornelio Agrippa sulla melanconia, in cui troviamo Jaques (che
nel nome evoca Aiax), l’emblema
della follia melanconica. Egli nella foresta di Arden osservando le scene
di vita dell’uomo, dalla culla alla tomba, ha l’ispirazione dettata dalla
malinconia, quella di voler fare la morale ai tempi ed è prossimo alla follia,
perchè, come ha imparato dal buffone “Pietra di paragone”, la libertà del
pazzo è quella di dire ciò che pensa, l’ispirazione della malinconia è quella di
dire la verità
.
Il personaggio
preannuncia il più famoso melanconico di tutti i tempi, “Amleto”, il principe di
Danimarca.
La tragedia si apre
nella più profonda oscurità della notte con un’apparizione spaventosa: lo
spettro del padre. L’atmosfera occulta, scrive Yates, ha una forte intensità.
Nella notte tenebrosa Amleto è combattuto
da melanconici problemi e la
Yates si chiede: la sua è l’ispirata
melanconia che dona l’ispirazione poetica rispetto a una situazione infelice
e gli dice come comportarsi rettamente e profeticamente in tale situazione? O si
tratta di un sintomo di debolezza simile alla melanconia delle streghe, che lo
rende piegato alla possessione diabolica e all’inganno di spiriti maligni?
Questi, dice Yates, erano gli interrogativi posti da Amleto ed erano i problemi
che infuriavano a quel tempo.
In “Machbeth” infine, scritto
dopo la morte di Elisabetta, il mondo di Machbeth e della moglie è veramente una
“Scuola della Notte” dove le streghe
incitano all’assassinio. La profonda condanna di questo atto è proclamata a suon
di tromba dagli angeli e dai “celesti
cherubini” la cui armonia universale si ode soltanto nella forma del
giudizio e la magia che precorre il dramma è la magia cattiva e la negromanzia è
quella malefica.
“Cimbelino”, sebbene abbia un lieto fine, fu
stranamente inserito dagli editori nelle tragedie: il racconto è romanzesco, un
masque, in ogni caso si tratta di
storia britannica che ricorre nella “Storia dei re di Britannia” di Goffredo
di Monmouth (v. sopra), come predecessore di re Artù (allo stesso modo di re
Lear, v. sopra), da cui Shakespeare ne prende i soggetti, i due figli di
Cimbelino, Guiderio e Arvirago,
lasciandosi poi guidare dalla sua fervida fantasia.
Il regno di
Cimbelino, ci dice Yates, come riferisce Spenser in “Faerie Queene” (v. sopra), era coinciso
con quello contemporaneo di Augusto a Roma, sotto il quale era nato Cristo e
nella sua storia Shakespeare trova elementi capaci di esprimere i presagi di un
nuovo mondo spirituale, in cui si preannuncia una nuova rivelazione, simile alla
rivelazione di Cristo.
La scrittrice
sottolinea che Shakespeare “attinge a
quei filoni di pensiero che seguivano l’interpretazione tradizionale della idea
imperiale secondo la quale l’Impero romano fu santificato e cristianizzato
perché Cristo aveva scelto di nascere sotto il regno dell’imperatore
Augusto”, aggiungendo che “la
justitia e la pax universale e
imperiale, furono santificate grazie a quella nascita e attraverso
l’interpretazione della profezia di Virgilio (IV ecloga) riferita sia alla pace, sia alla
giustizia dell’età aurea di
Augusto, sia alla nascita di Cristo, Principe della Pace, avvenuta in quel
tempo”.
“Questa
interpretazione cristianizzata dell’impero, spiega Yates, e il simbolismo che la accompagnava, erano
noti nell’Inghilterra dei Tudor, costituendo parte integrante della propaganda
per il monarca che aveva attuato la riforma della
Chiesa”.
1)
“Giulietta e
Romeo”. La trama della
storia dei due amanti, prima di giungere a Shakespeare che l’aveva resa immortale,
aveva avuto un lungo percorso: ripresa da Luigi da Porto (1485-1529) dal “Novellino” di Masuccio Salernitano (sec.
XV), essa si svolgeva a Siena. Luigi da Porto su quella trama, aveva scritto
(1524) “Giulietta e Romeo” cambiando
così i nomi originari di Giannozza e Mariotto e trasportando il racconto a Verona, con
due redazioni di quest’opera, una intitolata “Historia novellamente ritrovata di due
nobili amanti” e l’altra “Historia di
due amanti”, la cui storia è ambientata al tempo della signoria di
Bartolomeo della Scala (1300-1304) e sulla base del verso di Dante (che era
stato ospite proprio di Bartolomeo) “vieni a veder Montecchi e Cappelletti”
(Capuleti), alle quali era stata attribuita la sanguinosa rivalità, in cui era stato inserita la storia
d’amore l’amore di Giulietta per Romeo. Matteo Bandello (1485-1561) tra le sue
Novelle aveva riportato il racconto di Luigi da Porto e Pierre Boisteau
(1485-1561) lo aveva a sua volta divulgato e la sua versione fu introdotta in
Inghilterra,inserita nei racconti del “Palazzo del Piacere” di William Painter
(v. sopra nota 1, par. Il neoplatonismo italiano ecc.) e liberamente interpretata da Arthur
Brooke nel poema “The tragic History of Romeo and Juliet” (1562), da cui Shakespeare aveva ripreso il racconto
(1591/95).
*) Ci sembra il caso di
riferire, per mera curiosità, che della genialità di Shakespeare, anche nei
secoli successivi, nessuno ha mai avuto dubbi. L’unico ad averlo criticato con
il suo innato sarcasmo, è stato il benamato e ammirato Voltaire, il quale aveva,
sebbene inutilmente, scritto (1776) all'Accademia di Francia, perché impedisse
la stampa della traduzione del teatro shakespeariano, condotta da Le Tourneur,
dando di Shakespeare la famigerata definizione (che a noi fa solo sorridere) di
“selvaggio ubriaco” e “barbaro istrione”.
Contro Voltaire si
era scagliato il letterato italiano Giuseppe Baretti (1719-1789) che conduceva rivista “La Frusta Letteraria”, il quale indignato, replicò con un libro di
quasi duecento pagine “Discours sur Shakespeare et sur monsieur de
Voltaire” con cui difendeva il genio shakespeariano nella sua libertà espressiva e nella sua irrazionalità, che lo rendevano
incomprensibile al gusto classicheggiante francese, legato ai
canoni classici di Omero, Corneille e Racine ed essenzialmente letterario e
razionalista, del quale Voltaire era l'erede. Baretti col suo libro
esordisce raccontando un aneddoto di Voltaire che dice a una signora che le
opere di Shakespeare sono un enorme letamaio e la signora avrebbe risposto che
con quel letame era stata fertilizzata una Terra piuttosto ingrata.
Voltaire, com’è
noto, si aspettava fama e onori (che nella sua epoca non gli erano mancati), con
le sue opere teatrali, pur ammirate nel suo secolo, ma dimenticate nei secoli
successivi. Il suo errore era stato quello di non essersi reso conto che mentre
i suoi canoni erano legati alla classicità del passato (mirava a raggiungere
Racine e Corneille), Shakespeare stava correndo verso il futuro. La modernità di
Voltaire e la sua fama immortale è
derivata dalle opere filosofiche alle quali non aveva dato nessuna
importanza e che scriveva come “divertissement”.... che ha offerto a noi e continuerà a dare nei secoli
futuri.
CONFERENZE
SULLA LETTERATURA
DRAMMATICA
DELL’ETA’
ELISABETTIANA
DI WILLIAM HAZLITT
Chiudiamo
l’argomento con il riferimento a un fondamentale e famoso testo della
Letteratura Inglese, che purtroppo nessun editore italiano (per imprescrutabili
motivi la cui comprensione sfugge ai comuni mortali) si è mai sognato di
tradurre: è il testo delle Conferenze sulla
Letteratura Drammatica dell’età elisabettiana (Lectures on the Dramatic Literature of the
Age of Elizabeth) del critico inglese William Hazlitt (1778-1830).
Si tratta di una
serie di otto conferenze (tenute nel 1820 alla Surrey Institution e pubblicate
nello stesso anno), che non riguardano esclusivamente il teatro dell’epoca elisabettiana con la quale
non si intende strettamente il periodo di regno di Elisabetta ma tutto il
periodo che, iniziato dalla riforma protestante, si esaurisce nell’epoca di
Carlo I e di Carlo II, e più precisamente
fino alla chiusura dei teatri (1642): le conferenze infatti abbracciano tanto i
primordi del teatro inglese quanto i successori di Shakespeare.
Esse non seguono
uno stretto ordine cronologico:
Nella prima, di
carattere introduttivo, l'autore insiste sull'elemento nazionale che si ritrova
nella letteratura elisabettiana, mettendo in rilievo l'individualismo e il
sentimento umano che da essa emergono e come la riforma servisse ad esaltarla,
confutando il celebre detto di Samuel Johnson: “che gli elisabettiani fossero ricercati
perché rari e che non sarebbero stati rari se fossero stati molto apprezzati dai
contemporanei”.
Nella seconda,
terza e quarta passa a trattare dei contemporanei di Shakespeare, da Lyly e
Marlowe fino a Ben Jonson, Ford e Massinger.
Nella quinta,
facendo un considerevole passo indietro, tratta delle origini del teatro
inglese, parlando dell'intermezzo di John Heywood. “I quattro PP” (The Four PP), delle
commedie anonime, “L'ago della comare
Gurton” (Gammer Gurton's Needle) e “Il ritorno del Parnaso” (The Return from
Parnassus), l'unica parte conosciuta allora della trilogia “Parnassus” venuta alla luce più tardi, e
di altri drammi di epoche diverse come la commedia, pure anonima, “L'allegro diavolo di Edmonton” (The
Merry Devil of Edmonton), e infine la rappresentazione morale “Lingua”, di Thomas Tomkis (1607).
Nella sesta si
occupa della poesia lirica e particolarmente di “William Drummond of Hawthornden”, di Ben
Jonson, di Robert Herrick e di Andrew Marvell e del romanzo
pastorale-cavalleresco di Sir Philip Sidney, “Arcadia”.
Nella settima
illustra l'arte di Bacone, di Sir Thomas Browne e di Jeremy Taylor; nell'ultima
infine, per concludere, Hazlitt paragona lo spirito della letteratura antica con
quello della letteratura moderna e il teatro tedesco con quello elisabettiano.
E’ da dire che in
effetti l’unico autore elisabettiano che Hazlitt conoscesse intimamente era
Shakespeare, al quale aveva dedicato degli studi sui “Caratteri dei Personaggi delle opere di Shakeseare”
(Characters of Shakespeare's Plays) (1), rivaleggiando non
tanto con Coleridge, di cui ignorò completamente le conferenze, quanto con
August Wilhelm Schlegel.
Hazlitt, sia
nell’uno sia nell’altro testo non si curò di fare critica storica o filologica,
ma mirò alla loro divulgazione, facendo così conoscere gli autori elisabettiani,
illustrandone le caratteristiche e mettendone in rilievo i passi più belli o più
significativi.
Tutto ciò non era
molto diverso da quanto Charles Lamb aveva inteso fare dodici anni prima con i
suoi “Esempi dei poeti drammatici
inglesi” (2). Anche con i
giudizi di Lamb, Hazlitt si trovò assai spesso d'accordo e poiché la
critica elisabettiana era appena
agli inizi, Hazlitt seguì il proprio gusto letterario che pareggiò quello di
Lamb.
1) Hazlitt nei
“Personaggi delle opere
di Shakespeare” (Characters of
Shakespeare's Plays) del 1817, prendendo lo spunto dalla rivalutazione
dell'opera shakespeariana compiuta in quegli anni da Schlegel, confuta i giudizi
dati su Shakespeare da Johnson, incapace per forma mentale, di comprendere le
variegate sfumature delle sue
opere, e si propone, esaminando particolarmente i drammi, di provare come ogni
singolo carattere in Shakespeare sia individuale, come quelli della vita stessa,
e sia impossibile trovarne due simili.
Egli incomincia con
l'analizzare “Cimbelino”, in cui vede
il più bel dramma storico di Shakespeare, accentrato intorno alla inalterabile
fedeltà di Imogene. Poi rivolge
speciale attenzione a quelle che sono generalmente stimate le quattro principali
tragedie shakespeariane: “Re Lear”,
superiore per profonda intensità della passione; l’immaginoso “Macbeth”, con la rozza austerità di
un’antica cronaca, ravvivata dalla sbrigliata fantasia di un poeta; la bellezza
di “Otello” che si dipana nelle
possenti alternative del sentimento, e nella figura di Jago, esempio di morbosa attività
intellettuale, unita a una perfetta indifferenza morale; in “Amleto” ammira il raffinato sviluppo del
pensiero e del sentimento e il carattere del protagonista “fatto di linee ondulate” e “flessibile come un'onda del mare”; “Timone di Atene”, è l'unico dramma di
Shakespeare in cui il sentimento dominante sia l'ipocondria; “Troilo e Cressida”, slegato e
frammentario, contiene tuttavia molte cose belle per la fusione del ridicolo e
dell'ironico, con il maestoso e l'appassionato. Nella “Tempesta”, caratteri umani e fantastici,
drammatico e grottesco sono fusi con arte insuperabile. In Giulietta e Romeo, l'unico dramma
shakespeariano interamente fondato su una storia d'amore, tutto parla l'ardente
e sacro linguaggio della passione.
Hazlitt passa poi
ad analizzare la serie dei drammi storici che danno uno splendido quadro del “buon tempo antico”. Analizzando poi le
commedie shakespeariane, che Hazlitt definisce “commedie della natura” in
contrapposizione alle commedie artificiali di Congreve e della sua scuola.
Hazlitt osserva come “La notte
dell'Epifania” sia una costante fusione di romantico e di entusiasmo, “I due gentiluomini di Verona” un abbozzo che contiene però passi
altamente poetici, il “Racconto
d'inverno”, un insieme
delizioso di passione tragica, dolcezza romantica e umorismo comico, “Tutto è bene quel che finisce bene”
un'incantevole commedia tratta da una novella del Boccaccio. Nel “Mercante di Venezia” , Shylock è un “robusto odiatore” e la scena del
processo un capolavoro di abilità drammatica; “Le allegre comari di Windsor” sono
amene, ma Falstaff (inserito nella commedia per espressa richiesta di
Elisabetta) ha perduto in esse spirito ed eloquenza. Dopo qualche breve cenno
alle altre commedie minori e ai poemi e sonetti, Hazlitt conclude che soltanto
nelle opere drammatiche Shakespeare è grande, “perché soltanto rappresentando gli altri
diveniva veramente se stesso”. In queste sue analisi, Hazlitt ci dà un
esempio di filosofia della vita e della natura umana.
2) Charles Lamb
(1775-1834), aveva raccolto e commentato con note critiche ed estetiche in “Esempi di poeti drammatici inglesi che
vissero intorno all'epoca di Shakespeare” (Specimens of English Dramatic
Poets who lived about the Time of Shakespear), una antologia di drammaturghi “elisabettiani”, di autori come Thomas
Kyd, Christopher Marlowe, John Marston, Thomas Middleton, Cyril Tourneur, John
Webster, John Ford, Philip Massinger, Beaumont e Fletcher, Ben Jonson e
altri.
Charles Lamb è
stato il primo autore a rivelare al pubblico la vasta produzione di tutto il
periodo elisabettiano, rivelando le inaspettate bellezze di questi autori che,
all’infuori di Jonson, Beaumont e Fletcher erano assolutamente sconosciuti. I
suoi “brevi e succosi commenti”, pur
non penetrando nello spirito delle opere, invogliano il lettore a conoscere
l’intera opera di cui egli riporta l’estratto. L’opera segna una data importante
nella critica romantica e nella storia della fortuna del dramma
inglese
BIBLIOGRAFIA DI
FRANCES YATES.
GLI ARGOMENTI DI
RIFERIMENTO A FRANCES A. YATES SONO
STATI TRATTI DALLE OPERE: ASTREA: L’IDEA DELL’IMPERO NEL CINQUECENTO; CABBALA E
OCCULTISMO NELL’ETA’ ELISABETTIANA; GIORDANO BRUNO E LA CULTURA EUROPEA DEL
RINASCIMENTO; GIORDANO BRUNO E LA TRADIZIONE ERMETICA; L’ARTE DELLA MEMORIA; GLI
ULTIMI DRAMMI DI SHAKESPEARE: UN TENTATIVO DI APPROCCIO.
FINE