I PECENEGHI
E L’IMPERO
BIZANTINO
SECONDO LA CRONACA DI NESTORE
a cura di Michele E. Puglia
I |
peceneghi (o pazinaci) di origine
asiatica, appartenevano alla stessa famiglia dei turchi, turcomanni e povlosti;
della loro comparsa in Russia ne parla Nestore nella sua Cronaca, in riferimento all’assedio di Kiev (968), che in una
innumerevole moltitudine avevano posto l’assedio alla città dalla
quale non potevano uscire messaggeri per andare a chiedere aiuto, mentre gli
abitanti erano spossati dalla fame e dalla sete; di costoro, quelli che si
trovavano dall’altra parte del Dnieper con i loro battelli erano bloccati
sulla riva e non avevano la possibilità di entrare in città e di
comunicare con loro; ma in città un giovane che conosceva la lingua dei
peceneghi si offrì di uscire dalla città e trovandosi tra costoro,
chiese se qualcuno avesse visto se fosse passato un cavallo.
Con
questo escamotage nessuno
l’aveva fermato e giunto sulla riva del fiume si tolse i vestiti nuotando
verso l’altra riva; quando i peceneghi se ne accorsero gli lanciarono le
loro frecce che non riuscirono a raggiungerlo, mentre quelli che erano sulla
riva lo raggiunsero in barca e lo condussero dal loro capo, al quale egli disse
che se l’indomani mattina non fossero andati a salvare la città,
gli abitanti si sarebbero arresi ai peceneghi.
Il capo
si chiamava Prietilch il quale rispose che l’indomani sarebbero andati a
prendere la principessa Olga e il piccolo principe e sarebbero tornati sulla
loro riva: se non lo avessero fatto, Sviatoslav (939-972, v. in Specchio
dell’Epoca: L’antico Stato
russo), li avrebbe fatti mettere a morte.
L’indomani
all’alba saliti sui battelli, suonarono fragorosamente le trombe e gli
abitanti in città la riempirono di grida; i peceneghi, pensando che
fosse arrivato il principe, fuggirono da tutte le parti e Olga uscì con
il bambino e gli abitanti recandosi sui battelli. Il principe (Nestore usa questo titolo che ci sembra inadatto a un capo di
tribù nomadi) dei peceneghi avendo visto tutto questo si recò da
solo da Prietilch dicendogli: Chi
è venuto? e l’altro, Gente
dell’altra riva; e il capo dei peceneghi: E tu, sei tu il principe? E l’altro risponde: Io sono il voivoda e sono venuto in
avanguardia e dopo di me il principe arriverà con una innumerevole
armata, dicendo questo in tono minaccioso. Il principe dei peceneghi
(ripiegando sul rapporto di amicizia ndr.), rispose “consento” e si diedero la mano e donò a Prietilch un
cavallo, una sciabola e delle frecce; il voivoda donò un’armatura,
uno scudo e una spada e i peceneghi si allontanarono dalla città e non
comparvero più se non per abbeverare i cavalli al fiume.
Gli
abitanti di Kiev inviarono un messaggio a Sviatoslav dicendogli: “Principe, tu cerchi paesi stranieri e hai
negligenza per i tuoi; è mancato poco che i peceneghi prendessero noi,
tua madre e i tuoi bambini; se tu non vieni a difenderci, saremo ancora invasi;
non hai cura della tua patria e della tua vecchia madre e dei tuoi bambini?”
Lamentandosi quindi di ciò che avevano subito dai peceneghi.
Sviatoslav,
inteso ciò, montò sul suo cavallo e si recò a Kiev dove
abbracciò la madre e i suoi bambini, deplorando ciò che avevano
fatto i peceneghi; quindi raccolto il suo esercito, si recò presso i
peceneghi che ricacciò nelle steppe e da allora regnò la pace.
Erano
divisi in tredici tribù distinte ciascuna con i nomi del proprio
antenato; erano nomadi e vivevano sotto tende, spostandosi continuamente con
numerosi carri nella vaste pianure del Dnieper e Danubio; avevano ripetutamente
saccheggiato la Bulgaria e il vasto “thema”
di Tracia.
Erano
anch’essi, come già detto, di origine asiatica e costituivano una
delle popolazioni scite più numerose e potenti del momento.
Essi incominciano
a prendere di mira l’impero bizantino durante il regno di Costantino VII Porfirogenito, e in
particolare durante il regno di Costantino IX; poi scompaiono senza lasciar
traccia.
Avevano
concluso con l’impero bizantino un trattato di pace, ma una delle
tribù erranti aveva provocato l’imperatore (Costantino IX) in una
guerra.
Il capo
supremo delle tribù era Tyrak (o Tyrach) figlio di Kilter, un capo
pacifico e amante dell’ozio e aveva lasciato il comando delle
tribù a Kegenis figlio di Baltasar, di umile estrazione e famoso tra i
suoi per la sua bravura, per la sua straordinaria attività e il talento
militare.
Gli uzi,
discendenti degli unni, eterni nemici dei peceneghi, con i cazari, verso la
fine del Xmo sec. li avevano cacciati dai loro stanziamenti tra il Volga e il
Don e non cessavano di far loro guerra.
Kegenis
aveva però riportato su di loro numerose vittorie, ma Tyrach non
volendoli affrontare preferiva starsene nascosto tra le paludi che circondavano
il Danubio, col risultato che i peceneghi che rispettavano Tyrach per le sue
nobili origini, apprezzavano Kegenis per le sue rare virtù militari;
Tyrach mortalmente geloso di Kegenis cercava in tutti i modi di disfarsene e
aveva inutilmente tentato di farlo cadere in trappola; alla fine inviò
una truppa per catturarlo e riuscì a far sollevare la sua tribù, denominata
Belmarnis e un’altra (denominata Pagumanis), ma Kegenis ebbe
l’audacia di scagliarsi contro Tyrach seguito dalle altre undici
tribù, e fu vinto dopo un violento combattimento, per cui non ebbe altro
modo per salvarsi che attraversare il fiume e rifugiarsi in territorio greco su
una piccola isola che fronteggia Dorostolon (Silistria), con i suoi ventimila
(le cifre dei cronisti sono sempre da prendere con una certa cautela!).
Egli fece
sapere al comandante imperiale della zona (Michele, figlio di Attanasio) che
egli non aveva alcuna intenzione di invadere il territorio imperiale, ma erano
le circostanze ad averlo costretto
e si metteva a disposizione dell’imperatore.
Michele
avvertì l’imperatore che inviò l’ordine di accogliere
il fuggitivo e mandarlo con una scorta a Costantinopoli.
Kegenis,
accolto magnificamente da Costantino IX, chiese il battesimo per sé e i
suoi uomini (la cerimonia fu eseguita dal monaco Eutimio) e Kegenis fu creato,
secondo il costume diplomatico bizantino, patrizio e fu ricoperto di doni e di
onori e ammesso tra gli alleati dell’impero gli furono assegnate tre
piazzeforti sul Danubio, con un vasto territorio per la creazione di una
colonia militare che potesse far da guardia a quel territorio.
Il monaco
Eutimio che aveva seguito Kegenis, provvide a battezzare e benedire, sulle rive
del Danubio, i ventimila barbari.
Era,
commenta il cronista, l’eterna politica bizantina di dividere il nemico
sulle frontiere per sbarazzarsene facendoli indebolire con le loro lotte
intestine.
Ma questa
volta le cose andarono diversamente: Kegenis non si sentiva sicuro sulle rive
meridionali del Daubio e alla testa di duemila cavalieri attraversò il
fiume non riversandosi contro i suoi antichi compatrioti e non dando loro
né tregua né riposo, massacrando tutti quelli che incontravano
sulla loro strada facendo prigionieri donne e bambini che vendevano ai greci.
Tyrach
inviò dei messaggeri all’imperatore per lamentare che egli, grande
sovrano, aveva dato asilo sul suo territorio a dei ribelli; che se egli non
riteneva mandarli via dal loro asilo, almeno di proibirgli di attraversare il
Danubio per commettere atti di brigandaggio nei confronti di un popolo amico
dell’impero; aggiungendo che nel caso l’imperatore si fosse
rifiutato e di concedere la giusta riparazione, egli minacciava una guerra
senza pietà.
Costantino
IX sentitosi oltraggiato da tanta insolenza, rinviò i messaggeri senza
dare una risposta e inviò l’ordine a Michele e a Kegenis di
rinforzare la sorveglianza delle rive del Danubio, facendo sapere che se i
peceneghi avessero tentato una invasione, egli avrebbe inviato in soccorso
truppe dell’armata dell’Asia; nello stesso tempo inviò nel
Mar Nero una flotta di cento navi per sorvegliare il corso del Danubio.
Tyrach
attese il terribile vento del nord che copriva di una spessa coltre di ghiaccio
il Danubio, spesso venti piedi, rendendo impossibile la sua difesa, e alla
testa di ottocentomila (!) uomini invase la Bulgaria massacrando e bruciando
tutto ciò che trovavano sul loro passaggio.
L’imperatore
fece immediatamente partire il duca di Adrianopoli, il magistro Costantino
Arianites con tutte le truppe di Tracia e Macedonia che si unirono a quelle di
Basilio, governatore della Bulgaria e tutte le altre della regione.
I barbari
invasori trovando ogni sorta di derrate ne fecero man bassa ingozzandosi anche
della bevanda fermentata fatta con miele che gli aveva procurato una micidiale
dissenteria che li decimava a centinaia. Kegenis informato di questa situazione
volle proseguire con le armi ciò che la malattia aveva iniziato.
Le forze
riunite assalirono la grande armata di Tyrach che non era stata colpita dalla
dissenteria; terrorizzati dalla violenza e rapidità
dell’attacco i soldati e il
loro capo si arresero. Kegenis suggerì ai capi bizantini di massacrarli
tutti: “Abbattete il serpente
durante l’inverno quando è sazio, perché in primavera si
sveglierà più furioso e più forte”; egli aveva
ragione nella sua fredda crudeltà, ma i capi bizantini ritennero che un
massacro sarebbe stato indegno del grande nome dei romani; i prigionieri
furono relegati in un distretto deserto della Bulgaria, sottomettendoli al
pagamento del tributo.
Kegenis
contrariato fece vendere tutti i prigionieri di cui i suoi soldati si erano
impadroniti e se ne tornò nel suo territorio trans-danubiano.
Tyrach
con centoquaranta dei principali suoi capi furono mandati a Costantinopoli dove
furono battezzati e ricoperti di onori, ivi conducendo la facile vita degli
ostaggi politici.
In
seguito, rifornito ciascuno di armi e magnifici cavalli, saranno affidati al
comando del patrizio Costantino Hadrabalano e inviati oltre il Bosforo per
combattere contro i turchi; giunti nelle campagne della Bitinia prese il
sopravvento la loro naturale ferocia. Sulla strada del ritorno furono presi
dalla nostalgia della loro antica indipendenza e giunti presso la città imperiale di
Damatrys a qualche miglio di distanza dal Bosforo, tennero un tumultuoso
consiglio in cui una parte riteneva di arroccarsi sui monti della Bitinia e
lì resistere fino alla morte; altri suggerivano che, non avendo la
disponibilità di alcuna piazzaforte, di continuare a eseguire gli ordini
dell’imperatore; il solo Katalim era del parere di raggiungere i loro
compatrioti in Bulgaria; gli fu chiesto come avrebbero potuto attraversare il
Bosforo: rispose: “Sarò io a mostrarvi la strada”.
Il suo
coraggio e la sua audacia impressionarono i barbari che lo seguirono; egli
spronando il suo cavallo si immerse tra i flutti, seguito dai più
arditi, gli altri preso coraggio si aggiunsero ai primi; alcuni con le armi,
altri se ne sbarazzarono per meglio nuotare: fu uno spettacolo senza
precedenti che colpì i
bizantini che assistevano dalla riva; essi raggiunsero la costa europea di san
Tarasio.
I
sopravvissuti di questa impresa epica, senza perdere un istante, si diressero
al galoppo, attraversando monti e valli e le distese della Tracia, raggiungendo
i Balcani; si fermarono solo dopo aver raggiunto Triaditza (Sofia) dove
convocarono tutti gli altri peceneghi che il governo imperiale aveva
distribuiti in varie località della Bulgaria; una volta riuniti partirono in linea
retta verso il nord dirigendosi verso l’Osmos (Osme) affluente del
Danubio, si accamparono nella piana all’imboccatura del Danubio dove
sorgerà Nicopoli (1049).
L’imperatore,
desideroso di porre fine a questo intollerabile stato di cose, convocò
Kegenis il quale si accampò nei sobborghi della capitale, e durante la
prima notte tre peceneghi entrarono nella sua tenda e ciascuno gli affondò
nel corpo la sua spada; furono subito fatti prigionieri dagli altri peceneghi
accorsi unitamente al figlio Baldassare il quale, con il fratello Goulinos,
mise il corpo del padre gravemente ferito su di un carro e si diressero
all’Ippodromo dove si trovava l’imperatore, il quale gli diede
subito udienza.
L’imperatore
saputo che gli assassini non erano stati uccisi, ne chiese il motivo e
Baldassarre rispose che non lo aveva fatto per rispetto nei suoi confronti in
quanto essi avevano fatto il suo nome.
Fatti portare
gli assassini incatenati e chiesto il motivo che li aveva indotti
all’assassinio, essi risposero furbamente che era stato il loro zelo nei
confronti dell’imperatore ad armare la propria mano; essi non esitarono
ad accusare Kegenis il quale aveva deciso di entrare in città sul far
del giorno e di assassinarlo e impadronirsi della città, occupandola
facendo venire tutti gli altri peceneghi del Danubio.
Costantino
IX Monomaco (v. in Articoli, Cap. VII, P. III) senza approfondire la
veridicità di ciò che gli era stato riferito, fece imprigionare
Kegenis facendolo portare nella sala d’avorio del Palazzo (detta Camera elefantina) col pretesto di
affidarlo ai suoi medici. Anche i due fratelli furono fermati mentre per gli
altri cavalieri accampati, l’imperatore, simulando la migliore
accoglienza fece, loro inviare viveri e bevande, con l’intenzione di
farli prigionieri quando si fossero addormentati.
Ma questi
figli della steppa lo prevennero perché giunta la sera, montati sui loro
cavalli, abituati a galoppare sotto le stelle, galopparono verso il nord e non
si fermarono fino a quando non raggiunsero i loro compatrioti.
I
peceneghi, desiderosi di vendicare il loro capo, ancora una volta si misero in
cammino invadendo le pianure dei Balcani, andando ad accamparsi a poca distanza
da Adrianopoli.
Il
magistro Costantino Arianites eunuco e ecclesiastico, domestico dei themi di
Occidente, marciò con tutte
le truppe dirigendosi contro gli invasori; dopo aver marciato verso gli
invasori non diede ai suoi soldati la possibilità di fermarsi, erigere
l’accampamento e rifocillarsi, mentre i peceneghi “avevano il ventre pieno e le membra rifocillate”; i soldati
stanchi per la fatica e spossati dalla sete presi dallo spavento, al primo
assalto si diedero alla fuga; seguì un terribile massacro e caddero (Dampolis-Yambol)
diecine di migliaia di soldati, tra i più coraggiosi dei themi di Tracia e Macedonia.
Costantino,
rientrato ad Adrianopoli inviò la notizia all’imperatore al quale
chiedeva un’altra armata per affrontare un nemico numeroso; ma
l’imperatore era già informato e inviò i peceneghi al
comando di Tyrach che erano internati nella capitale e nello stesso tempo
convocò l’armata d’Asia affidandola al comando del rettore
Niceforo, al quale assegnò come luogotenente il non meno famoso
Katakalon Kekaumenos; tra le forze bizantine vi erano per la prima volta i
normanni, non provenienti dalla Russia o dalla Scandinavia, ma dalla Puglia
(erano normanni di Normandia, alcuni dei quali avevano combattuto al seguito di
Maniace (v. Cap. VII P. I), fatto prigioniero al suo rientro in Macedonia); essi si
erano recati a Costantinopoli dove i greci li designarono col nome di “taurosciti” o “francopuli”; in seguito costituiranno la druijna (corpi di guardia).
I
peceneghi dopo la vittoria riportata su Costantino, erano rientrati nei Balcani
e si erano stabiliti nella zona delle “Cento colline”; Niceforo a
sua volta costeggiando le montagne attraverso le Porte di Ferro, andò ad
accamparsi (1050) in località (Diakené) a breve distanza dalle
Cento Colline, facendo circondare il campo da un profondo fossato.
Si era
ripromesso l’indomani di marciare con i suoi soldati, armati alla leggera
contro il nemico, pensando che i barbari si sarebbero spaventati al suo primo
apparire, e la sua preoccupazione era quella di non lasciar fuggire nessuno di
essi.
Aveva
parlato di questa sua idea con i suoi soldati che avevano preparato corde e
cinghie per legare i prigionieri; i peceneghi erano divisi in diversi corpi,
distanti l’uno dall’altro; Katakalon (in italiano Catacalone) con
foga implorava di attaccarli subito senza dar loro il tempo di rendersene
conto; tutta l’armata era dello stesso parere, ma il presuntuoso Niceforo
impose silenzio al suo luogotenente, dicendogli brutalmente: “Non ti è dato di contrastare i miei
ordini, a me che sono il tuo capo; non ritengo di dover attaccare i peceneghi
quando sono divisi gli uni dagli altri. I
primi non saranno stati battuti che sopraggiungeranno gli altri dai monti e dai
boschi e noi saremo costretti a scappare. Mi fornirai tu i cani da caccia per
respingerli nei loro nascondigli? ”
Katakalone
dovette tacere; gli esploratori peceneghi si fermarono a bivaccare nelle
vicinanze dei greci, mandando a chiamare gli altri perché li
raggiungessero al più presto.
Tutta la
notte i corpi separati si riunirono; all’alba la loro massa compatta era
pronta al combattimento e quando al mattino Niceforo si mosse con le sue truppe per
il combattimento, trovò
l’armata dai peceneghi in ordine perfetto al comando di Tyrache dei capi
che erano stati rilasciati dall’imperatore Costantino IX, i quali
dimentichi dei giuramenti avevano abbandonato l’imperatore e si erano riuniti ai loro guerrieri.
Niceforo
dispone i suoi in ordine di battaglia affidando l’ala destra a Katakalone,
l’ala sinistra a Hervé il “francopulo”.
Ma al
solo calpestio del galoppo dei cavalli peceneghi tutta l’armata greca,
presa dal panico, si dà alla fuga a tutta briglia, primi Niceforo e gli
altri capi; fu una disfatta incomparabile, una vergognosa sconfitta.
Solo il
glorioso Katakalon, con un gruppo di coraggiosi della sua guardia e suoi
vicini, si fece fare a pezzi con i suoi, senza cedere un palmo di terreno.
I
peceneghi, stupefatti di una così facile vittoria, temendo
un’imboscata, non osarono inseguire i greci; costoro non perdettero che
un piccolo numero di guerrieri che preferirono passare
al nemico a una fuga vergognosa.
I
vincitori, dopo aver spogliato i morti, raccolte tutte le armi e ciò che
era stato abbandonato, passarono la notte nell’accampamento greco con la
protezione del fossato da essi predisposto.
Un
pecenego di nome Galino che aveva conosciuto Katacalon, lo trovò tra i
cadaveri che respirava ancora, lo caricò sul suo cavallo e lo condusse
nella sua tenda; era svenuto e senza voce; aveva ricevuto due ferite profonde,
una alla testa, aveva il cranio spaccato fino al sopracciglio in quanto il suo
elmo era caduto; l’altro dalla gola gli aveva tagliato la bocca fino alla
base della lingua; il suo generoso salvatore lo curò con tanta abnegazione
che il generale finì per guarire.
I
peceneghi dopo questa vittoria, si diedero a rubare e saccheggiare il
territorio dell’impero, senza trovare resistenza. L’imperatore
esasperato da questa situazione passò tutta la primavera a riorganizzare
le truppe (quelle che erano fuggite!); non desiderava altro che riprendere la
campagna per lavare l’onta subita.
Questo
orribile guerra, questa umiliazione di vedere le più vecchie provincie
dell’impero impunemente occupate e percorse da questi terribili saccheggi,
non avevano fine.
Fortunatamente
sulle rive dell’Asia il sultano Toghroul e i suoi seguaci erano occupati
in altre conquiste e lasciavano tranquillo l’impero e l’imperatore
ebbe la possibilità di riunire contro i barbari tutte le migliori truppe
disponibili delle armate d’Oriente e Oriente affidate questa volta, nel
mese di maggio (1050) al comando di Costantino Arianite, eunuco, antico
ciambellano di Palazzo; Arianite prudente e circospetto, perse tempo prezioso a
discutere con i suoi luogotenenti i piani della campagna e giunse ad
Adrianopoli solo ai primi del mese di giugno; il giorno otto l’armata dei
peceneghi era sotto le mura di Adrianopoli.
Essi
ancora una volta avevano attraversato in gran segreto e al galoppo i Balcani i
cui sentieri erano loro familiari.
Tra i
capi greci si discuteva animatamente sul da fare, Arianite era per la
difensiva, ma uno dei suoi luogotenenti, Samuele Bourtzes (nipote
dell’eroe Michele), non molto fermo nella disciplina, senza attendere
ordini, si diresse ad affrontare con impeto, l’avanguardia dei peceneghi.
Costoro
reagirono con ugual vigore e ben presto i soldati di Bourtzes incominciarono a
cedere, mentre il loro capo inviava corrieri su corrieri a Costantino il quale
fu costretto a far avanzare l’armata nella piana coperta di vigneti e
altre colture; i fanti ingaggiarono una lotta disordinata a causa
dell’attacco improvviso e la crescente audacia del peceneghi li condusse
a una nuova sconfitta degli imperiali i quali cercarono riparo nel loro
accampamento a ridosso delle mura della città, ma furono inseguiti e
fatti segno a colpi di sciabola.
Vi
trovarono la morte Arianite il quale, gravemente ferito da un giavellotto,
spirò dopo tre giorni, mentre Michele Dokeianos ebbe una morte atroce: fu
ferito alla gola (probabilmente da Tyrach), un altro gli tagliò di netto
la mano; egli credette che il suo nemico non inveisse ulteriormente, ma i soldati
lo massacrarono e lo mutilarono; un fendente gli aprì il ventre, gli
furono cavati gli intestini e al loro posto furono messe le mani e i piedi
troncati.
L’armata
si era rifugiata nell’accampamento circondato dal fossato; ma i peceneghi
si affannavano a riempirlo di
pietre e di alberi quando uno dei loro capi, Soultzous fu trapassato con il suo
cavallo da un grosso giavellotto lanciato con una catapulta; contemporaneamente
giunse il protospataro o “prototereto”
Niceta Glavas con il suo corpo di
guardia degli “scolari”,
che i peceneghi presero per il sincello
Basilio (spretato), che giungeva con il contingente di Bulgaria; essi si impaurirono
a tal punto che si diedero alla fuga, scomparendo nella profondità dei
Balcani.
Inebriati
da tante facili vittorie i peceneghi dilagarono per le vaste pianure della
Tracia e della Macedonia rimaste senza difesa, per tutta la seconda metà
dell’anno (1050) e nel successivo inverno, saccheggiarono e massacrarono
chiunque capitasse a tiro, anche neonati; soltanto le città protette da
mura si sottrassero alla loro ferocia.
Essi giunsero
presso una località chiamata Katasurto
quasi in vista delle mura della capitale dove un gruppo di cittadini indignati
decisero di dirigersi contro quei banditi ai quali si aggiunse, su richiesta
dell’imperatore, un plotone della guardia imperiale; il patrizio
Giovanni, detto il Filosofo, un eunuco della defunta imperatrice Zoe, prese il
loro comando e giunto di notte quando i paceneghi dormivano ubriachi, li
sgozzarono tutti e le loro teste, messe sui carri, furono portate a Palazzo
dall’imperatore; con altre sortite non fecero che pochi danni a queste
bande di saccheggiatori.
Era
urgente trovare una soluzione e l’imperatore esasperato per
l’imperizia e la viltà dei sui generali, costretto a letto dalla
gotta che lo tormentava e incapace di prendere il comando delle sue truppe,
diede ordine di disporre una nuova armata con le migliori forze
dell’impero.
Furono
raccolti ventimila arcieri a cavallo tutti i contingenti mercenari tra i
guerrieri franchi e varanghi, ciascuno di questi corpi comandati dal proprio
capo nazionale; il comando supremo fu affidato a Niceforo Briennio al quale
l’imperatore assegnò il titolo straordinario di “etnarca” o “generalissimo” al quale
associò Michele l’Acolito, nominato anch’esso generalissimo.
con pieni poteri, che era comandante dei varanghi; costoro ebbero ordine di
evitare una battaglia schierata e di sforzarsi con tutti i mezzi di mettere
fine ai saccheggi dei peceneghi.
Nello
stesso tempo l’imperatore, non avendo molta fiducia nelle forze
imperiali, malgrado l’insuccesso delle trattative con Tyrach, volle ricorrere
ai negoziati facendo ricorso a Kegenis appena guarito dalle sue ferite che fu
inviato con la promessa di convincere i suoi compatrioti ad accettare la pace.
Era la
primavera (1051), Kegenis fidandosi poco del suo feroce nemico Tyrach, volle
procurarsi un salvacondotto e nonostante i giuramenti che sarebbe stato accolto
con amicizia, con i suoi accompagnatori fu massacrato e il suo corpo fatto a
pezzi.
Niceforo
Briennio e Michele l‘Acolito che si trovavano a Adrianopoli, osservavano
il suggerimento dell’imperatore di evitare una battaglia e stando sulla
difensiva osservavano i movimenti dei peceneghi e si avventavano contro di essi
quando incontravano gruppi separati, massacrandoli; fu così che Michele
incontrò per caso due gruppi in prossimità dell’Ebro che
furono totalmente distrutti: questa tattica fermò i peceneghi che poco a
poco si allontanarono dai Balcani.
Non
osando continuare i loro saccheggi in Tracia, si diressero in Macedonia
meno
facile da percorrere, dove ripresero i loro saccheggi con attacchi improvvisi;
ma gli imperiali non gli davano tregua; Briennio e l’Acolito avvertiti
che il grosso dei barbari era accampato nei pressi di Chariopoli ai confini
della Tracia e della Macedonia, marciando di notte riuscirono a raggiungerli e
si fermarono in attesa che si muovessero.
La
mattina, ignari si mossero per fare bottino con i loro saccheggi e verso sera
si accamparono nei pressi della città che credevano priva di difesa e
cominciarono a bere e divertirsi al suono dei flauti e del cembali; sul far
della notte l’armata greca si precipitò sul campo nemico e fu fatto
un intero massacro; la lezione fu tale che per tutto il resto dell’anno
(1051) le razzie cessarono completamente.
Costantino
IX ebbe finalmente respiro per potersi riorganizzare con tutte le forze disponibili
(1052) d’Oriente e Occidente agli ordini di Michele l’Acolito
affiancato dal sincello Basilio che
era a capo del contingente di Bulgaria.
Questa
volta fu l’armata imperiale a prendere l’iniziativa che si diresse
verso i Balcani; i peceneghi si erano ritirati nella vecchia Bulgaria tra i
Balcani e il Danubio, concentrati presso la città di Pereiasvalavetz
antica capitale della Bulgaria, con Tyrach, i quali all’arrivo dei greci,
erano accampati protetti da una palizzata e un profondo fossato, decisi a
difendersi.
Ma gli
imperiali anche questa volta perdettero tempo e finiti i viveri non poterono
rifornirsi dai dintorni precedentemente devastati: i capi decisero di togliere
l’assedio e battere in ritirata!
Con il
favore di una notte oscura e un tempo spaventoso l’armata bizantina levò
segretamente il campo; questi preparativi non sfuggirono a Tyrach il quale
avvertito da un transfuga aveva mandato il grosso delle sue truppe a occupare i
passaggi della montagna sulla strada della ritirata.
Egli
stesso, dopo aver seguito in silenzio l’armata imperiale,
l’attaccò bruscamente quando essa si infilò nello stretto
passaggio, attaccata anche da quelli che avevano occupato in precedenza i punti
strategici.
Per
l’armata bizantina, attaccata in testa e in coda fu una enorme sorpresa e
i morti non si contarono tra capi e soldati; il sincello Basilio si era dato alla fuga con un cavallo veloce, ma fu
inseguito e caduto al passaggio di un fosso, fu ucciso a colpi di spada dai
peceneghi che lo inseguivano.
Una parte
dell’’armata, radunata dall’Acolito giunse in orribile disordine a
Adrianopoli dove si sentirono finalmente sicuri.
In questa
occasione per la prima volta è indicato il nome di Niceforo Briennio (
che sposerà Anna Comnena v. Cap. VIII P. I) al comando di un
distaccamento che combatté senza tregua per dodici giorni,
distinguendosi per valore.
Il resto
dell’armata incoraggiata e sostenuta dall’energia dei capi, in buon
ordine, nonostante i continui attacchi del nemico, si diresse verso le rive del
fiume Ebro che probabilmente li separava dai nemici, dove si fermarono per
lungo tempo.
Anche i
peceneghi avevano subito grosse perdite e avevano smesso di saccheggiare la
Tracia e la Macedonia e la Bulgaria e poiché Costantino IX stava di
nuovo facendo preparativi per attaccarli, questa volta inviarono messaggeri e
fu firmata la pace verso la fine dell’anno (1053), qualche mese prima
della morte dell’imperatore; essi non ripassarono il Danubio, ma si
fermarono in Bulgaria dove si amalgamarono con la popolazione e da quel momento
non si sentì più parlare di loro.
FINE