Battaglia di Lepanto – Duomo di Montagnana
Con la vittoria i veneziani hanno fatto solo la barba a Selim
che ricrescerà anche più folta;
prendendo Cipro il
sultano ha tagliato un braccio a Venezia,
che non ricrescerà. Mohammed
Sokollu Pasha, Gran Visir
LEPANTO
1571
UNA BATTAGLIA SPETTACOLARE
UNA VITTORIA DI PIRRO*
MICHELE E. PUGLIA
SOMMARIO: PREMESSE;
I PRODROMI: I TURCHI CONQUISTANO CIPRO; I PREPARATIVI E
PREMESSE
L |
epanto” dopo oltre quattrocento anni è rimasta
nell’inconscio collettivo dei cattolici come una grande vittoria della
cristianità contro i “turchi infedeli”.
Ancor oggi si avvertono quegli strascichi,
nella diatriba che vede contrapposti i cattolici contro l’ingresso della
Turchia (considerata nel seno della NATO un baluardo
militare nei confronti dei paesi arabi),
nell’Unione Europea, dimenticando la geopolitica della Turchia nei tempi
passati.
La polemica dei cattolici, stranamente, si acuisce
proprio nel momento in
cui il Papa Giovanni Paolo II si è affannato a sostenere il superamento delle
discriminazioni etniche e religiose e ad invocare il dialogo fra le tre
religioni monoteiste. E si dimentica anche, che il
popolo turco non è arabo essendo di tutt’altra
origine (ne parleremo nell’articolo sull’Impero ottomano).
Lepanto ricorda la più grande
battaglia navale di tutti i tempi, bella e spettacolare dal punto di vista
scenografico, ma sterile nei suoi effetti concreti perché solo nell’immaginario
era divenuta parte integrante dell'epopea della cattolicità (con enfasi era
stato, appunto scritto che “Lepanto divenne parte integrante dell’epopea
della cattolicità”).
Non è verocome tutt’ora
si ritiene in Occidente (lo vedremo più avanti), che quella vittoria “è stata la grande vittoria cristiana che
aveva segnato un momento decisivo di arresto dell’espansione ottomana” o avesse
bloccato l’avanzata dei turchi nell’area del Mediterraneo o avesse inferto un
colpo mortale alla potenza navale ottomana, perché l’impero ottomano continuerà
a dominare la scena del mondo fino al suo disfacimento avvenuto nel XX secolo.
Quella vittoria aveva avuto solo un potente
effetto psicologico su tutta la cristianità: quello di dare sollievo allo
spirito depresso dei cristiani, che sfogavano le loro frustrazioni e le loro paure nell’odio contro i turchi musulmani, inculcato da
una feroce guerra psicologica di carattere esclusivamente religioso, condotta
dalle autorità ecclesiastiche (com’era avvenuto nei confronti degli ebrei) e
che aveva avuto i suoi effetti durante il trascorrere dei secoli.
Nei suoi effetti pratici Lepanto era stato solo un episodio isolato, che non era neanche stato sfruttato
in proprio favore, da parte dei
vincitori partecipanti alla Lega.
Erano state le razzie dei pirati, più barbareschi
che turchi, sulle
coste italiane e spagnole, a seminare il terrore e lasciare nell’inconscio il
triste ricordo de “i turchi son sbarcati a la marina”, dimenticando però tutti i
massacri compiuti nei loro confronti dai cristiani e le migliaia di turchi
ridotti in schiavitù sulle galere cristiane e in Occidente.
Quanto all’espansionismo dell’impero ottomano
(che dopo Lepanto continuò ad estendersi alle isole dell’Egeo), in effetti esso
era cessato verso Occidente, e non perché fosse stato bloccato, ma per
esaurimento. Gli interessi turchi infatti, si erano indirizzati
ad Oriente (
I reciproci interessi della Sublime Porta ad
est (confini persiani e Oceano indiano) e della Spagna
ad ovest (Atlantico) dopo la battaglia di Lepanto, portarono le due potenze
(per la prima Murad III, per la seconda Filippo II) a
firmare una tregua triennale (1581).
Da questo momento, scrive Braudel:
“il blocco delle forze spagnole e il blocco
delle forze turche a lungo opposti nel Mediterraneo si staccarono l’uno
dall’altro e di colpo il Mare interno si libera dalla guerra dei grandi stati
che dal 1550 al 1580 ne era stato il fatto principale. Per il Mediterraneo una grande età era finita”.
Se a Lepanto era stata distrutta quasi tutta
la flotta turca, subito dopo, i turchi, nel giro di tre anni, la ricostituirono
e continuarono poco a poco, nel Mediterraneo orientale, a togliere a Venezia tutti i rimanenti
territori posseduti nelle isole dell’Egeo: non solo le principali come Cipro
(1571) e Candia-Creta (1669), ma tutte le altre più piccole.
Nel Mediterraneo occidentale, invece, Tunisi
occupata dagli spagnoli nel 1569, fu perduta definitivamente con la vittoria
della Goletta solo tre anni dopo Lepanto (1574), con la conseguenza che questa
riconquista aveva consentito ai turchi di mantenere ancora l’intero Magreb (Tunisi, Tripoli e Algeri). Da questo momento e fino
al 1591 i turchi non ebbero più nessuno con cui combattere e questa bonaccia fu peggiore di una guerra. in
quanto le navi finirono col marcire nei porti.
I vincitori di Lepanto non avevano saputo
utilizzare la vittoria. Divisi da beghe interne e gelosie non erano riusciti a trarre alcun profitto dalla vittoria, con la
conseguenza che essa era rimasta un avvenimento isolato e a sé stante. L’unico
lungimirante era stato Marcantonio Colonna che aveva insistito per perseguire
ancora i turchi, ma non gli fu dato peso.
Nei fatti, i cristiani avevano avuto la sola consolazione
della grande sconfitta inferta ai turchi; per costoro era stato invece solo un
incidente di percorso presto dimenticato.
Era risultato esatto ciò
che aveva detto il gran visir Mohammed Soqollu: “i veneziani (e con essi la cristianità,
rappresentata dai paesi che avevano partecipato alla battaglia ndr.) avevano fatto
solo la barba a Selim, che sarebbe cresciuta più
folta, mentre i turchi, prendendo Cipro avevano tagliato un braccio a Venezia (e alla cristianità ndr.) che non sarebbe
ricresciuto”.
Dal momento della conquista di Costantinopoli (1453)
da parte di Mehemet II (1451-1581) la potenza ottomana, terrestre e marittima
era andata sempre più crescendo.
I turchi avevano sottratto territori a
Venezia, impossessandosi di Negroponte e della Morea (Peloponneso), avevano conquistato l’Asia minore,
l’Egitto, erano padroni del Mar Nero (chiuso alla navigazione), dell’intera
Dalmazia, della Bulgaria e Romania fino all’Ungheria. Dominavano il
Mediterraneo orientale, mentre quello occidentale era
alla mercé dei pirati barbareschi i cui regni (Algeri Tripoli e Tunisi ) erano
vassalli del Gran Turco e battevano bandiera dell’Islam..
I pirati (1) avevano spadroneggiato e spadroneggiavano nel Mediterraneo,
Tirreno, Ionio ed Egeo e conducevano una costante e micidiale guerriglia predatoria e di distruzione contro le popolazioni
rivierasche (a volte penetravano anche all’interno), della Liguria, Toscana,
Lazio, Campania, Calabria, Sicilia e Puglia, ma anche delle coste della Provenza
(il cristianissimo e lungimirante re di Francia Francesco
I, si era sottratto a queste incursioni stipulando un trattato di alleanza con
Solimano, che aveva fatto inorridire i cristiani), della Castiglia e spagnole.
Il bottino era costituito principalmente di uomini ridotti in
schiavitù (Miguel Cervantes
sarà tra costoro:1575-80) mentre le ragazze
finivano negli harem locali, le più belle venivano mandate come dono al padisha, il gran
sultano, il sultano dei sultani, l’ombra di Dio sulla terra a Costantinopoli. D’altra
parte, erano anche i musulmani
ad essere resi schiavi finendo sulle galere cristiane.
Il declino della Sublime Porta iniziato dopo
la morte di Sokollu (assassinato da un fanatico nel
1579), a causa della corruzione che si era insediata a tutti i livelli
dell’amministrazione dello Stato, era un declino fisiologico valevole per tutte
le grandi potenze.
Esso in genere aveva inizio
quando una potenza aveva raggiunto l’apice della sua grandezza, come si
era verificato per la gloriosa Repubblica di Venezia.
L’impero ottomano resisterà, come abbiamo detto,
ancora per circa quattrocento anni. Più specificamente, la causa principale del
suo declino, era da ricercare nello “spirito
di conservazione”, dovuto, come spesso accade, all’attaccamento alla
grandezza del passato che aveva impedito l’adeguamento all’evoluzione dei tempi,
al progresso e allo sviluppo delle nuove tecnologie.
Mentre durante l’epoca delle conquiste l’impero si era adeguato alle nuove tecnologie, dal
XVIII secolo esse non trovarono più applicazione, con la conseguenza che le navi
non erano più quelle di un tempo e non tenevano più bene il mare; i cannoni e
le bombarde non erano più quelli della conquista di Costantinopoli (dove fu
usato il celebre e pittoresco cannone
che sparava palle da
*) E’ noto che per “vittoria
di Pirro” si intende una vittoria inconcludente. Pirro infatti aveva pensato di unificare all’Epiro (parte nordoccidentale della Grecia divisa tra Grecia e Albania)
1) Morti i più celebri, Kaid Alì
Sinam il Giudeo, Kair
ad-Din (Ariadeno Barbarossa: v. Carlo V ecc.) con il fratello Orudge, Kurtogolì e Dragut, costoro furono sostituiti da Ulug
Alì (Uluccialì) il Tignoso (pascià di Tripoli e poi
di Algeri), il suo luogotenente Caraccialì, Amurat Dragut, Cara Hodia detto Tarragosa, Karagia Alì detto Caragiulì, Carabainch, Mehemet Shoraq detto
Scirocco. E dopo costoro Murad
Rais, Hassan Agà ed altri.
I PRODROMI:
I TURCHI CONQUISTANO CIPRO
A |
seguito delle conquiste da parte degli arabi dei territori
che affacciavano sul bacino del Mediterraneo, fino al XII secolo, questo era da
considerarsi un “lago arabo” (durante
il periodo dell’impero romano il Mediterraneo era stato “lago romano”). Cessata la dominazione araba, successivamente
al saccheggio di Costantinopoli (1204; v. Articoli: La prima e quarta Crociata”) erano subentrati i veneziani (v.
Articoli: I mille anni dell’impero
bizantino), che si erano appropriati dei territori bizantini. Essi però non
si potevano considerare dominatori dell’intero bacino in quanto ne avevano occupato solo la parte orientale.
Con il cambio della guardia degli ottomani (dal XIV sec.), erano stati costoro a conquistare nuove
posizioni a danno dei cristiani e il Mediterraneo, dopo le conquiste dei
territori dell’impero bizantino era divenuto un “lago ottomano”. Era stato durante questo periodo che avevano avuto inizio le scorrerie e i saccheggi delle coste
(nel 1480, Otranto era stata saccheggiata).
Nel 1522 i turchi conquistano Rodi cacciando i
Templari; tra il 1534, 1538, 1540 e 1545 per merito del celebre pirata Kair ad-Din detto “Barbarossa” al servizio del sultano, furono conquistati
altri territori, con la conseguenza che i turchi nel Mediterraneo avevano acquistato
la supremazia.
Nel 1567 Selim II
(succeduto a Solimano) aveva rinnovato il trattato di pace con i veneziani, ma
presto alcuni incidenti avevano fatto capire che i turchi non avevano alcuna intenzione di rispettarlo. Selim
aveva in mente la conquista di Cipro, e non perché, come era
stato detto, amasse particolarmente il vino dell’isola (era chiamato “mest” l’ubriacone,
e bevendo quel vino da una grossa coppa soleva dire: questo vino ben presto berremo in Cipro), ma Cipro gli interessava per
la sua posizione strategica, come l’aveva Candia (Creta), in quanto le due
isole costituivano le porte dell’impero nel Mediterraneo.
Nel mese di
gennaio 1570 erano giunte notizie dalla Turchia di preparativi e movimenti
di truppe.
Il 28 marzo Selim
chiedeva la consegna dell’isola di Cipro al bailo di
Venezia a Costantinopoli Marcantonio Barbaro, il quale non potendo dare una
risposta lo invitava a mandare un legato a Venezia. Inviato il legato, il
senato veneziano, preavvertito, si era accordato sulla risposta da dare: “Selim senza motivo, richiedendo Cipro intendeva
muovere guerra alla Repubblica; la potenza divina non avrebbe fatto mancare il
suo favore a chi aveva anteposto l’onore all’utile e la fede alla conquista. La
richiesta non poteva che essere rifiutata”.
I veneziani avevano chiesto
inutilmente aiuto al re di Francia, all’imperatore Massimiliano d’Austria, allo
zar di Moscovia e al sofì
di Persia, l’unico ad accogliere l’appello era stato il papa Pio V convinto
assertore di una crociata contro i turchi.
Michele Ghisleri (1504-1572)
salito al soglio col nome di Pio V, prima della elezione
era stato domenicano e inquisitore dal pugno di ferro, prima in Lombardia e poi
a Roma dove aveva ricoperto la carica di commissario
generale dell’Inquisizione, raggiungendo successivamente la carica di Grande inquisitore.
Il suo rigorismo cattolico (oggi si usa il
termine fondamentalismo) lo aveva portato ad eccessi di
fanatismo nella lotta contro l’eresia, che per lui doveva essere perseguita e
punita unicamente con la morte. E di innocenti accusati
solo “di essere in corrispondenza coi
settari (protestanti) di Germania”,
al rogo, ne aveva mandati in buon numero.
Relativamente alla Inquisizione
instaurata in Spagna, dimentico dei principi di pietà cristiana, aveva scritto
a Filippo II invitandolo a combattere gli eretici senza pietà: “non mai pietà; sterminate chi si sottomette
e sterminate chi resiste; perseguitate ad oltranza, uccidete, ardete, tutto
vada a fuoco e a sangue purché sia vendicato il Signore; molto più che
nemici suoi, sono nemici vostri”.
A lui era venuta l’idea della cacciata degli
ebrei dallo Stato pontificio, ad eccezione di Roma ed Ancona, ma il Senato
aveva fatto prevalere quella più tollerante di
confinarli in un quartiere (poi chiamato “ghetto” (v.
Articolo: L’Europa verso la fine del
medioevo, P. III: Papi e movimenti
religiosi), istituito da Paolo IV (1575-99)). Era stato
lui a introdurre l’ “Index librorum prohibitorum” (1572).
In campo internazionale, appena eletto papa
(1566), si era mostrato favorevole a una rigorosa difesa dei diritti giurisdizionali
della Chiesa e, mentre per lui all’interno, il nemico da abbattere erano
eretici ed ebrei, all’esterno, il nemico da abbattere erano i turchi che
costituivano una minaccia al mondo cristiano.
L’occasione gli fu data dall’aiuto chiesto dai
veneziani e dall’idea della Lega che perseguì con fervore, adoperandosi presso
Filippo II per convincerlo che era anche interesse della Spagna che Cipro non finisse
in mano ai turchi.
A Venezia nel frattempo veniva
allestita una flotta che il doge Alvise Mocenigo
affidava a Gerolamo Zane, mentre il comando della truppa era affidata al
capitano Sforza Pallavicino.
La flotta di sessanta galere partita per Zara
il 30 marzo, vi giungeva il 13 giugno decimata dallo scorbuto. Ricevuto quindi
l’ordine di recarsi a Candia (Creta) vi giunse in agosto male in arnese, con
difficoltà a reperire vettovaglie e reclutamento.
Mustafà con una flotta di
160 navi al comando di Pialì Pasha,
iniziava (1 luglio 1570) a Cipro le operazioni di sbarco ponendo l’assedio a Nicosia, capitale dell’isola, dove si trovavano forze
veneziane e greche comandate da Niccolò Dandolo. La città resistette
all’assedio, ma a seguito di un rinforzo di venicinquemila
uomini ricevuto da Mustafà, la resistenza venne piegata (9 settembre 1970).
Al Dandolo Mustafà
fece mozzare la testa che mise su una picca e andò a mostrarla sotto le mura di
Famagosta, a Marcantonio Bragadin.
Il vescovo Francesco Contarini con altri cinque vescovi, tutto il
clero latino e ortodosso seguirono la
stessa sorte di Bragadin.
Tre navi erano state riempite d’oro, argento e
di giovani donne destinate al sultano, ma non fecero a tempo a partire perché
una di queste, Arnalda di Rochas, non accettando la
schiavitù diede fuoco alle polveri, facendo saltare la
nave e altre due vicine piene di schiavi che, “felicemente o infelicemente (scrive Carlo Botta), perirono”.
Messa sotto assedio Famagosta
dopo strenua difesa durata fino all’anno successivo,
non essendovi forze sufficienti si alzò
bandiera bianca (4 agosto 1571) in segno di tregua, accettata da Mustafà che non mantenne un comportamento leale.
Mustafà, infatti, si era impegnato
al trasporto a Candia (Creta), degli italiani e dei greci che avessero
voluto abbandonare la città con armi e bagagli. I greci che lo avessero voluto, potevano rimanere con i loro beni e
professare la loro religione avendo ottenuto la disponibilità di due chiese. A
coloro che partivano era stata data la possibilità di portare con sé cinque
pezzi d’artiglieria e tutto il metallo delle campane. Gli accordi furono messi
per iscritto e Mustafà giurò sul Corano che li
avrebbe rispettati.
Bragadin, fidandosi della
lealtà di Mustafà, gli fece sapere che volentieri si
sarebbe recato da lui la sera per rendergli omaggio e portargli le chiavi della
città. Mustafà si era anch’egli mostrato desideroso
di conoscerlo.
Bragadin, senza nulla
sospettare, accompagnato da Astorre Baglioni, Luigi Martinengo,
Gianantonio Quirino ed altri, con soldati si presentò
all’accampamento, salutato da Mustafà. Dal gruppo
mancava Lorenzo Tiepolo lasciato in città per
accogliere Mustafà quando fosse giunto, il quale però aveva notato la sua
assenza.
Mustafà non avendo
intenzione di osservare gli accordi, incominciò a rinfacciare al Bragadin che la notte precedente egli aveva fatto uccidere
duecento prigionieri turchi; così, adirato li fece tutti prigionieri, facendo prendere anche quelli che erano già imbarcati.
Due giorni dopo Mustafà entrato in città fece impiccare il Tiepolo. Una sorte peggiore era toccata a Lorenzo Bragadin al quale furono prima mozzate le orecchie e poi, appeso
al pennone della bandiera in piazza, fu scorticato vivo. La pelle riempita di
paglia e appesa all’antenna di una galeotta, fu mandata a Costantinopoli. Da
qui la pelle fu successivamente portata a Venezia dove
si trova ancora in un sarcofago nella basilica di s. Giovanni e Paolo
Le trattative della Lega, voluta da Pio V, tra
Venezia, Spagna e Santa Sede, iniziate nel luglio 1570 sulla
base di reciproche riserve mentali e sospetti, erano state lunghe e
inconcludenti. Tra l’altro i veneziani avevano il triste ricordo della
sconfitta di Prevesa (1538) in cui Andrea Doria a capo della flotta spagnola si era defilato senza
combattere. Si aggiungevano le reciproche gelosie dei capi, Gian Andrea Doria (nipote del primo) per gli spagnoli, Zane per i
veneziani, Marcantonio Colonna per la flotta pontificia (costituita da dodici
navi).
Per attutire gli screzi il papa volle affidare
il comando dell’intera flotta a Marcantonio Colonna, nomina che avrebbe dovuto essere vista di buon grado dagli spagnoli e
dai veneziani in quanto i Colonna da una parte erano vassalli del re di Spagna,
dall’altra ascritti nel libro d’oro della nobiltà veneziana. Ma
così non era.
Egli apparteneva alla principesca famiglia
romana dei Colonna; era duca di Paliano e Tagliacozzo, e all’epoca aveva trentacinque anni. Pur
essendo versato nell’arte militare, non possedeva esperienza di comando di una
flotta che suscitava perplessità di ordine tecnico-
militare, tanto da far dire al cardinale di Granvelle,
ambasciatore di Filippo II: “Colonna in
mare non se ne intende più di me”.
Colonna era stato
descritto “alto, svelto nella persona,
calvo fin da giovane, gran fronte, viso lungo, occhi grandi, portamento nobilissimo, grande intelligenza, raro valore e cuor
magnanimo. Provveduto in ogni cosa, efficace nel discorso e insieme di maniere
tanto affabili e dignitose quanto non si sarebbero riscontrate in un sovrano”.
Insomma Colonna, pur avendo tutte queste grandi qualità, non aveva “carisma”,
quella dote fatta di magnetismo che chi lo possiede trasfonde e conquista.
L’intera flotta aveva reagito alla nomina del Colonna, essendogli preferito il più giovane Gian Andrea
Doria, che comandava la flotta spagnola.
Gian Andrea aveva trent’anni era stato descritto “lungo, magro, deforme, con la testa aguzza, la capigliatura corta e
crespa, il naso camuso, l’occhio incavato e un gran labbro spenzolato all’ingiù
che gli davano l’aria di un corsaro africano piuttosto che di un gentiluomo
genovese”.
Sotto queste fattezze, “aveva grande animo, intelligenza, valore, gran
pratica di mare, conoscenza degli uomini, simulazione profonda ed arte sottile
per menare la sua barca per il meridiano di Madrid”.
Della flotta spagnola facevano parte dodici galere
proprie del Doria per le quali
gli veniva corrisposta una indennità (“asiento” di diecimila scudi per ciascuna nave, all’anno), ma
in caso di perdite non avrebbe ricevuto alcun rimborso e questo non gli faceva
vedere di buon grado il comando del Colonna.
La flotta spagnola era complessivamente formata
da 49 galere, della quale facevano parte quelle prese in affitto dal Doria e quelle raccolte dai vicereami di Napoli e Sicilia e
della Sardegna con mercenari genovesi. Inviata a Messina, vi giunse il 9
agosto.
All’impresa doveva partecipare una piccola
squadra di quattro galere inviate dall’Ordine dei Cavalieri di Malta al comando
di Francesco di Saint Clement, due delle quali però erano
state catturate da Ulug Alì mentre si dirigevano a
Messina, una era rimasta incagliata. Il Saint Clement con una sola nave rientrò a Malta e ritenuto
responsabile del disastro fu condannato a morte per strangolamento e il suo
corpo buttato in mare.
La flotta pontificia partita da Ancona si
diresse ad Otranto dove dovevano convergere tutte le altre navi e dove giunse
il 5 agosto.
Spagnoli e pontifici giunsero a Candia dove
furono accolti da Zane. In tutto erano state raccolte centottantasette galere e
undici galeazze oltre alle navi più piccole e quelle per il trasporto delle
vettovaglie, milletrecento cannoni, sedicimila soldati, più del doppio di
rematori e marinai.
La flotta riunita salpò (17 settembre) per
intercettare la flotta turca, ma quando era a circa centocinquanta miglia da
Cipro, dovette riparare nell’isoletta di Castelrosso
(Castelorizo) a causa di una violenta burrasca di
scirocco. Qui era nel frattempo giunta la notizia della presa di Nicosia (9 settembre) e di quasi tutta l’isola, esclusa Famagosta.
A questo punto Colonna avrebbe voluto
proseguire per Cipro. Zane lo ritenne inutile
preferendo assaltare qualche fortezza nemica (a Negroponte
o in Peloponneso). Doria era per il ritorno in patria in quanto
le navi veneziane erano male in arnese e si avvicinava la stagione autunnale
che non permetteva la navigazione, facendo prima una puntata nell’Adriatico a Valona o a Durazzo.
Durante una sosta nell’isola di Scarpanto a causa di un’altra burrasca, dopo un alterco con
Colonna, Doria il 26 settembre fece rotta a Candia
per poi tornarsene a Messina.
Tutto si era risolto in un nulla di fatto. Non
solo. Sulla via del ritorno le navi pontificie e veneziane furono colpite da
tempeste e disavventure; i veneziani perdettero tredici navi, le altre si
dispersero. Della flotta pontificia ne rientrarono solo tre,
le altre erano andate perdute. La capitana del Colonna,
vecchia e malandata fu colpita da un fulmine e prese fuoco. Colonna fu preso a bordo di una nave veneziana che a stento riuscì a
sfuggire ai turchi. Rientrò a Roma ai primi dell’anno successivo (1571) e dal
papa gli furono tributati onori di un vincitore. Non altrettanto fece
I PREPARATIVI
E
L |
e trattative per
Il 20-V-1571 fu raggiunto l’accordo (perpetuo
nelle intenzioni, per tre anni in concreto ma nelle conclusioni esauritosi alla fine della battaglia):
essa prevedeva che gli alleati ogni anno armassero una flotta di duecento
galere, cento navi tonde, cinquantamila soldati, quattromila cavalieri,
novemila cavalli, il tutto per scopi difensivi ed offensivi contro i turchi,
Barberia compresa.
Comandante supremo delle forze di mare e di
terra, caduta la candidatura del duca di Savoia, fu nominato il ventiseienne don
Giovanni d’Austria (1545-78), figlio naturale di Carlo V, con il quale il fratellastro
Filippo II manteneva rapporti formali e diffidenti, se non ostili, (aveva vietato
l’uso, nei suoi confronti, del titolo di “altezza” che gli veniva dato ugualmente), di bell’aspetto
e belle speranze ma dall’avverso destino (morirà improvvisamente a 33 anni). Don
Giovanni sarebbe stato l’esecutore delle decisioni di un Consiglio, prese a
maggioranza.
Vicecomandante,
Marcantonio Colonna che comandava la flotta pontificia; comandante della flotta
veneziana il vecchio Sebastiano Venier e in seconda
Agostino Barbarigo; comandante della squadra spagnola
il genovese Gian Andrea Doria.
Le spese sarebbero state divise per tre parti
a carico della Spagna; due per Venezia, una per
Le forze cristiane
dispiegate erano imponenti: 14 galere per
Lo Stato pontificio aveva fornito 12 navi
prese in affitto dal granduca di Toscana; quattro navi erano state fornite da
Emanuele Filiberto di Savoia al comando di Andrea Provana; tre dall’Ordine di Malta al comando del Priore frà
Giustiniani. Il conte Lodron
(per il Tirolo) aveva fornito cinque navi e un
reggimento di tremilasettecento tedeschi (dei quali molti ammalatisi erano morti).
Gian Andrea Doria era a capo delle forze ausiliarie
genovesi, Ettore Spinola era capitano generale della
Repubblica di Genova; Cosimo de’ Medici aveva fornito quattro
galere al comando di Tommaso de’ Medici ed altri stati italiani che non potendo
fornire navi, avevano offerto soldati di ventura comandati da Alessandro
Farnese per Parma e Francesco Maria della Rovere per Urbino; altri comandanti erano Paolo Giordano Orsini, Ottavio e
Sigismondo Gonzaga.
Luogo designato per la riunione delle navi fu Messina dove le navi furono accolte con grandi solennità
e grandissima quantità di spari d’artiglieria, con generose offerte di mazzi di
torce di cera, candeloni, capponi, galline, galletti,
anatre, oche, galli d’India, pavoni, castrati, due botti di vino, ceste di pane
bianco, ceste di frutta, pani di zucchero fine, dolci e un carico di neve.
L’arrivo di don Giovanni sarà ancora più
festoso e dispendioso: per lo sbarco gli viene
preparato un ponte del costo di cinquemila scudi.
Prima di giungere a Messina, don Giovanni a
bordo della Reale al comando di don Juan Coronado, cavaliere di
Malta, si era fermato a Napoli per ricevere dal cardinale Granvela
il bastone di comando inviatogli da Pio V per mezzo del conte Saxatello e il vessillo della sacra lega, di damasco
azzurro, con al centro un crocifisso e in basso le
armi papali, con quelle spagnole a destra e veneziane a sinistra, tutte legate
da una catena da cui pendeva lo stemma di don Giovanni.
Quando don Giovanni sbarca a Messina è accolto
con grandi feste e spari a salve; lungo il percorso
erano stati allestiti archi di trionfo, fino al palazzo reale dove don Giovanni
rimarrà ospite fino alla partenza.
Nel frattempo giungono altre squadre navali
(le galere di Lodron., di Sebastiano Gonzaga, quelle di Gianandrea Doria, del conte di Sarno, di
Malta, le sessanta veneziane di Querini e Canaletto provenienti da Candia, le trenta di don Alvaro Bazan marchese di Santa Cruz).
Nel frattempo, don Giovanni Cardona con le sue quattro galere si reca a prelevare il
reggimento dei veterani spagnoli di Sicilia (il “tercio”), del conte Venceslao d’Arcos; il figlio di Marcantonio Colonna, Prospero, con
l’aiuto del barone Gaspare Toraldo di Badolato, va a procurare tra Sicilia e Calabria, duemila
fanti.
Il 7 settembre don Giovanni in corteo,
accompagnato dai maggiori esponenti dell’armata, si reca alla chiesa di san
Girolamo dove l’arcivescovo Giovanni Retana con clero
e ordini monastici si unisce al corteo per andare al duomo ad ascoltar messa.
Monsignor Odescalchi bandisce il perdono dei peccati
a tutti coloro che confessati e comunicati partono con
l’armata.
Il 10 settembre
sulla Reale, si tiene un turbolento consiglio di guerra: Venier
voleva andare a prestare aiuto a Cipro, minacciando di andarvi da solo; gli
spagnoli mostravano le loro solite perplessità; Colonna mediava sostenendo lo
spirito bellicoso di don Giovanni; don Garcia di
Toledo suggeriva la prudenza raccomandata da Filippo II. Alla fine, dopo
il rientro (14) di Gil d’Andrada
e Giobatta Cantorini, mandati in esplorazione, si concorda l’ordinanza di battaglia ed ha inizio l’imbarco
delle truppe.
Il papa aveva distribuito tra le navi i
diversi ordini religiosi, disponendo che sulle navi spagnole fossero
imbarcati i gesuiti, sulle pontificie i cappuccini e sulle altre (genovesi,
savoiarde e veneziane) domenicani e francescani. Onorato Gaetani
(cognato del Colonna), nominato capitano generale
delle fanterie pontificie, aveva ricevuto disposizioni dal papa che sulle navi
non vi fossero giovani senza barba e non si bestemmiasse.
Il controllo che sulle navi non vi fossero persone corrotte, ragazzi e ragazze, era stato
affidato a monsignor Odescalchi. Questi severi
controlli, però, non avevano impedito che a bordo di una di esse
si trovasse Maria
I religiosi, che seguivano i soldati nella
recitazione delle preghiere, sorvegliavano che non bestemmiassero,
li esortavano e rassicuravano che con la confessione, le preghiere e
combattendo, avrebbero vinto il nemico.
Tra i religiosi, nel corso della battaglia si
distingueranno i cappuccini, che con la forza della fede e una croce di legno o di bronzo, aiuteranno
i feriti, pregando e dando l’assoluzione ai moribondi. Uno di essi salirà sulla parte alta di una poppa, rincuorando con
la croce i combattenti, e gridando “vittoria,vittoria”
quando ancora non saranno chiare le
sorti della battaglia.
Frate Anselmo di Pietramolara, prefetto dei monaci, che si troverà su una
galera di cui si erano impadroniti i
turchi, presa una spada con due mani ne distenderà sette, facendo arretrare gli
altri. Rimarrà illeso e andando poi a chiedere perdono al papa, sarà confortato
sentendosi rispondere di essere “più degno di lode che di dispensa”.
Le navi finalmente la domenica del 16
settembre prendono il largo e il 24 raggiungono Corfù.
Il 3 ottobre si verifica
un incidente che avrebbe potuto mettere in crisi le alleanze faticosamente
raggiunte. Il capitano Muzio Alticozzi, comandante
della compagnia di Paolo Sforza, imbarcato su una galera veneziana sotto il
comando di Andrea Calergi,
era stato mandato sulla galera di Sebastiano Venier e
rivolto ai veneziani, li aveva chiamati “sbirri e becchi fottuti”,
facendo scoppiare una rissa che aveva provocato dei morti.
Il Venier fa
immediatamente giustizia, facendo impiccare l’Alticozzi, un sergente e due soldati all’antenna della sua
galera. Don Giovanni conosciuto l’accaduto, si ritiene offeso per il gesto di
giustizia sommaria del Venier, col quale interrompe i
rapporti e non vuole incontrare neanche in Consiglio, chiedendo che in sua
presenza, fosse sostituito dal Barbarigo.
Le navi cristiane giungono quindi a Cefalonia
(5 ottobre) e si fermano nella cala chiamata Valle d’Alessandria. Quì don Giovanni le passa in rassegna impartendo l’ordine
di mantenere la formazione.
I turchi ignoravano la presenza dei cristiani,
che ritenevano si fossero diretti in Barberia dove Ulug Alì (detto Uccialli, oriundo
calabrese e convertito musulmano) pascià d'Algeri, pensava di recarsi con
sessanta navi.
Ai cristiani la notizia che la flotta turca era
superiore fu portata da un nocchiere, Cecco Pisano, mandato in perlustrazione.
La notizia fu
tenuta nascosta a don Giovanni e riferita al Colonna al quale il Pisano suggeriva
di affilare le unghie: “spuntati
l’unghie, signore, che n’è bisogno”.
Il 6 ottobre la flotta dirige verso le Curzolari in direzione del golfo di Patrasso,
in fondo al quale si trova Lepanto (Naupaktos) dove stazionano
le navi turche, luogo della battaglia, scelto non dagli uomini ma dagli
avvenimenti.
La flotta cristiana era formata da 208 galere,
della quale facevano parte sei galeazze veneziane (grosse navi dotate di
numerose e potenti artiglierie) 36 vascelli e brigantini (che però non
intervennero nella battaglia), con 1800 pezzi d’artiglieria, 34mila soldati, 13mila
marinai, 43mila rematori (tra schiavi turchi e galeotti).
La flotta turca era lievemente superiore con 222 galere e 60 altri vascelli, 34.000
soldati, 13.000 marinai, 41mila rematori e inferiore in artiglierie con 750
cannoni, al comando dell'ammiraglio Mehemet Alì Pascià.
La mattina del 7 ottobre le flotte si
schierarono in direzione nord-sud per una lunghezza di 6-
Il Doria aveva avuto
l’idea di far abbattere gli speroni delle galere in modo che affondando la prua
sott’acqua il tiro meno curvo dei pezzi potesse colpire in pieno i fianchi
delle navi turche.
Le galeazze veneziane, sotto il comando di
Francesco Duodo, poste all'avanguardia, due per
settore, avevano il compito di sconvolgere con le artiglierie le linee
avversarie. Al centro erano le 64 galere di Don Giovanni d'Austria,
contrassegnate dal colore azzurro, con
La flotta turca che aveva adottato analoga
disposizione, al centro era l’ammiraglio Alì Pascià, a sinistra Ulug Alì, , a destra Mohammed Saulak, governatore d'Alessandria.
Seguivano: a
destra Mehemet Soraq, “Scirocco”, con 52 galere e due galeotte; al centro l'ammiraglio
Ali, con 87 galere e due galeotte; alla sinistra Ulug
Ali, con 61 galere e trentadue galeotte; in retroguardia otto galere e ventuno
galeotte.
Alle dieci e trenta Mehemet Soraq manovra la sua squadra per incunearsi tra l'ala
destra cristiana e la costa e aggirare alla sinistra la flotta cristiana per
prenderla alle spalle. In questa azione Barbarigo perde la vita colpito da una freccia all'occhio
destro, mentre "Scirocco" è
catturato e la sua squadra costretta alla fuga.
Alle 11 la squadra di Mehemet Ali riesce,
nonostante le cannonate delle galeazze venete, ad avvicinarsi al centro della
flotta cristiana e ad agganciare
Mentre il centro dello schieramento turco si
sbanda e si dà alla fuga, l'ala destra cristiana comandata dal Doria,
forse per paura di essere accerchiata dalla più numerosa ala
sinistra turca o forse perché spinta dalle correnti, si allontana dal centro,
lasciando aperto un varco, nel quale Ulug Ali cerca
di infilarsi con la sua squadra. Questa infelice manovra darà luogo ad accuse
di tradimento.
La squadra di Ulug Alì è bloccata dalle galere maltesi e da quelle
siciliane di don Giovanni Cardona che si sacrificano
per permettere alla retroguardia di accorrere. Per evitare di trovarsi
accerchiato, Ulug fugge con le poche navi superstiti.
La battaglia ebbe termine alle quattro del
pomeriggio: le perdite della Lega furono di 8.000 morti, 21.000 feriti e 15
navi distrutte. Tra le forze musulmane vi furono 20mila morti, 50 galere
affondate o incendiate 110 catturate 10mila prigionieri e 12mila schiavi
cristiani liberati. Il mare rosso di sangue era coperto di morti, di fasciame e
tutto il materiale delle navi distrutte che poteva galleggiare.
Come abbiamo gia
detto, la vittoria suscitò grande entusiasmo presso tutta la cristianità, particolarmente
in Italia e in Spagna, dove vi furono molteplici celebrazioni artistiche e
letterarie. Pio V ordinò una festa di ringraziamento in ogni anniversario, in
onore di Nostra Signora della Vittoria. Egli sarà successivamente
beatificato (1672) e santificato (1712). Il suo successore Gregorio XIII proclamerà
la festa del Rosario, ricorrente la prima domenica di ottobre.
Come anche abbiamo visto, la vittoria non ebbe alcun seguito: l’unico ad insistere perché la guerra in
Oriente fosse portata a fondo fu Marcantonio Colonna, al quale, al solito, non
fu dato credito. Tutti i suoi sforzi, anche presso il nuovo papa (Gregorio
XIII) furono vani. Filippo II lo nominò (1577) vicerè di Sicilia, e in questa
carica dimostrò una singolare abilità di governo.
FINE