Battaglia di Lepanto – Duomo di Montagnana

 

Con la vittoria i veneziani hanno fatto solo la barba a Selim

che  ricrescerà anche più folta;

prendendo Cipro il sultano ha tagliato un braccio a Venezia,

che non  ricrescerà. Mohammed Sokollu Pasha, Gran Visir

 

LEPANTO

1571

UNA BATTAGLIA SPETTACOLARE

   UNA VITTORIA DI PIRRO*

 

MICHELE E. PUGLIA

 

SOMMARIO: PREMESSE; I PRODROMI: I TURCHI CONQUISTANO CIPRO; I PREPARATIVI E LA BATTAGLIA.

 

PREMESSE

 

L

epanto” dopo oltre quattrocento anni è rimasta nell’inconscio collettivo dei cattolici come una grande vittoria della cristianità contro i “turchi infedeli”.

Ancor oggi si avvertono quegli strascichi, nella diatriba che vede contrapposti i cattolici contro l’ingresso della Turchia (considerata nel seno della NATO un baluardo militare nei confronti dei paesi arabi),  nell’Unione Europea, dimenticando la geopolitica della Turchia nei tempi passati.

La Turchia infatti, originariamente era denominata “Anatolia” o “Asia Minore” le cui regioni erano la Bitinia, Cappadocia, Cilicia, Galatia (chi non ha sentito parlare della lettera di san Paolo “ai Galati?), l’Armenia,  che avevano fatto parte dell’impero romano prima, e  dell’impero bizantino dopo.

La polemica dei cattolici, stranamente, si acuisce proprio nel momento  in cui il Papa Giovanni Paolo II si è affannato a sostenere il superamento delle discriminazioni etniche e religiose e ad invocare il dialogo fra le tre religioni monoteiste. E si dimentica anche, che il popolo turco non è arabo essendo di tutt’altra origine (ne parleremo nell’articolo sull’Impero ottomano).

Lepanto ricorda la più grande battaglia navale di tutti i tempi, bella e spettacolare dal punto di vista scenografico, ma sterile nei suoi effetti concreti perché solo nell’immaginario era divenuta parte integrante dell'epopea della cattolicità (con enfasi era stato, appunto  scritto che “Lepanto divenne parte integrante dell’epopea della cattolicità”).

Non è verocome tutt’ora si ritiene in Occidente (lo vedremo più avanti), che quella vittoria “è stata la grande vittoria cristiana che aveva segnato un momento decisivo di arresto dell’espansione ottomana” o avesse bloccato l’avanzata dei turchi nell’area del Mediterraneo o avesse inferto un colpo mortale alla potenza navale ottomana, perché l’impero ottomano continuerà a dominare la scena del mondo fino al suo disfacimento avvenuto nel XX secolo.

Quella vittoria aveva avuto solo un potente effetto psicologico su tutta la cristianità: quello di dare sollievo allo spirito depresso dei cristiani, che sfogavano le loro frustrazioni e le loro paure nell’odio contro i turchi musulmani, inculcato da una feroce guerra psicologica di carattere esclusivamente religioso, condotta dalle autorità ecclesiastiche (com’era avvenuto nei confronti degli ebrei) e che aveva avuto i suoi effetti durante il trascorrere dei secoli.

Nei suoi effetti pratici Lepanto era stato solo un episodio isolato, che non era neanche stato sfruttato in  proprio favore, da parte dei vincitori partecipanti alla Lega.

Erano state le razzie dei pirati, più barbareschi che turchi,  sulle coste italiane e spagnole, a seminare il terrore e lasciare nell’inconscio il triste ricordo de “i turchi son sbarcati a la marina”, dimenticando però tutti i massacri compiuti nei loro confronti dai cristiani e le migliaia di turchi ridotti in schiavitù sulle galere cristiane e in Occidente.

Quanto all’espansionismo dell’impero ottomano (che dopo Lepanto continuò ad estendersi  alle isole dell’Egeo), in effetti esso era cessato verso Occidente, e non perché fosse stato bloccato, ma per esaurimento. Gli interessi turchi infatti, si erano indirizzati ad Oriente (la Persia), come  gli interessi di Filippo II si erano rivolti ad occidente, verso l’Atlantico.

I reciproci interessi della Sublime Porta ad est (confini persiani e Oceano indiano) e della Spagna ad ovest (Atlantico) dopo la battaglia di Lepanto, portarono le due potenze (per la prima Murad III, per la seconda Filippo II) a firmare una tregua triennale (1581).

Da questo momento, scrive Braudel: “il blocco delle forze spagnole e il blocco delle forze turche a lungo opposti nel Mediterraneo si staccarono l’uno dall’altro e di colpo il Mare interno si libera dalla guerra dei grandi stati che dal 1550 al 1580 ne era stato il fatto principale. Per il Mediterraneo una grande età era finita”.

Se a Lepanto era stata distrutta quasi tutta la flotta turca, subito dopo, i turchi, nel giro di tre anni, la ricostituirono e continuarono poco a poco, nel Mediterraneo orientale, a  togliere a Venezia tutti i rimanenti territori posseduti nelle isole dell’Egeo: non solo le principali come Cipro (1571) e Candia-Creta (1669), ma tutte le altre più piccole.

Nel Mediterraneo occidentale, invece, Tunisi occupata dagli spagnoli nel 1569, fu perduta definitivamente con la vittoria della Goletta solo tre anni dopo Lepanto (1574), con la conseguenza che questa riconquista aveva consentito ai turchi di mantenere ancora l’intero Magreb (Tunisi, Tripoli e Algeri). Da questo momento e fino al 1591 i turchi non ebbero più nessuno con cui combattere e questa bonaccia fu peggiore di una guerra. in quanto le navi finirono col marcire nei porti.  

I vincitori di Lepanto non avevano saputo utilizzare la vittoria. Divisi da beghe interne e gelosie non erano riusciti a trarre alcun profitto dalla vittoria, con la conseguenza che essa era rimasta un avvenimento isolato e a sé stante. L’unico lungimirante era stato Marcantonio Colonna che aveva insistito per perseguire ancora i turchi, ma non gli fu dato peso.

Nei fatti, i cristiani avevano avuto la sola consolazione della grande sconfitta inferta ai turchi; per costoro era stato invece solo un incidente di percorso presto dimenticato.

Era risultato esatto ciò che aveva detto il gran visir Mohammed Soqollu:  i veneziani (e con essi la cristianità, rappresentata dai paesi che avevano partecipato alla battaglia ndr.) avevano fatto solo la barba a Selim, che sarebbe cresciuta più folta, mentre i turchi, prendendo Cipro avevano tagliato un braccio  a Venezia (e alla cristianità ndr.) che non sarebbe ricresciuto”.

La Sublime Porta, alla fine del XVI secolo, era all’apogeo della sua grandezza  e del suo  splendore. A Solimano il Magnifico (così gratificato dagli occidentali: 1520-66), erano succeduti Selim II (1566-74), Murad III (1574-1595) e Maometto III (1595-1603), i quali pur non avendo la tempra di Solimano, avevano avuto come amministratore dell’impero Soqollu Mehemed Pasha, nominato “gran visir” da Solimano, il quale curava con grande competenza gli affari di Stato.

Dal momento della conquista di Costantinopoli (1453) da parte di Mehemet II (1451-1581) la potenza ottomana, terrestre e marittima era andata sempre più crescendo.

I turchi avevano sottratto territori a Venezia, impossessandosi di Negroponte e della Morea (Peloponneso), avevano conquistato l’Asia minore, l’Egitto, erano padroni del Mar Nero (chiuso alla navigazione), dell’intera Dalmazia, della Bulgaria e Romania fino all’Ungheria. Dominavano il Mediterraneo orientale, mentre quello occidentale era alla mercé dei pirati barbareschi i cui regni (Algeri Tripoli e Tunisi ) erano vassalli del Gran Turco e battevano bandiera dell’Islam..

I pirati (1) avevano spadroneggiato e spadroneggiavano nel Mediterraneo, Tirreno, Ionio ed Egeo e conducevano una costante e micidiale guerriglia predatoria e di distruzione contro le popolazioni rivierasche (a volte penetravano anche all’interno), della Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Calabria, Sicilia e Puglia, ma anche delle coste della Provenza (il cristianissimo e lungimirante re di Francia Francesco I, si era sottratto a queste incursioni stipulando un trattato di alleanza con Solimano, che aveva fatto inorridire i cristiani), della Castiglia e spagnole.

Il bottino era costituito principalmente di uomini ridotti in  schiavitù (Miguel Cervantes sarà tra costoro:1575-80) mentre le ragazze  finivano negli harem locali, le più belle venivano mandate come dono al padisha,  il gran sultano, il sultano dei sultani, l’ombra di Dio sulla terra a Costantinopoli. D’altra parte, erano anche i  musulmani ad essere resi schiavi finendo sulle galere cristiane.

Il declino della Sublime Porta iniziato dopo la morte di Sokollu (assassinato da un fanatico nel 1579), a causa della corruzione che si era insediata a tutti i livelli dell’amministrazione dello Stato, era un declino fisiologico valevole per tutte le grandi potenze.

Esso in genere aveva inizio quando una potenza aveva raggiunto l’apice della sua grandezza, come si era verificato per la gloriosa Repubblica di Venezia.

L’impero ottomano resisterà, come abbiamo detto, ancora per circa quattrocento anni. Più specificamente, la causa principale del suo declino, era da ricercare nello “spirito di conservazione”, dovuto, come spesso accade, all’attaccamento alla grandezza del passato che aveva impedito l’adeguamento all’evoluzione dei tempi, al progresso e allo sviluppo delle nuove tecnologie.

Mentre durante l’epoca delle conquiste l’impero si era adeguato alle nuove tecnologie, dal XVIII secolo esse non trovarono più applicazione, con la conseguenza che le navi non erano più quelle di un tempo e non tenevano più bene il mare; i cannoni e le bombarde non erano più quelli della conquista di Costantinopoli (dove fu usato il celebre e pittoresco cannone  che sparava palle da 600 kg!). L’espansionismo russo, il sorgere dei nazionalismi e le guerre d’indipendenza avevano fatto il resto.

 

*) E’ noto che per “vittoria di Pirro” si intende una vittoria inconcludente. Pirro infatti aveva pensato di unificare all’Epiro (parte nordoccidentale della Grecia divisa tra Grecia e Albania) la Magna Grecia, ed essendo stato richiesto dai tarantini il suo aiuto contro i romani, venne in Italia con un esercito di 25mila soldati e 20 elefanti. Sconfisse i romani subendo però gravi perdite. Questa vittoria, come altre riportate in Sicilia (277)  e in Macedonia, non ebbero nessuno sviluppo politico o di conquista o sottomissione di popoli. Furono insomma vittorie inutili come quella di Lepanto, appunto.

1) Morti i più celebri, Kaid Alì  Sinam il Giudeo, Kair ad-Din (Ariadeno Barbarossa: v. Carlo V ecc.) con il fratello Orudge, Kurtogolì e Dragut, costoro furono sostituiti da Ulug Alì (Uluccialì) il Tignoso (pascià di Tripoli e poi di Algeri), il suo luogotenente Caraccialì, Amurat Dragut, Cara Hodia detto Tarragosa, Karagia Alì detto Caragiulì, Carabainch, Mehemet Shoraq detto Scirocco. E dopo costoro Murad Rais, Hassan Agà ed altri.

 

 

I PRODROMI:

I TURCHI CONQUISTANO CIPRO

 

 

A

 seguito delle conquiste da parte degli arabi dei territori che affacciavano sul bacino del Mediterraneo, fino al XII secolo, questo era da considerarsi un “lago arabo” (durante il periodo dell’impero romano il Mediterraneo era stato “lago romano”). Cessata la dominazione araba, successivamente al saccheggio di Costantinopoli (1204; v. Articoli: La prima e quarta Crociata”) erano subentrati i veneziani (v. Articoli: I mille anni dell’impero bizantino), che si erano appropriati dei territori bizantini. Essi però non si potevano considerare dominatori dell’intero bacino in quanto ne avevano occupato solo la parte orientale.

Con il cambio della guardia degli ottomani (dal XIV sec.), erano stati costoro a conquistare nuove posizioni a danno dei cristiani e il Mediterraneo, dopo le conquiste dei territori dell’impero bizantino era divenuto un “lago ottomano”. Era stato durante questo periodo che avevano avuto inizio le scorrerie e i saccheggi delle coste (nel 1480, Otranto era stata saccheggiata).

Nel 1522 i turchi conquistano Rodi cacciando i Templari; tra il 1534, 1538, 1540 e 1545  per merito del celebre pirata Kair ad-Din detto “Barbarossa” al servizio del sultano, furono conquistati altri territori, con la conseguenza che i turchi nel Mediterraneo avevano acquistato la supremazia.

Nel 1567 Selim II (succeduto a Solimano) aveva rinnovato il trattato di pace con i veneziani, ma presto alcuni incidenti avevano fatto capire che i turchi non avevano alcuna intenzione di rispettarlo. Selim aveva in mente la conquista di Cipro, e non perché, come era stato detto,  amasse particolarmente  il vino dell’isola (era chiamato “mest” l’ubriacone, e bevendo quel vino da una grossa coppa soleva dire: questo vino ben presto berremo in Cipro), ma Cipro gli interessava per la sua posizione strategica, come l’aveva Candia (Creta), in quanto le due isole costituivano le porte dell’impero nel Mediterraneo.

Nel mese di gennaio 1570 erano giunte notizie dalla Turchia di preparativi e movimenti di truppe.

Il 28 marzo Selim chiedeva la consegna dell’isola di Cipro al bailo di Venezia a Costantinopoli Marcantonio Barbaro, il quale non potendo dare una risposta lo invitava a mandare un legato a Venezia. Inviato il legato, il senato veneziano, preavvertito, si era accordato sulla risposta da dare: “Selim senza motivo, richiedendo Cipro intendeva muovere guerra alla Repubblica; la potenza divina non avrebbe fatto mancare il suo favore a chi aveva anteposto l’onore  all’utile e la fede alla conquista. La richiesta non poteva che essere rifiutata”.

I veneziani avevano chiesto inutilmente aiuto al re di Francia, all’imperatore Massimiliano d’Austria, allo zar di Moscovia e al sofì di Persia, l’unico ad accogliere l’appello era stato il papa Pio V convinto assertore di una crociata contro i turchi.

Michele Ghisleri (1504-1572) salito al soglio col nome di Pio V, prima della elezione era stato domenicano e inquisitore dal pugno di ferro, prima in Lombardia e poi a Roma dove aveva ricoperto la carica di commissario generale dell’Inquisizione, raggiungendo successivamente la carica di Grande inquisitore.

Il suo rigorismo cattolico (oggi si usa il termine fondamentalismo) lo aveva portato ad eccessi di fanatismo nella lotta contro l’eresia, che per lui doveva essere perseguita e punita unicamente con la morte. E di innocenti accusati solo “di essere in corrispondenza coi settari (protestanti) di Germania”, al rogo, ne aveva mandati in buon numero.

Relativamente alla Inquisizione instaurata in Spagna, dimentico dei principi di pietà cristiana, aveva scritto a Filippo II invitandolo a combattere gli eretici senza pietà: “non mai pietà; sterminate chi si sottomette e sterminate chi resiste; perseguitate ad oltranza, uccidete, ardete, tutto vada a fuoco  e a sangue purché  sia vendicato il Signore; molto più che nemici suoi, sono nemici vostri”.

A lui era venuta l’idea della cacciata degli ebrei dallo Stato pontificio, ad eccezione di Roma ed Ancona, ma il Senato aveva fatto prevalere quella più tollerante di confinarli in un quartiere (poi chiamato “ghetto (v. Articolo: L’Europa verso la fine del medioevo,  P. III: Papi e movimenti religiosi),  istituito da Paolo IV (1575-99)). Era stato lui a introdurre l’ “Index librorum prohibitorum” (1572).

In campo internazionale, appena eletto papa (1566), si era mostrato favorevole a una  rigorosa difesa dei diritti giurisdizionali della Chiesa e, mentre per lui all’interno, il nemico da abbattere erano eretici ed ebrei, all’esterno, il nemico da abbattere erano i turchi che costituivano una minaccia al mondo cristiano.

L’occasione gli fu data dall’aiuto chiesto dai veneziani e dall’idea della Lega che perseguì con fervore, adoperandosi presso Filippo II per convincerlo che era anche interesse della Spagna che Cipro non finisse in mano ai turchi.

A Venezia nel frattempo veniva allestita una flotta che il doge Alvise Mocenigo affidava a Gerolamo Zane, mentre il comando della truppa era affidata al capitano Sforza Pallavicino.

La flotta di sessanta galere partita per Zara il 30 marzo, vi giungeva il 13 giugno decimata dallo scorbuto. Ricevuto quindi l’ordine di recarsi a Candia (Creta) vi giunse in agosto male in arnese, con difficoltà a reperire vettovaglie e reclutamento.

Mustafà con una flotta di 160 navi al comando di Pialì Pasha, iniziava (1 luglio 1570) a Cipro le operazioni di sbarco ponendo l’assedio a Nicosia, capitale dell’isola, dove si trovavano forze veneziane e greche comandate da Niccolò Dandolo. La città resistette all’assedio, ma a seguito di un rinforzo di venicinquemila uomini ricevuto da Mustafà, la resistenza venne piegata (9 settembre 1970).

Al Dandolo Mustafà fece mozzare la testa che mise su una picca e andò a mostrarla sotto le mura di Famagosta, a Marcantonio Bragadin. Il vescovo Francesco Contarini  con altri cinque vescovi, tutto il clero latino e ortodosso  seguirono la stessa sorte di Bragadin.

Tre navi erano state riempite d’oro, argento e di giovani donne destinate al sultano, ma non fecero a tempo a partire perché una di queste, Arnalda di Rochas, non accettando la schiavitù diede fuoco alle polveri, facendo saltare la nave e altre due vicine piene di schiavi che, “felicemente o infelicemente (scrive Carlo Botta), perirono”.

Messa sotto assedio Famagosta dopo strenua difesa durata fino all’anno successivo, non essendovi forze sufficienti  si alzò bandiera bianca (4 agosto 1571) in segno di tregua, accettata da Mustafà che non mantenne un comportamento leale.

Mustafà, infatti, si era impegnato al trasporto a Candia (Creta),  degli italiani e dei greci che avessero voluto abbandonare la città con armi e bagagli. I greci che lo avessero voluto, potevano rimanere con i loro beni e professare la loro religione avendo ottenuto la disponibilità di due chiese. A coloro che partivano era stata data la possibilità di portare con sé cinque pezzi d’artiglieria e tutto il metallo delle campane. Gli accordi furono messi per iscritto e Mustafà giurò sul Corano che li avrebbe rispettati.

Bragadin, fidandosi della lealtà di Mustafà, gli fece sapere che volentieri si sarebbe recato da lui la sera per rendergli omaggio e portargli le chiavi della città. Mustafà si era anch’egli mostrato desideroso di conoscerlo.

Bragadin, senza nulla sospettare, accompagnato da Astorre Baglioni, Luigi Martinengo, Gianantonio Quirino ed altri, con soldati si presentò all’accampamento, salutato da Mustafà. Dal gruppo mancava Lorenzo Tiepolo lasciato in città per accogliere Mustafà quando fosse giunto, il quale però aveva notato la sua assenza.

Mustafà non avendo intenzione di osservare gli accordi, incominciò a rinfacciare al Bragadin che la notte precedente egli aveva fatto uccidere duecento prigionieri turchi; così, adirato li fece tutti prigionieri, facendo prendere anche quelli che erano già imbarcati.

Due giorni dopo Mustafà entrato in città fece impiccare il Tiepolo. Una sorte peggiore era toccata a Lorenzo Bragadin al quale furono prima mozzate le orecchie e poi, appeso al pennone della bandiera in piazza, fu scorticato vivo. La pelle riempita di paglia e appesa all’antenna di una galeotta, fu mandata a Costantinopoli. Da qui la pelle fu successivamente portata a Venezia dove si trova ancora in un sarcofago nella basilica di s. Giovanni e Paolo

Le trattative della Lega, voluta da Pio V, tra Venezia, Spagna e Santa Sede, iniziate nel luglio 1570 sulla base di reciproche riserve mentali e sospetti, erano state lunghe e inconcludenti. Tra l’altro i veneziani avevano il triste ricordo della sconfitta di Prevesa  (1538) in cui Andrea Doria a capo della flotta spagnola si era defilato senza combattere. Si aggiungevano le reciproche gelosie dei capi, Gian Andrea Doria (nipote del primo) per gli spagnoli, Zane per i veneziani, Marcantonio Colonna per la flotta pontificia (costituita da dodici navi).

Per attutire gli screzi il papa volle affidare il comando dell’intera flotta a Marcantonio Colonna, nomina che avrebbe dovuto essere vista di buon grado dagli spagnoli e dai veneziani in quanto i Colonna da una parte erano vassalli del re di Spagna, dall’altra ascritti nel libro d’oro della nobiltà veneziana. Ma così non era.

Egli apparteneva alla principesca famiglia romana dei Colonna; era  duca di Paliano e Tagliacozzo, e all’epoca aveva trentacinque anni. Pur essendo versato nell’arte militare, non possedeva esperienza di comando di una flotta che suscitava perplessità di ordine tecnico- militare, tanto da far dire al cardinale di Granvelle, ambasciatore di Filippo II: “Colonna in mare non se ne intende più di me”.

Colonna era stato descritto “alto, svelto nella persona, calvo fin da giovane, gran fronte, viso lungo, occhi grandi, portamento nobilissimo, grande intelligenza, raro valore e cuor magnanimo. Provveduto in ogni cosa, efficace nel discorso e insieme di maniere tanto affabili e dignitose quanto non si sarebbero riscontrate in un sovrano”.

Insomma Colonna,  pur avendo tutte queste  grandi qualità, non aveva  carisma”, quella dote fatta di magnetismo che chi lo possiede trasfonde e conquista.

L’intera flotta aveva reagito alla nomina del Colonna, essendogli preferito il più giovane Gian Andrea Doria, che comandava la flotta spagnola.

Gian Andrea aveva trent’anni era stato descritto “lungo, magro, deforme, con la testa aguzza, la capigliatura corta e crespa, il naso camuso, l’occhio incavato e un gran labbro spenzolato all’ingiù che gli davano l’aria di un corsaro africano piuttosto che di un gentiluomo genovese”.

Sotto queste fattezze, “aveva grande animo, intelligenza, valore, gran pratica di mare, conoscenza degli uomini, simulazione profonda ed arte sottile per menare la sua barca per il meridiano di Madrid”.

Della flotta spagnola facevano parte dodici galere proprie del Doria per le quali gli veniva corrisposta una indennità (“asiento” di diecimila scudi per ciascuna nave, all’anno), ma in caso di perdite non avrebbe ricevuto alcun rimborso e questo non gli faceva vedere di buon grado il comando del Colonna.

La flotta spagnola era complessivamente formata da 49 galere, della quale facevano parte quelle prese in affitto dal Doria e quelle raccolte dai vicereami di Napoli e Sicilia e della Sardegna con mercenari genovesi. Inviata a Messina, vi giunse il 9 agosto.

All’impresa doveva partecipare una piccola squadra di quattro galere inviate dall’Ordine dei Cavalieri di Malta al comando di Francesco di Saint Clement, due delle quali  però erano state catturate da Ulug Alì mentre si dirigevano a Messina, una era rimasta incagliata. Il Saint Clement con una sola nave rientrò a Malta e ritenuto responsabile del disastro fu condannato a morte per strangolamento e il suo corpo buttato in mare.   

La flotta pontificia partita da Ancona si diresse ad Otranto dove dovevano convergere tutte le altre navi e dove giunse il 5 agosto.

Spagnoli e pontifici giunsero a Candia dove furono accolti da Zane. In tutto erano state raccolte centottantasette galere e undici galeazze oltre alle navi più piccole e quelle per il trasporto delle vettovaglie, milletrecento cannoni, sedicimila soldati, più del doppio di rematori e marinai.

La flotta riunita salpò (17 settembre) per intercettare la flotta turca, ma quando era a circa centocinquanta miglia da Cipro, dovette riparare nell’isoletta di Castelrosso (Castelorizo) a causa di una violenta burrasca di scirocco. Qui era nel frattempo giunta  la notizia della presa di Nicosia (9 settembre) e di quasi tutta l’isola, esclusa Famagosta.

A questo punto Colonna avrebbe voluto proseguire per Cipro. Zane lo ritenne inutile preferendo assaltare qualche fortezza nemica (a Negroponte o in Peloponneso). Doria  era per il ritorno in patria in quanto le navi veneziane erano male in arnese e si avvicinava la stagione autunnale che non permetteva la navigazione, facendo prima una puntata nell’Adriatico a Valona  o a Durazzo.

Durante una sosta nell’isola di Scarpanto a causa di un’altra burrasca, dopo un alterco con Colonna, Doria il 26 settembre fece rotta a Candia per poi tornarsene a Messina.

Tutto si era risolto in un nulla di fatto. Non solo. Sulla via del ritorno le navi pontificie e veneziane furono colpite da tempeste e disavventure; i veneziani perdettero tredici navi, le altre si dispersero. Della flotta pontificia ne rientrarono solo tre, le altre erano andate perdute. La capitana del Colonna, vecchia e malandata fu colpita da un fulmine e prese fuoco. Colonna fu preso a bordo di una nave veneziana che a stento riuscì a sfuggire ai turchi. Rientrò a Roma ai primi dell’anno successivo (1571) e dal papa gli furono tributati onori di un vincitore. Non altrettanto fece la Signoria di Venezia, che punì i cattivi esecutori dei suoi ordini, imprigionando il comandante delle truppe Sforza-Pallavicino e il comandante della flotta Gerolamo Zane che morì dopo poco essere stato imprigionato.

 

I PREPARATIVI

 E LA BATTAGLIA

 

 

L

e trattative per la Lega, a Roma proseguivano lentamente e con maggiori perplessità dopo l’esito della inutile e disastrosa ultima spedizione, avvelenate dal sospetto che i veneziani fossero in trattative segrete con i turchi.

Il 20-V-1571 fu raggiunto l’accordo (perpetuo nelle intenzioni, per tre anni in concreto ma  nelle conclusioni esauritosi alla fine della battaglia): essa prevedeva che gli alleati ogni anno armassero una flotta di duecento galere, cento navi tonde, cinquantamila soldati, quattromila cavalieri, novemila cavalli, il tutto per scopi difensivi ed offensivi contro i turchi, Barberia compresa.

Comandante supremo delle forze di mare e di terra, caduta la candidatura del duca di Savoia, fu nominato il ventiseienne don Giovanni d’Austria (1545-78), figlio naturale di Carlo V, con il quale il fratellastro Filippo II manteneva rapporti formali e diffidenti, se non ostili, (aveva vietato l’uso, nei suoi confronti,  del titolo di “altezza” che gli veniva dato ugualmente), di bell’aspetto e belle speranze ma dall’avverso destino (morirà improvvisamente a 33 anni). Don Giovanni sarebbe stato l’esecutore delle decisioni di un Consiglio, prese a maggioranza.

Vicecomandante, Marcantonio Colonna che comandava la flotta pontificia; comandante della flotta veneziana il vecchio Sebastiano Venier e in seconda Agostino Barbarigo; comandante della squadra spagnola il genovese Gian Andrea Doria.

Le spese sarebbero state divise per tre parti a carico della Spagna; due per Venezia, una per la Santa sede. Se il papa non avesse potuto farvi fronte, esse sarebbero state ripartite tra la Spagna per tre quinti e Venezia per due quinti.

Le forze cristiane dispiegate erano imponenti: 14 galere per la Spagna; 31 per il viceregno di Napoli sotto le insegne del conte di Sarno e di don Alvaro di Bazan marchese di Santa Cruz e 10 per il viceregno di Sicilia; 13 galere degli appaltatori genovesi al soldo del re di Spagna. La flotta veneziana, aveva 103 galere tra le quali alcune del Barbarico.

Lo Stato pontificio aveva fornito 12 navi prese in affitto dal granduca di Toscana; quattro navi erano state fornite da Emanuele Filiberto di Savoia al comando di Andrea Provana; tre dall’Ordine di Malta  al comando del Priore frà Giustiniani. Il conte Lodron (per il Tirolo) aveva fornito cinque navi e un reggimento di tremilasettecento tedeschi (dei quali molti ammalatisi erano morti). Gian Andrea Doria era a capo delle forze ausiliarie genovesi, Ettore Spinola era capitano generale della Repubblica di Genova; Cosimo de’ Medici aveva fornito quattro galere al comando di Tommaso de’ Medici ed altri stati italiani che non potendo fornire navi, avevano offerto soldati di ventura comandati da Alessandro Farnese per Parma e Francesco Maria della Rovere per Urbino; altri comandanti  erano Paolo Giordano Orsini, Ottavio e Sigismondo Gonzaga.

Luogo designato per la riunione delle navi fu Messina dove le navi furono accolte con grandi solennità e grandissima quantità di spari d’artiglieria, con generose offerte di mazzi di torce di cera, candeloni, capponi, galline, galletti, anatre, oche, galli d’India, pavoni, castrati, due botti di vino, ceste di pane bianco, ceste di frutta, pani di zucchero fine, dolci e un carico di neve.

L’arrivo di don Giovanni sarà ancora più festoso e dispendioso: per lo sbarco gli viene preparato un ponte del costo di cinquemila scudi.

Prima di giungere a Messina, don Giovanni a bordo della Reale al comando di don Juan Coronado, cavaliere di Malta, si era fermato a Napoli per ricevere dal cardinale Granvela il bastone di comando inviatogli da Pio V per mezzo del conte Saxatello e il vessillo della sacra lega, di damasco azzurro, con al centro un crocifisso e in basso le armi papali, con quelle spagnole a destra e veneziane a sinistra, tutte legate da una catena da cui pendeva lo stemma di don Giovanni.

Quando don Giovanni sbarca a Messina è accolto con grandi feste e spari a salve; lungo il   percorso erano stati allestiti archi di trionfo, fino al palazzo reale dove don Giovanni  rimarrà ospite fino alla partenza.

Nel  frattempo giungono altre squadre navali (le galere di Lodron., di Sebastiano Gonzaga, quelle di Gianandrea Doria, del conte di Sarno, di Malta, le sessanta veneziane di Querini e Canaletto provenienti da Candia, le trenta di don Alvaro Bazan marchese di Santa Cruz).

Nel frattempo, don Giovanni Cardona con le sue quattro galere si reca a prelevare il reggimento dei veterani spagnoli di Sicilia (il “tercio”), del conte Venceslao d’Arcos; il figlio di Marcantonio Colonna, Prospero, con l’aiuto del barone Gaspare Toraldo di Badolato, va a procurare tra Sicilia e Calabria, duemila fanti.

Il 7 settembre don Giovanni in corteo, accompagnato dai maggiori esponenti dell’armata, si reca alla chiesa di san Girolamo dove l’arcivescovo Giovanni Retana con clero e ordini monastici si unisce al corteo per andare al duomo ad ascoltar messa. Monsignor Odescalchi bandisce il perdono dei peccati a tutti coloro che confessati e comunicati partono con l’armata.                                                                                                                                                                

Il 10 settembre sulla Reale, si tiene un turbolento consiglio di guerra: Venier voleva andare a prestare aiuto a Cipro, minacciando di andarvi da solo; gli spagnoli mostravano le loro solite perplessità; Colonna mediava sostenendo lo spirito bellicoso di don Giovanni; don Garcia di Toledo suggeriva la prudenza raccomandata da Filippo II. Alla fine, dopo il rientro (14) di Gil d’Andrada e Giobatta Cantorini, mandati in esplorazione, si concorda l’ordinanza di battaglia ed ha inizio l’imbarco delle truppe.

Il papa aveva distribuito tra le navi i diversi ordini religiosi, disponendo che sulle navi spagnole fossero imbarcati i gesuiti, sulle pontificie i cappuccini e sulle altre (genovesi, savoiarde e veneziane) domenicani e francescani. Onorato Gaetani (cognato del Colonna), nominato capitano generale delle fanterie pontificie, aveva ricevuto disposizioni dal papa che sulle navi non vi fossero giovani senza barba e non si bestemmiasse.

Il controllo che sulle navi non vi fossero persone corrotte, ragazzi e ragazze, era stato affidato a monsignor Odescalchi. Questi severi controlli, però, non avevano impedito che a bordo di una di esse si trovasse Maria la Bailadora, una donna guerriera imbarcatasi clandestinamente.

I religiosi, che seguivano i soldati nella recitazione delle preghiere, sorvegliavano che non bestemmiassero, li esortavano e rassicuravano che con la confessione, le preghiere e combattendo, avrebbero vinto il nemico.

Tra i religiosi, nel corso della battaglia si distingueranno i cappuccini, che con la forza della fede e  una croce di legno o di bronzo, aiuteranno i feriti, pregando e dando l’assoluzione ai moribondi. Uno di essi salirà sulla parte alta di una poppa, rincuorando con la croce i combattenti, e gridando “vittoria,vittoria” quando ancora non saranno  chiare le sorti della battaglia.

Frate Anselmo di Pietramolara, prefetto dei monaci, che si troverà su una galera di cui si  erano impadroniti i turchi, presa una spada con due mani ne distenderà sette, facendo arretrare gli altri. Rimarrà illeso e andando poi a chiedere perdono al papa, sarà confortato sentendosi rispondere di essere “più degno di lode che di dispensa”.

Le navi finalmente la domenica del 16 settembre prendono il largo e il 24 raggiungono Corfù.

Il 3 ottobre si verifica un incidente che avrebbe potuto mettere in crisi le alleanze faticosamente raggiunte. Il capitano Muzio Alticozzi, comandante della compagnia di Paolo Sforza, imbarcato su una galera veneziana sotto il comando di Andrea Calergi, era stato mandato sulla galera di Sebastiano Venier e rivolto ai veneziani, li aveva  chiamati “sbirri e becchi fottuti”, facendo scoppiare una rissa che aveva provocato dei morti.

Il Venier fa immediatamente giustizia, facendo impiccare l’Alticozzi, un sergente e due soldati all’antenna della sua galera. Don Giovanni conosciuto l’accaduto, si ritiene offeso per il gesto di giustizia sommaria del Venier, col quale interrompe i rapporti e non vuole incontrare neanche in Consiglio, chiedendo che in sua presenza, fosse sostituito dal Barbarigo.

Le navi cristiane giungono quindi a Cefalonia (5 ottobre) e si fermano nella cala chiamata Valle d’Alessandria. Quì don Giovanni le passa in rassegna impartendo l’ordine di mantenere la formazione.

I turchi ignoravano la presenza dei cristiani, che ritenevano si fossero diretti in Barberia dove Ulug Alì (detto Uccialli, oriundo calabrese e convertito musulmano) pascià d'Algeri, pensava di recarsi con sessanta navi.

Ai cristiani la notizia che la flotta turca era superiore fu portata da un nocchiere, Cecco Pisano, mandato in perlustrazione. La notizia  fu tenuta nascosta a don Giovanni e riferita al Colonna al quale il Pisano suggeriva di affilare le unghie: “spuntati l’unghie, signore, che n’è bisogno”.

Il 6 ottobre la flotta dirige verso le Curzolari in direzione del golfo di Patrasso, in fondo al quale si trova Lepanto (Naupaktos) dove stazionano le navi turche, luogo della battaglia, scelto non dagli uomini ma dagli avvenimenti.

La flotta cristiana era formata da 208 galere, della quale facevano parte sei galeazze veneziane (grosse navi dotate di numerose e potenti artiglierie) 36 vascelli e brigantini (che però non intervennero nella battaglia), con 1800 pezzi d’artiglieria, 34mila soldati, 13mila marinai, 43mila rematori (tra schiavi turchi e galeotti).

La flotta turca era lievemente superiore con 222 galere e 60 altri vascelli, 34.000 soldati, 13.000 marinai, 41mila rematori e inferiore in artiglierie con 750 cannoni, al comando dell'ammiraglio Mehemet Alì Pascià.

La mattina del 7 ottobre le flotte si schierarono in direzione nord-sud per una lunghezza di 6-7 km. La potenza di fuoco delle navi cristiane, con lo sbarramento di fuoco delle sei galeazze veneziane, segneranno l’esito della battaglia.

Il Doria aveva avuto l’idea di far abbattere gli speroni delle galere in modo che affondando la prua sott’acqua il tiro meno curvo dei pezzi potesse colpire in pieno i fianchi delle navi turche. 

Le galeazze veneziane, sotto il comando di Francesco Duodo, poste all'avanguardia, due per settore, avevano il compito di sconvolgere con le artiglierie le linee avversarie. Al centro erano le 64 galere di Don Giovanni d'Austria, contrassegnate dal colore azzurro,  con la Reale fiancheggiata dalle capitane: pontificia, con Marcantonio Colonna, e veneziana, con Sebastiano Venier. Alla destra vi era il Doria con 54 navi genovesi, contrassegnate dal colore verde; alla sinistra Agostino Barbarigo con 64 galere veneziane, contrassegnate dal colore giallo. In retroguardia, al centro, vi erano le navi del marchese di Santa Cruz, contrassegnate dal colore bianco.

La flotta turca che aveva adottato analoga disposizione, al centro era l’ammiraglio Alì Pascià, a sinistra Ulug Alì, , a destra  Mohammed Saulak, governatore d'Alessandria.

Seguivano: a destra Mehemet Soraq, “Scirocco”, con 52 galere e due galeotte; al centro l'ammiraglio Ali, con 87 galere e due galeotte; alla sinistra Ulug Ali, con 61 galere e trentadue galeotte; in retroguardia otto galere e ventuno galeotte.

Alle dieci e trenta Mehemet Soraq manovra la sua squadra per incunearsi tra l'ala destra cristiana e la costa e aggirare alla sinistra la flotta cristiana per prenderla alle spalle. In questa azione Barbarigo perde la vita colpito da una freccia all'occhio destro, mentre "Scirocco" è catturato e la sua squadra costretta alla fuga.

Alle 11 la squadra di Mehemet Ali riesce, nonostante le cannonate delle galeazze venete, ad avvicinarsi al centro della flotta cristiana e ad agganciare la Reale con a bordo don Giovanni.  Tutte le navi corrono in soccorso e intorno alle due ammiraglie si scatena una mischia furibonda. Più volte i giannizzeri di Alì tentano di dare l'assalto alla Reale ma ogni volta sono respinti dagli archibugieri spagnoli. Infine le navi di Colonna e  Venier riescono ad abbordare e conquistare l'ammiraglia turca. Mehemet Alì è immediatamente decapitato e la sua testa  issata sul pennone insieme a una croce.

Mentre il centro dello schieramento turco si sbanda e si dà alla fuga, l'ala destra cristiana comandata dal Doria,  forse per paura di essere accerchiata dalla più numerosa ala sinistra turca o forse perché spinta dalle correnti, si allontana dal centro, lasciando aperto un varco, nel quale Ulug Ali cerca di infilarsi con la sua squadra. Questa infelice manovra darà luogo ad accuse di tradimento.

La squadra di Ulug Alì è bloccata dalle galere maltesi e da quelle siciliane di don Giovanni Cardona che si sacrificano per permettere alla retroguardia di accorrere. Per evitare di trovarsi accerchiato, Ulug fugge con le poche navi superstiti.

La battaglia ebbe termine alle quattro del pomeriggio: le perdite della Lega furono di 8.000 morti, 21.000 feriti e 15 navi distrutte. Tra le forze musulmane  vi furono 20mila morti, 50 galere affondate o incendiate 110 catturate 10mila prigionieri e 12mila schiavi cristiani liberati. Il mare rosso di sangue era coperto di morti, di fasciame e tutto il materiale delle navi distrutte che poteva galleggiare. 

Come abbiamo gia detto, la vittoria suscitò grande entusiasmo presso tutta la cristianità, particolarmente in Italia e in Spagna, dove vi furono molteplici celebrazioni artistiche e letterarie. Pio V ordinò una festa di ringraziamento in ogni anniversario, in onore di Nostra Signora della Vittoria. Egli sarà successivamente beatificato (1672) e santificato (1712). Il suo successore Gregorio XIII proclamerà la festa del Rosario, ricorrente la prima domenica di ottobre.

Come anche abbiamo visto, la vittoria non ebbe alcun seguito: l’unico ad insistere perché la guerra in Oriente fosse portata a fondo fu Marcantonio Colonna, al quale, al solito, non fu dato credito. Tutti i suoi sforzi, anche presso il nuovo papa (Gregorio XIII) furono vani. Filippo II lo nominò (1577) vicerè di Sicilia, e in questa carica dimostrò una singolare abilità di governo.

 

 

 

FINE