Alberto Magno e Giovanni Scoto Eriugena

Quadro attribuito a Amico Asperini – sec. XV-XVI

 

 

I PRIMORDI

DELL’AVERROISMO

E LA SCUOLA

 ARISTOTELICO-AVERROISTICA

DI PADOVA

 

di Michele E. Puglia

 

PARTE SECONDA

 

SOMMARIO: PIETRO POMPONAZZI PENSIERO PULSANTE DEL SUO SECOLO; ALESSANDRISTI E AVERROISTI; L’ARISTOTELISMO RINASCIMENTALE; L’ANIMA DI AVERROE’ MIGRATA NEL CORPO DI POMPONAZZI; LE DIATRIBE DI ALESSANDRO ACHILLINI; PIETRO BEMBO ALLA CORTE DI ROMA; AGOSTINO NIFO E L’AVERROISMO MITIGATO; MARC’ANTONIO ZIMARA; ALTRI TRADUTTORI; ARISTOTELE AVVELENATORE OSCURANTISTA CARNEFICE; IL RITORNO DI ARISTOTELE A PADOVA E DI PLATONE A FIRENZE; MARSILIO FICINO; GEMISTO PLETONE E BESSARIONE; PICO DELLA MIRANDOLA; L’INTERVENTO DEL VESCOVO PIETRO BAROZZI;  L’ARRIVO DEI GESUITI; JACOPO ZABARELLA; FEDERICO PENDASIO; DE SUBSTANTIA ORBIS; ANTONIO BRASAVOLA; CON CESARE CREMONINI TERMINA LA SCOLASTICA; LA SCUOLA DI PADOVA SI APRE ALLE NUOVE SCIENZE; CESALPINO-CARDANO-BERIGARD E VANINI; LA FINE DEGLI STUDI SU AVERROE’; “STORIA DI UN CONTROSENSO”: COMCLUSIONI DI RENAN.

 

 

PIETRO POMPONAZZI

PENSIERO PULSANTE

DEL SUO SECOLO

 

 

R

enan mostra di provare un senso di liberazione quando scrive che era  giunto il momento glorioso della Scuola di Padova, quando nuovi personaggi (Pomponazzi, Nifo e Achillini), si avvicendano ai precedenti averroisti, ed egli, iniziando da Pietro Pomponazzi (1462-1525), scrive che  “rappresenta il pensiero pulsante del suo secolo, in quanto egli è la personalità dell’anima umana, dell’immortalità, della provvidenza e di tutte le verità della religione naturale messe in causa, che nell’Italia del Nord diventano l’oggetto di un animato dibattito; “tutto”, precisa Renan, “spiegando Aristotele e Averroé secondo le regole”.

E lo storico francese continua: Pomponazzi suscita interesse nei giovani (*) con la sua filosofia più veritiera, e Paolo Giovio (che era stato suo allievo)  “parla con ammirazione della varietà di toni che egli sapeva usare durante le lezioni”, e Renan conclude,  “ciò non è più scolastico, ma è già uomo moderno”! 

Per individuare questa nuova tendenza, occorre un nuovo nome, scrive Renan, e questo è Alessandro di Afrodisia; ormai, aggiunge Renan, Averroé non è più solo; ridotto a dividere la scuola, egli non avrà più [a sostenerlo] che qualche nome, e questi nomi non saranno tra i più illustri: tale è l’origine delle due fazioni filosofiche conosciute sotto il nome di alessandristi e averroisti.

Ma, prosegue Renan, non si potrà attribuire a questa distinzione una troppo grande importanza, essendo stata peraltro la esistenza di questi due partiti messa in discussione (M. Ritter); è comunque certo che la demarcazione tra di esse non ha il rigore che si potrebbe essere tentati di supporre, in quanto sono stati ben pochi i maestri del XVImo secolo che si possono classificare come averroisti e alessandristi.

 

*) Tra i suoi seguaci troviamo Marcantonio Flaminio (1498-1550) il quale aveva studiato a Bologna e Padova (1519) e seguendo le orme di Pomponazzi aveva scritto Paraphrasis in duodecimum Aristotelis librum, sulla Metafisica di Aristotele (edita nel 1536). Le sue frequentazioni non molto ortodosse lo portarono verso l’eresia; a Napoli, ospite di Gianfranco Alois arso sul rogo, era entrato nella cerchia di Valdès e seguaci, quali Bernardino Ochino, Pietro Carnesecchi, il marchese Gian Galeazzo Caracciolo, tutti perseguitati dalla Inquisizione.

 

Il BENEFICIO DI GESU’ CRISTO.

Marcantonio Flaminio aveva curato la revisione del “Beneficio di Gesù Cristo” ovvero, “Trattato utilissimo del Beneficio di Gesù Cristo crocifisso verso i cristiani”, stampato anonimo (1542) e ristampato a Venezia (1543), con successive varie edizioni, tradotto nelle principali lingue europee. Il libro era stato inizialmente attribuito all'umanista Antonio Paleario, poi riconosciuto come opera del frate benedettino Benedetto Luchino da Mantova (1599), il quale lo aveva affidato per una sua revisione a Flaminio “perché lo polisse e illustrasse con il suo bello stile”. Il libro è da considerare l'opera più notevole della Riforma italiana in quanto costituisce una “apologia della dottrina della giustificazione per fede”, che consiste nella “remissione dei peccati acquistata da Cristo sulla croce per gli uomini”; sebbene lodato da alti prelati come i cardinali Polo, Contarini e Morone, veniva considerato come un “compendio di errori luterani”, e subito messo all’Indice e quindi ricercato e bruciato come il più pericoloso documento dell’eresia del tempo.

 

 

ALESSANDRISTI

 E AVERROISTI

 

L

a vera divisione dei peripatetici della Rinascenza è nel “peripatetismo arabo” e “nel peripatetismo ellenistico”, e questa divisione non corrisponde affatto a quella degli averroisti e alessandristi; gli ellenisti come Leonico Tomeo (v. sotto) si tiravano fuori da queste dispute scolastiche.

E’ ben a torto, prosegue Renan, che qualche storico della filosofia (Tennemann p. es.) ha dato grande importanza a questa divisione  emersa da un passaggio di Marsilio Ficino (riportato in “Apologia” di Pico della Mrandola: “In tutto l’orbe della Terra chi si occupa dei peripatetici è diviso in due sette, “alessandriam et averroicam”), al quale si dovrà ricorrere per lo studio delle fonti.

L’immortalità dell’anima prosegue Renan, è ordinariamente considerata come il punto di divergenza tra averroisti e alessandristi; e l’immortalità dell’anima in effetti era nel 1500 il problema attorno al quale si agitava lo spirito della filosofia in Italia; e quando gli allievi di una Università volevano valutare la dottrina di un insegnante, gli chiedevano: Parlateci  dell’anima.

Nel XVImo secolo vi era stato uno scuotimento della coscienza morale, mentre da parte degli averroisti  si sosteneva che l’intelletto dopo la morte torna a Dio perdendo la sua individualità, Pomponazzi seguiva l’opinione di  

di Alessandro che negava puramente e semplicemente l’immortalità.

Egli nel suo libro “De immortalitate animae” ostentando il tono rispettoso dell’ortodossia, combatte l’averroismo come un errore mostruoso, giustamente rimproverato da san Tommaso e ben lontano dal pensiero di Aristotele.

L’unità delle anime gli sembra una assurda finzione, un non senso “monstrum Averroes excogitatum”, un mostro escogitato da Averroé; il napoletano Simon Porta, allievo di Pomponazzi, sull’esempio del suo maestro era contro l’immortalità (nel suo De anima et mente humana, J. A. Marta (v. sotto) aveva aggiunto come refutazione, l’ “Apologia de anima immortalitate, cum digressione, quod intellectus sit moltiplicatus”- [Apologia dell’immortalità dell’anima con digressione sul perché l’intelletto sia molteplice] e come lui, attacca fortemente gli averroisti, rimproverando ad essi di ridurre la conoscenza al ricordo e di supporre l’intelligenza del fanciullo perfetta come quella dell’uomo; esattamente, scrive Renan, ciò che la scuola di Locke rimproverava alle idee innate di Cartesio.

Per uno strano scambio dei ruoli, prosegue Renan, gli averroisti che giustappunto avevano rappresentato la negazione della personalità umana, erano divenuti all’improvviso contrari a Pomponazzi, i difensori dell’immortalità e i difensori dell’ortodossia; paragonati al materialismo assoluto degli alessandristi, l’averroismo presentava in effetti un certo spiritualismo.  

Durante la metà del XVImo secolo troviamo Vito Piza che nel suo libro “De divino et humano intellectu” (Padova 1555), combatte energicamente l’averroismo in nome dell’empirismo; è dunque per errore, scrive Renan, che hanno avvicinato Pomponazzi a Porta attraverso gli averroisti e che hanno voluto collegare le loro dottrine sulla immortalità a quelle di Averoè, mentre al contrario, Pomponazzi non si è appellato all’autorità di Alessandro che per fare opposizione agli averroisti; tuttavia, conclude Renan, questa confusione che Bayle e Brucker hanno giustamente rilevato, non è senza fondamento, come vedremo tra breve.

 

 

 

Marsilio Ficino

 

L’ARISTOTELISMO

RINASCIMENTALE

 

 

P

rima di passare al pensiero di Renan che tratta direttamente di Pomponazzi, occorre premettere che mentre a Firenze gli iniziatori dell’aristotelismo rinascimentale erano stati Giorgio di Trebisonda detto Trapezunzio (m. 1498) e Teodoro Gaza (1400-1478) [v. in Schede F., Polemiche Umanistiche ecc.], a Padova il nuovo Aristotele era introdotto da Ermolao Barbaro (1454-1493) il Giovane [per distinguerlo dall’omonimo zio detto il Vecchio (1410-1471) ], il quale, sostenitore con Leonico Tomeo (v. sotto) della purezza della lingua greca, riproponeva nuove traduzioni purificate rispetto alle traduzioni medievali.

E’ opportuno ricordare che a Firenze il cardinale Bessarione aveva introdotto Platone e con l’ausilio di Cosimo de’ Medici era stata costituita la Scuola Platonica, con indirizzo pitagorico-cabalistico [v. in Schede F. cit. Polemiche Umanistiche ecc.], ma morto Bessarione (scrive Tiraboschi in cit. Lett. Ital.), “cambiò l’aspetto della guerra  e quasi dimenticato Bessarione, la turba dei filosofanti si volse pressoché tutta ad Aristotele”.  

Ermolao Barbaro dopo aver insegnato a Padova filosofia fino al 1484, da questa data, nella propria casa a Venezia, spiegava Teocrito, Demostene e Aristotele e vi era tanto concorso che questa sembrava cambiata in Università [Tiraboschi].  

Questi tre personaggi, come detto, erano tutti traduttori di opere aristoteliche dal greco [vale a dire fatte dai testi greci originali, mentre le traduzioni medievali erano state fatte dai testi arabi].

Barbaro aveva tradotto la Retorica di Aristotele e l’Etica Nicomachea, e aveva scritto “Compendium ethicorum” (sulla morale di Aristotele) e altre opere; le sue lezioni e  conversazioni amava farle in greco e il suo Aristotele era antiplatonico e fortemente antiscolastico, giungendo fino a considerare Alberto Magno e Tommaso d’Aquino e lo stesso Averroé dei barbari.

 

PIETRO POMPONAZZI

 

 

S

uccessore di Ermolao Barbaro a Padova, Pietro Pomponazzi (1462-1525),  dopo essersi addottorato presso questa Università, otteneva l’insegnamento e diventerà una delle personalità più rappresentative nel campo filosofico, legato alla polemica peripatetica che segna il passaggio dalla Scolastica alla filosofia rinascimentale.

Fatta questa premessa, torniamo al pensiero di Renan.

La filosofia italiana egli prosegue, si era liberata dalle discussioni astratte  del medioevo venendo a riassumersi in argomentazioni fatte di un materialismo fortemente semplificato, come quella dell’immortalità dell’anima inventata dai legislatori per mantenere [fermo] il popolo; che il primo uomo si è formato  per cause naturali; che gli effetti miracolosi non sono che delle imposture o delle illusioni; che la preghiera, l’invocazione dei santi, il culto delle reliquie non hanno nessuna efficacia; che la religione non è fatta che per i semplici di spirito.

Ecco cosa si definiva averroismo, scrive Renan; ecco cosa le persone di spirito sostenevano nei corsi e nei circoli letterari, preoccupandosi di mettere il rappresentante di questa dottrina al di sopra degli evangelisti e degli apostoli e di fare dei suoi scritti le loro letture preferite.

Questo averroismo degli uomini di mondo, prosegue Renan, è proprio quello di Pomponazzi: manca poco per rinnovare la blasfemia dei “Tre impostori[v. P.I]!

L’apparizione delle religioni (o leggi v. sotto) e la loro decadenza, sono effetto dell’influenza degli astri (v. Scheda S. L’influenza degli astri ecc.) (Pomponazzi, De incantatoribus); il cristianesimo si è già raffreddato, conclude Renan, esso non ha più la forza di produrre miracoli [!].

 

 

LE POLEMICHE

SUSCITATE

DA POMPONAZZI

 

 

C

i stacchiamo per un momento da Renan, per accennare alle polemiche che le sue posizioni innovative (come succede ancora oggi in Italia quando si vogliono introdurre delle novità!) avevano suscitato un mare di proteste!

Le posizioni di Pomponazzi erano innovative in quanto egli si staccava dalla Scolastica seguendo la linea della interpretazione aristotelica introdotta da Alessandro di Afrodisia, e pur non rinnegando la fede cristiana, metteva in discussione l’immortalità dell’anima, introducendo il principio della duplice verità [che faceva capo ad Averroé].

Pomponazzi è quindi da considerare uno degli antesignani della filosofia moderna.

Mentre da Firenze partiva la polemica tra aristotelici e platonici [v. in cit. Schede F. Polemiche Umanistiche ecc.], allo Studio di Padova, come abbiamo visto, di tradizione aristotelica, la polemica si apriva tra gli stessi aristotelici.

Pomponazzi con il libro “De immortalitate animae” [dedicato al papa Clemente VII] introduceva un tono innovatore e rivoluzionario con cui si inseriva nella corrente alessandrina, che suscitò un vespaio e Pomponazzi denunciato a Roma e solo per la protezione del cardinale Bernardo Bembo gli fu imposta la ritrattazione.

Anche l’ “Apologia” (ancora sul’immortalità dell’anima!) pubblicata a Bologna dove insegnava (1518), suscitava le critiche del suo allievo Gaspare Contarini (1483-1542), alle cui osservazioni rispondeva garbatamente, mentre  nel libro accusava i monaci di essere degli attaccabrighe e ipocriti, mettendo in cattiva luce l’ agostiniano Ambrogio Flandino; quest’ultimo e il domenicano Bartolomeo Spina reagirono con dei libelli.

In pratica. come riferisce Tiraboschi, Pomponazzi era accusato di negare l’immortalità dell’anima, ma egli si difendeva dicendo che non era lui a negarla, ma Aristotele.

A Venezia religiosi e predicatori portarono il libro al Patriarca, dicendogli che era pieno di eresie e Pomponazzi fu dichiarato eretico e il libro fu bruciato (Tiraboschi).

Mentre l’Inquisizione aveva vietato la diffusione del libro che fu sottoposto al papa e a seguito dell’intervento, questa volta del cardinale Pietro Bembo, figlio di Bernardo (v. sotto), il divieto fu tolto a condizione che in appendice si pubblicassero le conclusioni ortodosse di Domenico Javelli (soprannominato Canapicius).

Ma Pomponazzi (che era a Pisa) non accettò quella imposizione e decise di trasferirsi allo Studio di  Bologna, dove vi era il gruppo dei riformatori che lo sosteneva e riuscì a convincerlo ad assumere l’insegnamento che gli fu assegnato (1518) per otto anni  (con il gratificante stipendio di seicento ducati d’oro).

Ma le polemiche continuavano perché Agostino Nifo pubblicò a Venezia “De immortalitate animae libellus”; Pomponazzi replicò con “Defensorium adversus Augustinum Niphum” in cui usa un tono aspro e severo.

Egli paragona la difesa di Nifo alla cura suggerita da un medico milanese che aveva prescritto al malato di bagnarsi con un decotto in cui aveva fatto bollire tutte le erbe falciate in un prato, nella speranza che qualcuna di esse potesse giovare al paziente!

In questo libro egli fa la distinzione della duplice verità, quella della ragione e quella della fede: questa porta all’accettazione del mistero, la prima non può discostarsi dai principi della ragione e dal processo della dimostrazione.      

A questo punto scoppia contro Pomponazzi la grande polemica (seconda rispetto alla precedente) che diffusasi in Italia, si protrarrà per un ventennio con critiche che gli furono mosse da professori (Contarini, Zimara e Nifo) e studenti, che lo contestarono sulla base delle contraddizioni contenute nel “De Anima” di Alessandro; altri (Zimara e de Passeri detto Genua) contestandolo sulla base del Commentario e altri ancora sulla base della fede nel frattempo consolidata dall’indirizzo di san Tommaso, con accuse anche di eresia dalle quali Pomponazzi riuscì a salvarsi.

La maggioranza dei maestri (Maggi, Lando, Alberto, Castellani, Zabarella, Cremonini) si schierò dalla parte di Pomponazzi.

Anche F. Pendasio che pur sostenendo razionalmente la immortalità riteneva la lettura alessandrista l’unica valida nei confronti di Aristotele, e F. Piccolomini il quale aveva ritenuto che la tesi della mortalità potesse essere effettivamente l’unica possibile, ma, aveva precisato, rispetto alla fisica, mentre Aristotele aveva scritto la Meta-fisica sulla cui base era possibile fondare la immortalità dell’anima.

A metà del secolo le posizioni averroistiche riprendono forza presso gli studiosi della Scuola di Padova, che si rifecero alla soluzione raggiunta da Simplicio (*) (nel libro De anima, nel frattempo tradotta da Giovanni Fasolo, 1453), della conciliazione della dottrina platonica con quella aristotelica. (v. in Schede F., cit.: Polemiche umanistiche ecc.), identificandola sulla base della interpretazione data da Simplicio e a quella data da Averroè.

Tutti però convenivano sulla circostanza che da una parte vi era la ragione fondata sulla filosofia naturale aristotelica, dall’altra vi era un’altra verità, quella accettata per fede: la soluzione al problema era stata data con un escamotage gesuitico (che non erano ancora stati fondati!) salvando l’una e l’altra con l’introduzione appunto, della dottrina della duplice verità.

Ritorniamo ora a Renan.

 

*) L’importanza di Simplikios-Simplicius (490-560 c.ca)  vissuto sotto l’imperatore Giustiniano era determinata dalla circostanza che nei suoi Commentari (Fisica, De Coelo, De Anima) riportava tutti i passi di prima mano dei filosofi richiamati da Aristotele, costituendo fonte primaria per la conoscenza del pensiero antico.

 

 

L’ANIMA DI AVERROE’

MIGRATA NEL CORPO DI

POMPONAZZI

 

 

S

crive Pomponazzi Se le tre religioni sono false, tutto il mondo è ingannato; se su tre non ve n’è che una vera,  se ne hanno due false e di conseguenza la maggioranza è ingannata”.  

Ma quanto tempo c’è voluto in discussioni, si chiede Renan, per sapere quale dei tre legislatori sia meglio riuscito a procurare più settari? (Menagiana*); la stessa espressione “leggi” e “legislatori” di cui i filosofi italiani si servono per designare le religioni e i loro fondatori, precisa Renan, è attribuita alle traduzioni di Averroé in cui il termine “lex”  rappresenta il significato arabo “sharìa”, che equivale a legge e religione.

Il passaggio di “Distruzione della Distruzione” [v. P. I] in cui Averroé ha insistito con le più ardite proposizioni sul parallelismo delle religioni, continua Renan, è intitolato nelle edizioni italiane “Sermo de legibus” con l’intenzione  dell’annotatore di porlo bene in evidenza.  

L’opposizione dell’ordine della fede e dell’ordine filosofico che abbiamo trovato in tutto il medioevo come il tratto distintivo degli averroisti è alla base del sistema di Pomponazzi: “Pomponazzi filosofo non crede alla immortalità dell’anima, ma Pomponazzi cristiano, vi crede”; certe cose sono vere teologicamente mentre non lo sono filosoficamente [principio della doppia verità già introdotta da Averroé].

Sono stati molti in Italia durante la Rinascenza, prosegue Renan, i pensatori che si riconoscevano sotto il nome del Commentatore; e lo storico, conclude: Pomponazzi deve esser messo nel novero degli averroisti e Vanini aveva ben potuto affermare che “nel corpo dell’acutissimo filosofo Pietro Pomponazzi era migrata (come sosteneva Pitagora), l’anima di Averroé,”  (Petrus Pomponatius, philosophus acutissi­mus, in cujus corpus animum Averrois commigrassse Pythagoras judicasset).

 

*) Menagiana o Libro di erudizione, indicato da Renan, di Gilles Menage (1613-1692) con fatti e detti celebri e cose ammirevoli (“meglio da citarsi durante la conversazione che da leggere”), le cui citazioni facevano apparire chi le riferiva, come personaggio di elevata cultura! Dai suoi amici erano state raccolte, in una prima edizione di tre volumi molto ricercati da raggiungere nel 1715 una  terza edizione; successivamente aveva avuto anche diverse imitazioni.

 

LE DIATRIBE DI

ALESSANDRO ACHILLINI

 

 

P

omponazzi, prosegue Renan, è stato presentato come il fondatore dell’alessandrismo, ma a dire il vero non si nota in lui alcun attaccamento sistematico per Alessandro: la simmetria precisa Renan, vuole che sia stato Alessandro Achillini (*) (1463-1512) a divenire il capo degli averroisti; ma questa classificazione è da considerare artificiale se si ritiene che Achillini ha sostenuto l’unità delle anime e l’immortalità collettiva.

Riconoscendo che su questi due punti la dottrina di Averroé  sia conforme a quella di Aristotele, Achillini rigetta espressamente queste teorie come opposte alla fede; ma da un altro punto di vista Achillini merita il nome di averroista, intendo dire, precisa Renan,  per l’importanza che egli accorda al Gran Commentario, per la sua maniera scolastica e pedantesca.

La Scuola di Padova scrive Renan, non ha nulla di più celebre che le diatribe tra Pomponazzi e Achillini: quest’ultimo le riportava nelle tesi solenni, ma il pubblico dava ragione a Pomponazzi e una intera folla si recava ad ascoltare le sue lezioni; la Lega di Cambrais (1509) lo costrinse  a trasportare il campo di battaglia a Bologna e la lotta continuò fino alla sua morte (1520).

Achillini non è stato altro che un polemista, dice Renan, che costituisce una abilità necessaria nell’esercizio di una attività pubblica, con l’audacia a tenere sotto pressione l’avversario e la sicurezza nelle risposte; come tutti gli averroisti egli cercava di apparire ortodosso invocando senza tregua la distinzione dell’ordine teologico e dell’ordine filosofico, e Renan aggiunge che, delle sue opere, ripetutamente stampate a Venezia, sorprendentemente nessuna di esse ci è pervenuta.

 

 

PIETRO BEMBO

ALLA CORTE DI ROMA

 

L

e dottrine che abbiamo visto al tempo del Petrarca, ridotte a essere nascoste e cospirate nell’ombra, scrive Renan, erano divenute agli inizi del XVImo secolo la filosofia pressappoco ufficiale di tutta l’Italia.

Le discussioni sull’immortalità dell’anima erano all’ordine del giorno alla Corte di Leone X (1513-1521); Pietro Bembo (1470-1547) che frequentava quella corte, non nascondeva la sua predilezione per Pomponazzi; fu lui a salvarlo dal carnefice e si assunse l’incarico, per calmare l’inquisizione, di correggere il De Immortalitate animae; fu ancora sotto la sua protezione che Pomponazzi pubblicò il suo “Defensorium” contro Nifo.

Tutti i vecchi detti dell’averroismo incredulo, prosegue Renan, che l’inferno è una invenzione dei principi, che tutte le religioni contengono delle favole, che le preghiere e i sacrifici sono invenzioni dei preti, erano ripetute tra le persone più accreditate della Corte; l’incredulo della “Messa di Bolsena[affresco di Raffaello che rappresentava un episodio avvenuto a Bolsena nel 1263], dice Renan, non è che un averroista, e lo storico prosegue; mentre il medioevo, aveva dotato di corna questo miscredente che aveva osato avere dubbi sul sangue di Cristo - notate bene la differenza, egli aggiunge - Raffaello rappresenta un personaggio galante, che osserva gradevolmente il miracolo, un uomo di spirito che conosce la ragione delle cose e che ha letto Averroé.

Non è che per salvare le apparenze, prosegue Renan, si condannava Pomponazzi e sottomano lo si appoggiava;  si pagava Nifo per rifiutarlo e si incoraggiava Pomponazzi a rispondere a Nifo; che cosa ci si poteva attendere da una “bolla” firmata da Bembo che ordinava di credere alla immortalità?

La sfumatura che separava gli alessandristi dagli averroisti era allora pressoché inafferrabile; i primi confessavano francamente le conseguenze delle loro dottrine, ai quali i secondi sfuggivano con sottili menzogne; da una parte e dall’altra, il metodo, lo spirito, le tendenze irreligiose erano le stesse.

Marsilio Ficino, J.A, Marta, Gaspare Contarini (quest’ultimo scrivendo contro Pomponazzi si credette ugualmente obbligato a rifiutare l’unità dell’intelletto), più tardi Antoine Sirmond, gli opponevano gli stessi argomenti e il Concilio del Laterano li accomuna nella stessa condanna; il Concilio Laterano, prosegue Renan, non fu che uno sforzo impotente per arretrare l’Italia nella via nella quale si era infilata e dalla quale aveva potuto tirarla fuori la grande reazione provocata dallo svuotamento della Riforma.

Tutti i sotterfugi della Scuola di Padova, prosegue Renan, erano previsti; il V Concilio Laterano [1512-1517 diviso in sessioni, questa indicata da Renan era l’VIII], condanna chi dice che l’anima non è immortale e quelli che pretendono che essa sia unica in tutti gli uomini e quelli che sostengono che queste opinioni comunque contrarie alla fede sono filosoficamente vere; si ordina inoltre ai professori di filosofia di rifiutare le opinioni ortodosse, dopo averle esposte, aggiungendo che sarebbero stati perseguiti come eretici e infedeli i fautori di queste detestabili dottrine; veniva fatto inoltre divieto ai chierici di dedicare più di cinque anni allo studio della filosofia e della poesia se essi non le avessero accompagnate con lo studio della teologia e del diritto canonico.

Questa bolla è datata 19.XII.1512 ed è precisamente negli anni seguenti scrive Renan, che la controversia sollevata da Pomponazzi raggiunse il più alto grado di vivacità e arditezza; il De Immortalitate  era apparso a Bologna nel 1516; il decreto del Laterano non ebbe grande efficacia; qualche voce si era levata timidamente nel Concilio in favore della condanna delle dottrine; è vero che Contelori menziona un ordine datato 1518 con il quale si ingiunge di perseguire Pomponazzi come ribelle al Concilio Laterano ma non pare che quest’ordine abbia avuto alcuna conseguenza; il decreto era stato preso più seriamente in Spagna dove Raimondo Lullo elogiava il papa Leone X (con dei versi) per la sua somiglianza a Ferdinando il Cattolico nel suo zelo contro l’eresia (!), ma questo papa, scrive Renan, non meritava un tale elogio in quanto egli aveva troppo interesse al dibattito per sognare di bruciare i combattenti e ciò fu meno per chiudere che per il piacere di vederlo durare, che richiese una refutazione di Pomponazzi al suo teologo confidenziale Agostino Nifo.

 

AGOSTINO NIFO

E  L’AVERROISMO

 MITIGATO

 

A

gostino Nifo (1469/70-1538) aveva incominciato a essere averroista determinato dall’inizio della sua carriera; al sorgere della scuola di Nicoletto Vernia egli aveva scritto il “De intellectu et Demonum” che a Padova fece scandalo; egli sosteneva l’opinione del suo maestro sull’unità dell’intelletto e si sforzava di provare che non vi è altra intelligenza separata che quella che presiede al movimento dei corpi celesti; aveva trattato gli argomenti di san Tommaso e Alberto Magno con così poco rispetto che si era resa necessaria la protezione del pio e tollerante vescovo di Padova, Barozzi (v. sotto), per salvarlo dal furore dei tomisti e spegnere la loro sommossa, facendogli sopprimere qualche passaggio del libro che con queste correzioni vide la luce nel 1492; questa disavventura, dice Renan, lo rese più saggio: egli si avvicinò all’ortodossia e divenne zelante cattolico.

Padova, Salerno, Roma, Napoli e Pisa lo videro successivamente sotto il nome di Suessanus, Eutychius, Philotheus, insegnare un averroismo mitigato; i suoi commentari sul De Substantia orbis, De animae beatitudine e sopratutto sulla Distruzione della Distruzione, presero posto in tutte le edizioni a fianco dei testi di Averroé, senza parlare di una gran quantità di opuscoli che fece seguire di anno in anno; egli stesso si fece editore di Averroé e nel 1495/97 apparve a sua cura, una edizione completa successivamente ripetutamente riprodotta

In quest’epoca, scrive Renan, le librerie amavano aggiungere alle opere antiche, delle raccomandazioni illustri, a mezzo contemporanei e il nome di Nifo divenne così inseparabile da quello di Averroè: Solo Averroé aveva capito Aristotele; solo Nifo aveva capito Averroé!

Nifo allora ci teneva a non confondersi con i teologi scrive Renan; nel suo commentario sulla Distruzione della Distruzione  (*) egli si preoccupa di servirsi in continuazione di queste espressioni: At nos christicolae...at nos catholici; le sue note marginali, prosegue Renan, spesso contengono una viva ironia; Non potest intelligere Averroes quod Deus sit in omnibus [Averroè non può capire perché Dio sia in tutti]:  o quam rudis [oh quanto è rude!]; Male intelligis, bone vir, sententiam Christianorum [Mal comprende, il brav’uomo, le sentenze dei cristiani!].

A Roma egli ha un gran successo e Leone X lo crea conte palatino e gli permette di usare il cognome dei Medici; il suo libro De immortatlitate animae (che costituisce una refutazione del libro di Pomponazzi), appare a Venezia nel 1518. 

Nifo sembra uno di quei cavalieri dell’industria letteraria comuni nel secolo XVImo, scrive Renan; egli sa, come l’italiano parassita, divertire i suoi superiori con fanfaronate corrotte, accettare il ruolo ridicolo e pagare lo scotto con motteggi; i suoi trattati di morale e di politica sono in voga; Carlo V gli accorda le sue buone grazie ed egli ebbe l’onore di piacere alle principesse dell’epoca (aveva scritto il trattato Del bello, dedicato a Giovanna d’Aragona Colonna, destinato a provare che il corpo di questa dama era il criterium formae o l’archetipo della bellezza: le male lingue si chiedevano come mai Nifo conoscesse così bene il corpo della principessa!).

Questa leggerezza di carattere, prosegue Renan, non permette di prendere sul serio la sua dottrina filosofica; la sua psicologia in fondo  non è altro che la psicologia tomista che egli aveva innanzitutto combattuto; l’intelletto forma del corpo, suscettibile di pluralità numerica è creato nel momento  in cui è unito allo sperma e sopravvive al corpo; né Aristotele, né Averroé riconoscono la creazione; ciò che Aristotele rigetta assolutamente, è la creazione nel tempo, ma nulla vieta di supporre, ritiene Renan, la creazione eterna, accordando al nulla una priorità concettuale.  

Nifo cambia molto su questo punto, precisa Renan; nel suo libro De immortalitate animae e nelle ultime edizioni dei suoi commentari egli giunge a sostenere che i principi di Aristotele non rigettano la creazione nel tempo e che il filosofo aveva considerato l’intelletto come creato.  
Nifo, continua Renan, è considerato il capo della scuola averroista; Ritter fa osservare che su molti punti egli combatte la dottrina del commentatore e che nel suo commentario sui dodici libri della Metafisica, egli lo tratta con affettato disprezzo e definisce i commentari “piuttosto confusioni che esposizioni” e dichiara di adottare questo autore perché egli è celebre e i suoi allievi non intendono sentir parlare di nessun altro; ma è altrettanto vero che egli gli accorda i più grandi elogi e si mostra impietoso nei confronti dei suoi detrattori!

Sarebbe inutile conclude Renan, cercare di conciliare queste contraddizioni e Nifo stesso sarebbe il primo a sorriderne!  

L’averroismo inoffensivo di Nifo, dice Renan avviandosi alla conclusione, costituì per tutto il XVImo secolo l’insegnamento ufficiale di Padova; il termine averroismo non rappresentava più una dottrina ma la fiducia accordata al Gran Commentario nell’interpretazione di Aristotele; ora, ben lungi che i teologi fossero contrari a un tale insegnamento, egli aveva  in questa fedeltà ai vecchi test, un rispetto per l’autorità che doveva loro piacere.

Erano i novatori in filosofia e in letteratura che si appellavano a quella routine e a quella barbarie; i più cattolici volevano essere chiamati averroisti e in questo senso spiega Renan: “Avevo visto a Roma, nella Chiesa Nuova, in un armadio contenete libri che erano appartenuti a Filippo Neri, tenuti come reliquie, un bell’esemplare manoscritto di Averroé; ciò significa egli dice, che la Chiesa approvava senza limitazioni lo studio di Aristotele; il cardinale Pallavicini affermava che senza Aristotele la Chiesa sarebbe stata privata di qualcuno dei suoi dogmi; ora, dice Renan, Averroé era, nel consenso generale, il miglior interprete di Aristotele; l’ “autòs efa” [ipse dixit] dei discepoli di Pitagora, dice un contemporaneo, non ha nulla che ci  debba meravigliare, perché ai nostri giorni vediamo passare per assioma tutto ciò che dice Averroé agli occhi di chi fiilosofeggia e ciò, oltre ad avergli prodigati i titoli più splendidi (**). 

Il titolo di averroista non implicava, infine, nessuna sfumatura d’opinione, ma designava solamente un uomo che aveva studiato parecchio il gran commentario, divenuto sinonimo di filosofo, come “galenista” lo era per lo stato di medico.  

 

 

*) Agostino Nifo aveva pubblicato un testo con lo stesso titolo, come commento a quello di Averroé, dedicato al principe di Salerno, Sanseverino, nella edizione originale del 1559 (in latino) che si trova in Google, per chi volesse gustare il libro e la lettura (sui libri pubblicati da Google, v. in Recensioni, La grande biblioteca virtuale di Google)

**) Solertissimus peripateticae disciplince interpretes; Altividus aristotelicorum vestigator penetralium; Magnus Averroes, philosophus consummatissimus; Primarius rerum aristotelicarum commentator.

 

 

MARC’ANTONIO

ZIMARA

 

 

M

arc’Antonio Zimara (1470-1532) di San Pietro nel regno di Napoli si creò una grande reputazione nelle scuole per la cura che egli aveva dedicato al testo di Averroé; le sue “Soluzioni delle contraddizioni di Aristotele e di Averroé”, i suoi “Indici”, le sue concordanze, annotazioni marginali, le sue analisi divennero come le opere di Nifo delle parti integranti di tutte le edizioni di Averroé, il quale aveva subissato nella Scuola di Padova la sorte di tutti gli autori classici; ai testi delle sue opere si preferivano dei riassunti moderni, più malleabili, più usuali.

La sottigliezza e stringatezza sono i difetti comuni a tutti gli averroisti dice Renan, ma nulla, si può dire li abbia portati così lontano, come Zimara; questa barbarie  cominciò a muoversi dalla stessa Padova; abbiamo già visto che il favore del pubblico aveva abbandonato il pedante Achillini per riversarsi su Pomponazzi; a Zimara capitò la stessa disgrazia; egli divenne ridicolo e insopportabile agli allievi e non potette insegnare che per tre soli  anni.

Bembo, riferisce Renan,  in una lettera del 1525 scritta a Ramusio, esprime con finezza l’umore che gli ispirava questo metodo estemporaneo (*).

Le Solutiones (raccolte dai Giunti) non sono senza interesse per le numerose citazioni a favore che vi si trovano, dei maestri a Padova.

E’ curioso veder sfilare, scrive Renan,  ciascuna  delle questioni allora agitata, Egidio di Roma, Walter Burleigh, Baconthorp, Giovanni Jandun, Gregorio di Rimini, Paolo da Venezia, Giacomo di Forlì, Gaetano di Thiene, Pomponazzi, Achillini, Nifo; e ciò che è ancora più curioso sono gli aneddoti relativi alle argomentazioni che si riferiscono alla Università di Padova, che ci fanno assistere, per così dire, alle discussioni di questa celebre scuola.

La dottrina dell’unità dell’intelletto è adottata nel senso dell’unità dei principi comuni dello spirito, ma apertamente rigettata, nel senso che non vi è che un solo principio sostanziale della ragione umana.

Zimara entra nelle sottili distinzioni sulle diverse sfumature che questa teoria aveva preso nella Scuola di Padova e sugli sforzi che erano stati fatti per conciliarla con la fede; pur tuttavia, rispettoso del Commentatore, egli aspira meno a rifiutare che a provare gli errori che gli sono attribuiti.

La prima intelligenza dona l’Essere al primo mobile; il primo motore è la forma degli esseri come il capo è la forma dei suoi schiavi; l’intelletto attivo non è né Dio stesso, come vuole Alessandro, né una semplice facoltà dell’anima, ma una sostanza superiore all’anima, separabile, incorruttibile; la forma è il principio di individuazione: la forma in effetti suppone la materia; l’anima intellettiva è separabile e immortale; la verità ci giunge per due vie, i profeti e i filosofi, nel dubbio, devono avere la preferenza i profeti.

Una folla di laboriosi professori, prosegue Renan, avevamo concorso con Nifo e Zimara a chiarire le opere di Averroè; Antonio Posi di Monselice aveva pubblicato un Indice ancora più considerevole di quello di Zimara (1560-1572); Giulio Palamade aveva composto una terza tavola dello stesso genere (Venezia 1571); Bernardino Tomitano di Feltre aveva composto delle “Soluziones contradictionum in dicta Aristotelis et Averroes”, analoghe a quelle di Zimara con argomentazioni sulle questioni di Averroé; Filippo Boni ne aveva composto un’altra dello stesso genere; un gran numero di titoli usuali come Methodus legendi Averroes, Thesaurus in Averroes, Concordantia in Averroem ecc. erano avidamente ricercati dagli studiosi

Marc-Antonio Passeri, Vincenzo Madio, Crisostomo Javello, Gian-Francesco Burana, Gian-Battista Bagolino, Girolamo Stefanelli, allievo di Zimara, i due Trapolini, Vittorio Trincavelli, con le loro lezioni e i loro scritti continuarono la tradizione dello stesso insegnamento durante tutta la prima metà del XVmo secolo.

Questa voga straordinaria, prosegue Renan portò a un rimaneggiamento generale delle traduzioni di Averroé; dopo la prima edizione (Padova 1472) ci si era accontentati di riprodurre le antiche versioni fatte dall’arabo del XIIImo secolo, pressappoco tali e quali a quelle che si trovavano nei manoscritti; Nifo e Zimara avevano ben pensato di correggerle e renderle comprensibili, ma non erano riusciti che mediocremente.

All’inizio del XIVmo secolo furono fatte delle traduzioni latine sulle traduzioni ebraiche; occorre ricordare, scrive Renan, che i manoscritti arabi, allora come oggi, erano estremamente rari e le arabizzanti lo erano ancor meno tanto che i traduttori ebrei abbondavano.

Avicenna aveva avuto la stessa sorte; tradotto dall’arabo da Gerardo da Cremona, seguirono quelle dall’ebreo da parte di Mantino (Jakob, v. sotto), Andrea Alpago di Belluno, da Giovanni Cinque-Alberi ecc.; è bene tener presente, aggiunge Renan, che lo scopo che essi si proponevano non era quello di essere molo attenti e che le traduzioni fatte dall’ebreo erano più barbare e ancora più oscure di quelle del XIIImo secolo.

Queste nuove versioni circolarono per lungo tempo manoscritte fino a quando i Giunti prepararono il piano di una grande edizione completa di Averroé dando l’incarico a Giovanni Battista Bagolini di Verona, conosciuto a Padova come filosofo e a Venezia come medico; qualche parafrasi rimasta inedita fu tradotta per la prima volta; le note marginali di Zimara furono mantenute; si ottenne una miglior classificazione e le parafrasi e i commentari intermedi furono divisi e collocati dopo i testi; Bagolini si impegnò con grande zelo in questo lavoro da meritarsi un elogio in versi dai contemporanei; morì di fatica prima di terminare l’opera; Marco Oddo si prese cura della pubblicazione (1552-1553). 

 

 

*) In italiano nel testo: “Il quale Otranto [Zimara veniva così designato, col nome del fiume nel Regno di Napoli], già in tanto odio in tutti gli scolari, dall’un capo all’altro, che ne ridono con sdegno, perché dicono che ha dottrina barbara e confusa ed è semplice averroista [...]  E costui pare sia tutto barbaro e pieno di quella feccia di dottrina che si fugge come la mala ventura. Siate sicuro che questo povero studio quest’anno, quanto alle arti, non avrà quattro scolari e sarà l’ultimo degli studi. Mea nihil interest [a me non interessa] se non in quanto essendo io di codesta patria, mi duole veder le cose che sono d’alcun momento all’onor pubblico, andare per questa via lontano da quello che si deve desiderare e procacciare”.  

 

ALTRI TRADUTTORI

 

JAKOB MANTINO ben Samuel (1490?-1549), era giudeo nato a Tortosa in Spagna, medico del papa Paolo III, fu il più laborioso dei traduttori che si impegnarono alla fine del XVImo secolo (per i traduttori precedenti v. cit. Art. La scienza araba ecc.) a riformare il testo di Averroé  dopo quello ebraico, riesaminando tutti i commentari; Bagolino, spiega Renan, prese da queste pagine tutto ciò che riteneva conveniente, tralasciando il resto, a parte la circostanza che il lavoro dei nuovi interpreti era duplice in quanto la stessa opera si trovava tradotta diverse volte.

ABRAHM DE BALMÈS (1440c.a-1523), nato a Lecce, medico a Padova, noto tra gli ebrei come grammatico, si dedicò sopratutto alle opere di logica di Averroé, alla retorica, alla Politica. Bagolino si servì delle sue versioni per correggere quelle di Mantino e lo preferì per i “Topici”, gli “Argomenti sofistici”, la “Retorica” e il “De Substantia orbis”.

GIAN FRANCESCO BURANA (1475/80-1567?) di Verona, professore a Padova è il solo cristiano che figura nella lista di questi traduttori; è probabile, scrive Renan,  che Burana si appropriò del lavoro di qualche ebreo, in quanto non si può ritenere che un cristiano in quest’epoca potesse conoscere tanto bene l’ebraico rabbinico per poter tradurre, anche mediocremente, dei testi tanto difficili: perché, si chiede Renan, si sarebbe data questa pena, quando aveva attorno a sé tanti ebrei tutti pronti per la bisogna, per alcuni denari (in italiano nel testo)?

Sembra, prosegue Renan, che a Burana fosse attribuita la conoscenza dell’arabo; risulta, almeno da documenti inediti (che Maffei aveva tra le mani), che egli tradusse parecchi autori greci; chissà come, prosegue Renan,  Burana figura nelle edizioni dei Giunti, per i grandi commentari degli “Analitici” sui quali  non aveva che delle esposizioni mediocri; il suo lavoro era stato già stampato nel 1539 e Marco Oddo si lamentava vivamente della difettosità di questa traduzione che fu obbligato a correggere con quella di Mantino.

PAOLO L’ISRAELITA  aveva predisposto la parafrasi del “Trattato del Cielo” e il prologo del XIImo libro della “Metafisica”; VITALE NISSO,  la parafrasi del “Trattato della Generazione”; CALO CALONYMO, medico di Napoli, figura come traduttore della “Distruzione della Distruzione” e delle lettere sulla “Unione dell’Intelletto separato”; la sua versione più completa è quella tradotta dall’arabo (1328) fatta da Calonymo, figlio di Calonymo, figlio di Meir, che fu stampata nel 1497 con il commento di Nifo; inoltre a Calo, prosegue Renan, è attribuita (Wolf) la traduzione di “Questioni fisiche” di Averroé con il commento di Mosè di Narbona.

Un manoscritto (della Biblioteca imperiale francese), prosegue Renan, contenente la traduzione latina del commentario sulla Fisica, fatta sul testo ebraico di Zerachia figlio d’Isacco (rimasto inedito); fu acquistato  (1500) da Vitale Dactilomelos maestro d’arte e medico per ordine del cardinale Domenico Grimani, patriarca di Aquileia (questo traduttore, riferisce Renan è del tutto sconosciuto).

ELIA DEL MEDIGO (1458-1493) è tra quegli ebrei che cercarono di dare alla Scuola d Padova un testo più intelligibile di Averroè; tradusse (dicono, scrive Renan), il “De substantia orbis”, il “Commentario sulle Meteore”, le “Questioni sui Primi Analitici” (stampate a Venezia da Aldo nel 1477) e il commentario medio sui primi sette libri della “Metafisica” (stampato per la prima volta nel 1560); la morte gli impedì di terminare questo lavoro.

Le opere mediche di Averroé, prosegue Renan, subirono la stessa sorte di quelle filosofiche: si sentì il bisogno di tradurle di nuovo, completarle, correggerle; GIOVAN-BATTISTA BRUYERIN CHAMPIER, nipote di Synphorien Champier e medico di Enrico II, fece tradurre dall’ebreo il libri II, VI e VII del Colligeto al quale diede il nome di “Collectanea medica”; Mantino ritradusse qualche capitolo del libro V; ANDREA ALPAGO (1450-1522) di Belluno rivide il commentario sul poema di Avicenna; il trattato della “Teriaca” (antidoto), fu pubblicato di seguito agli scritti di Andrea della Croce, chirurgo di Venezia.

I Giunti, conclude Renan, nelle loro edizioni posteriori non fecero che riprodurre quelle del 1553; nelle prefazioni attestano che questi libri erano molto richiesti e ogni edizione si esauriva in due-tre anni, come per i classici più usuali.

 

ARISTOTELE

AVVELENATORE

 OSCURANTISTA

CARNEFICE

 

U

n regno così assoluto, non poteva mancare di provocare una reazione violenta, scrive Renan; l’aristotelismo arabo personificato da Averroé era uno dei grandi ostacoli che incontravano quelli che lavoravano attivamente per costruire la cultura moderna sulle rovine del medioevo.

Lo spirito rivoluzionario in Italia scrive Renan, non ha mai conosciuto limiti [è evidente che Renan si riferisce alle rivoluzioni esclusivamente culturali, perché altre, come quelle cruente di Francia, Germania, Russia ecc., che sarebbero state probabilmente salutari per il nostro Paese, non ve ne sono mai state!].

Aristotele divenne un avvelenatore, oscurantista, il carnefice del genere umano che aveva portato con la sua penna il mondo alla perdizione.

La maestà di Averroé fu al suo turno, violata; questo arabo, questo barbaro, scrive velenosamente Renan, divenne il punto di mira del sarcasmo di tutti gli spiriti colti; fieri di aver trovato la Grecia autentica, i filologi ellenisti, platonici, ippocratici divennero  divinamente sprezzanti per questa Grecia falsificata, pedantesca che rinvenivano nei maestri arabi; questa scolastica arruffata, queste categorie scarnificate, questo gergo selvaggio che appare più che mai intollerabile agli spiriti raccolti dalla cultura classica attorno alle belle forme e alla sana maniera di pensare. Petrarca aveva già trovato Aristotele poco gradevole per la lettura; gli umanisti del XVmo secolo avevano dichiarato con una voce Averroè incomprensibile, vuoto di senso, indegno di attrarre l’attenzione di uno spirito elevato; la sua oscurità divenne proverbiale e i suoi partigiani passarono per persone che cercavano un senso a ciò che non ne aveva (!).

La Scolastica, allontanandosi continuamente dal testo di Aristotele, dice Renan, metteva il commentatore al posto del filosofo e i quaderni dei professori al posto del commentario creando un Aristotele convenzionale che poteva rassomigliare all’Aristotele reale pressappoco come la Storia Scolastica di Pierre Comestor somiglia al testo ebreo della Bibbia.

L’insufficienza delle traduzioni, la scorrettezza dei manoscritti e le prime edizioni del XVmo secolo (ipsum obscurum, carente, barbaro et orrido), avevano reso la lettura del testo di Aristotele pressoché impossibile: ci si accontentava  di rapportare le frasi che offrivano un senso e qualche principio che si riteneva conveniente attribuire ad Aristotele, per creare un sistema.

L’aver messo in luce il testo greco di Aristotele costituì la vera scoperta di un testo nuovo e tutti gli spiriti elevati dichiararono che non restava che una cosa da fare: lasciare negli armadi le traduzioni e i commentari del medioevo per cercare nel testo solo il peripatetismo autentico.

Ma l’abitudine non si riteneva battuta; le vecchie traduzioni e i vecchi commentari godevano ancora di numerosi partigiani quando Teodoro Gaza, Giorgio di Trebisdonda, Argiropulo, Ermolao Barbaro avevano rinnovato l’antico Liceo; da qui l’accanimento dell’aristotelismo arabo che cercava Aristotele in Averroè e dell’aristotelismo ellenista che cercava Aristotele nei suoi testi e nei commentatori greci, Alessandro di Afrodisia, Temistio ecc..

 

 

NICOLA LEONICO

TOMEO

 

 

L

eonico Tomeo (1456-1531) di origine albanese, divenne cittadino di Padova e dopo aver imparato il greco a Firenze otteneva (1497) la cattedra  a Padova per insegnare Aristotele, usando la lingua greca; Bembo aveva celebrato in versi questo grande avvenimento che sembrava aprire una nuova era nell’insegnamento della filosofia.

Per la vivacità della sua polemica contro la Scolastica, per il suo insegnamento in medicina interamente ippocratico, per la eccellenza del suo stile e lo stampo ciceroniano, scrive Renan, merita di essere considerato come il fondatore del peripatetismo ellenistico e critico; la dolcezza del suo carattere lo preservò dalle ingiurie: egli aveva avuto l’accortezza di considerare Averroé con distinzione (Averroes exquisissimus Aristotelis interpretes); per di più egli si appoggiava alla psicologia di Averroé per conciliare Aristotele con Platone e stabilire la preesistenza e l’immortalità dell’anima.

Tutti gli spiriti elevati del XVImo secolo, prosegue Renan, predicavano la crociata contro i barbari in filosofia e in medicina; i giovani, abbandonando le arguzie scolastiche non sognavano che apprendere il greco per leggere Aristotele e, in questo clima, il pedante Zimara poteva a malapena trovare uditori per il suo Averroé, “Il quale autore - scriveva Bembo (nella citata lettera a Ramusio v. sopra) - a questi dì si lascia a parte dai buoni dottori ed attendesi alle sposizioni de’ commenti greci ed a far progresso ne’ testi”.

La stessa rivoluzione, continua Renan, si operava in medicina; Ippocrate e Galeno non furono più infallibili che in greco.

“I nostri antenati - scriveva Tommaso Giunta nella prefazione della sua edizione di Averroé, scrive Renan - non trovavano niente di ingegnoso in filosofia o in medicina, che non provenisse dagli arabi; nella nostra età, al contrario, essi non vogliono per maestri in medicina, in filosofia e in dialettica che i greci: chi non sa il greco, non sa niente!  Da ciò le risse, le “querelles” così animate tra i filosofi e tra i medici, tanto che i malati non sanno a che setta votarsi: muoiono più di esitazione che di malattia”.

Giovanni Bruyerin Champier, continua Renan, ci fa sapere che i giovani del suo tempo detestavano i medici arabi e non volevano più neanche sentirli citare.  

 

IL RITORNO

DI  ARISTOTELE

A PADOVA

E DI PLATONE

A FIRENZE  

 

 

L

a rinascenza dell’ellenismo che si annunciava a Padova, Venezia e nel Nord Italia con il ritorno al vero testo di Aristotele, scrive Renan, si manifestava a Firenze col ritorno a Platone; Firenze e Venezia sono i due poli della filosofia, come dell’arte in Italia.

Firenze e la Toscana rappresentano l’ideale nell’arte, lo spiritualismo in filosofia; Venezia, Padova, Bologna, la Lombardia rappresentano l’analisi, il razionalismo, lo spirito esatto e positivo.

Solo Platone sorregge i Careggi e i giardini Rucellai; Aristotele si riflette nelle istituzioni di Venezia; può meravigliare al primo colpo d’occhio, scrive Renan, che una pesante e pedante scuola come quella  di cui stiamo provando ad abbozzarne la storia, sia stata la scuola ufficiale di una città che l’immaginazione si compiace di circondare di una così poetica aureola; ma a guardarla da vicino si osserva che questa scuola è in perfetto accordo con i veneziani e che essa è esattamente in filosofia ciò che Tiziano e Tintoretto sono stati nella pittura; la filosofia e la poesia in fondo partono dallo stesso principio; la filosofia non è che un genere di poesia come un altro e i paesi poetici sono i paesi filosofici.

Renan, su questa linea dei diversi indirizzi alle quali erano giunte le due scuole, conclude dicendo che mentre Venezia arriva alla filosofia per necessità di esigenza e rigore, portati dallo spirito pratico e dal maneggio degli affari, Firenze, per la serenità di una coscienza alla quale tutti gli elementi dell’ideale si compenetrano con armonia,  vi giunge “per quell’aria di freschezza e di gioia che si respirano ai piedi delle colline di Fiesole”

 

 

MARSILIO FICINO

 

 

E

gli stesso ci fa sapere, scrive Renan, che fu per reazione contro il peripatetismo averroista di Venezia ad avergli fatto intraprendere la strada della tradizione platonica; l’incredulità gli era sembrata così radicata che non aveva visto che due modi per vincerla: un miracolo o una religione filosofica; nel tradurre Platone e Plotino si è sperato che in qualità di filosofi essi possano trovare una migliore accoglienza da parte del pubblico dei santi e dei profeti.

Averroè, rappresentante del peripatetismo eterodosso, è trattato con il più profondo disprezzo; egli non conosceva il greco e non aveva nulla compreso di Aristotele; il libro XV della Teologia platonica è consacrato tutto intero alla refutazione del mostro averroistico: l’unità dell’intelletto. L’argomentazione di Ficino, scrive Renan, non manca né di chiarezza né di finezza; nell’ipotesi averroista, la percezione, egli dice, non apparterrà a nessun soggetto personale; l’atto libero, la volontà, saranno inesplicabili.

L’astrologia stessa, aggiunge Ficino, gli aveva fornito degli argomenti; le anime non sono per nulla identiche poiché tra di esse vi sono i saturniani, marziali, gioviani, mercuriani; la teoria averroistica della Provvidenza è vivamente rifiutata; Dio vede tutto nella sua propria essenza, senza  sosta a far prevalere il bene più generale; egli non ha bisogno di far deviare le grandi cose per vedere le piccole.

 

GEMISTO PLETONE

 E BESSARIONE

 

P

rima di Marsilio Ficino (per questi due umanisti, v. in cit. Articoli: Polemiche Umanistiche ecc.), avevano testimoniato la stessa antipatia e avevano respinto le teorie averroiste in nome del platonismo; Patrizi (*) è stato ancora più severo; si riteneva, in base a un errore sovente ripetuto, prosegue Renan, che gli scolastici non avessero conosciuto Aristotele che attraverso Averroé; Averroé è ai suoi occhi responsabile di tutti i difetti della scolastica e del caos di questioni sottili che avevano invaso il campo della filosofia.

Per comprendere l’avversione che il peripatetismo averroista ispirava ai begli  spiriti della rinascenza, scrive Renan, occorre aver conosciuto per esperienza questo stile irto di detti barbari, queste discussioni sottili. queste prolissità insostenibili che sono proprie della scuola averroistica.

In altri tempi  - scriveva Luis Vives (***) -  niente era più affascinante della contemplazione di un giardino di questo universo;  ma ora al posto degli alberi e dei fiori hanno elevato delle croci per torturare lo spirito umano”.

In proposito, riferisce Renan, la tesi di MARIO NIZOLIO-NIZOLIUS (1488-1567) nel suo Antibarbarus (seu de veris principiis et vera ratione philosophandi, contra pseudophilosophos), era fondata sulla estrema insistenza che gli spiriti elevati mettevano per sostenere che la filosofia si deve servire del linguaggio ordinario e interdirsi lo stile tecnico, ciò che era detto stile di Parigi, che non era affatto una proposizione puerile o un semplice scrupolo di retore.

Non vi era riforma più urgente, suggeriva Nizolio, che quella del linguaggio; la prima condizione del progresso era di sbarazzarsi del pensiero di questo intollerabile ostacolo di stile scolastico che gli vietava ogni specie di raffinatezza

 

*) Francesco Patrizi autore di “Retorica” (1562) e del “Sacroregno del vero reggimento della vera felicità del principe” (1569).

**) Un curioso esempio, spiega Renan, è dato dal termine “allostogia” usato ripetutamente nel XIImo libro della Metafisica; c’è da chiedersi che senso potesse offrire questo termine ai dottori di Padova che senza dubbio non sapevano che il termine derivava da una deformazione del termine greco “stoikeia” preceduto dall’articolo arabo al (al-stouchia). 

***) Luis Vives v. in Cronologia del “1500” (anno 1540).

 

 

PICO

DELLA MIRANDOLA

 

 

L

uomo di questo secolo che mostra il meglio della lotta dei suoi contrastanti sentimenti, scrive Renan, è stato Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494); egli non fu esente dall’arabismo; aveva avuto come maestro l’averroista Elia del Medigo (v. sopra) e non riuscì mai a sbarazzarsi di quel cattivo lievito.

Tra le novecento questioni che egli propose per il suo gran torneo filosofico, la scolastica barbara e Arerroé in particolare, occupa un posto d’onore nella sua Apologia (v. sopra): “Presso gli arabi, Averroé è fermo e incrollabile; Alfarabio grave e riflessivo; Avicenna divino e platonico”; quindi egli considera Averroé “celebre filosofo nella famiglia di Aristotele e potente estimatore delle cose della natura”, e si proponeva di conciliarlo con Avicenna, come Aristotele con Platone   (v. in cit. Polemiche Umanistiche ecc.); così i coimbresi lo avevano  inserito tra gli averroisti.

Pico risentì tuttavia di influenze migliori: Ermolao Barbaro, scrive Renan, gli aveva mandato una lettera contenente espressioni di rinnovata simpatia ma gli esprimeva il rammarico per la nuova conversione; Ermolao infatti lo riprende perché, dopo aver gustato le tante delizie della lingua greca e latina, egli sia andato a infangarsi nella lettura dei dottori arabi che, se sono stati tenuti in grande considerazione da grandi e piccoli cultori delle belle lettere, sono da considerare indegni di vivere e camminare sulla terra, ...come (avevano ritenuto) Alberto Magno, san Tommaso e tanti altri!

Pico comunque si mantenne nell’ambito di un saggio eclettismo, prosegue Renan: le esagerazioni del partito umanista lo spinsero a trovare del buono nella scolastica araba, ma gli ellenisti lo chiamarono “l’apologista degli sciti e dei teutoni”; “i miei amici di Padova”, gli aveva scritto Ermolao, “sono certi della tua apologia degli sciti e teutoni”; insomma, auspice Luis Vives vi fu una bella rivolta contro i dottori arabi e in particolare precisa Renan, che occupano quattro pagine in folio; ma, conclude Renan, Vives non fu il solo, Celio Rodigino non fu meno severo e anche Bernardo Navagero (1507-1565) che coltivava le belle lettere ed era ritenuto come fenomeno letterario del suo secolo [lo ricordiamo tra gli autori delle celebri “Relazioni degli ambasciatori veneti].

Infine, conclude Renan, lo spirito moderato che, spaventato dalle arditezze del peripatetismo italiano, si congiunge ai principi del cristianesimo riformato di Melantone e Nicol Taurel, mostrandosi fortemente resistente all’insegnamento averroistico; Erasmo è convinto della profonda empietà di Averroé, e Ambrogio Leone, professore presso l’Università di Napoli, gli aveva scritto che con i (suoi) quarantasei libri contro il Commentatore (Castigatorum adversus Averroem, 1517), gli aveva dato il colpo di grazia.

In genere, aggiunge Renan, gli umanisti mostrarono nella rinascenza, minor temerarietà di spirito dei peripatetici scolastici; a parte qualche abitudine pagana del tutto inoffensiva, era legato alla ortodossia cattolica o protestante: Petrarca aveva già offerto un curioso esempio di questa duplice tendenza.

 

L’INTERVENTO

DEL VESCOVO

PIETRO BAROZZI

 

G

li studi condotti sulla base dei commentari di Averroè raggiunsero l’acme quando  una prima edizione del Commentario fu stampata (1472) a Venezia (ricordiamo che “ciò che veniva studiato a Padova era stampato a Venezia”) e una seconda edizione nel 1483, era stata seguita da una serie di traduzioni dall’arabo e dall’ebraico di opuscoli di Averroè e di altri averroisti che “nella ristrettezza di visuale e incuria di stile” (A. Poppi*), scandalizzarono gli umanisti presenti in città (Pico d. M., E. Barbaro, G. Donato. L. Tomeo) i quali determinarono l’intervento (1489) del vescovo Pietro Barozzi (1441-1507)  a seguito del quale gli interessi degli studiosi si indirizzarono verso la “unicità dell’intelletto[sostenuta da Averroè mentre Aristotele ne sosteneva la duplicità], argomento pericoloso perché all’intelletto per giungere all’anima il passo è breve ...e infatti tra le due tesi della immortalità e mortalità si giunse a quella eretica della “mortalità dell’anima”.

Il terreno per suscitare questo interesse, era stato preparato dall’attività del filosofo ebreo Elia di Creta (o del Medigo)  e di Nicoletto Vernia di Chieti che a Padova aveva insegnato per trent’anni (1468-99), autori della “Quaestio de intellectu” in cui era accolta la tesi averroistica della unicità dell’intelletto.

Vi era stato un ulteriore intervento del vescovo Barozzi e dell’Inquisizione, che erano stati abbastanza tolleranti da ammonire tutti coloro che erano coinvolti nelle discussioni sull’argomento a svolgerle, sotto pena di scomunica, nelle aule accademiche, invitandoli a ricordare la verità cristiana sul proprio destino e le insostenibili  conseguenze etiche derivanti dalla prospettiva pagana sulla natura dell’anima (A. Poppi).

Sebbene all’interno  della “Scuola” si continuasse  a fondare l’insegnamento sui pilastri della unità dell’intelletto, della eternità del mondo e sulla limitatezza  della potenza divina, come principi fondamentali della ragione, prosegue Renan, si assiste a una rottura di questa compattezza ideologica a seguito della introduzione delle variegate interpretazioni  introdotte da Agostino Nifo (1490) con le due semianime  che proseguono nel nuovo secolo con i c.d.  bononienses (T. Bacillieri, G. Tagliapietra, L. Venier, e (1490-1508) alla forte reazione “scolastica”  di A. Trombetta (De pluralitate animarum humanarum, 1498), seguita dagli altalenanti commenti di Pomponazzi, insoddisfatto delle due posizioni, la tomista e averroista, quest’ultima  stigmatizzata come  “maxima fatuitas”,  nonostante le argomentazioni di A. Fraganzan (A. Poppi).

Ma, sono in arrivo aristotelici più giovani [i giovani sono sempre portatori di nuove idee!], che introducono una rilettura dei Commentari facendo ricorso a commentatori greci prima ignorati o indirettamente conosciuti, con una nuova visione smitizzante del “Commentatore” per cui l’averroismo monolitico  subisce una sistematica demolizione.

Questa avviene con la traduzione del “De Anima” di Alessandro di Afrodisia ad opera di G. Donato (1498) e le considerazioni sui commenti greci di Temistio e Simplicio iniziata da Pico d. M. e Nifo che creano la nuova corrente alessandrista o alessandrina, negatrice della immortalità dell’anima, spostando l’interesse dalla unità dell’intelletto in quest’ultima direzione che a Padova non viene accolta immediatamente ma si avvia a una più lenta maturazione.

In questo periodo nella Scuola, per merito di Alpago e Contarini, Avicenna per la sua maggior sensibilità per la metafisica e per la considerazione platonica della realtà, lascia spazio alla più concreta visione averroistica della separazione tra fede e ragione, quest’ultima in senso metafisico.

 

*) In Enciclopedia Filosofica, Sansoni, 1967.

 

L’ARRIVO DEI

GESUITI

 

L

abile società di Gesù, scrive Renan, affrontò frontalmente, la stessa posizione nei confronti di Averroè, con la pubblicazione (1599) della “Ratio  Studiorum” (*) che “raccomandava ai professori di filosofia, di ricordare continuamente il decreto del Concilio Laterano e di citare “con precauzione” gli interpreti di Aristotele che avevano denigrato la religione cristiana; di fare attenzione che gli studenti non li prendessero d’esempio, e per ciò che riguardava Averoè in particolare, di tralasciare le sue digressioni; e quando erano costretti a citare i suoi commentari, di farlo senza alcun elogio, se possibile, e aggiungendo che ciò che risultava avesse detto di buono, egli lo aveva ripreso dagli altri (!); per il resto di dedicarsi esclusivamente ad Aristotele, attaccando  alessandristi e averroisti e di contestare a Alessandro e Averroé ogni loro autorità”.

Chi a torto e chi a ragione, è ciò che preoccupa poco gli autori della Ratio; la scienza e la filosofia sono solo una tattica,  scrive  Renan, che conclude: Colui che non serra le vie della Società non sarà lodato e se per una volta nella sua vita ha avuto ragione è senza dubbio per effetto di qualche plagio.

 

 

*) “Ratio atque institutio Studiorum Societatis Iesu”, era il Corso ufficiale per l’istruzione e la formazione dei gesuiti composto da un gruppo di studiosi dell’Ordine (1599) su disposizione del suo generale Claudio Acquaviva (1543-1615).

 

 

JACOPO ZABARELLA

 

 

S

trana tenacia della routine, si rammarica Renan, che prosegue: questo insegnamento barbaro, incomprensibile, divenuto ridicolo, si prolunga ancora per un secolo in mezzo a una Italia  letterata e dallo spirito moderno già trionfante

Averroé è vero, non regna più in maniera così esclusiva; i mezzi ermeneutici si estendono e l’autorità dei greci controbilancia  sempre più quella araba;  ma le questioni averroistiche agitano continuamente la Scuola e servono come programma d’insegnamento.

Dal 1564 al 1589 Jacopo Zabarella (1533-1589)  continua le tradizioni della cattedra di Padova; Averroè è la sua guida nella interpretazione dei passaggi difficili; egli lo cita con il più profondo rispetto, in particolare quando si deve rapportare agli alessandristi; egli pensa con Averroé e Achillini, contro Avicenna, che la necessità di un essere assoluto non dimostra l’esistenza di Dio, che il cielo potrebbe essere questo primo principio, che non vi è che una sola prova decisiva dell’esistenza di Dio, il movimento del cielo.

Zabarella, del resto, si divide assai spesso tra l’opinione di Averroé e quella dei suoi seguaci; in psicologia egli combatte vivamente le tesi averroistiche; dopo il sistema dell’unità delle anime, egli dice, l’intelletto non sarà nell’uomo che come il pilota della nave; ora, l’intelletto è la forma informante dell’uomo, ciò perché l’uomo è ciò che è; l’intelletto dunque si moltiplica secondo il numero dei corpi.

Tuttavia Zabarella, continua Renan, conformemente alla dottrina di san Tommaso d’Aquino stabilisce una differenza tra l’attività propria dello spirito e l’intelletto attivo propriamente detto che è intelligibile o Dio (stesso) visto come motore universale; se si obietta a Zabarella che egli distrugge così la personalità dell’intelletto, personalità che egli voleva stabilire contro gli averroisti, egli risponde distinguendo la percezione primitiva dell’ulteriore percezione; nella prima, niente di personale, l’illuminazione viene dal di fuori. Più tardi, al contrario, l’intelletto è acquisito, egli diviene nostro, in questo senso Dio espandendo senza posa la sua luce è sempre a nostra disposizione di ciò che vogliamo pensare; per sua natura l’intelletto individuale sarà caduco; ma reso perfetto dalla illuminazione divina esso diviene immortale.

Il pensiero di Zabarella su questo punto del resto, sembra piuttosto poco saldo; egli pensa, come tutta la Scuola di Padova che l’immortalità dell’anima  non è nei principi della psicologia peripatetica; in quella egli è alessandrista ed è il giudizio introdotto dai contemporanei “deterrimam alexandrorum sententiam palam professus”.

Le dispute di Zabarella e di Francesco Piccolomini (*) ricordano a Padova nel XVImo secolo le “prodezze” di Achillini e Pomponazzi; Piccolomini era stato allievo di Zimara e sembrava si fosse avvicinato agli averroisti ai quali lo collegavano le forme scolastiche dei suoi insegnamenti.

 

 

*) Dobbiamo ricordare anche che quest’altra polemica dopo quella di Pomponazzi e Achillini, come si vede, di natura diversa, sorta verso gli anni ottanta del XVI sec., tra Jacopo Zabarella, Francesco Piccolomini e Bernardino Petrella sui cui particolari Renan non si è soffermato.

Zabarella aveva pubblicato l’ Opera logica (intorno al 1580): la polemica riguardava l’ordine della dottrina (ordo doctrinae) vale a dire la struttura logica della scienza, in contrasto con l’ordine nel quale la scienza veniva acquisita che era la via della dottrina (via doctrinae); sebbene inizialmente la polemica fosse di natura strettamente logica, era poi facilmente sfociata nel campo della gnoseologia e della metafisica.

Mentre Zabarella sosteneva che l’ordine della dottrina  dipende dal modo in cui si impara meglio e più facilmente, Francesco Piccolomini (1523-1607) sosteneva che dipende invece dall’ordine in cui le cose esistono nella natura (ordo naturae). Piccolomini attaccò l’Opera logica nella lunga prefazione alla sua “Universa philosophia de moribus” (1583); Zabarella rispose con “Apologia de doctrina ordine”; nel frattempo Zabarella moriva (1589) e Piccolomini dopo cinque anni rispose con un ulteriore attacco pubblicando “Comes politicus” (1594).

Al Petrella invece, Zabarella non rispose direttamente ma le sue difese furono prese dall’allievo Ascanio Persio che aveva pubblicato opere di Logica, certamente suggerite dal maestro.

 

FEDERICO PENDASIO

 

F

ederico Pendasio di Mantova (1545-1603), rinomato professore dei suoi tempi, si rapporta alla maniera di Zabarella; la biblioteca della Università di Padova, possiede il testo manoscritto, rimasto inedito, delle sue lezioni sul trattato dell’Anima; sono pochi i libri così impostati per far comprendere il metodo e le abitudini dell’insegnamento a Padova; il testo di Averroé è discusso rigo per rigo con la cura più minuziosa.

Tuttavia, prendendo Averroé come base delle sue lezioni, Pendasio si collega, sulle questioni dell’intelletto, alla dottrina di Alessandro: l’intelletto si moltiplica secondo il numero degli individui; senza dubbio i principi della ragione sono comuni a molti, ma le immagini che sono necessarie per l’attività intellettuale, sono multiple e varie.

La ragione è unica ed eterna proiettata nella specie umana che vi partecipa eternamente; essa è passeggera, proiettata in questo o quell’’individuo; gli averroisti sostengono che la pluralità numerica non riguarda che la materia e che se l’intelletto è multiplo, esso sarà materiale; nulla di tutto ciò, risponde Pendasio, l’intelletto è fatto per unirsi al corpo, ma esso non dipende dal corpo: allo stesso modo che la scarpa è fatta per adattarsi al piede e certamente non dipende dal piede!

Pendasio è dunque un alessandrista convinto; Cremonini e Luigi Alberti, tra i suoi discepoli, furono i più decisi difensori dell’alessandrismo.

In generale, tutti i professori di Padova del XVImo secolo, il cui nome è rimasto nella storia della filosofia, scrive Renan, appartengono a questo filone e tutti avevano fatto di Averroé il testo delle loro lezioni, condannando severamente l’unità dell’intelletto; sarebbe difficile nominarne uno solo che, dopo il Concilio del Laterano abbia sostenuto su questo punto l’opinione del Commentatore.

Tuttavia, osservando l’insistenza che Pendasio impiega a rifiutare senza tregua gli averroisti, si è costretti a supporre che questa opinione raccoglieva ancora a Padova un certo numero di partigiani.

 

DE SUBSTANTIA ORBIS

 

 

L

estrema rarità dei testi puramente averroisti, scrive Renan, mi fa collegare a un commentario inedito di una certa importanza, sui dodici libri della Metafisica che possiede la biblioteca di Sant’Antonio di Padova: questo Commentario è attribuito a un certo Maestro Calabro (Magister Calaber), del tutto sconosciuto.

Il padre Minciotti, autore di un catalogo dei manoscritti, ritiene che possa trattarsi di Onofrio Calabro al quale Gaetano di Thiene dedica il suo libro dell’Anima; ma questa congettura, scrive Renan è impossibile, in quanto Maestro Calabro cita Achillini, Nifo, Zimara e Simone Porzio [quest’ultimo si era salvato dalla Inquisizione scrivendo un devoto commento al “Padre Nostro” ], posteriori di un secolo a Gaetano; in ogni modo la dottrina esposta in questo libro è il più puro averroismo; la materia prima è una e comune; la prima causa agisce necessariamente e fintanto essa può agire, perché essa non può impedire di comunicare la sua bontà.

Nulla proviene dal non-essere assoluto; San Tommaso e i filosofi latini, precisa Renan, hanno riversato tutti i principi della filosofia aristotelica supponendo l’intelletto multiplo e immortale nella sua molteplicità; l’intelletto è eterno perché è unico e non è coinvolto nella corruttibilità dell’individuo; tutta la teoria di Averroé sul Cielo è adottata come l’ultimo termine della cosmologia.

A Bologna, Napoli, Ferrara come a Padova, scrive Renan, si commenta Averroé; Nicola Risso, Nicola Vitigozzi, Francesco Longo, Scipione Fiorillo riportavano le loro lezioni e le altre parti dell'opera di Averroé nel “De substantia orbis”; le biblioteche del Nord Italia contengono una immensa quantità di manoscritti appartenenti a questo ciclo di studi, perché questi quaderni di scuola non giungevano fino alla stampa ed erano trasmessi in copia.

Anche la Corte d’Este, conclude Renan, non fu estranea alla filosofia averroista; Antonio Montecatino fu nominato dal duca Alfonso II, filosofo di Corte (con uno stipendio di ventiquattro lire al mese), per commentare Aristotele e Averroé.

 

ANTONIO BRASAVOLA

 

L

a biblioteca di Ferrara, scrive Renan, possiede il manoscritto autografo dei commentari inediti del medico Antonio Brasavola (1500-1555) su Averroè, dedicato a Ercole d’Este e a Renato di Francia; dei versi riportati in testa al libro, alla maniera italiana, rendono omaggio ad Averroé.

Nel suo commentario sul “De substantia Orbis”, dedicato a Francesco Gonzaga duca di Mantova, Brasavola si mostra ugualmente molto versato negli scritti della scuola averroista, che egli divide in antica e moderna; egli discute volta per volta, ogni frase di Averroé, esponendo le opinioni di Baconthorp, Jandun, Gregorio da Rimini, Trombetta, Gaetano di Thiene, Nifo, Zimara ecc.; Brasavola, spesso sembra inclinare verso l’alessandrismo e censura a volte con severità le opinioni di Averroé.

Per molti sarà una sorpresa apprendere, scrive Renan, che Torquato Tasso era alessandrista e che uno dei libri che egli aveva chiesto a Aldo (Manuzio) il Giovane di inviargli, quando era in prigione, era stato il Commentario d’Alessandro sulla Metafisica.  

 

CON CESARE CREMONINI

TERMINA LA SCOLASTICA

 

 

L

ultimo rappresentante della Scolastica averroista è stato Cesare Cremonini (1530-1631) successore, scrive Renan, di Zabarella a Padova; Cremonini, prosegue Renan, è stato apprezzato in maniera del tutto insufficiente  dagli storici della filosofia; non lo hanno giudicato che per gli scritti stampati che non sono stati che delle dissertazioni di poca importanza e non possono essere stati in alcuna maniera in grado di far comprendere la colossale rinomanza alla quale egli pervenne.

Cremonini, prosegue Renan, non è stato che un professore; la vera filosofia sono stati i suoi corsi; mentre i suoi scritti stampati si vendevano poco, le redazioni delle sue lezioni si spandevano in tutta Italia e anche al di là dei confini montani; si sa che gli studenti preferivano sovente ai testi stampati i quaderni con gli appunti che essi raccoglievano dalla bocca dei loro professori.

Condannato come Vico e come pressappoco tutti gli italiani del XVIImo secolo a vivere della propria retorica, Cremonini aveva trovato degli editori per i suoi sonetti e brani di circostanza: “Clorinda e Valliero”, “Il ritorno di Damone” , ma non per le sue opere serie.

In generale è nei quaderni, molto più che nei testi stampati, che si studiava nella Scuola di Padova; per Cremonini questo compito era facile perché le copie dei suoi corsi erano numerosi nel Nord Italia; l’esemplare più completo è senza dubbio quello della Biblioteca di San Marco a Venezia; esso si compone di ventidue grandi volumi scritti da una stessa mano e contenente, anno per anno, le lezioni di Cremonini su tutte le parti della filosofia peripatetica; questi manoscritti provengono dal Consiglio dei Dieci ai quali Cremonini aveva indirizzato le sue opere, come lo prova una lettera trovata a Montecassino.

Cremonini a dire il vero non è né alessandrista, né averroista, anche se egli pende più verso l’alessandrismo; Averroé e Jandun sono gli autori di cui egli fa maggior uso e che gli forniscono il testo delle sue lezioni; gli altri maestri della scuola averroista compaiono volta per volta nelle sue fastidiose discussioni; Cremonini sembra decidere tra di essi con un superficiale eclettismo.

Come Cesalpino e Zabarella, prosegue Renan, egli si aggancia a una opinione genericamente attribuita ad Averroé, per sapere che l’esistenza di Dio non si può dimostrare se non con la considerazione fisica del movimento del cielo.

Egli ammette senza restrizioni di sorta le teorie di Averroé sulle intelligenze celesti e la Provvidenza; tutte le cose sublunari sono governate dal cielo; vi è un agente universale a cui appartiene tutta l’efficienza dell’universo; Dio non percepisce nulla, tranne se stesso.

Cremonini critica con estrema severità la psicologia averroista; il principio di Averroé: Recipiens debet esse demandatum a natura recepti (la verità è proveniente dalla natura), gli sembra falso sotto ogni punto; egli non accetta più la teoria dell’unità dell’intelletto, riconoscendo che l’immortalità deve essere cercata nella specie non nell’individuo.

L’intelletto attivo è Dio stesso, spiega Renan, come l’ha voluto Alessandro; esso è necessariamente distinto dalle potenze dell’anima, semplice, sussistente per sé stessa; poiché l’intelletto attivo ha in atto tutti gli intelligibili, esso solo è intelligibile, che è semplice, separato, sussistente per sé stesso.

Tutto è in qualche modo pieno d’anima; Dio è la via stessa dell’universo, compenetrante il tutto in qualità di intelletto attivo; il mondo è in un eterno “fieri” (divenire); Egli non é, egli nasce e muore senza sosta.

Ecco le dottrine che Cremonini insegna per diciassette anni a Ferrara e per quarant’anni a Padova, continua Renan; esse non mancano, come si vede, di arditezza ed è stato a forza di proteste di ortodossia che Cremonini era riuscito a evitare la persecuzione.

Il preambolo del suo “Commentario sul trattato dell’anima”, scrive Renan,  è a questo riguardo un capolavoro di abilità:_ “Sappiate, dice agli uditori, che io non pretendo di insegnarvi ciò che si crede sull’anima, ma solamente ciò che ha detto Aristotele. Ora, tutto ciò che in Aristotele è contrario alla fede, i teologi e sopratutto san Tommaso, hanno ampiamente risposto; Vi ho avvertito una volta per tutte, continua Cremonini ai suoi allievi, in modo che se voi sentirete nelle mie lezioni qualchemalsonante proposizione”, sapete dove andare a trovare la risposta; né potrei dissimulare dei  particolari del pensiero di Aristotele, perché se lo facessi, io mancherei ai miei doveri”; e a ciascuna proposizione pericolosa egli si preoccupava di aggiungere: “Fate ben attenzione che lo dico non per mio proprio sentimento (il mio sentimento è quello della nostra madre la santa Chiesa!), ma quello di Aristotele” .  

La tattica per la quale i filosofi di questo tempo cercavano di rivendicare qualche indipendenza, riferisce Renan, era di esporre le dottrine compromettenti sotto il nome altrui, sconfessandola e nello stesso tempo rifiutandola; ma la  debolezza stessa con cui il rifiuto veniva esposto, tradiva con sufficienza il pensiero di chi lo esponeva.

Da una interessante corrispondenza che ho trovato presso la biblioteca di  Montecassino, scrive Renan, ho rilevato che queste manovre non erano servite a coprire Cremonini, perché l’Inquisitore di Padova gli aveva scritto (3.VII.1619) per ricordargli il decreto del Concilio Laterano che ordinava ai professori di rifiutare seriamente gli errori che esponevano, chiedendogli una ritrattazione e citando l’esempio della docilità di Pendasio.

Cremonini gli rispose con una lettera di rimarchevole fermezza, che non dipendeva da lui dover cambiare i suoi scritti che avevano ricevuto l’approvazione del Senato e che era pagato per spiegare Aristotele e che si sarebbe ritenuto obbligato di restituire lo stipendio se avesse insegnato cosa diversa da ciò che egli credeva essere realmente il pensiero di Aristotele. Che si incarichi qualcuno di scrivere contro di lui, aggiungeva Cremonini, come Nifo era stato incaricato di rispondere a Pomponazzi, consentendogli di non rispondere; ecco tutto ciò che lui poteva promettere e tutto ciò che egli avrebbe ottenuto con la sua condiscendenza.

Così, conclude Renan, si prolungarono fino al cuore dei tempi moderni e in un centro scientifico, il più brillante d’Europa, le controversie del medioevo.

 

 

LA SCUOLA DI PADOVA

SI APRE

ALLE NUOVE SCIENZE

 

 

N

el 1628, riferisce Renan, Gabriel Naudé (allievo di Cremonini) trova ancora l’averroismo dominante a Padova; la morte di Cremonini (1631) può essere considerata come il limite del regno di questa filosofia; il peripatetismo scolastico ormai non conterà più alcun sostenitore di qualche valore.

Fortunio Liceto (1577-1657), scrive Renan, non riesce a salvare le macerie che rimanevano mentre penetrava lo spirito della filosofia moderna; Berigard [Claude Guillermet de, 1578-1663, aveva combattuto il Dialogo dei due massimi sistemi di Galileo], più ardito, aveva tentato di rimpiazzare il peripatetismo con la fisica ionia; nel 1700 Fardella [Michelangelo, 1718] insegna a Padova senza opposizione, il cartesianesimo.   

L’averroismo aveva resistito pressappoco per tre secoli, scrive Renan, agli attacchi del platonismo, degli umanisti, dei teologi, del Concilio del Laterano, del Concilio di Trento, dell’Inquisizione; esso scomparve quando apparve la vera grande scuola, la Scuola Scientifica, quella che si apre con Leonardo da Vinci e continua con gli Aconzio, gli Erizzo, i Giordano Bruno, i Paolo Sarpi, i Telesio, i Campanella e si esaurisce con Galileo.

Questa grande scuola dotta, scrive [soddisfatto!] Renan, la vera corona d’Italia che reclama a giusto titolo una parte un pò esagerata di Bacone, questa scuola veramente moderna e assolutamente libera della barbarie del medioevo, poteva finire solo con un aristotelismo decrepito.

La vera filosofia dei tempi moderni, prosegue Renan, è la scienza positiva e sperimentale delle cose; la scienza positiva ha solo avuto la forza di spazzar via questo ammasso di sofismi, di questioni puerili e di sensi vuoti che avevano intasato la Scolastica; la scienza positiva ha solo potuto guarire lo spirito umano da questa singolare malattia e portarla sulla retta via, alla contemplazione delle cose, al vivo sentimento della realtà.

L’estinzione dell’averroismo tuttavia, ci dice Renan, può esser vista da due punti di vista differenti: se esso fu da un lato il trionfo del metodo razionale e scientifico, esso fu, dall’altro lato, il trionfo dell’ortodossia religiosa; l’averroismo padovano, insignificante come filosofia, aveva acquisito un vero e proprio interesse storico quando lo si vede come per aver servito di pretesto all’indipendenza del pensiero; questa contraddizione apparente non ha nulla di sorprendente.

Non abbiamo visto il giansenismo, prosegue Renan, la più stretta di tutte le sette, rappresentare alla sua maniera la causa della libertà? Venezia era in qualche modo l’Olanda dell’Italia; la libertà di pensiero vi era esplosa come una branca di commercio ultra-produttiva: di là provenivano tutti i libri protestanti; il circolo Morosini, formato in gran parte da sostenitori di Cremonini, era un centro di opinioni ardite (incredulità!).

Ora, questo libertinaggio di opinioni che aveva dato una fisionomia così originale al Nord’Est d’Italia durante il XVImo secolo, scomparve con il peripatetismo arabo nella prima metà del XVIImo; nello stesso tempo tutta l’attività intellettuale si estingue.

Venezia che ha coperto il mondo di libri, non ha più un editore e gli Aldi sono ridotti, per non andare incontro alla bancarotta, a stampare breviari!

In generale, scrive Renan, gli effetti di una reazione intellettuale non diventano sensibili che all’inizio di una generazione; la restaurazione cattolica che seguì l’aborto della riforma in Italia, fu il colpo mortale dato al movimento italiano, e pertanto, questo movimento continua ancora per più di mezzo secolo: L’Italia nel 1600, prosegue Renan, conserva qualcosa della vita dei tempi di Leone X (1513-1521), così completa, così libera, così allietata; poi, il freddo  procede mano a mano e arriva fino al cuore.

L’arte, conclude criticamente Renan, non produce altro che le civetterie di Bernini e le stravaganze di Borromini; il pensiero umano non serve più che a fare dei sonetti e delle cicalate per le accademie: tutto s’addormenta come in un canto; nel 1650 l’Italia non ha più altro pensiero che le stazioni  [delle processioni!] e l’Ave Maria, i suoi oratori, le sue confraternite. 

 

 

CESALPINO CARDANO

 BERIGARD E VANINI

 

E

per non aver tenuto conto della duplice accezione del nome di Averroé, scrive Renan, che erano stati inseriti tra gli averroisti dei personaggi estranei al resto della famiglia dei peripatetici di Padova come Cesalpino, Cardano, Berigard, Vanini.

 

ANDREA CESALPINO (1519-1603).

Cesalpino, scrive Renan, è uno spirito troppo originale per essere confuso in una Scuola il cui carattere è di mancare di originalità; in qualche punto della sua dottrina egli si rapporta, è vero, ad Averroé, ma per lo spirito e i modi egli non tiene in nessuna considerazione l’averroismo padovano; Nicola Torelli suo avversario trova la sua dottrina più assurda e più empia di quella di Averroé.                

Cesalpino è in effetti un vero predecessore di Spinoza; egli non ha che una sola via che è la via di Dio o dell’anima universale [l’Anima mundi di Platone, Timeo]; Dio non è la causa efficiente, ma la causa costituente di tutte le cose; l’intelligenza divina è unica, ma l’intelligenza umana si moltiplica secondo il numero degli individui, perché l’intelligenza umana non è in atto ma in potenza.

Così, prosegue Renan, conservando tutto il dogma che costituisce la base dell’averroismo, Cesalpino evita la confusione che ha prodotto in questa Scuola una così lunga serie di errori; l’oggetto è identico ma il soggetto è multiplo, ed è permesso dire che l’oggetto si moltiplica per la coscienza individuale, secondo il numero dei soggetti.

Cesalpino, prosegue Renan, attraversa i tempi della più dura inquisizione, senza esserne turbato; egli fu ugualmente medico del papa, professore alla Sapienza e vide bruciare Giordano Bruno in Campo dei Fiori; egli adoperò un metodo molto scaltro per sottrarsi alla censura: “So bene, diceva, che tutte queste dottrine sono piene di errori contro la fede e questi errori li respingo; ma non mi appartiene rifiutarli; lascio questo compito ai teologi più profondi di me”

 

GIROLAMO CARDANO (1501-1576).

La dottrina di Cardano, scrive Renan, non è senza analogia con quella di Cesalpino: “Tutte le anime particolari sono virtualmente contenute nell’anima universale, come il verme nella pianta in cui si nutre”.

Nel trattato “De Uno”, riferisce Renan, uno dei primi che aveva composto, Cardano ammette senza restrizioni, l’ipotesi averroista dell’unità dell’intelletto; più tardi in “De Consolazione” egli ritratta il suo primo pensiero e riconosce espressamente che non può esistere una intelligenza unica, sia per tutti gli esseri animati, sia per tutti gli uomini.

Egli sostiene che l’intelligenza ci è così personale, quanto la sensibilità e che le anime sono distinte sia nella presente vita come lo saranno nell’altra; infine, in un terzo scritto, il “Theonoston”  o dell’Immortalità dell’anima, Cardano si sforza di conciliare queste due opinioni contraddittorie.

L’intelligenza è unica ma può essere osservata da due punti di vista, sia in rapporto alla sua esistenza eterna e assoluta, sia in rapporto alle sue apparizioni nel tempo; unica nella sua fonte, essa è multipla nelle sue manifestazioni; eccellente manifestazione, commenta Renan, alla quale egli dovrà giungere per spiegare l’intelligenza.    

Malgrado questo cambiamento di dottrina, prosegue Renan, confessata spontaneamente, Cardano non è trattato come averroista nelle diatribe del suo rude avversario Giulio Cesare Scaligero (Esotericarum exercitationum de subtilitates adversus Cardanum);  per la sua maniera di filosofare e per la forma dei suoi scritti, Cardano non appartiene per niente alla famiglia dei professori di Padova; ma per la sua posizione di fronte alla teologia egli è uno dei rappresentanti di quelli che in altro senso sono considerati averroisti.

Il passaggio del “De Subtilitate” in cui fa argomentare gli uni contro gli altri i partigiani della religione cristiana, giudea, musulmana e pagana, scrive Renan, termina bruscamente senza conclusioni, con questa formula: Igitur his arbitrio victoriae relictis [lasciando quindi questa decisione all’arbitrio della vittoria], lo ha fatto inserire tra gli autori del libro dei “Tre impostori” (v. P. I)

Uno dei demoni familiari apparsi a suo padre (v. Articoli, in L’Inquisizione tra intolleranza religiosa ecc. P. II), si vanta di essere averroista: “Ille vero palam averroista se profitebatur [egli si professava apertamente  averroista], idea apparsa piuttosto impertinente a Gabriel Naudé, poiché Averroè non credeva ai demoni.   

 

CLAUDE GUILLERMET DE BERIGARD (1578-1663).

E’ così, ben a torto, prosegue Renan, che Berigard è stato inserito tra gli averroisti; Brucker l’ha completamente assolto da questa accusa; Berigard, al contrario, prosegue Renan,  deve essere inserito tra gli avversari del peripatetismo in generale e l’averroismo in particolare; egli ammette l’infusione dell’anima individuale al momento della nascita e per conseguenza, la pluralità delle anime.

Si comprende tuttavia che il suo deciso naturalismo, le sue ardite negazioni, gli hanno dato posto tra gli averroisti nella più larga accezione che l’opinione possa dare a questo termine.

 

GIULIO CESARE VANINI (1585-1619).

Ma il tipo  più originale dell’averroismo così inteso, scrive Renan, è senza contraddizione lo sfortunato Vanini [condannato al rogo a Tolosa]; suoi autori preferiti erano Aristotele, Averroé, Cardano, Pomponazzi; egli stesso riferisce di aver avuto come precettore un carmelitano, Giovanni Bacone, principe degli averroisti che non faceva giurare i suoi allievi se non per Averroé; noi prendiamo qui Vanini, prosegue Renan,  in flagrante delitto di buffoneria: il personaggio di cui egli vuol parlare è senza dubbio Giovanni Baconthorp, morto nel 1346, duecentoquarant’anni prima della sua nascita. Sembra del resto, continua Renan, che Vanini si sia divertito con il pubblico, mistificando il nome dei suoi maestri; egli infatti si presenta anche come allievo di  Pomponazzi morto nel 1525, mentre lui era nato nel 1585; egli non aveva neanche letto con molta attenzione i libri del suo divino precettore, come lo chiama; lontano dal concludere che in virtù della metempsicosi Averroé avesse dovuto passare nel corpo di Pomponazzi (v. sopra), egli avrebbe trovato in ciascuna pagina la refutazione di Averroè, ma Vanini non guardava così da vicino.

Questo spirito bizzarro si attaccava a tutto ciò che poteva servire alle sue fanfaronate di empietà, prosegue ancora Renan; i suoi autori preferiti erano Aristotele, Cardano, Pomponazzi e sull’esempio del suo preteso maestro Giovanni Bacone, non metteva altro libro nelle mani dei suoi allievi che quello di Averroé; evidentemente (il suo) Averroé non era il Gran Commentatore, ma l’autore immaginario a cui si attribuivano opere empie e di facile lettura. 

Vanini conosceva pertanto il Gran Commentatore; egli rifiuta con affettata severità le teorie averroiste dell’eternità del mondo, delle intelligenze, della provvidenza, dell’unità delle anime; ma Vanini, prosegue Renan,  non deve essere preso sul serio nelle sue dottrine: l’opinione che egli rifiuta è quella che egli vuole inculcare!  

Qualche  debolezza che si potesse provare per questo spirito flessibile e in particolare per i piccanti abbozzi filosofici che egli ha intitolato Dialoghi, prosegue Renan, non si può negare che questa vivacità, questa finezza, questa malizia, questa penetrazione dello spirito, non raccoglie lo scetticismo più immorale, il materialismo più sfrontato; in luogo della gaia e spirituale schiettezza che caratterizza la incredulità francese del XVIII secolo, l’incredulità averroista del XVI secolo è cupo, sprezzante, ipocrita, senza dignità.

Si scrivevano libri per difendere i dogmi che si volevano attaccare; si presentavano le obiezioni in tutta la loro forza, trattando da miserabili e insensati quelli che le facevano; poi si rispondeva in maniera derisoria o si confessava che era impossibile rispondere con la ragione.

Che presa poteva avere l’Inquisizione, si chiede Renan, su un uomo che faceva l’apologia del Concilio di Trento, meritava l’approvazione della Sorbona, intitolava un libro: “Anfiteatro dell’eterna provvidenza divino-magica, cristiano-fisica, astrologico-cattolica, contro gli antichi filosofi, gli atei, gli epicurei, i peripatetici, gli stoici”, ecc., e terminava le sue tirate più notoriamente empie con questa frase: “Ceterum sacrosanctae Romanae ecclesiae me subicio” [Per il resto mi sottometto alla sacrosanta romana Chiesa]?

Può darsi, continua Renan, che così nel XVImo secolo, come nel XIIImo, si esagerasse a descrivere la malizia degli averroisti e ci si compiacesse di riversare su qualche tipo di empietà tutti i cattivi pensieri che correvano nell’aria di cui ciascuno si potesse sentire colpevole.

I Tre impostori (v. P. Prima), prosegue Renan, erano giunti come un incubo per spaventare le coscienze: “Il quolibet che il mondo era stato sedotto da tre bari, dice Le Monnoye, continuamente ribattuto dai libertini, avrebbe dato l’occasione a qualcuno di essi di dire che aveva ben di che esercitare il suo spirito e che questo sarebbe stato un buon soggetto per un libro”; al che  tutti i partiti cattolici e protestanti l’avevano presa come una ingiuria; Bodin, facendo discutere i rappresentanti  delle diverse religioni, non fa prevalere nessuno; Postel sosteneva che la religione perfetta sarebbe stata composta in parti uguali di cristianesimo, giudaismo e maomettismo; quanto a Vanini pessimo bellimbusto, cercatore di pasti gratuiti, questo scalmanato, il più indiavolato villano che fosse mai stato (Garasse), aveva dato, dicono una nuova edizione di questo esecrabile libro (in nota Renan scrive: “Rosset (Francois de, 1571-1619), aveva fatto rivivere nella sua Histoires memorables et tragique de notre temp, questo cattivo e abominevole libro stampato alla vista e allo scandalo dei cristiani”.

Le parole che i testimoni oculari avevano pronunziato quando si stava recando al supplizio erano state “egli muore da filosofo”, che sembra una reminiscenza di Averroé “Moriatur anima mea morte philosophorum”.

 

LA FINE DEGLI STUDI

SU AVERROE’

 

I

n generale, l’averroismo propriamente detto, scrive Renan, vale a dire lo studio del Gran Commentario, si era poco diffuso al di fuori dell’Italia; dai dati caratteristici dati da Patrizi sulle scuole francesi e spagnole risulta che si spiegava il testo di Aristotele, senza il ricorso ai commentari; degli italiani nomadi, per esempio Francesco Vimercati avevano portato solo qualche rumore da questa parte dei monti; Giovanni Bruyerin-Champier (nel 1537) attesta la voga passeggera che ottennero questi maestri stranieri con il loro nuovo libro; Averroè in ogni caso in Francia non ebbe una fortuna brillante.   

Gli esemplari delle nostre biblioteche non portano nessuna traccia di lettura, commenta Renan, le pagine sono intatte e spesso avevo trovato non tagliati i fogli che erano sfuggiti al taglio del rilegatore.

Lione portava qualche traccia di averroismo; vi si fecero diverse edizioni di opere mediche e filosofiche di Averroé “i cui libri e trattati” è scritto nel privilegio del re Enrico II, “sono pieni e ricchi di belle e singolari autorità di filosofia per il bene e profitto delle cose pubbliche del nostro reame e per l’utilità e l’istruzione di quelli che desiderano vederli e leggerli”; ma a questa reale raccomandazione, scrive Renan, non fu dato ascolto: Averroé nel XVImo secolo uscì definitivamente dalle scuole francesi ... relegato nei libri degli scolastici che servivano probabilmente ad avvolgere le acciughe o a fare dei cartoni... questi cattivi commentari che si potevano consultare con tanta facilità, si presentano come libelli pieni di blasfemie e, cosa sorprendente, né Bayle né Brucker che avevano consacrato a Averroé  dei lunghi articoli in cui erano raccolte relazioni azzardate sul suo conto, neanche si sognavano di aprire le sue opere; Naudé che per meglio conoscerlo aveva soggiornato a Padova, lo rappresenta come un franco ateo

e gli applica il motto di Tertulliano “sub pallio philosophorum patriarcha ereticorum” [patriarca degli eretici sotto il pallio dei filosofi; in Grecia era l’abbigliamento tipico dei filosofi]; al giudizio di Duplessis-Mornay, Aristotele era poco religioso, ma Averroé, suo interprete, era del tutto empio.

Duplessis si era dato la pena di rifiutare nella forma, la teoria dell’intelletto unico; Campanella e dopo Barigard, ritenevano Averroè come il primo autore blasfemo dei Tre impostori (v. P.I.); non so quale onesto teologo inglese, scrive Renan, lo chiama “mostro d’uomo, il segretario dell’Inferno”; il celebre motto “moriatur anima mea morte philosophorum[che la mia anima muoia della morte dei filosofi], era servito a Vossius  per farne un “franco libertino”  e a Le Monnoie per erigerlo a disprezzatore di tutte le religioni; Guy Patin  pareva meno scandalizzato e lo aveva relegato tra i deisti; qualcun altro si era creduto autorizzato, su un passaggio di de Garasse, a attribuire a Averroé la strana politica che “per gli uomini (è l’opinione di Vanini che viene esposta, precisa Renan), si vede fare come i boscaioli fanno tutti gli anni nelle grandi foreste: essi entrano per visitarli, per riconoscere gli alberi morti o quelli verdi, esaminare tutta la foresta per rintracciare tutto ciò che è inutile e superfluo o danneggiato, per lasciare gli alberi buoni o i giovani alberelli da far crescere; allo stesso modo, diceva questo cattivo ateista, “vorrei, tutti gli anni, fare una rigorosa visita a tutti gli abitanti delle grandi e popolose città e mettere a morte tutti quelli che sono inutili e che impediscono di vivere agli altri; come sono le persone che non hanno alcun mestiere vantaggioso per la comunità, i vegliardi caduchi, i vagabondi, i fannulloni, vorrei controllare la natura, illuminare le città, mettere a morte tutti gli anni un milione di persone che sono come i rovi o le ortiche che impediscono agli altri di crescere”.

Ecco, dopo aver citato questo passaggio, uno dei biografi di Vanini, conclude Renan, ecco i frutti della scuola di Averroé.    

Nel XVIImo secolo, prosegue Renan, vi era ancora qualche gesuita con l’idea di rifiutare Averroè: Antoine Sirmond nel suo libro contro Pomponazzi (Paris 1625, giusto cent’anni dopo la sua morte) si batté vigorosamente contro l’intelletto unico; questa ipotesi, commenta Renan, rendeva Dio responsabile degli errori degli uomini; essa supponeva allora che lo stesso soggetto è suscettibile di modificazioni opposte; che, se Averroé aveva solamente inteso parlare dell’azione di Dio sull’intelligenza come causa primaria, Sirmond non aveva niente da ridire, ma egli si cura poco di sapere se tale era stato realmente il suo pensiero.

Possevin, suo collega, è ancora più severo; Averroé è ai suoi occhi il “corego” [direttore del coro] dell’empietà, e l’edizione dei Giunti e di Bagolini, un’opera di Satana.

Moreri, d’Herbelot, Bayle, Rapie [Riflessioni sull’eloquenza, la poesia, la storia e la filosofia], non hanno fatto altro che accettare sull’empietà di Averroé la tradizione comune; il XVII e XVIII secolo ripeterono ciecamente le stesse favole.

Leibniz lo considera come autore pernicioso che ha fatto il più gran torto al mondo cristiano e Vico come il rappresentante del fondo di empietà inerente al peripatetismo; per uno strano caso, il detto che gli attribuiscono sull’eucaristia divenne un’arma controversa protestante.

Duplessis-Mornay, Daillé, Drelincourt (in riferimento al sacramento che vedeva mangiare ciò che era stato adorato, si commentava che non si era mai vista una setta più folle e più ridicola di quella dei cristiani) vollero provare il torto che il dogma cattolico faceva alla religione cristiana, nell’opinione dei pagani.

Era stato il destino di Averroé, conclude Renan, di servire da pretesto ai più diversi risentimenti nella lotta dello spirito umano e di coprire con il suo nome le più diverse dottrine.  

 

 “STORIA DI UN

CONTROSENSO”:

LE CONCLUSIONI

DI RENAN

 

 

L

a storia dell’averroismo, scrive Renan, non è, per dirla propriamente, che la storia di un vasto controsenso; interprete molto libero della dottrina peripatetica, Averroé  si vede a sua volta interpretato in maniera ancora più libera; di interpretazione in interpretazione la filosofia del “Liceo” si riduce a questo: Negazione del sopranaturale, dei miracoli, degli angeli, dei demoni, dell’intervento divino; spiegazione della religione e delle credenze morali con l’impostura.

Certamente né Aristotele, né Averroé avevano pensato a come sarebbe stata ridotta la loro dottrina; ma, negli uomini elevati alla dignità di simboli, occorre distinguere la via personale e la via dell’oltretomba, ciò che essi furono in realtà e ciò che l’opinione ne ha fatto era stato il loro reale pensiero.

Per un filologo, un testo non ha che un senso; ma per lo spirito umano, chi ha messo nel testo la sua vita e tutte le sue esperienze per lo spirito umano, che in ogni momento cerca dei nuovi bisogni, l’interpretazione scrupolosa del filologo non ne può soffrire. 

Egli pensa che il testo che ha adottato risolva tutti i dubbi, soddisfi tutti i suoi desideri; da qui una sorta di necessità del controsenso nello sviluppo della filosofia e religione dell’umanità.

Il controsenso nell’epoca dell’autorità è come la rivincita che prende lo spirito umano contro l’infallibilità del testo ufficiale, continua Renan; l’uomo non abdica alla sua libertà su un punto se non per riprenderla su un altro; egli sa trovare mille fughe, mille sottigliezze per sottrarsi alla catena che si è imposto.

Si distingue, si commenta, si aggiunge o si spiega ed è così sotto il peso  delle due più grandi autorità che hanno regnato sul pensiero, la Bibbia e Aristotele, lo spirito si è ancora trovato libero; è così, termina infine Renan, che non vi è proposizione così temeraria che non sia sostenuta da qualche teologo, pretendendo di non uscire dai limiti della ortodossia, che non vi è dottrina così mistica che non ha potuto prodursi sotto la copertura dell’interpretazione di Aristotele.

La feconda interpretazione che nella sua autorità, accettata una volta per tutte, sa trovare una risposta alle esigenze nascenti dalla natura umana, è  opera della coscienza più che della filosofia.

 

 

FINE

PARTE SECONDA