Averroé per l’Occidente

Il suo  nome arabo era Abu ‘l  Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad

ibn Ahmad ibn Rushd al Hafid

La sua fama di medico era stata superata da quella di filosofo

Affresco in Santa Maria Novella- Firenze

 

 

 

I PRIMORDI

DELL’AVERROISMO

E LA SCUOLA

 ARISTOTELICO-AVERROISTICA

DI PADOVA

 

 

 

SOMMARIO PARTE PRIMA: INTRODUZIONE (IN NOTA: LE QUESTIONI POSTE DA FEDERICO II AI SAPIENTI ARABI ED EBREI); AVICENNA-IBN SINA, AVERROE’-IBN RUSHD; AVERROE’ E L’AVERROISMO DI ERNEST RENAN;  SAN TOMMASO E ALBERTO MAGNO;  GLI AVVERSARI DI AVERROE’; RAIMONDO LULLO E L’ARS MAGNA; I DUE PRIMI CENTRI DELL’AVERROISMO: LA SCUOLA FRANCESCANA E L’UNIVERSITA’ DI PARIGI; LA SCUOLA DI OXFORD E IL PENSIERO DI RUGGERO BACONE; IL MOVIMENTO ETERODOSSO NEL MEDIOEVO; E LA LEGGENDA DEI TRE IMPOSTORI (IN NOTA: IL LIBRO DEI TRE IMPOSTORI COME L’ARABA FENICE); AVERROE’ NELLA PITTURA ITALIANA; LA SCUOLA DI PADOVA: I PRECURSORI; IL VELENO DI RENAN VERSO LA SCOLASTICA E LA SCUOLA DI PADOVA; PIETRO D’ABANO MEDICO E ASTROLOGO; GIOVANNI DI JANDUN; FRA’ URBANO DA BOLOGNA; PAOLO DA VENEZIA; GAETANO DI THIENE; NICOLETTO VERNIA.


SOMMARIO PARTE SECONDA: PIETRO POMPONAZZI PENSIERO PULSANTE DEL SUO SECOLO; ALESSANDRISTI E AVERROISTI; L’ARISTOTELISMO RINASCIMENTALE; L’ANIMA DI AVERROE’ MIGRATA NEL CORPO DI POMPONAZZI; LE DIATRIBE DI ALESSANDRO ACHILLINI; PIETRO BEMBO ALLA CORTE DI ROMA; AGOSTINO NIFO E L’AVERROISMO MITIGATO; MARC’ANTONIO ZIMARA; ALTRI TRADUTTORI; ARISTOTELE AVVELENATORE OSCURANTISTA CARNEFICE; IL RITORNO DI ARISTOTELE A PADOVA E DI PLATONE A FIRENZE; MARSILIO FICINO; GEMISTO PLETONE E BESSARIONE; PICO DELLA MIRANDFOLA; L’INTERVENTO DEL VESCOVO PIETRO BAROZZI;  L’ARRIVO DEI GERSUITI; JACOPO ZABARELLA; FEDERICO PENDASIO; DE SUBSTANTIA ORBIS; ANTONIO BRASAVOLA; CON CESARE CREMONINI TERMINA LA SCOLASTICA; LA SCUOLA DI PADOVA SI APRE ALLE NUOVE SCIENZE; CESALPINO-CARDANO-BERIGARD E VANINI; LA FINE DEGLI STUDI SU AVERROE’; “STORIA DI UN CONTROSENSO”: LE COMCLUSIONI DI RENAN.

 

 

PARTE PRIMA

 

 INTRODUZIONE

 

D

urante il periodo di occupazione della città di Toledo, gli arabi ne avevano fatto un centro di studi e di traduzioni in lingua araba di tutto il sapere letterario, filosofico e scientifico ereditato dalla Grecia.

Dopo la conquista della città da parte degli spagnoli (1085), tutto quel tesoro di testi che per fortuna si era salvato, era finito nelle mani degli ecclesiastici cristiani i quali avevano proseguito nell’opera delle traduzioni, ma questa volta dall’arabo in latino.

Anche in Sicilia conquistata agli arabi dai normanni, i monarchi normanni e successivamente gli svevi con Federico II (*), avevano avuto la saggezza di integrarsi con gli arabi ottenendo un arricchimento della cultura che si era sviluppata con le traduzioni dei testi arabi in latino e così si erano avute, tra l’altro, con Ruggero II la traduzione del grande trattato di geografia di al-Idrisi  (La delizia di chi desidera attraversare la terra, Nuzhat al-mushtaq fī ikhtiraq al-afaq) detta “Tabula Rogeriana”, e presso la Corte di Federico II la traduzione  di opere di Averroé (i cui  due figli, si narrava, si trovassero presso l’imperatore) oltre alla traduzione di alcune delle parti scientifiche del Kitab al-Shefa-Il libro della guarigione di Avicenna che trattava di chimica, astronomia, zoologia e mineralogia.

Durante il corso dell’XImo secolo si erano quindi formate due correnti di provenienza di testi arabi tradotti in latino, dalla Spagna attraverso la  Provenza e dalla Sicilia che si diffusero nelle scuole dell’Occidente.

Tra le prime traduzioni, dalla Spagna giunsero i testi di  Avicenna e Averroé (come il Libro della guarigione-Kitāb al-Shifa v. sotto); Pietro il Venerabile abate di Cluny aveva mandato (1142) suoi monaci accompagnati da un arabo per avere la traduzione dell’ Al-Corano (come veniva chiamato in Occidente, del quale scriverà il commento); uno dei traduttori, particolarmente prolifico, era stato Gerardo da Cremona che aveva tradotto numerosissime opere, indifferentemente, filosofiche e scientifiche (v. in Articoli: La scienza araba alle origini della cultura europea).

Nelle scuole occidentali che si trovavano presso cattedrali o monasteri,  dove si studiavano (come studi di base) le arti del trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria astronomia e musica); i primi  autori arabi che avevano portato una ventata di entusiasmo incrementando gli studi, furono  Avicenna e Averroè.

 

*)   le questioni poste da federico ii ai sapienti arabi ed ebrei

Uno dei più curiosi documenti che riguardano i rapporti di Federico II con i filosofi arabi è stato quello che l’imperatore aveva inviato (1240) ai sapienti di diversi paesi musulmani sottoponendo una serie di questioni filosofiche sulle quali non riusciva a trovare risposte soddisfacenti. Si rivolse anche al  califfo almohade al-Rashid per scoprire la dimora d’ìbn Sabin di Murcia che era il più celebre filosofo del Magreb e della Spagna al quale  fece pervenire il documento.

I punti sui quali l’imperatore chiedeva lumi con il testo arabo di Federico e la risposta d’ibn-Sabin sono conservate (scrive Renan) in un manoscritto di Oxford con il titolo Quaestiones sicilianae e sono: L’eternità del mondo; Il metodo che conviene alla metafisica e alla teologia; Il valore e il numero delle categorie; La natura dell’anima.

La risposta d’ibn-Sabin, scrive Renan, che il sapiente inviò all’imperatore con tutte le precauzioni che egli fu obbligato a prendere sulla sua opinione, era stata piuttosto imbarazzante in quanto sui punti delicati (sic!), egli chiedeva un incontro personale con l’imperatore, ovvero, lo pregava di inviare qualcuno al quale egli avrebbe dato la risposta in segreto! A sua volta egli chiede di porre le questioni in maniera più oscura e più difficile da comprendere in quanto, egli diceva “in questo paese quando ci si occupa di questi argomenti gli spiriti sono più taglienti delle spade e delle cesoie; [...] se i nostri dottori avessero la certezza che io abbia risposto  ad alcuna delle domande, essi mi riguarderebbero con gli stessi occhi delle questioni stesse, e io non so se Dio, nella bontà della sua potenza mi toglierebbe dalle loro mani”!

Ibn-Sabin non vide mai Federico e, a dire il vero, il tono pedantesco e impertinente che egli si credette obbligato ad avere nei confronti dell’imperatore per blandire i pregiudizi dei suoi compatrioti, conclude Renan,  non era di tal natura, da rendere possibile il suo soggiorno alla corte del geloso imperatore.

Altre questioni dello stesso genere ci sono pervenute da parte del giudeo Juda ben-Salomon Cohen (1215-1247), autore di una enciclopedia filosofica; l’ebreo  rispose in arabo e venuto in Italia, tradusse l’enciclopedia (L’esposizione della scienza-Midrash ha-hohmah) dall’arabo in ebreo: A imitazione dell’universo come lo concepivano molti filosofi medievali, l’opera è divisa in tre sezioni, una dedicata alla scienza fisica, ossia al mondo della generazione e della corruzione, la seconda alla scienza matematica ossia al mondo delle sfere e la terza alla scienza divina, ossia al mondo spirituale.

E’ fuori dubbio che Federico II con molti dei dotti della sua corte fossero averroisti.

                                                                        

 

 

AVICENNA

IBN SINA

 

A

Abu ‘Alì al-Husain ibn Abdallah ibn-Sina (980-1037), persiano, il più celebre dei medici arabi, aveva acquistato una grande reputazione di filosofo e aveva chiuso il periodo d’oro della filosofia islamica d’Oriente.

La sua precocità negli studi, la sua intelligenza e la formidabile memoria lo avevano portato all’età di dieci anni a conoscere perfettamente il Corano e ad avere notevoli cognizioni di letteratura, teologia, algebra e aritmetica indiana (appresa da un fruttivendolo che teneva la sua contabilità con quel sistema).

Aveva avuto come istruttore il filosofo Abu Abdallah an-Natili che gli aveva messo nelle mani l’ Isagoge di Porfirio, Euclide e l’ Almagesto di Tolomeo; a  quattordici anni ibn-Sina aveva spiegato al suo maestro la “logica” aristotelica e an-Natili a quel punto ritenne fosse giunto il momento di aver adempiuto al suo compito di maestro e di andarsene.

Avicenna era portato a studiare da solo e da solo studiò le scienze naturali e la medicina in cui fu seguito da un medico cristiano, Isa ben Ya’hya, e a sedici-diciassette anni aveva acquisito una tal reputazione nel campo medico che il sultano di Bukkara Nou’h ben Mansour  affetto da una grave malattia, lo fece chiamare e ibn-Sina riuscì a guarirlo e fu così assunto a corte, dove ebbe a disposizione l’intera biblioteca del sultano e la possibilità di perfezionare tutte le branche del sapere umano.

A questa età ebbe il primo approccio con la “Metafisica” di Aristotele che però gli risultò ostico: Aveva letto questo testo, senza capire nulla. Il disegno del testo gli si presentava “oscuro”. Lo aveva letto per quaranta volte, riferiva, fino ad imparalo a memoria “tuttavia non riuscivo ad afferrare il contenuto e il disegno del suo autore”.

Con disperazione si era convinto che non v’era mezzo per comprenderlo, fino a quando non gli era capitato tra le mani, acquistato a poco prezzo al mercato dei libri, il “Disegno della Metafisica” di al-Farabi che gli apriva la strada dell’aristotelismo; ne era stato tanto felice da precipitarsi in strada ad elargire elemosine: Furono questi due testi a segnare tutta la sua vita.

A diciotto anni  aveva completato la sua cultura, con la conoscenza di tutte le scienze.

La sua produzione fu immensa e non lo fermarono la vita avventurosa (descritta nella biografia “La vita di Ibn-Sina” dal suo discepolo Djordjani-Sornanus); la passione per le donne e il vino non gl’impedirono di scrivere in qualunque situazione si trovasse, a cavallo come in prigione.

Furono gli abusi sessuali, gli strapazzi e una colica con complicazioni epilettiche, curata con una massiccia dose di medicinali a condurlo alla morte a cinquantasette anni (che per quei tempi e per quello che aveva realizzato non era neanche poco).

Scrisse un centinaio di opere in persiano e arabo, che abbracciavano le scienze come la filosofia; tradusse Euclide, fece osservazioni astronomiche ed escogitò uno strumento per valutare le frazioni delle divisioni di una scala graduata; compì studi sul moto, la forza, il vuoto, la luce, il calore e la gravità specifica, la formazione delle montagne e dell’azione dell’acqua e del vento; il suo trattato sui minerali fu una delle principali fonti di geologia in Europa, fino al XIII secolo

Le sue maggiori opere furono il “Qanum fi-l-Tibb-Canone di medicina” e il “Kitab al-Shifa-Il Libro della guarigione” (dell’anima); una Enciclopedia di diciotto volumi di matematica, fisica, metafisica e musica (del quale “al-Najat” ne costituiva un riassunto, per gli amici!); la grande opera filosofica era il “Kitab al-Imsaf” (Libro del giudizio imparziale) in cui Avicenna studiava ventottomila problemi filosofici, andata distrutta nell’incendio di Isfahan, della quale è pervenuto il frammento della “Filosofia orientale”.

Tra le sue opere minori  è da ricordare  “Hayy ibn Yaqzan” (Racconto di Hayy, ripreso da ibn-Tufail) con pagine sublimi sull’anima umana che raggiunge la più alta conoscenza a cui possa giungere la conoscenza di Dio, rappresentato come il Re creatore.

L’influenza che le sue opere ebbero in Occidente, nelle scienze come in filosofia e teologia  fu immensa; influsso che si trova nelle opere del celebre medico danese Henrik Harpaestraeng (1180-1244).

Il traduttore spagnolo Domenico Gundisalvi (XII sec), tradusse “al-Shefa” (al-Shifa-La guarigione), la “Metafisica”, il “Libro dell’anima” e “Del cielo”; Michele Scoto (1175-1232/6), astrologo di Federico II, aveva tradotto De Coelo, De genaratione et corruptione, Meteorologiche, De Anima, De Animalibus (Gli animali) e la Metafisica di Aristotele; l’alchimista e filosofo catalano Arnaldo di Villanova  (1240-1313), autore del “Commentario al regime salernitano”, aveva tradotto il trattato sulle “Malattie di cuore” (1282).

In medicina Avicenna  ebbe tutta la sua autorevole influenza, e fu citato da medici come  Guglielmo da Saliceto (1210 c.a-1277), che aveva insegnato a Bologna, Verona, Pavia, autore del trattato latino “Cyrurgia”; dal suo discepolo Lanfranco (m. 1306) fondatore della scuola di chirurgia e dal chirurgo francese Guy de Chauliac (1300-1368), autore del celebre trattato di chirurgia “Inventorium sive collectorium partis chirurgicalis medicinae”.

Soltanto nel Rinascimento si ebbe una forte opposizione nei suoi confronti, e contro la sua anatomia da parte di Leonardo, mentre Paracelso bruciò il “Canone” e non c’è da meravigliarsi, perché nel Rinascimento era iniziata la dissezione dei cadaveri (eseguita proprio da Leonardo) mentre Avicenna aveva dato il suo grande contributo nella “medicina teorica” da lui resa “scienza razionale”.   

In Occidente e nella medicina, nessuno di coloro che esercitava l’arte medica poteva ignorarlo; non solo circolavano parti del “Qanum” come il trattato sulle “Febbri” e sulle “Malattie degli occhi” ma anche  le opere minori come il “Trattato del polso” e quello sulle “Malattie di cuore”, e chi non aveva possibilità di avere i suoi testi, ricorreva alla “Urgùzah fi-t-tibb” la c.d. “Cantica di Avicenna”, su menzionata.

In filosofia, il pensiero filosofico di Avicenna ebbe grande successo in Europa in quanto considerato come un semplice commentatore di Aristotele; Avicenna invece esponeva sì le idee di Aristotele, ma le aveva fatte sue, personalizzandole.

La sua speculazione filosofica, che si ricollegava ad al-Kindi e al-Farabi, fu in parte accettata ed in parte aspramente combattuta dai pensatori che lo seguirono.

Egli aveva cercato di conciliare la concezione neoplatonica di Dio come Uno, con quella aristotelica di Dio come Atto puro e fu posto sulla linea neoplatonica e agostiniana, in base all’idea che completasse Aristotele che aveva curato poco la trattazione dell’origine del mondo e di Dio.

Avicenna parlava degli “angeli”, dell’immortalità dell’anima, dell’illuminazione dell’intelligenza dall’alto, cercando un accordo tra la ragione e la fede su cui invano si era cimentata la Scolastica.

Tutta la filosofia occidentale e la stessa teologia furono pervase dal pensiero di Avicenna, da Alberto Magno a s. Agostino a s. Tommaso con l’intero “tomismo”; Ruggero Bacone (1214-1294) lo considerò “la più grande autorità filosofica dopo Aristotele”.

Senza Avicenna, considerato da al-Ghazali (il distruttore della filosofia!) “miscredente”, in Europa non vi sarebbe stata la “Scolastica”; la Metafisica di Avicenna costituiva infatti la “summa” che i pensatori latini avessero raccolto nella “Scolastica”, che nei suoi termini e nelle sue idee è da ritenere assolutamente inscindibile dalla filosofia di Avicenna.

Ma anche nel Rinascimento in cui, come abbiamo visto, Avicenna veniva combattuto sul piano dell’anatomia, troviamo una corrente spiritualista che faceva capo proprio a lui e che aveva trovato un rinnovato interesse da parte di Andrea Alpago (1450-1522), medico, orientalista e traduttore del “Canone” e degli opuscoli filosofici quali il “Compendium de anima”, “De mahad” (Sulla resurrezione dei corpi), degli “Aphorismi de anima”, “De diffinitionibus et quaesitis”, “De divisione scientiarum”, testi di carattere religioso-esoterico, che erano stati ignorati nel medioevo ed apportavano nuove conoscenze sul suo pensiero.

Ma poi giunsero le traduzioni di Averroè e le università dell’Occidente se ne  appassionarono (non senza forti contrasti), introducendolo nella Scolastica e  considerandolo una sua colonna portante.

 

 

AVERROE’

IBN RUSHD

 

Avicenna e Averroè arabi che si erano

ispirati al greco Aristotele

hanno dominato per oltre sei secoli

la cultura dell’Occidente attraverso

la Scolastica i cui studi si erano

prolungati presso l’Università di Padova

fino al XVIImo secolo;

la loro eredità è stata

la razionalità, concretezza e fattività

che si ritrova nella popolazione

 dell’Italia del Nord in particolare del Nord’Est

che attualmente rappresenta

uno dei territori più avanzati d’Italia

 

 

    Averroè-IbnRushd

 

 

A

bu ‘l  Walid Muhammad ibn Ahmad ibn Muhammad ibn Ahmad ibn Rushd al Hafid (1126-1198), musulmano di Spagna (Toledo), il  “Commentatore” per eccellenza, “ch'el gran comento feo” (Dante - Inf. Canto IV); il maggior filosofo che aveva chiuso la corrente dell’Islam Occidentale; anch’egli medico, ma la fama di medico era stata oscurata da quella di filosofo di Aristotele; il suo Gran Commentario comprende Grandi Commenti, Commenti medi e Compendi o Sinossi (o Epitomi) (*).

Averroè  era anche esperto in diritto ed era stato giudice a Siviglia e giudice supremo a Cordova; accusato di eresia, fu confinato a Lucena dove gli giunse il  perdono (1198) in tempo per morire in pace; fu sepolto a Marrakesh.

La sua enciclopedia medica “Kitab al-Kulliat fi-l-tibb” tradotta in latino entrò in tutte le università cristiane d’Europa; l’emiro Abu Yaqub, aveva dato incarico a ibn-Tufail di scrivere una chiara esposizione del pensiero di Aristotele e ibn-Tufail a sua volta si era rivolto ad Averroè che era giunto alla conclusione che tutta la filosofia di Aristotele contenuta nei suoi testi…”bastava interpretarla solo per renderla moderna ed attuale per qualsiasi epoca”.

Decise quindi di preparare per ciascuna delle sue opere principali un sommario con una breve esposizione e quindi un breve commento accompagnato da un commento particolareggiato per lettori avanzati negli studi; questo metodo espositivo, della esposizione progressiva sempre più complessa, era il metodo seguito nelle università musulmane.

Averroè non conoscendo il greco dovette ricorrere a traduzioni arabe e siriache, ma con la sua pazienza, chiarezza e acutezza d’analisi, fu riconosciuto in Europa, come “il commentatore-tout-court”, e nel mondo musulmano fu riconosciuto secondo solo ad Avicenna.

Scrisse opere di logica, fisica, psicologia, metafisica, legge, astronomia e grammatica e una replica alla “Distruzione” di al-Ghazali che intitolò il suo testo “Distruzione della distruzione” in cui sosteneva che “se una infarinatura di filosofia poteva condurre all’ateismo, un profondo studio porta invece a una migliore comprensione tra ragione e filosofia, che egli riteneva costituisse “una ricerca sul significato dell’esistenza volta a migliorare l’uomo”.

A proposito del mondo (universo) egli lo riteneva “eterno”: I movimenti  celesti non avevano mai avuto inizio e non avranno mai fine e che “la creazione è un mito”.

Solo la visione della verità per mezzo della ragione può condurre la mente alla unione con Dio (che i Sufi ritengono di raggiungere con la disciplina ascetica e le danze frenetiche).

Per la filosofia di Averroé, non vi è posto per il misticismo: Il “Paradiso” era per lui “la calma alla benevola saggezza del sapiente”; Ruggero Bacone (v. sotto), aveva messo Avicenna al secondo posto dopo Aristotele, seguito da Averroè, scrivendo che “la filosofia di Averroè, oggi (1270) ha l’unanime consenso dei sapienti”.

La "filosofia araba”, giunta alla fine del suo sviluppo, si rifaceva a un Aristotele neoplatonizzato; ma mentre in molti filosofi musulmani e cristiani le dottrine di Aristotele  venivano deformate  per essere adattate alle proprie credenze teologiche,  in Averroè sono invece i dogmi islamici ad essere ridotti al minimo per riconciliarli con il pensiero aristotelico.

Questa fu la ragione per la quale Averroé ebbe più influenza nel mondo cristiano che in quello islamico; i suoi correligionari lo perseguitarono e i posteri  musulmani lo dimenticarono e lasciarono che la maggioranza dei suoi lavori nell'originale stesura in arabo, andasse perduta.

Averroè, scrive Renan, rappresenta un duplice personaggio (oltre aad aver avuto un duplice destino **): Da una parte vi é l'Averroé del Gran Commentario (v. nota sopra), l'interprete per eccellenza di Aristotele; dall'altra l'Averroè del Campo Santo (riferimento a Orcagna che nell'affresco del Cimitero di Pisa lo aveva messo nell'Inferno ndr.), il blasfematore delle religioni, il padre dei non credenti; e conclude: Mentre nel XIImo sec. il nome di Averroè era pressoché sconosciuto, nel XIVmo  invece vi era un drappo che portava il suo nome (***).

 

*) Il Gran Commentario di Aristotele “Kitab al-Kulliat fi-l-tibb”, costituito da Commento grande (Sharh), Commento medio o compendio breve (Telkhis), scritto in arabo, pervenuto in versioni latine medievali o del principio del sec. XVI.

L’opera è divisa in tre gruppi, nel primo di commenti interi di cui restano i commenti sugli Analitici secondi, sulla Metafisica, sull'Anima  e sul Cielo; nel secondo gruppo i commenti sono più brevi e il testo aristotelico non è riportato per intero; nel terzo gruppo di opere il testo non è riprodotto, ma è liberamente riassunto dall'autore il quale parla a nome proprio, combina le fonti più diverse (greche e arabe)  e tratta più che delle opere di Aristotele, delle scienze che da esse prendono nome. E’ in ogni caso da tener presente che l’Aristotele di Averroè non è quello autentico, ma è visto attraverso la scuola alessandrina, in particolare di Alessandro di Afrodisia (II sec.-III sec.) con accenti di derivazione neoplatonica; l'opera ebbe grande influenza sulla Scolastica del sec. XIII e XIV sì da creare il c.d. “averroismo latino”. Tommaso d'Aquino lo adottò per modello, seguendo il suo sistema di esposizione e commento e pur confutando quelli che ritenne in esso errori e pervertimento della tradizione peripatetica (in particolare l'unità dell'intelletto), parlò sempre del commentatore arabo con rispetto e considerazione.

**) La sorte di Averroè, scrive Renan, è stata quella di aver avuto un duplice destino, l’uno nell’insegnamento classico e l’altro per la gente di mondo e per i libertini; questi due ruoli erano connessi; infatti, l’abuso che si è fatto del suo nome è stato dato dall’autorità che egli aveva avuto nelle scuole; questi due ruoli, prosegue Renan, erano tuttavia collegati l’uno all’altro: L’abuso che si faceva di Aristotele era incoraggiato dall’autorità magistrale che egli otteneva nelle scuole e si può dire che il Gran Commentario si fosse naturalizzato nel Nord Italia dove il nome di Averroè era divenuta un “mot de passe-una parola d’ordine”- non si poteva aspirare al titolo di filosofo d’ingegno se non si giurava su Averroé.

***) In proposito rileviamo che verso la metà del XIII sec. tutte le opere importanti di Averroé erano state tradotte, fu solo verso la fine del XIIImo secolo, come vedremo più avanti, che Averroé fu presentato come nemico della fede, sopratutto da Raimondo Lullo (v. sotto), mentre trovava favore presso i mistici medievali, in particolare della scuola francescana, come Ruggero Bacone, Giovanni Duns Scoto, Okkam e nell’Università di Parigi, stabilendosi poi per merito di Pietro d’Abano presso l’Università di Padova fino a Cremonini nel sec. XVIImo.

 

 

AVERROE’

E L’AVERROISMO

DI ERNEST RENAN

 

 

E

rnest Renan (1823-1892) nel  testo Averrois et l’averroisme” (Parigi, 1852),  sebbene si ponga su una posizione critica nei confronti della Scolastica e della stessa Scuola di Padova che riteneva “colpevole di averla perpetuata, in quanto, la Scolastica rappresentava il vecchio”, esso costituisce una pietra miliare nella storia della filosofia del medioevo e su Averroé e l’averroismo (tutt’ora rimasto insuperato e ancora oggi non accettato da quello Studio, probabilmente per non far ombra a qualche più recente lavoro di minor rilievo), che esamineremo più specificamente, dopo averne tracciato le linee generali.

A seguito delle persecuzioni che la filosofia araba aveva subito nel XII secolo (v. al-Ghazali in Articoli: La scienza araba alle origini della cultura Europea P. II), il pensiero di Averroè con la sua grande opera (“Commento” ad Aristotele v. nota sopra), che si fondavano su un razionalismo che rispecchiava la tradizione greca, nei paesi a dominazione araba finirono nell’oblio.

Non in Occidente dove Averroé continuerà a vivere fino al Rinascimento e oltre, sebbene fortemente combattuto da cattolici scolastici a causa del razionalismo al quale egli si ispirava relativamente alle questioni riguardanti  problemi strettamente filosofici (come si vedrà con san Tommaso, sotto), in particolare l’unità dell'intelletto e dell’intelletto attivo e passivo.

Il pensiero di Averroè, che negava miti e concezioni arbitrarie in religione come in filosofia, era stato inteso, da una parte come negatore dell'immortalità dell'anima e dall’altra come sostenitore di un aristotelismo scientifico, negatore di sopramondi; egli  sarà fortemente avversato da quanti (Alberto Magno, Tommaso d'Aquino, Petrarca) tratteranno Aristotele (vissuto circa quattro secoli prima dell’avvento del cristianesimo) da credente cristiano!

Averroè (come interpretato dai pittori medievali, v. sotto) diviene presto simbolo di incredulità, empietà e miscredenza, anche se Dante testimonia la sua stima per il “gran comento” e, non essendo Averroé un cristiano, lo relega nel Limbo (Inf. IV-144), in ogni caso, tra gli spiriti eletti.

La scuola di Padova coltiverà le tendenze averroiste, nell'interpretazione positiva di Aristotele da parte di Pietro d'Abano, Pomponazzi e vari altri studiosi, facendo emergere una vitalità avversata  solo dal platonismo di Ficino e dall'umanesimo di Vives e di Pico della Mirandola.

Ma Cesalpino, Cardano, Vanini, pur tra accuse di empietà, riconoscono  “ lo spirito di chi dà inizio a un indirizzo di ricerca di un pensiero indipendente da ogni autorità ecclesiastica e per una religione che sia volontà interiore e non attributo di autorità” (Diz. Biografico Bompiani).

L'opera del Renan, come abbiamo detto, costituisce  una pietra miliare nello studio della storia della filosofia che rifuggendo da atteggiamenti dogmatici, afferma un proprio e autonomo metodo storico.

 

 

SAN TOMMASO

E

ALBERTO MAGNO

 

 

S

embrerebbe un paradosso, scrive Renan, ma Tommaso d’Aquino  (1225-1274) è stato nello stesso tempo il primo discepolo del Gran Commentario e il più forte avversario della dottrina averroista; come Alberto Magno (*) (1206-1280), doveva tutto ad Avicenna, Tommaso (**), come filosofo, doveva pressappoco tutto ad Averroé.

E bene ricordare, prosegue Renan, che Averroé è il creatore della “forma” del Gran Commentario; Avicenna e Alberto sono stati imitatori: Avevano composto trattati con gli stessi titoli e sugli stessi soggetti di Aristotele, senza però far distinzione nelle loro glosse, relativamente ai riferimenti dei sui testi.

Averroè e san Tommaso, al contrario, prendono pezzo per pezzo il testo di Aristotele facendo seguire a ciascuna frase il lavoro di una paziente esegesi; uno solo dei commentari di Alberto, quello della Politica, scritto dopo aver letto san Tommaso, è stato composto seguendo il metodo di Averroé e san Tommaso: Alberto è “parafraste” (colui che fa parafrasi  ndr.), al contrario Tommaso è commentatore.

Che cosa ha voluto dire, si chiede Renan, Tolomeo di Lucca quando dice che sotto il pontificato di Urbano IV (1261-1264), Tommaso commentava la filosofia di Aristotele “quodam singulari et novo modo tradendi” ?  (in certo senso singolare e nuovo modo di tradurre); da dove san Tommaso aveva appreso quel nuovo modo di commentare, per lui sconosciuto? Non esito a dire, risponde Renan, dal commentatore per eccellenza, da Averroé.

Così il grande ruolo di Averroè tra i filosofi scolastici è già perfettamente caratterizzato in san Tommaso; vi è da una parte il grande interprete di Aristotele, tenuto in considerazione e rispettato come  maestro, dall’altra fondatore di una condannabile dottrina, rappresentante del materialismo e dell’empietà, un eresiarca: Tra le prime di quelle enumerate da Guglielmo di Tocco, allievo di san Tommaso, quella che insegnava che non vi è che un solo intelletto, errore ritenuto sovversivo perché in questo caso non vi sarebbe più alcuna differenza tra gli uomini e vediamo, scrive Renan, trionfare il dottore angelico sull’infedele, e vediamo che il tema era divenuto l’argomento favorito delle scuole di pittura di Pisa e Firenze.

San Tommaso, con Guglielmo d’Auverne e Alberto Magno, fa portare tutti gli sforzi della polemica contro le proposizioni eterodosse del peripatetismo arabo, quali la materia prima e indeterminata, la gerarchia dei primi principi, il ruolo intermediario della prima intelligenza allo stesso tempo creata e creatrice, la negazione della provvidenza e sopratutto l’impossibilità della creazione.

San Tommaso dopo averlo ripetuto in Summa Theologiae, Summa contra gentiles, nel Commentario sul trattato dell’anima e nelle Quaestiones disputatae de anima (Questioni disputate dell’anima), aveva scritto appositamente il suo pensiero nel De unitate intellectus contra Averroistas (Dell’unità dell’intelletto contro gli averroisti).

Ciò che indigna san Tommaso è vedere dei cristiani farsi discepoli di un infedele e preferire alla autorità di tutti i filosofi, e preferire quella di un uomo che merita meno il titolo di peripatetico di quello di corruttore della filosofia peripatetica.

Né Aristotele, né Alessandro di Afrodisia, né Avicenna, né Alcazel e tantomeno Teofrasto e Temistio, prosegue Renan, si sono mai sognati di parlare di questa strana dottrina dell’unità dell’intelletto: Tutti hanno  visto l’intelletto come individuale e proprio di ciascun uomo; e senza di esso che cosa resterebbe della personalità umana? E la diatriba prosegue sul piano filosofico.

Renan conclude che gli attacchi contro Averroé sembrano legarsi per san Tommaso e la scuola domenicana al desiderio di salvare l’ortodossia dal peripatismo (leggasi Aristotele! ndr.) sacrificando gli interpreti e sopratutto gli arabi; del resto, precisa Renan, nel De unitate intellectus, a parte qualche dura parola, san Tommaso è ben lontano dal trattare Averroé come empio e a farlo oggetto della rabbia che troviamo in Raimondo Lullo e Petrarca; per san Tommaso e per Dante, Averroè è un saggio pagano degno di pietà, ma non un blasfematore degno di esecrazione; a lui si deve troppo per poterlo condannare; Averroè non era ancora divenuto il porta stendardo dell’incredulità e non ancora aveva preso posto nelle bolge dell’Inferno: il vigoroso astio che la Scuola domenicana aveva riversato nei confronti della filosofia araba,cocnlude Renan, l’aveva seguito per tutta la durata della Scolastica.

 

 

*) Di Alberto Magno pubblichiamo in Specchio dell’Epoca: Il pensiero medievale: L’influenza degli astri nella formazione del feto secondo Alberto Magno.

**) Scrive Bruno Nardi (1896-1968) in (Saggi sull’Aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI,  Sansoni Editore 1958, “malgrado tutto quello che S. Tommaso aveva scritto contro l'averroismo, anzi malgrado le condanne da parte del vescovo di Parigi, l'averroismo continuò ad avere una vita assai prospera per ben tre secoli”.

 

 

GLI AVVERSARI   

DI AVERROE’

 

G

li avversari più dichiarati dell’averroismo, scrive Renan. sono stati  Egidio di Roma (De erroribus philosophorum) Guglielmo d’Auvergne, Alberto Magno e san Tommaso; il testo di Egidio non è che una lista di proposizioni eretiche tratte dai filosofi arabi, Alkindi, Avicenna, Averroè, Maimonide (ebreo); per Egidio, Averroé è il disprezzatore delle tre religioni e il primo autore della dottrina secondo la quale tutte le religioni sono false sebbene possano essere utili (come affermerà in seguito Freud! ndr.); Egidio è stato autore di numerosi trattati contro ciascuno degli errori di Averroé (De materia coeli contra Averroem, De intellectu...contra Averroym ecc.) riassumendo le diverse tesi in “Quodlibeta” (Qualsivoglia), importante nella storia dell’averroismo in quanto Leibniz, scrive Renan, non poteva non aver conosciuto Averroé se non attraverso questo passaggio.

Gerardo di Siena, discepolo di Egidio, continua l’attacco del suo maestro nel XIVmo secolo: La dottrina dell'unità delle anime, egli dice, è una eresia; sarebbe come dire che l'anima dannata di Giuda sia identica a quella di san Paolo;  Nicola Eymeric (autore del Directorium Inquisitorum) è dello stesso parere per ciò che concerne la filosofia araba e specialmente Averroé (che costituiscono una riproduzione pressoché letterale del De erroribus, precisa Renan): La dottrina della unità delle anime, egli dice, è una eresia, perché ne consegue che l’anima dannata di Giuda sia identica all’anima santa di san Paolo!

Il vero Averroé, commenta Renan, è già scomparso dietro l’Averroé non credente; questo empio ha negato la creazione, la provvidenza, l’efficacia della preghiera, dell’elemosina, delle litanie, l’immortalità, la resurrezione e il sovrano è stato messo davanti alla voluttà!   

 

 

RAIMONDO LULLO

E L’ARS MAGNA

 

 

M

a l’eroe di questa crociata contro l’averroismo, prosegue Renan, è stato Raimondo Lullo (*) (1232-1316) per il quale l’averroismo era l’islamismo in filosofia e la distruzione dell’islamismo, si sa, è stato il sogno della sua vita e tra il 1310 e 1312 lo zelo di Lullo raggiunse il parossismo; lo troviamo a Parigi, Vienne, Montpellier, Genova, Napoli, Pisa inseguito da questa idea fissa, rifiutando Averroé e Maometto con la combinazione dei cerchi magici della sua Grande Arte.

Al Concilio di Vienne, indirizza tre richieste al papa Clemente V: La creazione di un nuovo ordine militare per la distruzione dell’islamismo (si legga distruzione di massa degli islamici! ndr.); la fondazione di un Collegio di studi dell’ arabo; la condanna di Averroé e dei suoi partigiani; Raimondo voleva la soppressione assoluta nelle scuole delle opere del Commentatore, con divieto di leggerlo per tutti i cristiani (ma non sembra che il Concilio, commenta Renan, abbia preso in considerazione alcuna delle sue domande).

Parigi fu il teatro della esplosione di Lullo contro gli averroisti; preso da raptus di fanatismo (ndr.), aveva consegnato una risma di piccoli trattati e sermoni (almeno tredici, datati dal 1310 al 1312) con i processi verbali delle sue dispute (la più ingegnosa portava il titolo “De lamentatione duodecium principiorum Philosophia contra averroistas” (Dei lamenti (meglio, Contestazioni) sui dodici principi filosofici contro gli averroisti) del 1310 dedicata a Filippo il Bello (**).

Ciò che aveva determinato la rivolta parigina di Lullo era stata la distinzione della verità teologica dalla verità filosofica (che si vedrà discutere con calore in Italia durante il Rinascimento) e che dal XIIImo  al XVIImo secolo era stato il bersaglio dell’incredulità.

 

*) Raimondo Lullo, figlio del siniscalco di Giacomo I d'Aragona,  aveva avuto una giovinezza burrascosa, turbolenta e licenziosa; pur avendo una moglie e dei figli, dopo aver diviso i suoi beni tra costoro si ritirò nella solitudine per coltivare l'idea della conversione dei musulmani. Per imparare l'arabo aveva preso uno schiavo musulmano che (certamente per il carattere del suo padrone!) non aveva trovato di meglio che attentare alla sua vita; dopo essersi salvato e ristabilito fonda un monastero per l'apprendimento dell'arabo per formare dei missionari; dopo i suoi viaggi in varie città dell'Europa  si reca in Africa dove a Tunisi è condannato a morte e riesce a fuggire grazie alla protezione di un sapiente arabo.

Nel 1311 partecipa a un Concilio a Vienne (Francia) e qui riceve una lettera del re Edoardo II d'Inghilterra che lo invita a Londra dove Raimondo si reca, ma viene bloccato nella Torre perché il re vuole che gli produca l'oro dal mercurio...e Raimondo dopo aver trasmutato mercurio e stagno in cinquantamila libbre d'oro (!), fugge da Londra e torna in Africa dove si mette a predicare, ma la popolazione indispettita, lo lapida; è raccolto da genovesi che ancora respirante, lo caricano sulla loro nave; non fa a tempo a giungere a destinazione che muore in vista di Palma, dove era nato e dove fu sepolto nel monastero dei francescani (1313).

Lullo si era creato uno slogan: “Credo fidem esse veram et intelligo  quod non est vera” (credo vero secondo la fede ciò che so essere falso secondo la ragione); aveva scritto opere di vario genere, ma la sua opera maggiore è stata l’ “Ars Magna  compendiosa per trovare la verità” consistente nella esposizione e applicazione della tecnica di ricerca e dimostrazione della verità, contenente la precettistica esposta nelle sue altre numerose opere.

Si tratta di una meccanica logica nella quale i soggetti e i predicati di proposizioni teologiche sono disposti in circoli concentrici, quadrati, triangoli e altre figure geometriche destinate a far cogliere nell’immagine, la perfetta corrispondenza e armonia dei tre ordini che abbracciano l’universalità degli esseri: Dio, l’Uomo e il Mondo; al centro c’é Dio;  facendo girare il cerchio le proposizioni si dispongono da sé in forma positiva o negativa; inutile dire che la lettura è complessa ed estremamente pesante, ma spogliata dal simbolismo, l’Ars magna costituisce un metodo deduttivo analitico e sintetico per fondare la scienza universale.

**) In esso, secondo il gusto del tempo introduce “la signora Filosofia” che si lamenta degli errori che gli averroisti attribuiscono al suo nome: Io non sono, essa diceva, che l’umile servente della Teologia.

 

 

I DUE PRIMI CENTRI

DELL’AVERROISMO:

LA SCUOLA FRANCESCANA

E L’UNIVERSITA’ DI PARIGI

 

 

I

 due centri dell’averroismo del XIIImo secolo, scrive Renan, sono stati la Scuola francescana e l’Università di Parigi; la Scuola francescana appariva molto meno ortodossa della scuola domenicana, uscita da un movimento popolare irregolare troppo poco ecclesiastico e poco conforme alle idee di disciplina e gerarchia.

L’Ordine di san Francesco non perdette mai il sentimento della sua origine; e mentre i domenicani, fedeli alla direzione che proveniva da Roma, correvano per il mondo come segugi della Chiesa per scovare gli eretici e fare all’eterodossia la rude guerra del sillogismo e del carnefice, i francescani non cessavano di produrre ardenti spiriti.

Non a caso, prosegue Renan, allo spirito francescano si collegano tutti i movimenti democratici e comunisti come il catarismo, gioacchinismo e del vangelo eterno, terzo ordine di san Francesco, begardi, lollardi, bizocchi, fraticelli, fratelli spirituali, umiliati, poveri di Lione sterminati dai macellai domenicani; l’Ordine non cessò di produrre una lunga serie di pensatori come Elia, Jean d’Olive, Duns Scoto, Okkam, Marsilio da Padova.

Fondatore della Scuola francescana è stato Alessandro di Hale (1183-1245), il primo degli scolastici ad accettare e a propagare l’influenza della filosofia araba; il suo successore Jean de la Rochelle, seguì la stessa tradizione e adottava per proprio conto quasi tutta la psicologia di Avicenna,

La maggior parte delle proposizioni (*) condannate (1277) dal vescovo di Parigi Etienne Tempier appartenevano alla Scuola francescana. e quelle attinte dai discepoli, le più audaci di Alessandro di Hales,  alle glosse e alle malfamate di Avicenna e Averroé.

Lo stesso anno il domenicano Robert di Kilwardby, arcivescovo di Canterbury, in un Concilio tenuto a Oxford, centro della Scuola francescana,  aveva censurato pressappoco identiche proposizioni.

L’intervento dell’arcivescovo Tempier era stato determinato dalla circostanza che in questo periodo (1269), in particolare dopo la morte del papa Alessandro IV (1261), Parigi pullulava degli errori averroisti, vale a dire contro le tesi dell’unità delle anime e dell’unità dell’intelletto, professati dai maestri di quella Università.  

 

*) Raimondo Lullo (v. sopra) scriverà Declaratio Raymundi  per modum dialogi (Dichiarazione di Raimondo a forma di dialogo) o Liber contra errores Boeti et Sigeri è un Commentario delle 219 proposizioni ricavate da maestri averroisti, specie Boezio di Dacia e Sigieri o semplicemente peripatetici e da libri di necromanzia e altre superstizioni: I filosofi antichi, sostiene Raimondo, hanno errato perché ignoravano i grandi principi cristiani sulla vita divina, l’incarnazione, la creazione e la resurrezione universale; non Aristotele e Platone ma Cristo è la via vera e la vita. 

 

 

LA SCUOLA DI OXFORD

E IL PENSIERO DI

RUGGERO BACONE

 

 

I

l rispetto con cui il francescano Ruggero Bacone (*) (1214-1294), parla di Averroé, prosegue Renan, prova che egli nel suo Ordine aveva trovato sul filosofo tradizioni differenti da quelle dell’Ordine domenicano; Avicenna, sostiene Bacone, è stato il primo a mettere in luce la filosofia di Aristotele, ma aveva subìto dei duri attacchi da coloro  che lo seguivano, perché Averroé, il più grande dopo di lui, li aveva contraddetti oltre misura.

La filosofia di Averroè, prosegue Bacone, è stata per lungo tempo negletta, respinta e riprovata dai più celebri dottori, ma ottiene oggi l’unanime suffragio dei sapienti; poco a poco la sua dottrina degna della stima generale, sebbene possa essere criticata su alcuni punti, è stata molto apprezzata; dopo Avicenna, aveva scritto Bacone, è arrivato Averroé che con la sua solida dottrina aveva corretto ciò che aveva detto il suo predecessore e aveva precisato alcuni punti che dovevano essere corretti, e alcuni altri li aveva completati.

Il capitolo generale tenuto ad Assisi (1295) si vide obbligato a reprimere severamente il gusto delle giovani leve dell’Ordine per le sottigliezze e le opinioni “esotiche”; è pur vero, che nell’ambito dell’Ordine vi sono stati degli oppositori dell’averroismo tra i quali Guglielmo Lamarre e Duns Scoto il quale a proposito della tesi dell’intelletto separato la trova così assurda che l’autore gli era parso degno di esser messo al bando del genere umano; Scoto, prosegue Renan, porta tanto all’estremo la dottrina della pluralità delle anime e della moltiplicazione delle entità psicologiche, che poco mancava che  ammettesse, come Origene, che le anime vagassero alla ricerca di un corpo!

Duns Scoto e Okkam, ammettendo che Aristotele non ha potuto credere alla immortalità dell’anima e che questa verità non si può dimostrare che per rivelazione avevano preparato la via a pericolose arditezze: Vedremo infatti sortire nel XIVmo secolo, conclude Renan, dall’averroismo più deciso, le due direzioni tracciate da Scoto e Okkam.

La Scuola mistica, che si collega per tanti tratti alla Scuola francescana, fa molto uso della psicologia araba.

I mistici tedeschi del XIVmo secolo, scrive Renan, sopratutto Ekkart, amano utilizzare le ipotesi dell’intelletto attivo e passivo per dimostrare le loro teorie dell’unione con Dio; in un trattato di questa scuola, composta in tedesco nel XIV sec. sull’intelletto attivo e possibile, Averroé e Aristotele sono citati come autorità serie.

 

*) Filosofo, teologo scienziato, Bacone era denominato Doctor mirabilis; era stato anche alchimista ma delle diverse opere che gli furono attribuite nessuna sarebbe opera sua e quel poco che gli appartiene, è stato detto, sarebbe di un tale caos da renderlo incomprensibile; la sua opera maggiore è stata l’Opus Majus (Opera Maggiore), trattato di matematica, astronomia (in cui sostiene la sfericità della Terra), ottica, con anticipazioni sul microscopio e telescopio, e tante altre invenzioni tra  le quali la formula per la polvere da sparo (già conosciuta dai cinesi, zolfo, salnitro e carbone).

 

 

IL MOVIMENTO

ETERODOSSO

NEL MEDIOEVO

 

 

I

l movimento eterodosso del medio evo, secondo Renan, era diviso in due correnti, una caratterizzata dal Vangelo eterno, comprende le tendenze mistiche e comuniste portate da Gioacchino da Fiore che dopo aver esaurito il XIImo e XIIImo secolo con Giovanni di Parma, Gerardo di San Donnino, Ubertino da Casale, Pierre de Bruys, Valdo, Dolcino e fratelli del libero spirito,  continua nel XIVmo con i mistici tedeschi; e l'altro  si riassume nel blasfemo “Tre impostori”, e rappresenta l'incredulità materialista proveniente dagli studi arabi che si riassumeva nel nome di Averroé.

La religione islamica costituiva una sorta di comparazione e determinava naturalmente l'idea di avere una verità relativa e, scrive Renan,  deve essere giudicata per gli effetti morali che essa produce.

La mescolanza delle religioni in Andalusia, prosegue Renan, dovette ispirare analoghe idee da cui era sorto il deismo di Maimonide (1135-1204) e il suo curioso libro “Kitab al Khazari” (Kuzari)-Libro dei Cazari (tradotto da ibn Tibbon traduttore di Maimonide); il libro era stato scritto (1140) dal filosofo Rabbi Yeuda Halevi, erroneamente attribuito a Maimonide, in cui l’autore fa argomentare l’uno contro l’altro i teologi delle tre religioni monoteiste e un filosofo; da questo libro, precisa Renan, verosimilmente era nato l’affascinante e uno dei più piccanti racconti di Boccaccio dei “Tre anelli”, che aveva ispirato a Lessing l’idea di Nathan il Saggio (Terza novella della Prima giornata: Abraham giudeo, da Giannotto di Civigni stimolato, va alla corte di Roma e veduta la malvagità dei chierici (*), torna a Parigi e si fa cristiano ndr.).

 

*) “Egli trovò dal maggiore al minore, tutti disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo naturale ma ancora sodomitica; la potenzia delle meretrici e dei garzoni in impetrare qualunque gran cosa non v’era di picciol potere; oltre a questo, universalmente golosi, bevitori, ebriachi [...]  e appresso alla lussuria che ad altro gli conobbe apertamente [...]

tutti avari e cupidi di denaro gli vide.

 

E

LA LEGGENDA

DEI TRE IMPOSTORI

 

 

A

verroé, scrive Egidio di Roma nel suo “De erroribus philosophorum”, prosegue Renan, rinnovò tutti gli errori del filosofo [Maimonide, quasi contemporaneo di Averroé, 1135-1204], ma è meno scusabile in quanto egli attacca più direttamente la nostra fede.

Indipendentemente dagli errori del filosofo, dice Renan, egli in vari libri gli rimprovera di aver biasimato tutte le religioni, come si può rilevare dalla Metafisica dove egli biasima senza ragione la legge dei cristiani e dei saraceni, perché ammettono la creazione ex nihilo.

Nel libro della Phisica egli biasima ancora le religioni e chiama le opinioni dei teologi fantasie, come se le avessero concepite per capriccio e non per ragione, e Egidio, riassumendo le dottrine eterodosse di Averroé, gli fa dire “quod nulla lex est vera, licet possit esse utilis” [poiché nessuna legge è vera, (ogni legge) è lecito possa essere utile]; Nicola Eymerich ripete le stesse accuse e gli stessi contro-sensi.

Si vede quindi come senza ragione l’opinione pubblica aveva attribuito ad Averroè il detto dei Tre impostori; questo detto era stato un'arma terribile dei Mendicanti per vincere i loro nemici e utilizzato dal papa Gregorio IX che accusava Federico II di aver detto che il mondo era stato ingannato da tre impostori, che due di essi sono morti nella gloria, e Gesù sospeso a una croce; e per colpire l’immaginazione popolare, dal detto,  si è poi passati al libro, attribuito a Averroè, Federico II, Pier delle Vigne, Arnoldo di Villanova,  Boccaccio, Poggio Bracciolini, Pietro Aretino, Machiavelli, Symphorien Champier, Pomponazzi, Cardano, Bernardino Ochino,  Servet, Guillaume Postel, Campanella, Muret, Girdano Bruno, Spinoza, Hobbes, Vanini, indicati volta per volta come autori di questo libro misterioso; se non m’inganno, aggiunge Renan, Mersenne lo ha visto, ma in arabo,  che non è mai esistito (*).

E stata la formazione della leggenda, prosegue Renan, che ha ritenuto Averroè non credente e delle tre religioni, questo empio, aveva detto che una è impossibile, l’altra, il giudaismo, una religione di bambini, la terza, l’islamismo, la religione dei maiali; poi ciascuno commentava alla propria maniera e faceva pensare a Averroé ciò che non osava dire a proprio nome.

Perché, si chiede Renan, Averroé ha definito la religione cristiana una religione impossibile? E risponde: La pietra dello scandalo era l’eucaristia, che appariva scuotere le coscienze: Un giorno, raccontano, questo miscredente era entrato in una chiesa cristiana e aveva visto che i fedeli  si nutrivano del loro Dio: Orrore, aveva urlato, vi può essere al mondo una setta, quella dei cristiani, che mangia il Dio che adora?

E’ a questo punto che il “disgraziato[Averroé] cessò di credere ad alcuna delle religioni e parodiando il motto di Balham disse:  “Che  la mia anima muoia della morte dei filosofi”.

Altri avevano fatto percorrere ad Averroè tutti i gradi della incredulità; egli aveva cominciato ad essere cristiano, poi giudeo, poi musulmano e infine rinunciò a tutte le religioni; fu allora che egli scrisse il libro dei “Tre impostori”.

Ciascuno faceva Averroé interprete dei propri dubbi, della propria incredulità; non credeva all’eucaristia, dicevano gli uni, non credeva al diavolo, dicevano altri, non credeva all’inferno sosteneva un terzo; Averroé divenne il capro espiatorio sul quale ciascuno scaricava il proprio pensiero di incredulità: “Il cane arrabbiato, colpito da un furore esecrabile, non cessava di abbaiare contro Cristo e contro la fede cattolica”.

In quale epoca, si chiede Renan, si era formata questa singolare leggenda? E risponde: Non si trova nessuna traccia in Alberto Magno e san Tommaso; al contrario Egidio di Roma, Raimondo Lullo, Duns Scoto, Nicola Eymeric, le pitture di Orcagna (v. sotto), Traini, Gaddi, rappresentano  già Averroé come maestro dell’incredulità.

Duns Scoto lo chiama “quel maledetto Averroé”; l’epitteto “impossibile” che Averroè secondo la leggenda aveva applicato al cristianesimo, si trova già menzionato in Raimondo Lullo come una delle parole blasfeme degli averroisti; è dunque probabile conclude Renan, che la maggior parte di questi racconti siano nati verso il 1300, citato nel poema “Le tombel de Chartreuse” (1320-1330); Petrarca lo aveva considerato blasfemo  sulle tre religioni e sull’eucaristia; Benvenuto da Imola commentando il IV Canto dell’Inferno si meraviglia che Dante abbia potuto mettere in un posto onorevole un empio come Averroé che era stato il più orgoglioso dei filosofi, aveva condannato tutte le religioni e aveva ritenuto Cristo come il meno abile degli impostori, perché non era riuscito ad evitare di farsi crocifiggere

 

IL LIBRO DEI TRE IMPOSTORI COME L’ARABA FENICE

*) Il libro, si diceva, inizialmente era circolato in poche copie manoscritte (una si  trovava nella Biblioteca imperiale di Parigi) e poi sarebbe stato stampato e diffuso in Germania  e in Francia (la prima stampa risaliva al 1553) con il titolo: Liber de tribus impostoribus o De tribus impostoribus e attribuito come abbiamo visto, prima di Federico II [per il quale lo aveva scritto Pier delle Vigne] a Federico Barbarossa!

A voler seguire le sue tracce costituiva una specie di araba fenice, in quanto tutti giuravano sulla sua esistenza ma nessuno l’aveva visto...e chi l’aveva visto sosteneva di non averlo potuto avere in prestito per leggerlo. Nel puzzle era stata coinvolta anche la regina Cristina di Svezia (1626-1689) la quale sapeva che il suo plenipotenziario a Munster era in possesso di una copia, ma la regina non aveva fatto a tempo a chiederlo quando era in vita, ma quando le era stata comunicata la sua morte, aveva mandato il suo medico Bourdelot a chiederlo alla vedova; costei  le aveva risposto che il marito prima di morire, per rimorso di coscienza, lo aveva buttato nel fuoco del caminetto della sua camera; la regina poi lo aveva fatto cercare in tutte le biblioteche d’Europa, ma prima di trovarlo era morta!

Solo verso la metà nell’800 il libro veniva diffuso e pubblicato,  suscitando un vasto dibattito; una sua stampa (del 1867 a Parigi-Brusselle), presentata come la più completa (ma il testo in latino e traduzione in francese si interrompe), contiene una elaborata e approfondita “Notizia filologico-bibliografica” di Filomneste junior (Pierre Gustave Brunet 1807-1896), in cui l’autore ne fa una completa cronistoria, e risalendo a Rabelais, dice che Rabelais aveva avuto l’ardire di parlarne, sotto un velo assai trasparente (ma non in tutte le edizioni) del  Pantaguel (v. in Specchio dell’Epoca, L’educazione del giovane feudatario ecc.), mettendo in ridicolo ciò che era oggetto di grande venerazione e che Giordano Bruno e Vanini (che però non citavano la fonte), avevano sviluppato quelle idee nei loro scritti di calcolata oscurità, con asserzioni temerarie che costarono loro la vita.

 

AVERROE’

NELLA PITTURA

ITALIANA

 

 

E

sopratutto nella pittura italiana del medioevo, scrive Renan in queste bellissime pagine dedicate alla pittura italiana del Trecento, che con originalità era apparso il ruolo di Averroé, considerato come rappresentante della miscredenza; l’insegnamento scolastico dei domenicani era talmente penetrato nella cultura del tempo, che l’arte stessa si era impregnata di questi soggetti e di questi personaggi.

Il Capitolo di Santa Maria Novella è a questo riguardo un monumento unico, una “Summa” di san Tommaso in pittura; Antonio Lorenzetti era nello stesso tempo l’onore della Scuola senese e il sapiente scolastico; la Scolastica, prosegue Rernan,  era dappertutto; al Camposanto di Pisa Buffalmacco (altri dicono Pietro d’Orvieto) rappresenta i cerchi mistici delle intelligenze mondane, secondo il sistema di Tolomeo e dell’Aeropagita.

A Padova è la scienza occulta e misteriosa di Pietro d’Abano che ispira gli affreschi alchemici e astrologici  della vasta sala della Ragione e quelle ancora più bizzarre del Guariento agli Eremitani; a Siena Taddeo Bartolo rappresenta al palazzo della Signoria i grandi filosofi dell’antichità, Aristotele, Catone d’Utica e Curio Dentato; la filosofia trova il suo posto nei celebri mosaici in chiaro-scuro del Duomo con Ermete Trismegisto che presenta il suo Pimandro (v. in Schede S. Il libro di Thot tra Corpus Hermeticum e libro dei Tarocchi di prossima pubblicazione), a un cristiano e a un pagano, che l’accettano ugualmente; la Virtù è assisa su una montagna dirupa scalata con fatica da Socrate e Cratete.

La Scuola perugina, scrive Renan, segue la stessa tradizione; sono ancora i filosofi dell’antichità che figurano nell’ammirevole Sala del Cambio di Perugia e nel momento in cui la pittura rinuncia alle caratteristiche medievali, Raffaello riassume tutte le idee filosofiche del suo tempo nella Scuola di Atene (Renan esclude che in questo affresco, il personaggio identificato in Averroé sia proprio il filosofo).

La prima pittura in cui appare Averroé è l’Inferno di Andrea Orcagna al Camposanto di Pisa (eseguito nel 1335); il dramma dell’altra vita, l’ultimo giudizio e i tre stati dell’anima nell’oltretomba erano divenuti il quadro di tutte le concezioni religiose, filosofiche, poetiche, satiriche dell’Italia del medioevo.

Pisa, Firenze, Assisi, Orvieto, Bologna, Ferrara, Padova, continua Renan, avevano il loro Inferno o il loro Giudizio universale, pieni di allusioni locali e di malizie personali del pittore;  in quelle del Camposanto le reminiscenze di Dante sono incontestabili.

Non si può dire tuttavia che Orcagna si sia proposto, come farà più tardi a Santa Maria Novella e Santa Croce, di riprodurre tutte le topografie dantesche prese come una rappresentazione geografica dell’oltretomba; se la divisione in bolge può ricordare la Divina Commedia, precisa Renan, i dettagli delle categorie infernali sono lontane dal corrispondere a quelle di Dante.

Tra queste bolge le due che occupano il compartimento superiore sono destinate agli orgogliosi per eccellenza che sono gli eretici: Ario sembra essere il primo seguito dai suoi settari; poi vengono i magi e gli indovini, Erigone alla loro testa, poi i simoniaci; ma la bolgia di destra sembra riservata ai supplizi più raffinati e i tre personaggi che sono tormentati escono evidentemente dalla plebe dei dannati; ecco Maometto fatto a pezzi dai demoni che divorano i suoi occhi e i tronconi della sue membra; poi l’’Anticristo scorticato vivo, poi un terzo personaggio accucciato per terra, stretto nelle spire di un serpente e caratterizzato da un turbante e da una lunga barba, è Averroé.

E così Maometto, l’Anticristo e Averroé, ecco i tre nomi su cui Orcagna interpreta le idee del suo tempo su cui scarica tutto l’odio della miscredenza; occorre ricordare, precisa Renan, che Dante aveva visto in Maometto l’autore di uno scisma e nell’islamismo una setta ariana; Averroé rappresenta evidentemente a fianco del falso profeta, l’incredulo blasfematore, colui che aveva osato avviluppare in una triplice ingiuria la religione di Mosé, di Cristo e di Maometto, ciò che non rientrava nella tradizione di Dante che in una rimarchevole tolleranza aveva messo il filosofo che aveva combattuto, in una regione di pace e di malinconico riposo in mezzo agli altri grandi uomini.

La chiesa di san Petronio a Bologna, offre in una delle sue Cappelle, una composizione attribuita a Buffalmacco e analoga a quella del Camposanto; ma esaminando questa pittura, la mia  curiosità, scrive Renan, fu vivamente risvegliata da una figura accanto a Maometto, di un altro personaggio il cui nome era indicato con una iniziale: Era precisamente quella del nome di Averroé; ma, essendomi fatto portare una scala per esaminare più da vicino quelle lettere cancellate, avevo riconosciuto il nome di “Apostata”; accanto figura un altro personaggio, Nicola, capo dell’eresia dei nicolaiti, nel medioevo confuso con Maometto.

Nella chiesa di santa Caterina a Pisa, prosegue Renan, tutta risplendente di immagini dedicate a san Tommaso, troviamo un quadro (probabilmente eseguito nel 1340) di Francesco Traini, uno dei migliori pittori del XIVmo secolo, nel quale emerge la testa [grossa...e non pare che quella di Alberto Magno e Scoto Eriugena fosse più piccola, come appare dalla riproduzione in P. II!], rispondente al cliché riprodotto più tardi da Angelico da Fiesole, di san Tommaso (v. in Schede S. Fisionomia del cranio ecc.); poco sotto troviamo Platone col Timeo e  Aristotele con l’Etica e da ciascuno di questi libri un filo d’oro si dirige verso il viso di san Tommaso, seduto sula sua sedia  tiene in mano il volume delle Sante scritture e sulle ginocchia altre sue opere e la testa del santo serve da punto di riunione dei raggi luminosi che partono da Dio, Mosé, Evangelisti, san Paolo, Platone, Aristotele, le voluminose scritte servono da punto di partenza di un’altra serie di raggi che vanno a espandersi sui dottori della Chiesa posti in due gruppi ai suoi piedi; un solo raggio sembra dirigersi verso un personaggio isolato e rovesciato ai piedi di san Tommaso: Questo personaggio, questo empio che detesta i libri del dottore, è Averroé! Egli è là in atteggiamento di orgogliosa meditazione, si leva penosamente sul suo gomito, irritato, imprecando  come un ribelle in disaccordo con Dio e con gli uomini; accanto si trova il Gran Commentario aperto ma  rovesciato sulla faccia e come trafitto dal raggio che emana da san Tommaso.

Questo, conclude Renan, è il quadro  giunto fino a noi attraverso i secoli che si può considerare il monumento più originale della pittura filosofica del medioevo, se l’arte, la religione la scienza il piacere non avessero creato Santa Maria Novella, questo affascinante riassunto della vita fiorentina, con i suoi ricordi poetici, artistici, scientifici e galanti : Qui ancora, dice Renan, tra Pampinea e Marsilio Ficino, Ginevra de Benci e Savonarola troviamo Averroé sacrificato al trionfo di san Tommaso; questa chiesa, scrive Renan è stata il trionfo dell’Ordine dei domenicani che Taddeo Gaddi e Simone Memmi hanno rappresentato nella Sala capitolare della chiesa e conosciuta come il Cappellone degli Spagnoli dove il dottore angelico occupa il centro dell’affresco e ai suoi piedi, come in una sorta di proscenio, come indegni di figurare in un sì nobile cuore, vi sono gli eretici che egli ha esecrato, Ario, Sabellio, Averroé, raffigurato come nell’affresco di Traini,  caratterizzato dal turbante che si appoggia su un Gran Commentario; al di sotto sono raffigurate le sette scienze sacre con i principali rappresentanti, seguiti dagli altri rappresentanti del diritto, teologia pratica, speculativa, dimostrativa, contemplativa  e scolastica.

Chiudiamo questo paragrafo (*) con una precisazione fatta da Renan su una contestazione del personaggio raffigurato da Traini, che ha ritenuto esser Averroé, ma che era stato sostenuto trattarsi di Guglielmo di Sant’Amore (XIIImo sec.), che nella leggenda di san Tommaso aveva giocato un ruolo parallelo a quello di Averroé ed era stato sacrificato per il trionfo del santo domenicano; Renan ritiene che accostando le pitture di Pisa e Firenze sarebbe difficile dubitare che il personaggio non sia Averroé; Guglielmo che insegnava a Parigi, giudeo d’occidente, frequentava l’università in abiti occidentali e in ogni caso non aveva avuto la eclatante rinomanza di Averroé e del suo Gran Commentario rappresentato, precisa Renan, come un grosso libro che non poteva corrispondere al libricino scritto da Guglielmo!

A proposito della fama di Averroé nel XIIImo secolo, Renan scrive che Umberto di Prulli (1291) nella sua Metafisica, lo aveva considerato come uno dei quattro commentatori dell’epoca, mentre nel XIVmo e XVmo secolo è il Commentatore per eccellenza, il solo copiato, il solo citato; Petrarca lo considera il primo, Patrizi lo ritiene il padre della Scolastica; quando Luigi XI in Francia (1473) dispone la regolamentazione dell’insegnamento della filosofia, raccomanda la dottrina di Aristotele e del suo commentatore Averroé; e infine, in una lettera di Cristoforo Colombo scritta da Haiti (1498) egli cita Avenruyz [Averroè] come uno degli autori che gli avevano fatto intuire l’esistenza del Nuovo Mondo.

 

 

*) Sul quale, affascinati, ci siamo forse un pò dilungati, ma queste meravigliose pagine di Renan dedicate all’arte riempiono l’anima e ci auguriamo di poter trasmettere al lettore la stessa emozione!    

 

 

LA SCUOLA

DI PADOVA

 

I PRECURSORI

 

P

resso lo Studio di Padova [sorto con la facoltà di diritto nel 1222], si era formata una corrente che Renan (*) definisce come “Scuola di Padova”, nella quale si seguiva la tradizione dello studio di tutti i commentatori di Aristotele, greci, arabi e latini, e aveva realizzato lo sviluppo filosofico del Nord-Est d’Italia.

Gli antecedenti di questa Scuola presentano per Renan caratteri piuttosto arretrati: Sostituzione del Commentario di Averroè come testo alle lezioni dei trattati di Aristotele; innumerevoli questioni sull’anima e sull’intelletto; maniera astratta, pedante, inintelligibile (è questa, precisa Renan, la prima generazione della Scuola che Patrizi ha in mente quando parla della seconda generazione dei dottori della Scolastica); ai primi anni del XIImo secolo, precisa Renan, troviamo quelli che possiamo considerare i precursori della Scuola di Padova e così lo storico prosegue.

Il carmelitano  Giovanni Baconthorp (†1346) è il personaggio più marcato di questa scuola dove professori  averroisti antecessori della Scuola di Padova  che insegnavano in Inghilterra e utilizzavano come testo il Commentario di Averroè per le loro lezioni sui testi di Aristotele (come detto, sulle innumerevoli questioni sull’anima e l’intelletto, maniera astratta, pedante e inintelligibile Renan cita:  Discussiones peripateticae del 1571).

Il suo nome appariva accompagnato dal titolo di principe degli averroisti ed era stato provinciale dei carmelitani in Inghilterra, divenendo dottore del suo Ordine come san Tommaso per i domenicani, Giovanni Duns Scoto (**) per i francescani e Egidio di Roma per gli agostiniani: Per lui l’averroismo divenne tradizionale nella Scuola dei carmelitani.

D’altronde Baconthorp, scrive Renan, “cerca di sostenere meno le dottrine eterodosse dell’averroismo, che a mascherare l’eterodossia”.  

Egli rigetta l’unità dell’intelletto, continua Renan, dopo aver preliminarmente dimostrato come gli argomenti di s. Tommaso e di Hervé Nedellec sono poco concludenti nei confronti del vero sentimento di Averroé. 

Le teorie averroiste della percezione delle sostanze separate, delle intelligenze celesti, dell’influenza del cielo sulle cose sublunari, dell’eternità del mondo, prosegue Renan, sono in generale spiegate nel senso più edulcorato. E’ per il grande uso che egli fa di Averroé e dell’autorità che gli accorda, ben più della sua dottrina che Baconthorp merita di essere considerato come il rappresentante dell’averroismo del XIVmo secolo e di essere adottato come classico nella Scuola di Padova (***) .

 

*) Cit. Averrois e l’averroisme (Paris, 1852)

**) Di Giovanni Scoto ve ne sono stati due: Giovanni Scoto Eriugena (Eriugena significa nato in Irlanda) vissuto nell’810-877, traduttore del Corpus Aeropagigtis dello pseudo Dionigi  e Giovanni Duns Scoto, (1265-1308), il doctor subtilis.

***) Vediamo che nei primi  anni del XVIII secolo, scrive Renan, un religioso di quest’ordine, Giuseppe Zagaglia di Ferrara aveva avuto l’idea di rinnovare il metodo Baconthorp e applicarlo alla teologia.

 

WALTER BURLEIGH

 

W

alter Burleigh (1275-1345), scrive Renan,  deve essere  considerato come partecipante dello stesso gruppo filosofico; Zimara (*) lo cita frequentemente  come un averroista e in effetti egli fu abbondantemente ripreso  [copiato] a Padova e Venezia durante il XVmo secolo, unitamente a Pierre Auriole e tutta la fastidiosa scolastica del XIV e XVmo secolo con Pietro di Tarentaise, Nicola -Bonnet, Gabriele Biel e la scuola okkamista, soprattutto Buridano e Marsilio d'Inghen.

Costoro, scrive Renan,  appartenevano alla stesso gruppo che esprimeva un pensiero privo di originalità per poter stabilire una classificazione tra  questi maestri, sufficientemente vicini per la loro fisionomia scialba e sbiadita

L’averroismo non ha altro che il nome, prosegue Renan, di questa Scolastica spossata da “Qaestiones” e da “Quodlibeta”  che si trascina spirando penosamente di vecchiaia e di nullità fino alla apparizione della filosofia moderna.

La  sola reazione tentata dall’Italia contro il pedantismo averroistico, scrive Renan, è quella di Jean Wessel di Gansfort (1420-1489), spirito colto e filologo, riflesso isolato dei Petrarca, Marsilio Ficino, Poliziano, Bembo, nel mezzo di una Europa barbara; Jean Wessel come tutti questi umanisti, detestavano Averroé; essi cercarono di  opporre Platone alla “routine” del peripatetismo arabo e  alla dottrina dell’intelletto unico, la dottrina di s. Agostino: “Unus est magister Deus,...In lumine tuo vidibimus lumen (Uno è il maestro Dio... Nel tuo lume vediamo la luce).

 

*) V. nota a Pietro d’Abano, Il Conciliatore, sotto.

 

 

IL VELENO DI RENAN

VERSO LA SCOLASTICA E

LA SCUOLA DI PADOVA

 

 

L

Università di Padova, scrive acidamente Renan, merita un posto nella storia della filosofia piuttosto che per aver inaugurato una dottrina originale, per aver protratto più lungamente rispetto a qualsiasi altra scuola le consuetudini del medioevo; la filosofia di Padova in effetti non è altro che la “scolastica” che sopravviveva a sé stessa “che prolungava la sua lenta decrepitezza, pressappoco come l’impero romano, ridotto a Costantinopoli o la dominazione musulmana in Spagna, rinserrata nelle mura di Cordova”.

Il peripatetismo arabo personificato da Averroé, continua Renan, si accantona per così dire, nel Nord’Est d’Italia, proseguendo la sua esistenza fino al XVIImo secolo con Cremonini (1631) che è stato l’ultimo scolastico [colui che per non contraddire Aristotele si era rifiutato di guardare nel telescopio di Galileo!].

Come, questa insipida filosofia, prosegue Renan, avesse potuto essere così vivace malgrado le canzonature di Petrarca e gli attacchi degli umanisti in un paese che per primo  aveva abbracciato la cultura moderna?

A questa domanda si può rispondere, scrive Renan, che il movimento della rinascenza era stato un movimento letterario e non un movimento filosofico; l’Europa barbara aveva trovato nel suo proprio seno lo stimolo della curiosità scientifica ma non il sentimento della bellezza delle forme; essa al momento faceva la retorica degli antichi; “i rappresentanti del movimento della rinascenza non si erano decisamente impadroniti della filosofia”.

Questo insegnamento rimase così nella vecchia carreggiata perpetuando le tradizioni pedanti e grossolane del medioevo che si fondavano sul sillogismo, strumento inutile per trovare la verità nelle scienze morali: La penetrazione, la flessibilità, la cultura multipla dello spirito, ecco la vera logica, continua Renan, [...] e in un certo senso si può dire che gli Umanisti della Rinascenza unicamente occupati a “ben dire”, in realtà erano più filosofi degli averroisti di Padova.

La Scuola di Padova secondo Renan, non è solo colpevole di questo strano anacronismo; e non è neanche esatto considerare la Scolastica come esaurita al termine del XVmo o XVImo e neanche al XVIImo secolo, nonostante l’opposizione di Cartesio all’Aristotele delle scuole (intendo dire, precisa Renan, dei quaderni che generazioni di professori si trasmettevano di mano in mano); sarebbe piuttosto  facile, dice Renan, dimostrare che la Scolastica continua ancora ai nostri giorni in più di un insegnamento.

Niente uguaglia, continua Renan, i bizzarri contrasti che presentano su questo rapporto, i “rotuli”  o programmi del XVI e XVIImo secolo che l’Università di Padova ancora conserva.

A fianco della vera scienza rappresentata dai Falloppio e i Fabrizio d’Acquapendente prosegue Renan, si trova la teologia insegnata da una parte da un domenicano, secundum via s. Tomae, e dall’altra da un francescano, secndum via Scoti.

Cremonini,  con un trattamento di duemila fiorini, annuncia ai suoi uditori che esporrà il Trattato della Generazione e della Corruzione, il Trattato del Cielo e del Mondo, mentre Galileo, per spiegare gli Elementi di Euclide, avrà un  trattamento inferiore!

La Scuola di Padova, continua velenosamente Renan (*), è una scuola di professori con le loro lezioni che all’epoca non ancora divenivano libri; così questa Scuola non ha lasciato il supporto della lettura che possa essere attualmente di qualche interesse per lo spirito umano; una Scuola di professori può rendere alla scienza dei grandi servizi, ma non rappresentare nella sua complessità l’insieme della natura umana.

La filosofia di Padova conclude Renan, è Padova stessa; paragonata alle città toscane è una città mediocre, senza genialità; tutte le cose belle, l’Arena, il Battistero, il Palazzo della Ragione, il Santo sono state fatte per gli stranieri.

Che cos’é sant’Antonio, il fiore di Padova, la vera creazione padovana, si chiede Renan, paragonato a un san Francesco d’Assisi o santa Caterina? I suoi miracoli sono della più povera invenzione; tutta la sua leggenda è del peggior stile (**).    

Non v’è dubbio che il veleno nei confronti di Padova, sembra tutt’ora ricambiato da quella Università, che come abbiamo detto, tra le opere sulla sua storia, a quanto risulta, non ne ha pubblicato nessuna che riguardi tutto questo fondamentale periodo che stiamo percorrendo in queste pagine.

Il movimento intellettuale di Bologna, Ferrara, Venezia  conclude Renan, si unisce a quello di  Padova; le università di Padova e Bologna  nella realtà non sono che una, almeno per l’insegnamento della filosofia e della medicina; sono pressappoco gli stessi professori dice Renan, che emigrano dall’una all’altra per ottenere un aumento di stipendio; Padova d’altro canto non è che il quartiere latino di Venezia: Tutto ciò che s’insegnava a Padova, si stampava a Venezia; è a ragione, conclude Renan, che per Scuola di Padova si comprende tutto lo sviluppo filosofico del Nord’Est d’Italia.

 

 

*) Nella Introduzione del libro “Averroé et l’averroisme” (che di norma si scrive dopo aver scritto il libro, come peraltro aveva fatto Renan), nei confronti della Scuola di Padova, Renan si mostra ancora più acido di ciò che, come abbiamo visto, aveva scritto nel testo; egli infatti scrive che: “Nel rivedere il giudizio dato alla Scuola di Padova non ho potuto trovare che fosse troppo severo...e rincara la dose: “A parte qualche distinta individualità, non è che il  prolungamento, nel cuore dei tempi moderni, della scolastica degenerata. Lungi dall'essere servita al progresso della scienza essa ha nociuto mantenendo oltre misura, il regno di vecchi autori superati. La filosofia padovana è stata insomma una filosofia di parassiti. Se ne può citare una prova più evidente nel pericolo che offre nella collocazione scientifica, l’insegnamento della filosofia come una scienza distinta; un tale insegnamento era finito per cadere in preda alla routine e divenire funesta al progresso della scienza positiva. Non è rimarchevole, in effetti, che non è stata la dotta Padova ma dalla poetica e leggiadra Firenze che è uscita la grande direzione scientifica, quella di Galileo? E’ che a ben dire, secondo l’espressione di Nizolius, il nemico capitale della verità. Una logica e una metafisica astratta, che crede di poter essere supportata dalla scienza, diventa fatalmente un ostacolo al progresso dello spirito umano, sopratutto quando una corporazione si recluta essa stessa trovando la sua ragion d’essere nell’ergerla a insegnamento tradizionale.

**) Di pensiero contrario su Padova, invece, si era mostrato Cremonini che a Padova aveva insegnato (v. P. II) come riferisce l’allievo di Renan, Leopold Mabilleau nella sua tesi di dottorato (1881) sulla Filosofia del Rinascimento in Italia: Cesare Cremonini definisce Padova: “Asilo della saggezza dove tutto è fatto per piacere agli occhi e allo spirito e che non ha nulla da paventare dalle vicissitudini di cui soffrono tutte le cose e della sua Università dove gli studenti accorrono da tutta Europa e che conta illustri maestri. E di Venezia, la città di marmo che la volontà dei suoi abitanti ha fatto sorgere dal fango della laguna e che aveva imposto la sua legge a una parte del mondo; novella Atene dove l’antico rivive tutto intero nel suo genio e nella sua arte”.

E’ anche da tener presente, come ha fatto notare Nardi (nota sopra par. San Tommaso e Alberto Magno), che a Parigi Averroé aveva avuto vita prospera per altri tre secoli, nonostante le due condanne pronunziate nel 1270 e nel 1277 dal vescovo di Parigi col consenso dei maestri di teologia dell'università; ciò dimostra, scrive Nardi (testo cit.), che le autorità ecclesiastiche, che seguivano con occhio vigile le discussioni in seno alla università parigina, erano seriamente preoccupate dell'atteggiamento di Sigieri di Brabante, di Bernieri di Nivelles, di Gosvino de la Chapelle e di Boezio di Dacia. E i primi tre, canonici tutti e tre a Liegi e maestri a Parigi, furon citati nel novembre 1276 dall' inquisitore di Francia a Saint Quintin, come veementemente sospetti d'eresia.

 

PIETRO D’ABANO

MEDICO E ASTROLOGO

 

 

R

enan nel suo testo parla di Pietro d’Abano (1250-1316) solo come medico senza fare nessun cenno alla astrologia giudiziaria che a Padova era insegnata con la medicina (*), non solo coltivata da Pietro, ma introdotta a Padova ai primi del sec. XIIImo, dove [tra gli altri, si veda F.M. Colle, Storia scientifica e letteraria dello Studio di Padova, Vol. III, 1824]  aveva insegnato Guglielmo di Montorso “cognitor astri(ome risultava scritto sulla sua tomba).

Da tener presente che la astrologia giudiziaria che era quella che prediceva il futuro, così distinguendola dalla astrologia medica e dalla astrologia meteorologica; Pietro collegava il corso della febbre ai pianeti e fu il primo a collegare la pazzia col capo [non ancora col cervello ... che dovranno passare secoli!].

In questo secolo, come nel precedente, Tiraboschi (Letteratura Italiana, Venezia 1795) riferisce che “i potenti sovrani non si credevano abbastanza felici se non avevano a fianco un famoso astrologo”; “non deve stupire”, egli aggiunge, “se erano molti ad applicarsi  in questo studio da cui potevano sperare onori e vantaggi”.

Due tra di essi furono celebri, anche per le loro tristi vicende da cui furono coinvolti e furono Pietro d’Abano e Cecco d’Ascoli, resi ambedue famosi dalla astrologia non meno che dalla medicina, “dei quali  sono stati pochi gli scrittori contemporanei che ne avevano brevemente parlato ma i moderni ne avevano raccolto notizie e Mazzucchelli  aveva pubblicato quelle su questo Pietro d’Abano, medico astrologo, nella sua opera sugli Scrittori italiani”.

Pietro dopo essere stato da giovinetto a Costantinopoli per avere dimestichezza con i testi greci, si reca a Parigi dove scrive un testo sulla fisionomia (Liber complationis physionomica a Pietro de Padua in civitate parisiensi  aedita) da cui si ricava il periodo di permanenza a Parigi (cioé tra il 1292 e 1299), ma  avendo egli scritto il “Conciliator” (**) a Parigi, la sua permanenza si era ulteriormente protratta fin dopo l’anno 1303.

A Parigi Pietro fu accusato di incantesimi e di aver compiuto cose ammirevoli, ritenute effetto di magia passate al vaglio dell’inquisitore domenicano che lo ritenne reo di arte magica; ma era tale il favore di cui Pietro godeva presso il re e presso l’Università che l’inquisitore non raggiunse il suo intento.

Pietro a sua volta accusò l’Ordine dei domenicani, e stabilita l’udienza davanti al re, dimostrò con quarantacinque proposizioni che l’Ordine dei predicatori era “infetto di eresia” per cui i domenicani [con un decreto della cui esistenza si dubita] sarebbero stati cacciati da Parigi.

I domenicani non si diedero per vinti e lo avrebbero denunciato al papa dal quale Pietro si recò e ne fu scagionato; Tiraboschi in proposito dice che non vi è alcuna traccia di queste circostanze; sta di fatto, egli aggiunge, che per causa dell’astrologia Pietro era stato ripetutamente e per lungo tempo accusato.

Infatti le accuse nei suoi confronti non erano terminate: L’Inquisitore di Padova a seguito di ulteriori accuse lo aveva messo sotto processo (1315); Pietro sentendo arrivare la morte si volle scagionare facendo redigere da un notaio il suo atto di fede, ma questo atto  non riuscì a scagionarlo e la condanna giunse quando era già morto; egli aveva scritto di voler essere seppellito dai padri domenicani per fugare ogni sospetto di un suo malanimo nei loro confronti.

La sentenza fu ugualmente crudele perché prevedeva che il suo cadavere fosse bruciato e le ceneri disperse; la sua domestica, Marietta, lo avrebbe fatto disseppellire e lo avrebbe sepolto nella chiesa di san Pietro e in esecuzione della sentenza sarebbe stata bruciata la sua immagine; ma secondo un’altra versione [citata da F.M. Colle] riferita da fra’ Tommaso d’Argentina che vi avrebbe assistito, Pietro era stato disseppellito e le sue ossa bruciate. 

Pietro, della astrologia, ne aveva parlato ripetutamente nel “Conciliator” difendendola da coloro che la biasimavano, ritenendola peraltro, per esperienza, efficace per acquisire scienza con la preghiera a Dio.

Egli aveva lasciato un duraturo ricordo ai padovani, suggerendo gli affreschi eseguiti da Giotto nel Palazzo della Ragione che rappresentavano stelle e pianeti e le diverse azioni che da essi dipendevano; distrutto da un incendio (1420), gli affreschi furono rinnovati, si riteneva dallo stesso Giotto, il quale però già da tempo era deceduto; i nuovi affreschi erano stati eseguiti da Giovanni Miretto e Stefano da Ferrara. 

 

 

*) Tutta la medicina di Padova era impostata all’averroismo (per il quale  Petrarca mostrava la sua antipatia estesa anche alla medicina araba); peraltro i medici dell’epoca costituivano una classe ricca ed erano mal visti dal clero in quanto nel campo della religione avevano opinioni molto libere: Medicina, arabismo, averroismo, astrologia, scetticismo erano da essi considerati sinonimi.

**) “Il Conciliatore delle controversie che insorgono tra i filosofi e i medici” (Conciliator controversiarum, quae inter philosophos et medicos versantur).

Il trattato è in forma dialogica come si usava nel tempo (sarà pubblicato a Mantova solo nel 1472), diviso in una parte teorica e una pratica. La parte teorica contiene quesiti sulla medicina in generale, sugli elementi, i temperamenti, gli umori, le proprietà naturali, le malattie, le febbri e le crisi. La parte pratica tratta di argomenti assai diversi: Soprattutto di patologia, di fisiologia, di igiene e di terapeutica; il testo  offre quindi un quadro chiaro e comprensivo delle opposte questioni che erano sorte tra la medicina e la filosofia speculativa e animavano le scuole di quel tempo e che Pietro cerca di “conciliare”.

E Pietro intendeva conciliare innanzitutto Aristotele con Averroé (come faranno Zimara (*) e Tomitano), del quale non conosceva il noto Colligeto dei latini (Kitab-Kulliyyàt) l’opera enciclopedica di medicina che riassume gran parte delle esperienze del tempo nel campo medico, né le altre opere mediche di Averroè, le cui citazioni sono riprese dalle sue opere filosofiche.

Pietro contestava la filosofia aristotelica che dominava incontrastata anche nel campo medico, sostenendo la necessità di studiare attentamente il malato e di basare la diagnosi sulle osservazioni dirette, non su formule empiriche e superstiziose: Dovevano essere la pratica e l'esperienza, la guida del medico, che deve seguire la forza medicatrice della natura.

Avendo acquisito vaste cognizioni dal diretto esame dei cadaveri (ciò che non aveva fatto Aristotele) confuta quanto sostenuto dal “filosofo” (che era stato ciecamente seguito per la sua “autorità”) che faceva derivare i nervi dal cuore, anziché dal sistema nervoso centrale, seguendo la patologia galenica, vale a dire di derivazione dagli umori.

Quest’opera è da ritenere fondamentale non solo per la medicina dell’epoca, ma anche per le approfondite cognizioni di fisica, di astrologia, di chimica e di fisiologia: Conciliare la medicina con la filosofia comportava un effetto liberatorio  dalla autorità del corrente dogmatismo, con la conseguente libertà del pensiero e del giudizio che si affermeranno nel Rinascimento, di cui Pietro d'Abano è stato un precursore.

*) Marco Antonio Zimara (1470-1532), (v. P. II), esponente dell’Aristotelismo padovano (nella interpretazione di Averroé) per questi studi di Aristotele, Padova era legata a Napoli e a Pisa dove aveva insegnato Agostino Nifo, editore di Averroé, entrato poi in polemica con Pomponazzi (in P. II); allievo di Nifo a Pisa il quale aveva dato una maggiore impronta materialistica all’aristotelismo, relativamente all’anima mortale.

 

 

GIOVANNI

DI JANDUN

 

 

N

ella prima metà del XIV sec., Gregorio di Rimini, Girolamo Ferrari, Jean de Jandun e fra’ Urbano di Bologna, ci presentano l’insegnamento presso la Scuola di Padova già perfettamente caratterizzato ed esso si prolungherà fino alla metà del XVII secolo.

Pochi autori sono stati tanto citati, scrive Renan, ma nello stesso tempo repentinamente dimenticati quanto Giovanni di Jandun,  riconosciuto  dalla Scuola come il “monarca della filosofia e il principe dei filosofi”.

Nato in Francia (1280-1349), dopo aver insegnato con successo nella Università di Parigi, Jandun appartiene realmente a Padova è qui che il suo nome è divenuto celebre; è qui che aveva conosciuto Marsilio da Padova e probabilmente Pietro d’Abano; intratteneva la sua relazione a Parigi con Marsilio (*), che lo teneva informato sulla produzione averroistica.

Le sue Questioni e i Commentari sui  Problemi di Aristotele e Averroé e in particolare il De substantia orbis erano stati ripetutamente stampati a Venezia (1488,1496,1501).

Per Jandun, Averroé era il “perfectus et gloriosissimus physicus, veri­tatis amicus et defensor intrepidus (perfetto e gloriosissimo fisico, amico e intrepido difensore della verità ).

Nelle  sue “Questiones”, commentario su Aristotele e Averroè, e in particolare nel “De substantia orbis”, chiarisce Renan, egli difende la tesi della necessità e della incorruttibilità della materia celeste, rifiutando le tesi moderne [dell’epoca!], che pretendono che “il cielo composto della stessa materia del mondo sublunare, debba necessariamente far ricorso  a una causa esterna”.

Nelle sue “Questioni sul trattato dell’anima”, egli presenta con molta sottigliezza, il pro e il contro sulle domande che si poneva Averroé [quanta speculazione quando non si conoscevano le caratteristiche del cervello umano, unica fonte dell’intelletto e delle idee, che secondo Cartesio giungevano da Dio, e, secondo le recenti teorie sede anche dell’anima!]: L’intelletto attivo esiste necessariamente? L’intelletto attivo fa parte dell’anima umana? L’intelletto possibile comprende sempre l’intelletto attivo di un medesimo intelletto?  

Sulla questione capitale: L’intelletto è unico in tutti gli uomini? Egli non può convincersi delle ragioni opposte, perché, nel caso di più intelletti, la ragione di un uomo non sarà quella di un altro e perché  in tale ipotesi l’intelletto sarebbe individuato sulla base del corpo: Sarebbe assurdo che una sostanza che esiste prima di essere riunita al corpo, sia individualizzata dal corpo  [... perché le stesse ragioni proverebbero che l’intelligenza possa essere uguale per tutti, il che sarebbe assurdo [...] e così continuando, alla fine Jandun si allontana dalle opinioni di Averroè: Per me egli dice, sebbene l’opinione del Commentatore e di Aristotele sia espressa; e che questa opinione non possa essere rifiutata con delle ragioni dimostrative, io penso, dice Jandun, che l’intelletto non è per niente unico e che di esso ve ne son tanti quanto i corpi umani.

Jandun respinge quindi decisamente una opinione che egli distingue da quella di Averroé e dalla quale discende che una sola anima eterna si individuerebbe in ciascuno per una sorta di metempsicosi; egli afferma senza esitare e conformemente al dogma teologico, che l’anima è formata da una creazione diretta di Dio al momento della generazione, e su un gran numero di altre questioni relative all’intelletto e all’intellegibile, allontanandosi ugualmente dalla opinione del Commentatore.

 

*) Marsilio da Padova (1275-1342) tra il diritto e la medicina aveva scelto quest’ultima materia; ai primi del XIIImo secolo era a Parigi dove insegnava e aveva ricoperto la carica di rettore di quella università (1312); aveva approfondito la teologia ma solo perché si era occupato della difesa di Ludovico il Bavaro (presso la Corte del quale si era recato con Giovanni di Gand suo inseparabile amico, nel 1326), nella discordia che era intercorsa col papa Giovanni XXII; Marsilio con il suo compagno erano entrati nelle grazie di Ludovico il quale seguendo i loro libri finì per abbracciare le loro opinioni.

Marsilio aveva scritto “De Monarchia” e “Defensor pacis”; quest’ultimo il più voluminoso, tratta della potestà ecclesiastica  e di quella secolare, restringendo la prima che è assoggettata alla seconda; altri due trattati più brevi riguardano la Traslazione dell’impero e la Potestà imperiale che lo fecero considerare “autore di errori” che consistevano nel combattere l’autorità del papa e che portò l’imperatore Ludovico il Bavaro, recatosi a Roma, a provocare lo scisma della Chiesa (in quanto Giovanni XXII (1316-1334) si trasferì ad Avignone) e a eleggere (1328) l’antipapa Niccolò V (1328-1330).

 

FRA’ URBANO

DA BOLOGNA

 

 

I

l servita  Urbano da Bologna, prosegue Renan, è un altro esempio di questi religiosi che come Bathoncorp (v. sopra, I precursori), attacca senza tema il nome averroista; Mazzucchelli e Mansi hanno ritenuto che abbia insegnato teologia a Parigi, Padova e Bologna, mentre Tiraboschi fa osservare che gli antichi documenti dei quali si è servito padre Giani [annalista dell’ordine dei Serviti], parla solamente della scuola di filosofia che fra’ Urbano tenne a Bologna; rileviamo che lo stesso Tiraboschi (in Lett. Italiana cit. vol. IV p. I)  precisa che “moderni autori dicono ch’ei insegnò a Parigi, in Padova e Bologna e fu Priore dell’Ordine a Padova”, meritandosi il nome di padre della filosofia.  

Frà Urbano, scrive Tiraboschi  (del quale aveva visto un elegante esemplare nella biblioteca d’Este a Modena), aveva pensato di apportare un gran giovamento alla filosofia  apprestando un “Commento” al Commento di Averroé agli otto libri del De Phisico Auditu di Aristotele (annunciando nel prologo l’intenzione di comporre anche un commentario sul commentario del Trattato del Cielo e del Mondo: Se ne avesse avuto il tempo ...e il tempo non lo aveva avuto perché nel frattempo era morto!).

Il libro  è un voluminoso Commentario del Commentario di Averroè sulla Fisica di Aristotele (*),  scritto o terminato nel 1334; ma mentre su questa data non vi sono dubbi, i dubbi invece sorgono sulla età di fra’ Urbano che secondo Tiraboschi doveva essere “avanzata”, ma vi è invece un rebus sulla sua data di morte in quanto Tiraboschi, riprendendola dal Giani , la indica come  “1503”, aggiungendo che doveva esservi stato un errore di stampa; l’errore di stampa non poteva essere neanche corretto a 1303 in quanto il libro era stato scritto nel 1334 il risultato è che di fra’ Urbano non si conosce né la data di nascita e neanche quella di morte!

Questo libro, scrive Tiraboschi, non fece che alzare ulteriormente la fama di Averroé in quanto fra’ Urbano non solo non aveva nessuna delle opinioni del suo autore (Averroé), né l’opera che egli commentava ne richiedeva l’esame; ciò nonostante, come spesso avviene, scrive Tiraboschi, il commento accese il desiderio di vedere le opere dell’autore commentato e i libri di Averroè si andarono sempre più spargendo, e con i libri, ancora più si sparsero le empietà e gli errori, tanto che ai tempi del Petrarca, aggiunge, “nessuno potesse  ottener nome di dotto e di filosofo d’ingegno, se non volgeva la lingua e non impiegava la penna contro la religione”.

Come si vede, commenta Renan, Averroè ha già rimpiazzato Aristotele: E’ il suo testo che si commenta in luogo e al posto di quello del “filosofo” .

A proposito della fama raggiunta da Averroé (riprendiamo l’aneddoto da  Tiraboschi), Petrarca raccontava di trovarsi nella sua biblioteca a Venezia, quando era andato a visitarlo uno di quelli che pensano di non aver fatto nulla se non abbaiano contro Cristo e della sua sovrana dottrina; costui prese a deriderlo e insultarlo perché egli aveva usato qualche detto dell’apostolo Paolo; “tieni pure, egli disse al Petrarca, la tua religione cristiana; nulla di tutto ciò io credo; il tuo Paolo, il tuo Agostino e tutti coloro che tanto esalti, che furono tanto loquaci; se tu potessi sostenere la lettura di Averroé, potresti ben vedere quanto egli sia maggiore di codesti giocolieri”; Petrarca pieno di sdegno lo prese per il mantello e lo mise fuori di casa.

Il fanatismo di Petrarca, prosegue Tiraboschi che vedeva tanti perduti correr dietro Averroé lo portò dopo un colloquio avuto con quattro dei suoi amici, “fautori e sostenitori di sì ree opinioni”, dopo aver avuto con essi una discussione sull’argomento, a scrivere il libro “De sui ipsius et multorum ignorantia” (Dell’ignoranza propria e di molti altri); su questi quattro amici era sorto un piccolo giallo per sapere chi fossero e Tiraboschi li aveva individuati in Leonardo Dandolo, cavaliere,  Thomas Talentos, mercante,  Zasbovias Contareno (Contarini?) nobile, veneziani e il quarto Guida de Bagnolo, medico-fisico.

Verso la stessa epoca, riferisce Renan, Zacharia (di Parma) professore di retorica (eloquentiae latinae didascalus) a Parma, aveva scritto una tesi “De tempore et motu contra Averoym” che si trova alla Sorbona; l’opera, egli scrive, è di poco valore ma attesta come le questioni averroistiche erano all’ordine del giorno nelle scuole del Nord Italia all’inizio del XIVmo secolo. Nessun autore di storia letteraria, scrive Renan,  lo cita, ma i manoscritti della Sorbona contengono  la tesi indicata e un  testo di Retorica in latino,  dedicato al cardinale G. di Parma e a Nicolas, insegnante della chiesa di Parigi (senza dubbio quello indicato in Gallia christiana (t. VII, pag. 205) verso l’anno 1300).

 

*) Antonio Alabanti, generale dei Serviti lo fece stampare a VE nel 1492 sotto il titolo di Urbanus Averroista, philosophus summus, ex almifico servorum B. M. V, ordine, commentorum omnium Averroys super librum Aristotelis de Physico auditu expositor clarissimus,  con una prefazione  di Nicoletto Vernia .

 

 

PAOLO DA VENEZIA

 

 

P

aolo da Venezia (1429), uno dei dottori tra i più validi del suo tempo, come attesta  il  gran numero delle edizioni e di copie manoscritte delle sue opere, sopranominato  excellentissimus philosophorurn monarcha (questi titoli commenta Renan, a Padova erano dati con facilità!), il quale  ammette con una franchezza che desta sorpresa in un religioso agostiniano, le estreme conseguenze della teoria averroista.

“I moderni, scrive Paolo, pretendono che l’anima intellettiva si moltiplichi secondo la moltiplicazione degli individui, che essa è generata ma non soggetta alla corruzione e sostiene che questa è l’opinione di Aristotele. Ma la vera opinione di Aristotele è che non vi è che un intelletto unico per tutti gli uomini, conformemente alla interpretazione del Commentario e da questo principio, che la natura non abbonda mai nel superfluo, come essa non manca mai del necessario. Ciò non vuol dire che l’anima sia volta per volta fortunata e sfortunata, sapiente e ignorante, tutte qualità che sono nell’anima accidentalmente. “L’intelletto umano è increato, impassibile, incorruttibile; esso non ha né principio, né fine; esso non si realizza se non con il numero degli individui. In effetti tutto ciò che è suscettibile d’individualità numerica partecipa della materia”.

Paolo da Venezia, prosegue Renan, è dunque da inserire nel numero dei più convinti averroisti; egli a Bologna aveva sostenuto, in presenza del Capitolo generale degli agostiniani  riunito in gran pompa, le tesi averroiste di Nicola Fava, ma la sua abilità dialettica non riuscì a salvarlo; il senese Ugo Benzi, nemico personale di Fava che assisteva alla disputa non si trattenne dal gridargli “Fava ha ragione e tu Paolo tu sei vinto”! “Buon Dio, rispose Paolo,  ecco che Erode e Pilato diventano amici”; a queste parole si levò una risata generale che fece chiudere la sessione.

Paolo da Venezia ci è presentato dai contemporanei, conclude Renan,  come uno scolastico insolente e presuntuoso; Fava al contrario, amico di Filelfo apparteneva alla scuola ellenistica che doveva, un secolo più tardi, detronizzare Averroé

Da una ricerca fatta da Renan su manoscritti erano emersi i seguenti insegnanti: Paolo di Pergola, Onofrio di Sulmona, Henricus dell’Alemannia, Giovanni di  Lendinara, Nicola di Foligno, Mayister Strodus, san Ugo di Siena, Marsilio di Santa ­Sofia, Giacomo de Forti, Tommaso di Catalogne, Adamo Bouchermefort, che furono al loro tempo altrettanti maestri rinomati e zelanti partigiani della scolastica averroistica.

 

 

GAETANO DA THIENE

 

 

G

aetano (1387-1465) è presentato come il fondatore dell’averroismo padovano (Facciolati), ma scrive Renan, ciò non è esatto in quanto l’autorità di Averroé era già insediata a Padova da più di un secolo da quando questo maestro aveva iniziato a insegnare (1436); pur nondimeno Gaetano, per la sua fortuna, la sua posizione sociale, il suo insegnamento e i suoi scritti, contribuì ad aumentare fortemente l’autorità del Gran Commentario.  

Uscito da una famiglia illustre di Vicenza, Gaetano [da non confondere con l’omonimo fondatore dell’Ordine dei teatini] divenne uno dei personaggi più importanti dell’Università di Padova dove morì canonico; divenne famoso per il suo libro stampato con il nuovo sistema tipografico di Gutemberg, che si diffuse nella seconda metà del XVmo secolo in tutte le scuole d’Italia e d’Europa; diversi lussuosi esemplari del libro, scrive Renan, si trovano nella Biblioteca di sant’Antonio di Padova alla quale egli ne fece omaggio.

Gaetano, scrive Renan, non sostiene alcuna dottrina originale; meno ardito di Paolo da Venezia, egli rigetta tutte le conseguenze eterodosse del peripatetismo che nel suo Commentario al Trattato dell’Anima (terminato nel 1448) sono esposte nelle loro più sottili distinzioni; Gaetano cerca di conciliare l’immortalità con la teoria aristotelica della percezione, ma uscendone, commenta Renan, con la più bizzarra delle ipotesi.

Gaetano, continua Renan, discute una questione che pare avesse molto preoccupato la scuola del suo tempo: Se si può ammettere un “sensus agent” per spiegare la sensibilità,  si ammette un “intellectus agens” per spiegare l’intelligenza.

Dopo aver esaminato alcune altre e diverse posizioni (Jandun e altri) prosegue Renan, Gaetano, in un’altra tesi agita la questione della perpetuità dell’intelletto, che riassume in questi termini: “L’anima intellettiva è prodotta da una creazione immediata poi infusa nella materia; l’intelletto considerato isolatamente è generato e corruttibile; ma l’anima umana considerata nell’insieme delle sue facoltà è immortale”: Tutto ciò, commenta Renan, è indeciso e senza carattere!

Averroé è ormai padrone di Padova, scrive Renan, il maestro dei sapienti; Michele Savonarola nel suo libro “De laudibus Patavii” (1440) lo chiama “ille genio divinus homo Averroes philosophus, Aristotelis operum omnium commentator”; la biblioteca di Giovanni di Marcanuova, legata all’abbazia di san Giovanni in Verdara (1467) e subito dopo a quella di san Marco di Venezia è quasi esclusivamente composta di opere averroistiche; enumerare tutti i padovani e bolognesi che nel secolo XVmo hanno commentato Averroè, dice Renan, significa fare la lista di tutti i professori di Padova e Bologna.

Claudio Betti e Tiberio Bazilieri di Bologna, Lorenzo Molino di Rovigo, Apollinare Offredi, Bartolomeo Spina, Girolamo Sabionetta,  videro le loro lezioni adottate come una facile interpretazione del Gran Commentario, scrive Renan; il celebre Tommaso de Vio Cajetan, insegnava  secondo Averroé e si può ritenere che Guido Patino (sebbene al corrente dei rumori che serpeggiassero a Padova), fu a causa di questo insegnamento che si attirò il veleno  di Pomponazzi e nel 1480 la dotta Cassandra Fedele di Venezia (1465-1558) sostenne a Padova le tesi averroiste e ottenne la laurea in filosofia.

L’opposizione si mostra in pieno, conclude Renan; la tesi del frate minore Antonio Trombetta contro gli averroisti non tolse alcunché alla loro audacia; gli ultimi anni del XVmo secolo sono gli anni del regno assoluto di Averroé a Padova.

 

NICOLETTO VERNIA

 

 

N

el numero degli averroisti, prosegue Renan, è da annoverare il teatino Nicoletto Vernia (1420-1499) che insegnò a Padova per ventotto anni fino alla sua morte, anch’egli medico e astrologo; più ardito di Gaetano, Vernia sosteneva senza restrizioni la teoria dell’unità dell’intelletto, a tal punto da essere accusato di aver infettato tutta l’Italia di questo errore pernicioso.

Fu alla sua scuola che Agostino Nifo apprese l’averroismo; Vernia rinunciò presto a questa pericolosa opinione e scrisse in favore della immortalità e della pluralità delle anime un libro apparso nel 1499; l’opera era dedicata a Domenico Grimani, patriarca di Aquileia al quale aveva richiesto la nomina di canonico, disposto a cambiare questo incarico con il suo titolo di filosofo!

Questo cambiamento era dovuto alla amichevole esortazione del doge Agostino Barbarigo e di Pietro Barozzi (v. P.II), vescovo di Padova che più tardi salvò Nifo dall’inquisizione e lo portò ugualmente a correggere i suoi errori.

Il dibattito si ingrandiva, lasciando lo stretto cerchio delle questioni logiche per entrare nel dominio della filosofia morale e religiosa: Si passa al momento glorioso della Scuola di Padova: Quello di Nifo, Achillini e Pomponazzi.

Nel 1495 Nicoletto Vernia che per raro privilegio aveva ottenuto di insegnare senza antagonista, ma si era “lasciato andare”, e gli allievi mormorano e gli viene opposto “per svegliarlo” Pietro Pomponazzi.

Con Pomponazzi, conclude Renan, si apre una nuova era per la Scuola di Padova; fino a questo momento la filosofia padovana si era tenuta entro i limiti della metafisica del tutto inoffensiva: Paolo da Venezia, fra’ Urbano, Gaetano di Thiene, Vernia stesso non sono che dei commentatori: Nessuna via è percorsa e nessun pensiero circola senza questo duro involucro.

    

 

 

FINE

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