Carlo il Calvo

Miniatura da “Grandes croniques de France

Biblioteca Nazionale - Parigi



L’ EDUCAZIONE

DEL GIOVANE FEUDATARIO

E DEL PRINCIPE

RINASCIMENTALE

DA DHUODA A RABELAIS


MICHELE E. PUGLIA



SOMMARIO: PREMESSA; LA SCUOLA PALATINA ALLA CORTE DI CARLOMAGNO E GLI INSEGNAMENTI DI ALCUINO; BERNARDO DI SETTIMANIA E DHUODA; IL MANUALE PER MIO FIGLIO: IL PROLOGO; LA PREFAZIONE; IL TESTO (in nota: SIMBOLOGIA DEI NUMERI); GLI INSEGNAMENTI DI GERBERTO NELLA SCUOLA DI REIMS; “AMMAESTRAMENTI DEGLI ANTICHI” TESTO DIDATTICO DEL XIII SEC. DI FRA’ BARTOLOMEO DI SAN CONCORDIO; GLI INSEGNAMENTI PER UN PRINCIPE RINASCIMENTALE IN GARGANTUA E PANTAGRUEL: COME GARGANTUA VIENE EDUCATO DI GIORNO IN GIORNO DA PONOCRATE; COME GARGANTUA IMPIEGAVA IL SUO TEMPO NEI GIORNI FREDDI E PIOVOSI; COME PANTAGRUEL RISIEDEVA A PARIGI E RICEVETTE LA LETTERA DEL PADRE E QUELLO CHE VI ERA SCRITTO.


PREMESSA


Negli articoli su “Carlomagno e l’idea dell’Europa”, abbiamo visto come Carlo nelle impostazioni innovative che aveva dato al suo impero, non si era mostrato insensibile al tema dell’istruzione e con il valido aiuto di Alcuino, aveva trattato l’argomento nel capitolare “Admonitio generalis” in cui, senza fare distinzione tra figli di servi o di liberi, aveva dato ai vescovi disposizioni perché “Riuniscano e tengano presso di sé non solo i bambini di condizione servile ma anche i figli dei liberi. Organizzino scuole di lettura per i ragazzi in ogni monastero o vescovado, dove si possano apprendere i salmi, le note, il canto, il computo, la grammatica e trovare i libri canonici accuratamente corretti; poiché spesso molti, desiderosi di pregare Dio rettamente, lo pregano male a causa della scorrettezza dei testi. Non permettete che i fanciulli a voi affidati, leggendoli o copiandoli, ne traggano danno. E se è necessario a copiare un messale o un salterio, siano incaricati uomini esperti, che si dedichino al lavoro con ogni cura.

A partire dal 787 l’istruzione era stata resa obbligatoria per le Scuole episcopali e monastiche, statuendosi che i capi delle diocesi e delle abbazie dovessero vegliare sia sulla formazione religiosa e morale degli alunni sia sulla loro formazione letteraria. Un altro capitolare fa riferimento a coloro che servono lo Stato, non in battaglia ma con la cultura e con l'insegnamento delle lettere e delle arti. I missi dominici avevano anche in questo caso il compito di vigilare sulla condizione delle scuole nelle diocesi che andavano a ispezionare. Rinnovando le prescrizioni (789) sull'apertura obbligatoria di una scuola, Carlo raccomanda di non limitare l'istruzione alle basse classi sociali, ma di estenderla ai figli delle famiglie agiate.

Questa disposizione fa meravigliare, ma in quell'epoca i ricchi erano i più refrattari allo studio al punto che il clero delle campagne si reclutava quasi esclusivamente tra i figli dei servi. E siccome non vi è scuola o insegnamento senza esami, nell'800 (De examinandis ecclesiastici) sono istituiti gli esami per gli ecclesiastici, con la conseguenza che l'ordinazione e l'avanzamento dei chierici si verificava sulla base del loro sapere. Se l'esito dell'esame non fosse stato positivo, l'esaminando rimaneva bloccato nella carriera fino a quando non avesse superato l'esame. In questo esame ovviamente l'istruzione religiosa era fondamentale ma questa era completata da quella di cultura generale. Questo perché l'allievo oltre a essere prete (con o senza voto), diventava anche maestro.

Relativamente alla differenza nella resa degli studi tra i figli dei ricchi e i figli dei servi correva l’aneddoto dei due scozzesi sapienti ai quali Carlo aveva affidato a uno di essi ragazzi di nobile nascita, e all’altro di media e povera stirpe; al suo rientro volle che gli presentassero i fanciulli per rendersi conto dei loro progressi. I ragazzi di bassa estrazione dimostrarono, al di là di ogni aspettativa, di aver fatto tesoro degli insegnamenti. Quelli di nobile nascita avevano dato risposte poco interessanti e piene di futilità. Carlo elogiò i primi dicendo loro di continuare e lui gli avrebbe concesso “vescovadi e monasteri magnifici e sempre sarete meritevoli d'onori ai miei occhi”. Rivolgendosi agli altri li redarguì: “voi nobili figli di grandi del regno delicati e bellini, confidando nella vostra nascita e nella vostra ricchezza avete trascurato lo studio delle lettere, avete preferito indulgere alla lussuria, al gioco, all'ozio e alle occupazioni futili…non m'importa della vostra nobiltà e della vostra bellezza anche se altri vi ammirano, siate consapevoli di questo, se non porrete riparo alla vostra negligenza non vi conquisterete mai il favore di Carlo”. L'aneddoto, gonfiato dai canoni retorici del tempo, nella sua essenza potrebbe risultare veritiero.

Anche il figlio Ludovico il Pio (o Debonnaire), ad Attigny (822) dove aveva riunito i vescovi franchi, nel capitolare “Admonitio ad omnes regni ordines”, si stabilì che i vescovi si impegnavano a tenere aperte e a seguire con cura le scuole per assicurare l’istruzione a ragazzi e a ministri della Chiesa; quanto alle spese per il mantenimento degli alunni si stabiliva che esse fossero a carico dei genitori per i liberi, e dei padroni per i servi e questi ultimi dovevano “provvedere affinché a causa della povertà essi non abbandonino gli studi”; qualche anno dopo (825), i vescovi che, nella confusione creata nel regno dalle lotte tra i suoi figli, e con il padre (v. in Articoli: I Carolingi e la dissoluzione dell’impero), e avevano trascurato di applicarle, erano stati richiamati alla osservanza delle precedenti disposizioni.



LA SCUOLA PALATINA

ALLA CORTE DI CARLOMAGNO E

GLI INSEGNAMENTI DI ALCUINO


Carlomagno, con l’aiuto di Alcuino, il grande personaggio che aveva illuminato con il suo eclettico sapere letterario e scientifico la corte carolingia, aveva istituito una “scuola di palazzo”, frequentata da tutti i giovanetti, principi e figli di alti funzionari che vivevano a corte e costituiva un ramo della più ampia accademia palatina presieduta da Calomagno, in cui ognuno, secondo l’uso, assumeva il nome di un personaggio storico o letterario, in cui Carlo aveva preso il nome di David o Salomone, Alcuino quello di Orazio Flacco, Theodulfo quello di Pindaro, Angilberto di Omero, Modoino di Ovidio Naso, altri si accontentarono di nomi più modesti.

Nella scuola Alcuino probabilmente variava l’oggetto delle lezioni a seconda degli ascoltatori, dell’ interesse delle domande che gli venivano fatte, delle cognizioni da lui stesso volta per volta acquisite e così facevano i suoi collaboratori.

Da una disputa tra Alcuino e Pipino (poi re d’Italia) era derivato il sistema di insegnamento spicciolo e anche alquanto ingenuo, basato su domande e risposte, che a noi sembrano un misto di puerilità, di domande frivole e ogni tanto con qualche arguzia per acuire l’ingegno; esse erano comunque insieme, esercitazioni di memoria e di apprendimento e seguivano il seguente schema:

Pipino: Che cosa è la scrittura? Alcuino: La custode della parola: P.: Che cos’è la parola? A.: L’interprete dell’anima. P.: Che cosa dà origine alla parola? A.: La lingua. P.: Che cos’è la lingua? A.: La sferza dell’aria. P.: Che cos’è l’aria? A:. La conservatrice della vita. P.: Che cos’è la vita? Al.: Un godimento per i (gli esseri ) felici, un dolore per i miseri, l’attesa della morte. P.: Che cos’è la morte? A.: Un fatto inevitabile, un viaggio incerto, una causa di pianto per i vivi, la conferma dei testamenti, il ladro degli uomini.

P.: Che cos’è l’uomo? A.: Lo schiavo della morte, viaggiatore passeggero, ospite nella sua dimora. P.: Com’è collocato l’uomo? A.: Come una lanterna esposta ai venti. P.: Dov’è collocato l’uomo? A.: Fra sei pareti. P.: Quali? A.: Il sopra, il sotto, il davanti, il dietro, la dritta, la sinistra. P.: Che cos’è il sonno? A.: L’immagine della morte. P.: Che cos’è la libertà dell’uomo? A.: L’innocenza. P.: Che cos’è la testa? A.: La sommità del corpo. P.: E il corpo? A.: La stanza dell’anima.

A questo punto si parla dei vari aspetti della natura:

P.: Che cos’è il cielo? A.: Una sfera mobile, una volta immensa. P.: Che cos’è la luce? A.: La face del giorno.

P.: Che cos’è il giorno? A.: Un eccitamento al lavoro. P.: Che cos’è il sole? A.: Lo splendore dell’universo, la bellezza del firmamento, la grazia della natura, la gloria del giorno, il distributor delle ore...

P.: Che cos’è la terra? A.: La madre di quanto cresce, la motrice di quanto esiste, il granaio della vita, il vortice che tutto ingoia. P.: Che cos’è il mare? A.: Il cammino degli arditi, il confine della terra, l’albergo dei fiumi, la sorgente delle piogge...

P.: Che cos’è l’inverno? A.: L’esilio della estate. P.: E la primavera? A.: La pittrice della terra. P.: E l’estate? A.: La potenza che veste la terra e matura i frutti. P.: E l’autunno? A.: Il granaio dell’anno. P.: E l’anno? A.: La quadriga del mondo. P.: Maestro, io ho paura del mare. A.: E che ti conduce al mare? P.: La curiosità. A.: Se hai paura io ti seguirò per dappertutto. P.: Se sapessi che cos’è il vascello te ne preparerei uno affinché tu venga con me. A.: Un vascello è una casa errante, un albergo d’ogni luogo, un viandante che non lascia orme...

P.: Che cos’è l’erba? A.: Addobbo della terra. P.: Cbe cosa i legumi? A.: Gli amici dei medici, la gloria dei cuochi. P.: Che cosa rende dolci i cibi amari? A.: La fame...

Domande a carattere filosofico:

P.: Di che cosa gli uomini si stancano? A.: Del guadagno. P.: Qual’è il sogno dei desti? A.: La speranza. P.: Che cos’è la speranza? A.: Il sollievo della fatica, un avvenimento dubbio. P.: Che cos’è l’amicizia. A.: La somiglianza delle anime. P.: E la fede? A.: La certezza delle cose ignorate e meravigliose. P.: Quali cose sono meravigliose? A.: Ho appena veduto un uomo in piedi, un morto che cammina e che mai non ci fu. P.: Come ciò ha potuto essere? A.: Era un’immagine nell’acqua. P.: Perché non l’ ho capito da me stesso, avendolo visto già tante volte?

A.: Giacché sei giovane, di buona indole e di ingegno naturale, io ti proporrò altre cose straordinarie: prova se puoi, a scoprirle da te. P.: Lo farò e se erro, correggimi. A.: Sia come desideri: Uno sconosciuto conversò con me, ma senza lingua né voce; non era prima, non sarà dopo; ed io né l’intesi né lo conobbi. P.: Forse un sogno. A.: Appunto, figlio mio. Odi anche questo: Ho visto i morti generare il vivo e i morti consumati dal soffio del vivo. P.: Il fuoco nato dallo sfregamento dei rami e che consuma i rami.

La conversazione termina con una serie di enigmi:

A.: Quale cosa è e non è al tempo stesso? P.: Il nulla. A:. Come può essere e no? P.: E’ di nome, non è di fatto. A.: Che cos’è un messaggero muto? P.: Quel che tengo in mano. A.: E che tieni in mano? Pip. La mia lettera. Alc. Leggi dunque felicemente, figlio mio.

Questo sistema di domande e risposte sarà ripreso, trecento anni più tardi, da Onorio di Autun (1080-1154) nell’Elucidarium, che comprende numerosi scritti a carattere didattico-enciclopedico, a contenuto teologico.

Da questo testo, con un ulteriore salto di alcuni secoli, si passa a un testo organico di ammaestramenti, scritto da fra’ Bartolomeo di san Concordio (v. sotto) nel secolo in cui fioriscono i grandi della nostra letteratura, Dante (1265-1321), Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375).



BERNARDO DI SETTIMANIA

E DHUODA


Bernardo (802-844) duca di Settimania (o Gothia, che comprendeva anche la contea di Barcellona) figlio di Guglielmo Gellone al seguito di Carlo Magno, (poi santificato per aver fatto costruire l’abbazia detta di s. Gellone), aveva sposato Dhuoda (o Duodana o Dodana) di cui non è nota l’origine, che non traspare nemmeno dal libro nel quale essa si lascia andare a qualche riferimento vago e contraddittorio.

Infatti, mentre da una parte, fa professione di umiltà, dicendo nata tanto debole e di modesta origine”, in altra parte fa riferimento a parenti di rango quando rivolgendosi al figlio scrive, alcuni dei miei parenti e tuoi, di cui ho sentito dire le azioni o che ho visto, può darsi che la loro potenza sulla terra non sia stata sufficiente a dar loro un posto presso Dio” e in altra parte ancora, riferendosi ad ambedue i rami di parentela del figlio li qualifica “illustri delle due parti”.

Certamente non era figlia di Carlomagno, ipotesi avanzata da storico (di figli a Carlomagno ne sono stati attribuiti trentadue! ndr.), è probabile che fosse di famiglia visigota della Settimania, avendo i visigoti abitato per diversi secoli in quelle regioni (v. in articoli: Il Corpus juris ecc., il paragrafo sul “Diritto dei Visigoti”).

Non si sa neanche come i due si fossero conosciuti, sta di fatto che il matrimonio ebbe luogo nel palazzo imperiale e nella cappella di Aix la Chapelle (821): mentre di Bernardo si conosce l’età (diciannove anni) non altrettanto è per Dhuoda che si può supporre avesse la stessa età o qualche anno di meno.

Dal matrimonio nacquero due figli, Guglielmo dopo due anni (826), e Bernardo dopo diciassette (841), del quale la madre non conosceva il nome in quanto il padre lo aveva fatto portar via prima che fosse battezzato. Neanche si conosce il motivo per il quale il bambino appena nato fosse stato portato via (in quell’epoca i bambini venivano tolti dalle cure femminili all’età di sette anni) e affidato al vescovo di Uzès, Elefanto.

Bernardo conduceva la sua vita tra gli impegni di corte dove rivestiva la carica di ciambellano , e di comandante militare e aveva un carattere turbolento e dissoluto e per la sua insaziabile ambizione si era fatto una moltitudine di nemici e con questo suo carattere, certamente non aveva reso felice Dhuoda rassegnata a vivere la sua vita solitaria e malinconica, relegata nel castello di Uzès, dibattendosi tra i debiti che contraeva per gestire la Marca del marito, spiegherà lei stessa nel libro.

Non è un mistero che Bernardo, vivendo a corte, avesse rapporti adulterini con Giuditta giovane moglie di Ludovico il Pio (per i francesi “ le Dedonnaire v. Articoli: I carolingi e la dissoluzione dell’impero), al quale l’imperatore dandogli la carica di ciambellano, aveva affidato il figlio Carlo (821-877), nato durante il rapporto adulterino, ufficialmente suo ultimo figlio, che in seguito, sarà denominato il Calvo, il quale, uscito dalla fanciullezze, più o meno consapevole del rapporto della madre, o comunque, per naturale disposizione, lo detestava.

Nella spartizione dell’impero fatta da Ludovico, l’Aquitania era stata assegnata a Carlo, e Bernardo vi era stato mandato per domare una rivolta sollevata da Pipino che voleva appropriarsene, segretamente appoggiato dallo stesso Bernardo.

Carlo ne fu informato e con il suo esercito sconfisse Pipino (e l’altro fratello Lotario) nella battaglia di Fontenet (841) e successivamente, secondo una versione, Bernardo fu giudicato da un’assemblea di pari, convocata in Aquitania e accusato del delitto di ribellione, fu condannato alla decapitazione; secondo un’altra, meno probabile, Bernando, convocato da Carlo nel monastero di s. Saturnino a Tolosa, il re, dopo aver ricevuto il suo omaggio, sceso dal trono, mentre lo abbracciava, lo trafisse con una pugnalata nel fianco; Bernardo era caduto ai suoi piedi e il re, dopo avergli messo un piede sul suo corpo gli aveva detto: “maledetto te che hai osato insozzare il letto di mio padre e tuo signore” (844).


IL MANUALE

PER MIO FIGLIO”


Il libro era stato scritto, secondo le indicazioni date alla fine dello stesso dalla scrittrice (iniziato nel novembre dell’841 lo termina nel febbraio dell’843) da cui era partita l’idea, non solo per dare insegnamenti al figlio Guglielmo (al quale chiede di passare il libro anche al fratello, per il quale a causa delle sue condizioni di salute, non sarà in grado di scriverne un altro), ma per tessere un filo che la tenesse unita ad ambedue i figli lontani e così soffocare il dolore della loro perdita, maggiormente di quella del piccolo Bernardo (di cui non conosceva ancora il nome), strappatole dal seno dopo pochi giorni dalla nascita, ancor prima che fosse battezzato.

Tra l’altro D., riferisce, che il libro si era anche affrettata a scriverlo poiché il tempo della mia morte non è lontano a venire, e il prolungarsi della malattia logora il mio corpo (probabilmente aveva intorno a trentotto anni, che a quell’epoca era considerata età più che matura).

D. aveva una vasta e profonda cultura religiosa che si era formata probabilmente in un monastero e aveva potuto successivamente approfondire nel corso della sua vita solitaria condotta nel castello di Uzès dove Bernardo l’aveva lasciata quasi segregata.

Dhuoda ci tiene a dire che il libro lo ha dettato lei (le funzioni di amanuense le aveva svolte il suo cappellano di cui si conosce il nome, Wislabert).

Nel libro aveva trasfuso (per buoni due terzi) citazioni e riferimenti a passi delle sacre scritture e citazioni di autori cristiani, che hanno finito per falsare lo stesso testo, considerato non più un testo didattico ma un testo di morale cristiana prevaricando le sue stesse intenzioni che erano quelle di dare suggerimenti riguardanti insegnamenti di vita e consigli pratici su come p. es. comportarsi nell’ambiente di corte o con l’imperatore o con gli alti dignitari ed ecclesiastici, ecc., e non quelle di fare del figlio un religioso dedito alla preghiera (da svolgere cinque volte al giorno, come suggerisce nel libro!) e alla contemplazione...perché a seguire quei suggerimenti ne sarebbe venuto fuori un santo o, come diciamo noi moderni, un “fondamentalista” perfetto.

Non vi è dubbio che erano state le stesse condizioni di malinconia (oggi diremmo di depressione) per l’assenza del marito e di salute (non si conosce la data della sua morte, avvenuta poco dopo aver terminato il libro, probabilmente nello stesso anno 843, seguita nell’anno successivo da quella di Bernardo) che l’avevano portata a rifugiarsi nella religione

L’amato figlio Guglielmo, invece, nonostante tutti i suggerimenti alle preghiere e invocazioni, divenne un guerriero che a ventitre anni (849) si impadronì di Barcellona facendo prigioniero il conte Aledran, ma poi Aledran conquistò la libertà facendolo a sua volta prigioniero e condannandolo a morte: fu giustiziato a ventiquattro anni (850).

Quanto a Bernardo, Carlo il Calvo lo aveva riconfermato nel possesso dei beni del fratello in Borgogna, ma egli considerava il re un nemico e volendo vendicare la morte del padre e del fratello, nell’864 nascosto nella foresta in prossimità di Pistres

voleva tendere un agguato al re e ai suoi due fidi consiglieri Roberto il Forte, conte d’Anjou e Rainulfo I conte di Poitiers. Ma l’imboscata non ebbe seguito e sarà ucciso durante una rissa (872) a trentun anni.

Il tenore del libro, è appassionato e incisivo con esortazioni che provengono dal cuore di una madre, che nella sua devozione cristiana, si sente privata dell’affetto dei due figli senza la speranza di poterli rivedere.


Il testo (*), come preannunciato dalla stessa D., è diviso in tre parti, che sono la Regola, il Modello e il Manuale; D. precisa che ciascuna delle tre espressioni ha un chiaro significato nel senso che: la Regola proviene da me, il Modello è per te, il Manuale è da me elaborato.

Dhuoda spiega poi il significato del termine “Manuale”, che deriva da manus, che può essere interpretato in vari modi (la cui fonte, spiega., sono le sacre scritture e Padri della chiesa, che omettiamo di riportare ndr.), come potenza di Dio o potenza del Figlio*: aggiungendo: Dall’inizio alla fine di questo libretto sono andata scrivendo per la salvezza della tua anima e del tuo corpo: Quando quest’opera ti sarà giunta, inviata dalla mia mano, voglio che tu la stringa con amore tenendola, sfogliandola e leggendola; cerca di farla vivere nelle tue opere il più degnamente possibile: Sia dato dunque il nome di Manuale a questo libro che tratta le regole; le parole vengono da me, sta a te metterle in pratica; e come disse qualcuno (Paolo), io piantai, Apollo innaffiò, ma Dio stesso ha donato la crescita.

In nome della Santa Trinità, ha inizio il libro, detto manuale, che Dhuoda dedica al figlio.


*) Il testo utilizzato per questo articolo è quello della traduzione italiana di Gabriella Zanoletti pubblicato da Jaca Book, ed. 1997, che riporta nelle note tutti i riferimenti alle sacre scritture (che riprendiamo nel presente articolo).


L’ansia della madre: La maggioranza delle madri di questo mondo, scrive D., può godere della vicinanza dei suoi figli, mentre io sono lontana da te figlio mio Guglielmo e perciò sono in uno stato d’ansia acuito dal desiderio di esserti utile. Perciò ti invio questo libro che ho scritto, perché tu lo legga per la tua formazione; sarò felice che pur essendo fisicamente assente, il libro ti richiami alla mente quando leggerai, cosa ti suggerisco di fare.


L’invocazione: nell’epigrafe troviamo l’invocazione (alternando quella messa in bocca al figlio a quella sua) con l’invito al figlio: “Dhuoda al figlio Guglielmo, leggi: “O Dio sommo... nella mia esperienza ti chiedo forza d’ingegno affinché sia capace di comprendere secondo i tuoi desideri e occupare in modo degno il tempo presente e futuro. Tu che in ogni tempo governi, abbi pietà dei miei figli. Fa che i miei due figli sparsi in questo mondo, vivano e sempre ti amino”.

Poi D. esprime la invocazione in versi: O Dio..nella mia esperienza ti chiedo forza d’ingegno...Concedi ai meritevoli il meritato premio...Dammi, ti scongiuro il tuo aiuto perché possa sedere alla tua destra.... Fa che i miei due figli apparsi in questo mondo vivano e sempre ti amino. Seguito dall’invito: Lettore che desideri conoscere la formula, osserva attentamente le iniziali di questi versi (1); chiudendo, con gli ultimi versi: Madre di due figli di sesso maschile, ti chiedo di pregare il nostro benefico Creatore, perché innalzi sino al cielo il padre dei miei figli e me (Meque...*) con loro unisca nel regno”.


1 Incomincia a leggere dalla lettera D delta (del Dominus con cui ha iniziato i versi: Deus, summae lucis ) alla lettera M, moyda, tutto è concluso (inizio dell’ultimo verso).

*Meque cum illis iungat in regnum. I versi sono finiti, con essi giunga il regno. Con l’aiuto di Cristo mi accingo a esporre l’opera iniziata per i miei figli.


Il Prologo


Dopo aver fatto professione di modestia sulle sue facoltà mentali (tutt’altro che mediocri! ndr.), D. scrive: “A molti appaiono chiare molte cose che a me sfuggono; anche coloro che mi sono simili mancano di facilità di intendere, ma io ancora più di loro ed è ancora dir poco”(!).

Io Dhuoda, nonostante la fragilità della mia intelligenza, indegnamente vivendo tra degne donne, tuttavia a te Guglielmo, figlio mio, indirizzo questo Manuale: Come infatti il gioco delle “tavolette” tra gli altri giochi mondani appare più rispondente e adatto ai giovani o come certe donne si specchiano esaminando il loro viso tratto per tratto per detergerlo dalle impurità e si danno da fare per mostrarlo nel suo fulgore e per piacere in società e ai loro mariti, così io spero che tu, soffocato dai molteplici impegni mondani e secolari, legga sovente questo libretto e mi auguro che non te ne dimentichi come se fosse un gioco di specchi e tavolette.

Anche se la tua biblioteca si accrescerà di molti volumi, ti piaccia leggere spesso la mia opera e possa, con l’aiuto di Dio, prenderla per il tuo bene.

Vi troverai quanto desideri: in breve, apprendere; vi troverai anche uno specchio nel quale potrai scorgere la salvezza della tua anima...affinché tu possa essere gradito a Colui che ti formò dal fango.

Mi sta innanzitutto a cuore, rivolgerti figlio mio, parole di salvezza e il mio cuore arde dal desiderio che tu abbia quelle che sono andata annotando in questo libretto, seguendo la mia memoria, a proposito di quando ....nascesti, e mi par giusto preporle alle altre pagine.


La Prefazione


Dhuoda dopo aver indicato le date del suo matrimonio (purtroppo non la sua età), avvenuto in Aquisgrana (nell’824), la nascita di Guglielmo (826) e la morte dell’imperatore Ludovico il Pio il cui regno non era durato sino alla fine del ventottesimo anno (840), scrive che l’anno successivo alla sua morte, era nato il secondo figlio (dopo diciassette anni dal primogenito Guglielmo), che le era stato portato via prima di conoscerne il nome (porterà lo stesso nome del padre, Bernardo) nato nella città di Uzès dove lei viveva, del quale il padre Bernardo aveva disposto, come aveva fatto per il primogenito Guglielmo, fosse portato in Aquitania del cui ducato era stato nominato duca, e dove si trovava anche il vescovo di Uzés, Elefanto, al quale era stato affidato il bambino.

Dhuoda fa anche riferimento ai tempi travagliati dalle discordie del regno (v. in Articoli, cit. La dissoluzione dell’impero carolingio), e fa professione di umiltà sulla sua modesta origine (che, come detto, rimane sconosciuta), e di religiosità (libro scandito dalle continue invocazioni e suggerimenti alle preghiere). D. sia per la cultura mostrata sia per la religiosità, era stata certamente educata in convento e prelevata giovanetta (come detto tra i sedici e diciotto anni) per andare sposa a Bernardo, secondo l’uso del tempo.


Il contenuto del testo


Il libro è preceduto dall’elenco dei capitoli, (a seconda dell’originale da cui è stato attinto, per quello da noi utilizzato (v. sopra, nota 1), ciascuno diviso in paragrafi, dei quali riportiamo le parti strettamente attinenti agli insegnamenti di Dhuoda, escludendo in buona parte i riferimenti alle sacre scritture e richiami religiosi.

Cap. I. Diviso in paragrafi tutti rivolti a Dio e all’amore nei suoi confronti, la sua ricerca, la sua grandezza, la sua sublimità, introduce l’argomento dei numeri che serviva a prendere con essi, dimestichezza e non solo (v. in nota: Simbologia dei numeri).

- Riferendosi a un dottore (forse s. Agostino) dice che nel suo nome vi sono due sillabe e quattro lettere “quando le avrai conosciute, ti sarai reso conto che questa parola contiene un mirabile mistero” e spiega: la prima D è chiamata delta dai greci che secondo quelle lettere (dell’alfabeto) rappresenta il numero quattro o della perfezione. secondo la nostra lingua latina la D si innalza al numero cinquecento (e ciò, aggiunge, non è esente da un santissimo mistero).

- Anche l’uno, due, tre e quattro, benché siano per se stessi significativi, si configurano in altri numeri per formare altre cifre. E Dhuoda prosegue con un esempio (definendolo “chiarissimo per i sapienti”): cinque volte cinque, dà come risultato XXV; lo stesso numero, raddoppiato sale d’un balzo a 50 (v. sotto Simbologia ecc.).

- Entrambe queste dizioni (del cinque) sia secondo il computo greco, sia latino, sono fruibili per tutto ciò che proviene da Dio: il cinque fa da custode ai cinque sensi corporali: vista, udito,gusto, odorato, tatto. Il numero quattro allude ai gruppi di quattro, sia per contenere i quattro elementi del corpo, e cioé, caldo, freddo, umido, secco, sia per custodire le quattro virtù, giustizia, fortezza, prudenza, temperanza e le parole dei quattro Vangeli, sia per comprendere e ricordare le quattro parti del mondo: oriente, occidente, settentrione, e mezzogiorno. Il tre allude alla trinità perfetta, che va intesa nella più alta espressione di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo, con i tre doni: pensiero limpido, parola santa, opera perfetta e tutto quanto proviene da colui che è detto Dio.

- Anche il due allude a due vie, l’una è attiva e l’altra contemplativa, e ancora, due virtù: la capacità di intendere e quella di operare, che hanno come modello i due comandamenti: l’amore di Dio e quello del prossimo.

- L’uno è quello che primeggia su tutti gli altri, da intendere: Colui che è detto Dio.

- Seguono esortazioni bibliche per il raggiungimento della perfezione.

- Con l’ultimo paragrafo, iniziando con l’esclamazione di umiltà: “cosa posso dire io ben fragile urna”.... e per illustrare questa limitatezza , D. richiama questo esempio:- - Se la volta celeste e la terra fossero stese nell’aria come un foglio di pergamena e gli abissi marini fossero mutati in crosta terrestre e gli abitanti della terra nascendo in questo mondo per un particolare sviluppo dell’ingegno umano fossero stati scrittori dall’inizio ad oggi (ciò che è contrario alle possibilità della natura) non sarebbero in grado di racchiudere la grandezza, la profondità e la sublimità dell’Onnipotente (Ef.3.18; Mc.18.33) (1), e narrare della divinità , della scienza, della pietà e della clemenza di Colui che è detto Dio che è tanto grande che nessuno può penetrare nella sua essenza...segue la esortazione a temerlo, amarlo con tutto il cuore e la mente.

- Infine, dopo l’esortazione rivolta al figlio Guglielmo “bello e amabile”, di non tardare a procurarsi, pur tra gli obblighi mondani del secolo, le copie di molti libri “ove tu possa più e meglio di quanto io ho potuto, sentire e apprendere che Dio creatore prega, onore e ama”, aggiungendo: “La tua Dhuoda ti è sempre vicina per rincuorarti; e se verrò meno, morendo, cosa che dovrà accadere, avrai in mia memoria questo libretto di morale e come nel riflesso di uno specchio, mi potrai avere come nel riflesso di uno specchio, sempre sotto gli occhi” e termina” Queste parole leggile e sappile penetrare , mettile in opera e quando tuo fratello, così piccolino, del quale ancora ignoro il nome, avrà ricevuto la grazia del battesimo di Cristo, non ti rincresca mai di iniziarlo, allevarlo amarlo e incitarlo ad operare meglio. E questo piccolo manuale, quando egli sarà giunto all’età di parlare e leggere, mostraglielo e sii per lui stimolo per la lettura: egli è infatti carne e fratello tuo. E io Dhuoda, madre vostra, vi esorto come se voi due foste già riuniti ad innalzare i vostri amori...almeno di tempo in tempo, in mezzo al peso delle incombenze mondane del secolo.

- Proprio l’Onnipotente, al quale indegnamente faccio menzione insieme a vostro padre, mio signore e padrone Bernardo, vi renda felici e contenti nel secolo presente e vi conceda il successo delle vostre azioni , e dopo che sarà compiuto il cammino della vostra vita, vi permetta di entrare lietamente con i santi in Cielo. Così sia.


1) Dhuoda e ancor prima, il mondo antico avevano la consapevolezza di un universo concepito nella ristrettezza e limitatezza della visione biblica, di un Dio antropomorfo che lo aveva creato nell’arco di sei giorni e al settimo si riposò (a cui non è applicabile alcuna allegoria!), che sebbene considerato omnisciente, non ne aveva dato le reali dimensioni che solo ora (dopo oltre duemila anni) ci stanno svelando gli scienziati, o della visione aristotelica che con quella “autorità”, non aveva consentito fosse introdotta qualche ipotesi diversa da quella di una Terra attorno a cui girava il sole e i pianeti. Nessuno aveva potuto immaginare la scoperta di un universo senza fine costituito dall’ impressionante numero di cento miliardi di galassie in una delle quali tra cento miliardi di stelle, si trova la Terra come semplice granello di sabbia, disperso in questa sublime immensità.



Cap. II. D. richiama la Trinità secondo i testi dei padri ortodossi, in cui figlio mio, devi credere come in te stesso.

- Dhuoda richiama le virtù teologali, fede, speranza e carità delle quali la maggiore è quest’ultima: karitas dei greci è la dilectio latina, vale a dire “amore” ambedue i termini concordano nel riferirsi a Dio che D. esorta ad amare.

- Ossessionata dall’insegnamento religioso, spiega che la preghiera in latino è oris-ratio-ragione della bocca, e sta anche per “venerazione” per ciò che è venerabile da proseguire con profonda disposizione del cuore e pura inclinazione della ragione. E suggerisce: Se cerchiamo di ottenere qualche vantaggio da un potente della terra, piccolo o grande, non chiediamolo con superbia o vociando con parole di critica, ma chiediamo che ci venga dato con umiltà.

- Dhuoda dopo aver suggerito di pregare, non a gran voce, ma in silenzio, con elevata predisposizione di cuore, aggiunge: io, con umiltà estrema, non fervente, pigra, fragile e sempre propensa verso ciò che è basso, non sono attratta non solo da una lunga preghiera ma neppure da una breve orazione; spero però in colui che diede ai suoi fedeli il permesso di chiedere. Tu invece figlio mio Guglielmo, sii vigile con preghiera breve, fervida e pura; recita non soltanto in chiesa ma ovunque ne avrai l’opportunità; segue invocazione...aggiungendo: dammi memoria e forza d’ingegno (doti fondamentali per potersi distinguere nella vita ndr.)...affinché possa amarti ...e ancora pregalo chiedendogli che io goda di un sonno sereno, e se dovesse capitarmi di svegliarmi, che io possa sentire che tu vegli sul mio sonno, tu che apparisti sulla scala del beato Giacobbe (Gn.28.12).

- Dopo altre invocazioni e suggerimenti ad adorare la + croce, aggiunge: “come la rugiada prima dell’Hermon che discende da Sion, o come l’unguento copiosamente versato sul capo scende sino alla barba di Aaron (Sal,132, 3 e 2), così l’unzione di Gesù Nazareno figlio di Dio scenda su di te...e anche su tuo fratello”... .

- Che altro, figlio mio? Dopo aver calzato i tuoi piedi secondo l’uso.. recita le ore canoniche...Intanto che ti prepari, recita le tue preghiere...e quando avrai terminato, va a compiere il tuo servizio temporale, sia ciò che ti comanda il tuo signore e padre Bernardo, o ciò che ti chiede di fare il principe Carlo, se ciò sarà permesso da Dio.

Dopo aver suggerito invocazioni alla misericordia, D. conclude suggerendo l’invocazione a Dio perché non sia attaccato dalle calunnie, né sopraffatto dall’ingiustizia.

Cap. III. D. dimostra tutta la sua ammirevole dedizione al marito (infedele e assente dalla sua vita e ciò nonostante): - Per quanto ne sono capace, non mi stancherò di farti intendere in ogni occasione come tu debba portare reverente rispetto, amore e fedeltà a Bernardo tuo signore e padre sia in sua presenza, sia in sua assenza.

- Seguono esortazioni e ancora numerose citazioni tutte miranti a onorare il padre: ...onora il padre ...obbedisci a tuo padre ...sii sollievo alla sua vecchiaia...non rattristarlo, non mortificarlo mentre tu sei nel pieno della tua vigoria; sia ben lontano da tre un tale comportamento che la terra mi copra con la sua polvere prima che accada qualcosa del genere, ma so che ciò non accadrà; ma devi star bene attento che neppure una volta ti passi per la mente l’idea di un tale delitto che molti per la verità commettono, come ben sappiamo, di persone certamente non simili a te (si riferisce alle continue ribellioni dei figli di Ludovico il Pio, v. cit. Art. “I Carolingi e il disfacimento dell’Impero”), ma anche Bernardo con il figlio Guglielmo si erano ribellati come riportato nel presente articolo).

- E riporta l’esempio di Assalonne che ribelle verso suo padre morì di morte infame, impiccato a una quercia e trafitto a colpi di lancia finì la sua vita nel fiore della giovinezza.

- Ma, la maledizione, aggiunge, non parte da me ma dalla Scrittura: sia maledetto chi non onora il padre (2. Sam.) chi maledirà il padre, morirà di morte disonorevole e vergognosa (Lev. 20.9).

- Tu dunque, figlio mio, Guglielmo, obbedisci agli ordini di tuo padre e, dopo la raccomandazione a non lasciare inascoltati i comandi dei Padri....Se tu ascoltandomi, adempirai ai giusti consigli di cui ho fatto menzione, non soltanto parteciperai al possesso dei beni terreni, , ma anche ...ai beni del Signore... ecc.

- Dhuoda esprime una sua visione della società umana organizzata sotto il potere reale o imperiale che in questo modo trionfano, con la conseguenza che si deve rendere omaggio alle azioni e ai nomi di chi lo regge, ricordando che l’intero ordinamento, fino al più alto grado della feudalità, può rimanere inaccessibile per chi non ha la prerogativa di avere un padre di altissimo rango, e infine gli suggerisce: ama, temi e onora tuo padre e ricorda che da lui ti viene la sua condizione nel mondo.

- D. per descrivere la devozione dei figli richiama l’amore di Sem nei confronti del padre Noè e quello del fratello Jafet, e, quello di Cam t (da ciascuno dei quali sarebbero discese le tre razze dei Camiti, Semiti e Ariani ndr.) e richiama l’obbedienza di Abramo al quale Dio aveva chiesto di sacrificare il figlio Isacco (il cui nome, lei dice, significa “riso” o “gioioso”, ma secondo più recenti interpretazioni sarebbe da intendere “colui che ride”, e per questo considerato portatore di handicap, come Dawn ndr.) e richiamando anche l’obbedienza di Giacobbe, che per questo era stato sottratto a molte afflizioni e amare prove, meritando di ricevere la benedizione di Dio, del padre terreno, della madre e dell’angelo che gli preannunciava che sarebbe stato chiamato Israele. E Dhuoda richiama anche il figlio, Giuseppe, che per la straordinaria dolcezza del suo amore, dagli egiziani fu chiamato salvatore e governatore del mondo (Gn.41-45).

- D. fa riferimento al re Carlo (il Calvo), che hai come signore, poiché Dio, come credo, e tuo padre Bernardo lo scelsero perché tu lo servissi già in questo inizio della tua vita e con il vigore della tua giovinezza in boccio, tieni a mente che è uscito da una progenie elevata e nobile per entrambi i genitori; servilo dunque, non per piacere soltanto ai suoi occhi, ma anche secondo la tua intelligenza, sia per il corpo che per l’anima, conservagli in ogni evenienza, una fedeltà schietta, consapevole e a lui proficua. Rifletti sull’ottimo servo Abramo del quale richiama l’obbedienza...ecc..

- Giammai, prosegue D., neppure una volta, esca dalla tua bocca una parola infame e ingiuriosa per la follia dell’infedeltà; non nasca e non proliferi nel tuo cuore il pensiero di essere in alcun modo infedele al tuo signore. Coloro che si comportano in tal modo, sono definiti con termini duri e infamanti. Non credo tuttavia che questo possa accadere a te o a coloro che militano con te; questa abitudine, come ben sappiamo, non si manifestò mai nei tuoi progenitori; non fu mai presente, né lo è o lo sarà nel futuro (ma il duca Bernardo, come abbiamo visto, non si era attenuto a questa regola!).

- Tu dunque, figlio mio Guglielmo, nato dalla loro progenie, come già ti dissi, sii nei confronti del tuo signore leale, vigile, prezioso e degnissimo nel servizio; in ogni questione riguardante il potere reale, fa’ il possibile, per quanto Dio te ne dia la forza, di comportarti con grande prudenza, sia nel tuo intimo che all’esterno. Leggi le massime e le vite dei santi che ci hanno preceduto e vi troverai come ed in che modo tu debba seguire il tuo signore e fedelmente assisterlo in ogni evenienza. Osserva scrupolosamente coloro che lo servono con zelo e con fedeltà, ed impara da quelli le regole di comportamento; avendo fatto tuo il loro esempio, con il favore e la protezione di Dio, ti sarà più facile adempiere quanto sopra ti ho ricordato. Che il tuo Dio e il tuo signore ti sia propizio e benigno in ogni occasione; ti difenda, egli, maestro dispensatore di bene e protettore. Che in tutte le tue azioni si degni di esserti sempre assiduamente vicino come tuo aiuto e difesa. Come si manifesterà la sua volontà nei cieli, così sia. Amen.

- D. prosegue: Agisci secondo il consiglio di coloro che ti preparano ad agire fedelmente per quanto concerne l’anima ed il corpo. É scritto... ecc..

Quanto fai, fallo con consiglio, e dopo averlo fatto non te ne pentirai (Sir.32.24)...ecc..

- A questo punto D. nel suggerire la prudenza e la ponderazione, richiama l’esempio di coloro che lavorano i metalli preziosi, quando cominciano a stendere l’oro in lamine, aspettano il giorno ed il tempo adatto e conveniente, l’ora e la temperatura adatta, affinché l’oro risalti più luminoso, brillante e fulgente. Così nella disposizione degli uomini prudenti, deve sempre essere presente in ogni circostanza, la ponderazione di chi unisce ragione e calcolo.

- La parola dell’uomo sensato è più risplendente della neve, più dolce del miele e più pura dell’oro e dell’argento; perché? perché, come dice la Scrittura, dalla bocca del saggio fluisce il miele: più dell’oro e dell’argento è preziosa la grazia (Prv.22,1), e così le parole di un grande: perché le sue labbra distillano un favo di miele, e sono oneste, controllate e sottoposte alla prova del fuoco (Ct.4,11).

- Non vi sono ricchezze ove regna la stoltezza, ma non manca nulla e non vi è impedimento nelle cose in cui si snoda senza interruzione un garbato discorso.

- Chiunque si adoprerà per inserirsi fra i saggi, potrà essere gradito a Dio ed agli uomini e con la sua fedeltà soddisfare in tutto il suo signore. Sarà provato come l’oro e riconosciuto più bianco della neve. E’ scritto: La bocca dei saggi sarà resa più pura della neve e le loro labbra, labbra di giubilo ...ecc.... Ti prego. non tralasciare di frequentare assiduamente non solo gli anziani ma anche i giovani che si fanno diligentemente discepoli di Dio, perché la vecchiaia attinge il suo vigore da una gioventù fiorente, .... e nel secolo furono i più influenti consiglieri del re e anche dei governanti pagani di gente straniera...ecc..

- D. fa riferimento ai consiglieri, alcuni dei quali ritengono di esserlo e non lo sono, poiché pensano di essere saggi e non lo sono; vi sono quelli che danno buoni consigli, ma non nella maniera opportuna, non vantaggiosa per sé, nè proficua per gli altri; perché? Perché il loro consiglio non raggiunge una perfezione alta e sottile; vi sono altri che danno cattivi consigli del tutto irrealizzabili. Ognuno agisce in maniera diversa , in casi diversi; vi furono nel passato molti uomini meritevoli, giusti e leali e ve ne sono oggi, diversi sotto molti aspetti, perché bel mondo si rendono manifeste cose diverse...ecc. .

- Poi suggerisce ...evita i malvagi e scegli gli onesti, guardati dai maligni e unisciti ai buoni, non accettare consigli da chi è malevolo, pusillanime e pronto all’ira; come una tigna ti roderà poco a poco e non sarà mai tranquillo e sicuro nelle sue decisioni; la sua facile ira e l’invidia che gli è abituale, lo spinge ai passi falsi e lo trascina nell’abisso....tu dunque figlio mio Guglielmo, sta in guardia e fuggi i malvagi, stringiti agli onesti che perseguono il bene; essi per sincera obbedienza nei confronti di ciò che è gradito ai loro signori e prodighi di consigli davvero efficaci, meritano di ricevere da Dio e dagli uomini, un premio adeguato e cospicuo; quanto accadde loro, io prego che ora e in ogni giorno e sempre, si realizzi per te, figlio mio amatissimo.

- Se giungerai a meritarti di servire con i tuoi compagni d’armi a palazzo reale od imperiale, o dovunque tu possa essere utile, agli illustri, nobili ed eminenti parenti e congiunti del tuo signore, cui compete la potestà regale, sia che il loro grado derivi dalla linea paterna o da un matrimonio, porta rispetto, amore, venerazione ed abbili cari. In ogni affare che concerne i loro interessi, con fedeltà di esecuzione sia della mente che del cuore conserva loro sempre la tua devozione salda, leale che impegni la tua fedeltà di corpo e di anima.... Tu, mio amato Guglielmo, sottomettiti alla norma di una soggezione ininterrotta e sii fedele al tuo signore Carlo, incondizionatamente, ed ai suoi nobili parenti di entrambi i sessi, nati da stirpe reale; è giusto per te agire così e per tutti quelli che servono il loro potere reale....

- Abbi cari, onora e servi devotamente gli alti dignitari dei principi i loro consiglieri e tutti quelli che come loro servono con fedeltà, come se ognuno di loro fosse una parte di un tutto, senza distinguere in base al prestigio che uno può avere più dell’altro i corte. Informati con diligenza e con umiltà sugli esempi del loro valore ed attieniti ad essi con la massima fermezza. In una casa come quella, come è stata e come sarà, se Dio lo vorrà, si scambiano molti punti di vista. L’uno può, se lo vuole, imparare dall’altro l’umiltà, la carità, la castità, la mansuetudine, la modestia, la sobrietà, I’astuzia,e ogni altrea virtù, insieme alla propensione per le buone opere.

- Tu dunque, figlio mio, come un fanciullino che man mano si sviluppa (Gn. 49,22), impara dai grandi e da coloro che sono dotati di buon senso quanto di valido potrai ottenere con l’aiuto da Dio che tutto può, perchè innanzitutto possa piacere a Dio. Fra i parenti, infatti, i congiunti e gli amici fedeli, studiati, ti prego, di agire in modo tale che senza macchiarti del delitto di infedeltà ai tuoi signori, mettendo in pratica amorevolmente ogni buona azione, tu possa vivere felicemente l’intero arco della tua vita, secondo dignità con castigatezza degna d’elogio. che rende faconde le lingue dei bambini (Sap. 10,219)...ecc. .

- Non è necessario, certamente, che ti rivolga questo insegnamento, e cioè che i nobili insieme ai più piccoli debbono seguire gli esempi dei loro superiori, dei signori e dei grandi, poiché, lontano da me, tu hai la possibilità di osservarlo frequentemente; tuttavia i minori, non dubitarne, talvolta si erigono ad esempio di chi sta sopra di loro, non esitare dunque ad unirti a loro, come loro a te, per servigi importanti e modesti.

- Anche a te, pur se fra i tuoi compagni d’arme puoi apparire il più piccolo, non rincresca tuttavia mai, te ne prego, di avere sempre sotto tuoi occhi partecipi la forza vitale ed il comportamento esemplare dei grandi dei quali scrissi prima, e di imitarli. Considera i grandi come altissimi sopra di te, i tuoi eguali come più in alto di te, affinché insieme a loro tu possa dare nuovo credito alla dignità dei tuoi padri; ti prego, sii lieto che siano tutti preposti a te per la tua umile sottomissione proponi a te stesso un paragone, sotto l’aspetto di metafora, come quella dell’uomo di cui è detto la sua mano contro tutti, e la mano di tutti contro di lui (Gn.16,12). Se diamo un significato positivo a questa frase, ti esorto a essere tale in tutte le cose: che la tua mano sia proclive alle opere buone; che verso i grandi ed i più piccoli, chi ti è eguale e chi ti è inferiore, per quanto puoi e per quanto potrai, tu ti adopri a compiere il tuo dovere e a rendere loro onore, non solo con le parole, ma anche con i fatti, e questo con espressioni di mansuetudine. Di coloro che donano è scritto: Dio ha caro colui che dona con gioia (2 Cor. 9,7).

- Anche a te, pur se fra i tuoi compagni d’arme puoi apparire il più piccolo, non rincresca tuttavia mai, te ne prego, di avere sempre sotto i tuoi occhi partecipi, la forza vitale ed il comportamento esemplare dei grandi dei quali scrissi prima, e di imitarli. Considera i grandi come altissimi sopra di te, i tuoi eguali come più in alto di te, affinché insieme a loro tu possa dare nuovo credito alla dignità dei tuoi padri;

ti prego, sii lieto che siano tutti preposti a te per la tua umile missione. Proponi a te stesso un paragone, sotto l’aspetto di metafora, come quella dell’uomo di cui è detto: - La sua mano contro tutti, e la mano di tutti contro di lui ..... Se diamo un significato positivo a questa frase, ti esorto a essere tale in tutte le cose: che la ma mano sia proclive alle opere buone; che verso i grandi ed i più piccoli, chi ti è eguale e chi ti è inferiore, per quanto puoi e per quanto potrai, tu ti adopri a compiere, il tuo dovere ed a rendere loro onore, non solo con parole, ma anche con i fatti, e questo con espressioni di mansuetudine.

- Anche tu, figlio mio Guglielmo, prediligi e riconosci colui o coloro dai quali desideri essere conosciuto; ama, venera, accogli ed onora tutti, che tu meriti di ricevere da tutti una scambievole ricompensa, con l’onore che ti è dovuto.

- D. suggerisce il rispetto per i sacerdoti che distingue dai presbiteri e dagli episcopi-vescovi e il vero sacerdote, fatto pontefice per l’eternità.

Cap. IV. Contiene l’esortazione a correggere le diverse abitudini di vita, con l’esortazione a rifuggire come abominevoli i malvagi, i disonesti, i pigri, i superbi, perché tendono delle corde con funzione di trappole per ingannare e non smettono di preparare trappole e trabocchetti per incapparvi e precipitare loro stessi per primi e poi gli altri che loro somigliano, ricercando di osservare gli esempi degli uomini illustri noti nel passato presente e futuro, per essere piaciuti a Dio e al mondo.

- Per quanto sta in te, figlio mio, mentre combatti nella frenesia delle azioni mondane, sia che ti tocchino in sorte eventi felici che avversi, rendi grazie assiduamente a Dio in ogni evenienza, affinché perlomeno l tua anima non si insuperbisca mai nei momenti di prosperità secondo l’esempio dei malvagi e quando fossi impari nelle avversità, tu non ti abbia a sbandare per l’abbattimento.

Se talvolta i vizi stanno per levarsi contro di te, ciò che non succeda, opponi, come si è detto, le cose contrarie a ciò che è contrario. Dice infatti l’Apostolo: Camminate secondo lo spirito e non soddisfate i desideri della carne. La carne infatti concupisce contro lo spirito, lo spirito invece contro la carne (Gal. 5,16 e 17).

- Se qualche volta cresce l’orgoglio, e ciò non accada, considera bene che Dio resiste ai superbi e li scaglia nell’abisso. Guardati da lui e fuggilo, ed a questa malattia ed a questa peste apportatrice di morte, contrapponi una profonda e sincera umiltà. Il Creatore del genere umano, umile, sincero e benigno concede la sua grazia agli umili. Dice infatti egli stesso: Imparate da me che sono mite ed umile di cuore (Mt.11,29).

- Quale grave peste è la debolezza dell’orgoglio; è la causa per cui Lucifero, che il suo grande Creatore si degnò di creare grande, si lanciò nell’oscurità di una fosca caligine e precipitò nell’abisso, inghiottito nel precipizio delle pene della morte, fatto schiavo per l’eternità del Tartaro! O come è grande, alta ed eccelsa, l’umiltà. Nel luogo,

- Tu, dunque, figlio mio, nel vigore della tua gioventù, impara a portare ogni giorno nel tuo animo e nel tuo corpo il giogo ed il carico di Cristo re, Tu invero, sicuro e tranquillo, per esserti sottratto alla molestia ed alla gravezza del vincolo dei peccati, almeno verso la fine della tua vita, puoi innalzarti e trovare accesso presso di lui, tranquillamente e facilmente. Ognuno di noi, allora, come disse un dottore il giorno del venerdì santo, nelle difficoltà e nelle incertezze del secolo, deve scegliere un comportamento di vita tale da potere alla fine essere liberato. Il Salmista infatti dice così: Pensa, o Signore, a quanto hai lasciato detto.

- Seguono le raccomandazioni a combattere i vizi e seguire le virtù, rifuggire dalla fornicazione, dal rancore perché l’ira turba che può insinuarsi nella tua mente, turba il tuo cuore.

- Ti consiglio figlio mio a esser lento nel parlare e lento nell’ira. Ugualmente ti esorto , se incontri un povero, a essergli d’aiuto non solo con le parole. Similmente ti esorto a ospitare con liberalità le vedove e gli orfani, gli adolescenti bisognosi e a tutti coloro che troverai in stato di bisogno,porgi la tua mano soccorrevole.

- Abbi cara la giustizia; guardati figlio mio dalla ingiustizia e fuggila, ama l’equità , persegui la giustizia, abbi timore della parola iniquità; non ti accada che la brama di cose caduche ti predisponga a tristi catene; ogni iniquità e ogni ingiustizia ricade su chi l’ha commessa; che vantaggio deriva, figlio mio, da un sangue nobile, se il corpo si corrompe per le ingiustizie e sprofonda nella corruzione in cui sempre piangerà? Non gli giova trar profitto dal mondo intero , se poi deve perdersi.Il mondo passa e con lei la sua concupiscenza ha il sopravvento sulla giustizia. Con manop generosa distribuisci le ricchezze che Dio ti ha gratificato, rifuggi dall’avarizia. Ti ersorto a provvedere di vitto e bevande chi ne ha bisogno; quelli che acquisiscono beni è giusto che diano conforto e aiutino i più piccoli quando li incontrano.

- Anche se l’uomo risplende per l’oro e gemme e la porpora, povero e nudo andrà nelle tenebre, senza nulla portare con sé, se non quanto abbia realizzato di buono, di pio, di casto di giusto...ti esorto a stare lontano dai vizi e amare sempre la giustizia. Sii misericordioso . Nelle sentenze legali, se ti troverai a emetterle, applica la misericordia e la giustizia. Dopo la sentenza è la misericordia ad avere il sopravvento sotto ogni aspetto : la misericordia infatti sta al di sopra della giustizia... .

- Quelli che acquisiscono grandi beni per i loro grandi meriti, è giusto che siano conforto e aiutino i più piccoli quando li incontrano. Offri con fraterna misericordia a chi ha fame, a chi è nudo, agli orfani , ai pellegrini, agli stranieri alle vedove, ai bambini e a chi è sopraffatto e ai bisognosi.

Cap.V. Dhuoda dedica il capitolo ai diversi generi di tribolazioni distinguendo gli uomini in carnali, che si rattristano per le cose caduche e spirituali, che si rattristano nel timore di perdere le cose celesti, precisando comunque che la tristezza spirituale è più nobile di quella carnale, dando suggerimenti a fruttificare, perseverare nelle opere buone, con invocazione al Signore se giungono le tentazioni, o nelle tribolazioni, nelle persecuzioni, nelle avversità , nelle difficoltà nelle infermità rendendo per ogni cosa grazie a Dio.

Cap.VI . E’ dedicato alle esortazioni a essere uomo perfetto, e come esserlo con l’aiuto di Dio, con ritorno alla numerologia (v. sotto), in cui richiama, il numero sette che rappresenta i sette doni dello Spirito e le otto beatitudini, specificando: sette volte 1= 7; sette volte 2= 14; quattro volte 1=4; quattro volte 2= 8; aggiungi sette e saranno 15; e ancora sette volte sette = 49; aggiungi 1 e saranno 50; continua ad aggiungere 1 al multiplo e così di seguito raggiungerai una cifra senza frazioni. Dì nuovamente sette volte undici=77; sette volte settanta = 490. Dì ancora tre volte tre = a 9, aggiungi uno e saranno dieci, e infine diecimila.

- Aggiungendo: Descrivere minutamente in che cosa differiscono tra loro questi calcoli, uno alla volta, sarebbe troppo lungo, in breve significano: dire sette volte sette, significa invitare ciascuno di noi a una piena soddisfazione; chi aggiunge uno, rafforza il totale 50; la forza dello Spirito santo correggendoci per la remissione dei nostri peccati ed emendandoci per la nostra riparazione, ci assicura la felicità immensa del salmo cinquanta, che va inteso come remissione e assoluzione.

- Quando uno dice sette volte undici (in S. Agostino: De consolatione Evangelium), intendi questo calcolo come riferentesi alla sola correzione del corpo unita alla riparazione spirituale. Di nuovo quando dici sette volte 70, ricordati sempre che ha attinenza con la remissione dei torti che tu giudichi gli altri ti abbiano inflitto, peccando contro di te. Per questo il più grande e principe degli Apostoli, disse: Signore, se mio fratello peccherà contro di me, quante volte mi ordinerai di perdonargli: forse sette volte? (Mt.18.21). Il Signore gli rispose: Non ti dico sino a sette volte, ma sino a settanta volte sette (t.6.14); Sette volte settanta, dice colui che fa i calcoli, fanno 490...

- Con il numero sette sono indicati i doni del Creatore e con il numero otto le beatitudini; militando in queste quindici tappe per gradazioni, ti esorto ad elevarti gradatamente impratichendoti, sino alla cifra cento, alternando la mano sinistra alla destra, per poter giungere sano e salvo al culmine della perfezione.

- I calcolatori esperti, infatti, calcolano sino al 99 con le falangi della mano sinistra, ma quando arrivano alla cifra cento, la sinistra si arresta all’istante e alzano festanti la mano destra per il numero cento.

Su questo calcolo delle due mani, troverai scritto: La sua mano sinistra sul mio capo e la mano destra mi abbraccerà (Ct. 8,3). Come va intesa la mano sinistra, se non con la vita presente nella quale ciascuno di noi si agita spendendo la sua fatica? - - E come va interpretata la destra se non sotto l’aspetto della vera e santa patria celeste? ... Ti assista la santa grazia della Trinità...Amen.

Cap.VII. D. inizia il capitolo rivolgendosi al figflio al quale dice che gli è stata vicino per quanto abbia potuto per dare ordine ai tuoi costumi di vita in questo mondo, affinché mentre militi nel servizio attivo tu possa farti strada , fiducioso e tranquilli, senza che la tua dignità sia stata oggetto di disprezzo. Ora e in seguito non cesserò di incoraggiarti, con l’aiuto di Dio, a condurre alla perfezione il servizio della tua anima, perché tu possa rinascere ogni giorno in Cristo, come fossi tuia madre per una seconda volta sia nell’anima, sia nel corpo.

- Poi D. torna ancora sull’argomento del calcolo, secondo le cifre dei greci, che ritiene

di estrema importanza “arte degna dei più esperti e splendida amica di ogni argomento” e gli dice: troverai l’esposizione sommaria di un calcolo, per modesta che sia, che desidero con tutto il cuore che tu impari.

- Poi si diffonde a parlare delle due nascite dell’uomo, una materiale, l’altra spirituale ...per poi finire con l’invito a non aver paura della morte.

Cap.VIII. Segue l’ulteriore esortazione a essere costante nella lettura e nella preghiera.

- E’ in questo capitolo che D. invita il figlio a pregare per i parenti defunti e per tuo padre, al quale essi lasciarono la legittima eredità dei loro beni. Chi fossero e quali sono i loro nomi, aggiunge, lo troverai scritto negli ultimi capitoli di questo libretto; tuttavia è tuo padre Bernardo a essere in possesso della eredità, e , ripete, prega per coloro che gliela trasmisero perché (tuo padre) ne possa godere in una lunga vita felice. L’invito a pregare è anche per colui che lo tenne tra le braccia (come padrino di battesimo) il cui nome era Teodorico (*), ora defunto che se gli fosse stato concesso, ti avrebbe amato e educato. In riferimento a Teodorico, D. Aggiunge che essendo morto anche il suo piccolo primogenito, egli aveva lasciato i suoi beni al nostro padrone (Bernardo,considerato signore e padrone), a te destinati perché tu possa goderne, aggiungendo che non si stancherà di ripetergli di pregare per il prozio (Teodorico*), come meglio saprai fare.


*) Teodorico era fratello di Gellone commissario imperiale nelle contee di Autun, Nevers e Auxerre negli anni 816-820


Cap.IX. Ancora sul calcolo, D. ci tiene a precisare al figlio, che le nozioni che lei ha riportato nel libretto sono contenute in diversi libri(*)e lei ha inteso riassumere per adeguarle alle sue capacità perché tu possa salire per quindici gradi fino alla sommità. E quindi passa a spiegare (riprendendo da s. Agostino) le lettere del nome Adam: Come cinque volte tre fanno quindici, quindici volte tre fa XLV. Se si aggiunge uno fanno XLVI. E’ questo il numero che secondo la numerazione dei Greci è formato da queste lettere dell’alfabeto. Infatti A, alfa che indica il levante, sta per uno; , delta che indica l’occidente, sta per quattro; ancora A, alfa che indica il settentrione, sta per uno; M, moida, che va letto mezzogiorno, sta per quaranta. In queste parti del mondo Adamo (inteso l’uomo) si è diffuso per mezzo dei suoi figli.

- E D. prosegue: Ora 1 più 4 più 1 più <quattro per cinque per due> dà il totale di 46. Tante sono le unità contenute in questo numero , quanti gli anni per edificare la casa del Signore a Gerusalemme, 46..... Come 1+2+3+4 dà come risultato dieci, , così 10+20+30+40 danno 100; 100+200+300+400 formano il numero mille, così 1.000+2.000 +3.000+4.000 >danno 10.000; 10.000 + 20.000 + 30.000 + 40.000> danno 100.000. Se vuoi puoi giungere a un numero più alto 100.000 + 200.000 + 300.000 + 400.000> danno mille volte mille. In ogni elemento di questo calcolo è compreso un numero grande e perfetto. Nel numero uno infatti riconosci che è detto Dio , come dice il Profeta, egli solo è grande ed è l’Altissimo sopra tutta la terra. Nel due riconosci i due Testamenti o i due comandamenti , cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Il numero tre designa la perfezione della Trinità, alla quale si deve credere fiduciosamente per salvarsi. Nel numero quattro sono contenute le quattro parti del mondo e le quattro colonne secondo le quali il Vangelo è predicato nel mondo intero. Nel numero cinque le cinque vergini prudenti; esse conducono a totale doppio con i cinque sensi corporali, unitamente allo splendore della verginità e al candore abbagliante della castità. Sotto il numero sei riconosci le sei urne (delle nozze di Cana) che durano nel dipanarsi nelle sei età del mondo nelle quali sappiamo esservi mescolati buoni e meno buoni. Nel numero sette come ho detto sopra, oppure i sette candelabri e le sette lampade che illuminano la casa del Signore. Nel numero otto riconosci le otto anime che furono salvate dalle onde agitate, o anche quelli che nell’arca, cioè nella Chiesa, rinnovati dalle acque battesimali, meritarono di ricevere, con la palma, la dignità delle otto beatitudini ( v. Schede F. Sfere celesti e gerarchie angeliche). Per quanto riguarda il numero nove, si sostiene che vi sono nove ordini saldamente formati (vale a dire i nove cori angelici: v. cit. Sfere celesti e gerarchie angeliche). Il numero dieci, tutti noi crediamo che deve essere riscattato. E vi sarebbero molte altre cose concernenti questi argomenti-

In questo riscatto devono essere salvate non solo le nazioni ma anche le generazioni

di Israele secondo quanto dice la Scrittura. Allo stesso modo sia tu salvato nel tuo futuro. Amen.

- Ma D. aggiunge: che altro dire figlio mio su questi calcoli? Tutti i numeri aumentano con profitto soltanto su tre dita sino al cento e al mille, con tutte le articolazioni , per mezzo di esperte flessioni delle dita ; sino a mille volte mille , vanno aumentando poer gesti svariati; il numero mille per mille è in effetti il più perfetto fra tutti.

- D. chiude il capitolo con le benedizioni: Che tu sia benedetto nella città; benedetto nella campagna, alla corte con tuo padre, con tuo fratello, con i grandi, con i più iccoli , con i più vecchi...la tua giovinezza, sino a raggiungere una lunga vecchiaia (cosa che non si verifico! ndr.) ....tu possa giungere felicemente al porto delle anime, alla cifra di mille volte per mille.Amen.


(*) Non solo s. Agostino, ma Rabano Mauro (Liber de computo) e Alcuino; in proposito l’autrice della traduzione del testo che abbiamo consultato (v. nota sopra) rimanda, per la bibliografia consultata, allo storico Pierre Riché che oltre al testo ivi citato “Les biblioteques de trois aristocrates laïcs carolingiens” (in Le Moyen Age, 69 (1963) è autore di numerosi testi sul medioevo, tra i quali “La vie des enfants au Moyen Age” (2005) e “Ècoles et enseignement dans le hauts Moyen Age” (2000).


Cap.X. Questo capitolo è preceduto da una prima parte in versi in 18 strofe contenenti suggerimenti per il figlio e ritornando al testo, dopo aver precisato che il libro è stato da lei dettato di buon grado, si lascia andare a parlare di se stessa, dicendo di non avere che motivo di lacrime per la situazione economica in cui si trova per i debiti che ha dovuto contrarre per la gestione della Marca, cosa che ha dovuto fare per conto di Bernardo “perché egli non si staccasse da te e da me”...”mi sono gravata di debiti ricorrendo non solo a cristiani ma a giudei, ricevendo somme che secondo le mie possibilità in parte restituii e continuerò a farlo. E se dopo la mia morte resterà qualche debito, ti scongiuro di ricercare con scrupolo i miei creditori che soddisferai con i miei beni,e se non bastano, cerca di soddisfarli anche con ciò che avrai guadagnato.

Poi D. passa a ricordare i nomi dei parenti defunti che sono Guglielmo (di Gellone, padre di Bernardo), Cunegonda (prima moglie di Guglielmo), Gerberga (probabile figlia di Guglielmo fatta annegare da Lotario), Guiburga (seconda moglie di Guglielmo), Teodorico (figlio primogenito di Guglielmo, fratello di Bernardo v. nota cap. VIII), Gozelmo (figlio di Guglielmo, decapitato per ordine di Lotario nell’834), Guarnerio (non si sa se altro figlio di Guglielmo o parente di Dhuoda), Rotlindo (potrebbe essere sorella di Bernardo, sposa di Walla, o parente di D.). e infine gli ricorda di far scrivere, con costoro, il nome dello zio Ariberto al quale erano stati trafitti gli occhi per ordine di Lotario.

Il capitolo termina con il proprio epitaffio in versi che D. chiede venga scritto sulla sua tomba.

Cap. XI. Infine, in questo ultimo capitolo D. indica l’ordine da dare ai salmi che dovranno terminare con il Te Deum laudemus, non omettendo di precisare che il canto dei salmi ha tante e tanto grandi virtù, con indicazione finale dei riferimenti di quando il libro è stato iniziato “nel secondo anno dopo la morte del defunto imperatore Ludovico, il due delle calende di dicembre, festa di s. Andrea, all’inizio del santo avvento del Signore. E terminato il 4 delle none di febbraio, festa della purificazione della santa e gloriosa sempre vergine Maria, sotto il segno propizio di Cristo e nell’attesa del re che Dio sceglierà...Consummatum est.


SIMBOLOGIA DEI NUMERI


Dhuoda anticipa i tempi della simbologia dei numeri di cui si farà grande uso in quelli a lei successivi. Infatti solo alcuni secoli più tardi, dal dodicesimo secolo in poi, in occasione degli studi della estetica (l’arte del bello e del buono) e in particolare della allegoria sviluppata sugli studi di Boezio da Rabano Mauro, Isidoro di Siviglia, Ugo di s. Vittore e altri, si tende a dare al numero un significato simbolico, oltre a quello letterale all’interno del sistema decimale, per cui:

1. il 7 occupa il settimo posto ma poi torna all’unità essendo composto dal primo numero impari e dal primo quadrato;

2. per la qualità della loro divisibilità, i numeri pari si lasciano dividere in due parti uguali; gli impari lasciano sussistere una unità: 5= a 2 + 2 + 1; 7 = 3+3 + 1;

3. nel loro rapporto con gli altri numeri: 7 dopo il 6 significa il riposo dopo il lavoro; 8 dopo il 7 l’eternità dopo la mutabilità (ricordiamo che l’8 disteso significa infinito); l’11 dopo il 10, l’eccesso dopo la giusta misura della perfezione;

4. nella forma della loro disposizione spaziale: 1, simbolizza il punto; 2 la linea, 3 il piano, 4 il volume. Ugualmente 10 significa la lunghezza, 100 (1o x 1o) la lunghezza e la larghezza; 1ooo l’altezza in più. Il numero è sferico quando moltiplicato la somma dei membri del prodotto ritorna necessariamente: Così 9 x 3 = 27 oppure 2 + 7 = 9.

5. dopo il calcolo: il 10 (lo dice anche Dhuoda) è numero perfetto perché significa la fine del calcolo;

6. dopo la moltiplicazione (o l’addizione) ) dei suoi membri: così 7 = 3 + 4 vale a dire la somma dello spirito, 3, e della materia, 4; esso è imparentato da questo punto di vista al 12 = 3 x 4;

7. dopo i numeri unitari considerati come un tutto relativamente agli altri numeri: un numero è perfetto quando la somma dei suoi divisori addizionata è uguale a se stesso: 6 = 1 + 2 + 3. Un numero è deficiente quando la somma dà meno di lui: 14 = 1 + 2 + 7 (10); è abbondante se la somma lo supera: 12 = 1 + 2 + 3 + 4 + 6 (16).

8. dopo il numero di unità preso assolutamente in rapporto a se stesso: Così 2 simbolizza l’amore di Dio perché 1 + 1 esprime l’unione di un atto semplice con l’Essere uno; 3 è il simbolo della Trinità ; 4 è il simbolo dell’anno, composto di quattro stagioni, ecc. .

9. dopo il valore iperbolico: Così 7 x 70 significa senza fine; e così ancora 144.000 è un numero che significa la totalità degli eletti: in effetti si scompone in 1000 x 144. Ora 1ooo è un numero perfetto, come 144 che è prodotto da 12 x 12.

La molteplicità di queste regole, permette di scoprire poi le necessità del momento, dei diversi significati all’interno dello stesso numero, e d’altra parte di trovare il senso a volte inatteso, in qualsiasi numero: 13 per es., è nello stesso tempo un numero della perfezione che esprime le osservazioni dei dieci comandamenti e la fede nella santa Trinità e il numero del peccato che eccede la misura del 12, - 1 -.

In proposito E. De Bruyne (Ed. Albin Michel, 1998), nel suo poderoso studio (L’estetique mediévale, da cui abbiamo tratto l’argomento) ritiene che la interpretazione dei numeri avesse lasciato libero sfogo alla fantasia degli allegoristi del medioevo che influenzati dai canoni di Policleto (V sec. a C) e Lisippo (IV sec. a.C.) prima, e da Vitruvio (I sec. a.C.) dopo, li avevano messi in rapporto con la statura umana in 8 o 9 teste, in 7, in 6 e in 1o parti; queste proporzioni hanno carattere semplicemente formale, ma ciò non vuol dire che non offrano materia di interpretazione mistica: 1o è il numero perfetto dell’universo, 9 è in rapporto con la santa Trinità, 8 è la tetrade che è principio della perfezione, 7 la sintesi dello spirito – 3 - e della materia 4; 6 , è il più importate di tutta l’aritmetologia.

A questo modo si può andare anche più lontano: col 5, il numero umano che esprime i cinque sensi e l’unione dei due sessi: il maschio rappresentato dal 3, la femmina dal 2; 4 simbolizza l’uomo per molteplici ragioni: a causa degli elementi, degli umori, della costituzione, degli anni della vita ecc.; 3 è più particolarmente il numero dell’anima che si divide dopo Ugo di s. Vittore, in tre gradi, per tre facoltà e per i tre occhi della contemplazione. Due esprime l’uomo interiore e l’uomo esteriore. L’uomo si può definire con i cinque estremi, della testa, delle mani, dei piedi che esprimono le vie della carne; cinque è il numero dell’unione dei due sessi e della propagazione: esso simbolizza la perpetuità della specie umana. Cinque è un numero allo stesso tempo meraviglioso e circolare , perché moltiplicandolo esso continua a ritornare: 5 x 5 = 25; 25 x 5 = 125; 125 x 5 = 625 ecc.; esso rappresenta la sfera terrestre in quanto abbraccia le cinque essenze delle cose, le cinque zone elementari, le cinque parti dell’armonia musicale, i cinque generi degli esseri viventi (piante, pesci, uccelli, animali uomo): e l’uomo riproduce tanto il microcosmo quanto il grande universo.

Non parliamo poi dei riferimenti simbolici al cinque, nell’antico Testamento: esso simbolizza

l’umanità primitiva come la descrive il Pentateuco (appunto cinque libri) e poi la Genesi che racconta che le stelle furono create il quarto giorno e gli animali il quinto giorno; cinque, dopo Filone, è anche il numero della vita sensibile: è per questo che la vita animale si esprime con i cinque sensi; e chiudiamo con s. Agostino che prosegue dicendo che per i cinque sensi l’uomo ha peccato e per le cinque piaghe del Salvatore è stato riscattato; e, ultimo riferimento, tra i cavalieri della Tavola Rotonda, troviamo Gauvin che porta sul suo scudo la stella di David a cinque punte di Salomone ...con cui egli avanza con la fede nelle cinque piaghe del Salvatore e fidando nelle cinque gioie della Vergine, fregiandosi delle cinque virtù fondamentali.

Per quanto riguarda il calcolo è da tener presente che il sistema greco e poi romano aveva il calcolo digitale (che non è quello del computer...ma era basato sulle dita), ricordato nei testi di Nicola di Smyrne e Beda il Venerabile (De loquela per gestum digitorum): qualche nozione era pervenuta a noi studenti dello scorso secolo, sulla moltiplicazione dei numeri superiori al cinque, per es. otto x otto danno tre dita allungate per mano e due chiuse; le tre dita allungate danno sessanta e le chiuse (due x due), quattro=sessantaquattro e così via (attualmente un insegnante ci ha riferito che i ragazzi se interrogati su operazioni numeriche non sanno fare il calcolo mnemonico...ma devono ricorrere alla calcolatrice del telefonino!).



GLI INSEGNAMENTI

DI GERBERTO

NELLA SCUOLA DI REIMS


Gerberto apprende le scienze e l’astronomia

da un maestro saraceno


Gerberto sin dall’adolescenza, rimasto orfano, era stato allevato nel monastero dell’abbazia di Aurilliac (nota perché vi nacque il movimento delle lettere nel IX sec.) e per il suo innato talento aveva appreso con facilità le materie letterarie; ciò aveva suscitato le invidie dei suoi confratelli che lo vessavano (oggi questa forma di sopraffazione di chi si sente più forte nei confronti di chi appare più debole è identificata nel bullismo) gli aveva fatto maturare la decisione di andarsene da quel convento.

Il suo abate, al quale aveva mostrato il desiderio di andare in Spagna (ma qualche cronista ritiene fosse scappato!), per apprendere le materie scientifiche, colse l’occasione di una visita presso il monastero del duca Borello, conte di Barcellona, al quale l’abate chiese di poter ospitare l’allievo in un monastero in Spagna e dargli un maestro che gli insegnasse le materie scientifiche.

Il duca Borello acconsentì e Gerberto fu mandato presso il vescovo Hattone a Viche in Catalogna, il quale lo affidò a un maestro saraceno (cronisti cristiani negano questa circostanza, ma all’epoca non vi erano monaci che conoscessero a fondo le materie scientifiche e in particolare l’astronomia, come gli arabi: v. Articoli: La scienza araba alle origini della cultura europea), ma era stato anche per poco tempo a Cordova e Siviglia dove aveva avuto contatto diretto con dotti arabi, e sarà Gerberto a introdurre in Francia e quindi in Italia e Germania i numeri arabi.

Dopo varie vicissitudini (Gerberto era stato a Roma dove il papa lo aveva presentato all’imperatore Ottone I che lo aveva portato con se in Germania; Ottone poi lo nominerà abate di Bobbio (968) da dove però Gerberto si era dovuto allontanare perché i suoi confratelli - erano tempi in cui nei monasteri si verificavano sfrenatezze di ogni genere - gli si erano rivoltati contro (le persone di cultura vivono in un proprio ricco mondo interiore e di norma sono schivi e suscitano facilmente invidie e risentimenti personali, lo abbiamo visto in Abelardo: v. Abelardo e Eloisa); Gerberto recandosi in visita dall’imperatore fu presentato all’arcivescovo di Reims, Adalberone (v. Articoli: Gli ultimi carolingi) il quale lo portò con se, affidandogli l’insegnamento nella scuola della cattedrale (ogni cattedrale all’epoca aveva la propria scuola), che Gerberto riorganizzò in modo che per la fama che si era divulgata, fu frequentata da molti studenti desiderosi si apprendere le scienze.

Il sistema di insegnamento seguito da Gerberto fu quello di trattare innanzitutto la Logica (*), sviluppata in Dialettica, Poesia e Retorica, seguite dalle scienze matematiche, distinte in Aritmetica, Musica e Astronomia.


*) Seguendo lo schema del Trivio (materie letterarie): Grammatica, Retorica e Dialettica e del Quadrivio (materie scientifiche): Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia.


Dialettica



Gerberto nelle sue lezioni seguiva l’ordine dei testi, spiegati con chiarezza: l’ Isagogè (Introduzione*) di Porfirio che spiegava in tutti i suoi sviluppi; dei due testi aristotelici delle Categorie, spiegando abilmente in che cosa consistono le “hermenìe” vale a dire il libro della interpretazione “perì ermenias”, seguito dai Topici (**) o basi delle argomentazioni. Lesse e spiegò quattro libri sulle differenze dei ragionamenti, due sui sillogismi categorici, tre sulle ipotetiche, uno sulle definizioni e uno sulle divisioni.


*) Costituiva la introduzione indispensabile alla comprensione delle Categorie di Aristotele (che vediamo, Gerberto segue nelle sue lezioni), conosciuta anche con il titolo “Cinque voci”, vale a dire dei cinque concetti fondamentali contenuti nel testo: Genere, Specie, Differenza specifica, Proprio, Accidentale, come rientrava nella tradizione cristiana medievale, fino al XII sec. unica fonte di studio della Logica.

Con questa opera Porfirio innesca il putiferio della discordia nella Scolastica (dal IX al XII sec.) sugli universali (iniziata con Abelardo, Roscellino e Guglielmo di Champeaux, v. in Abelardo e Eloisa).

**) Tradotte dal greco in latino da Cicerone e documentata in sei libri dal console Manlio (Flavius Manlius Theodorus), costituiscono una guida pratica per la discussione, studiando un tipo particolare di sillogismo, il sillogismo dialettico che non parte da premesse certe, ma da premesse probabili: le conclusioni alle quali si giunge proveranno, se vere, la verità delle premesse, se false, il contrario.


Poesia e Retorica


Terminati gli studi indicati, Gerberto passò all’insegnamento della retorica, ma egli temeva che senza conoscere le locuzioni (consistevano nella modulazione della espressione) che si dovevano apprendere nei poeti, non fosse possibile l’apprendimento dell’arte oratoria. Egli affrontò quindi i poeti con i quali pensava che occorresse familiarizzarsi: lesse e commentò Virgilio, Stazio, Terenzio e così anche i satirici Giovenale,Persio e Orazio e il poeta-storico Lucano. Quando gli allievi si erano abituati a questi autori e alle loro forme di stile, egli li fece passare alla retorica.

Per abituarli alla retorica egli li fece seguire nella lezione da un sofista, per abituarli alle controversie e per far loro apprendere l’arte dell’argomentazione, da cui doveva essere escluso qualsiasi riferimento all’arte, ritenuta “essere il più alto degrado al quale l’oratore possa giungere”. Finita così la logica, egli si dedicò alle matematiche.


Aritmetica e musica


Gerberto riteneva che l’aritmetica costituisse la prima parte delle scienze matematiche e dopo averne posto le basi, si dedicò alla musica, per lungo tempo sconosciuta nelle Gallie, rimettendola in grande onore. Stabilì la serie dei toni sulla monocorde distinguendo le loro consonanti o unioni sinfoniche in toni e mezzi toni, come in di-toni e diesis, classificando convenientemente i suoni nei differenti toni e diffondendo così, a questo modo, una perfetta conoscenza della musica.

Gerberto, con l’insegnamento della musica, anticipa la rivoluzione che sarà introdotta da Guittone d’Arezzo mezzo secolo più tardi con la invenzione delle note musicali.


Astronomia Geometria

e strumenti

fatti costruire da Gerberto


Questa materia quasi sconosciuta in Occidente, Gerberto la insegnò servendosi di strumenti che egli stesso provvide a costruire.

Per prima cosa fece una sfera di legno pieno (attenzione: non era il mappamondo, come, egli ignaro, l’aveva effettivamente creato, con i suoi meridiani, paralleli,i poli, ecc., in quanto all’epoca la terra era considerata piatta, mentre era il cielo a essere considerato sferico. v. in Polemiche umanistiche, differenze tra Platone e Aristotele) e facendola inclinare lungo i due poli sull’orizzonte, mostrava gli astri di settentrione verso il polo superiore e quelli del meridione, verso il polo inferiore. Regolò la posizione sul cerchio, che i greci chiamano “orizzonte” e i latini “limitante” o “terminante” perché separa il confine degli astri che si vedono da quelli che non si vedono. Su questa linea d’orizzonte messa in maniera da poter dimostrare con sufficienza il levarsi e calare degli astri. Indica quindi i fenomeni naturali collegati alla conoscenza degli astri che vi corrispondevano. Durante la notte, quando brillavano le stelle egli le indicava facendo notare tanto il loro sorgere quanto il loro tramontare e il loro percorso sulle diverse parti del mondo.

Gerberto era consapevole della esistenza, nella scienza astronomica, delle circonferenze che i greci chiamano “paralleli” e i latini “equidistanti”e senza alcun dubbio sono da considerare fittizi. Egli immagina un mezzo cerchio, tagliando il diametro nel senso della linea destra e rappresenta questo diametro con una linguetta alla estremità della quale egli fissa i due poli, nord e sud. Infine divide la semi circonferenza da un polo all’altro in trenta parti. Dopo la sesta di queste divisioni, a partire dal polo, egli applica una linguetta che rappresenta il circolo polare artico; dopo ancora cinque parti egli applica un’altra linguetta che indica il tropico del Cancro; quattro parti più in basso egli mette una linguetta che rappresenta il circolo equinoziale; il resto dello spazio, fino al polo sud lo divide alla stessa maniera.

Questo strumento fu così ben concepito, con il suo diametro diretto verso il polo e il mezzo cerchio che ritornava indietro, che arricchiva la scienza dei circoli che gli occhi non potevano percepire e a questo modo la fissava profondamente nella memoria.

Gerberto giunse a mostrare i circoli descritti nel corso degli astri, quando essi si avvicinano o si allontanano dalla terra e costruì una sfera armillare (composta da diversi circoli per rappresentare la disposizione del cielo e il movimento degli astri. Riunì i due circoli chiamati dai greci colures e dai latini incidens perché uno cade sull’altro, e alle loro estremità mise dei poli. Operò con arte e precisione, utilizzando i colori aggiunse cinque altri circoli chiamati paralleli che da un polo all’altro dividevano in trenta parti la metà della sfera. Comprese sei di queste trenta parti della mezza sfera tra il polo e il primo circolo; cinque tra il primo e il secondo; dal secondo al terzo, quattro; dal terzo al quarto ancora quattro, cinque dal quarto al quinto e dal quinto al polo, sei. Su questi cinque circoli egli mise obliquamente il circolo che i greci chiamano loxos o zoé, i latini obliquo o vitale (è l’eclittica o zodiaco) perché contiene le figure degli animali posti tra i pianeti. All’interno di questo circolo obliquo egli disegnò con straordinaria arte i circoli percorsi dagli astri con cui dimostrò alla perfezione ai suoi allievi, il percorso e l’altezza nonché le rispettive distanze. Sarebbe troppo lungo, commenta a questo punto il cronista, descrivere il suo procedimento e andremmo troppo al di là del nostro compito.

Gerberto fece ancora un’altra sfera composta di circoli, all’interno della quale egli mise altri circoli e rappresentò al di sopra, con del fil di ferro e del cuoio, la forma degli astri. Per asse egli aggiunse un gambo che doveva indicare il polo celeste, in modo che guardando questo polo, il modello era conforme al cielo e tutte le stelle corrispondevano alle indicazioni della sfera. Questo strumento aveva qualcosa di divino, scrive il cronista, perché chiunque ignorasse la scienza, bastava indicargli un solo astro e da solo avrebbe individuato gli altri, senza l’aiuto del maestro. Fu così che Gerberto diffuse il suo sapere agli allievi: questo per quanto riguarda l’astronomia.

Per l’insegnamento della geometria non mise meno impegno. Fece infatti costruire da un maestro cesellatore un abaco, vale a dire una tavola su cui erano riportati dei compartimenti. La lunghezza fu divisa in ventisette parti sulle quali egli dispose nove segni che esprimevano tutti i numeri. Fece alla stessa maniera mille caratteri che dispose nei ventisette compartimenti dell’abaco che davano la moltiplicazione e la divisione di ciascun numero e la divisione e moltiplicazione di questi numeri all’infinito, poteva esser fatta con una tale celerità e paragonata alla loro molteplicità, scrive il cronista, si effettuava più velocemente nell’eseguirli che nell’esprimerli. D’altronde, conclude il cronista, sull’argomento è stato scritto un trattato (*).



*) M. Charles, Memoire in cui tratta dell’origine della sistema numerico spiegato da Gerberto, attribuito ai romani che a loro volta lo avevano appreso dai greci, piuttosto che agli arabi; in effetti ci troviamo verso la fine del X sec. e il patrimonio culturale dei greci ereditato e elaborato dagli arabi, verrà trasmesso in Occidente dopo la liberazione di Toledo (1141) e trasmesso agli occidentali, v. La scienza araba alle origini della cultura europea). Ma anche lo stesso Gerberto aveva scritto un testo: Geometria.



Gerberto divenuto papa

è accusato di negromanzia

e del patto col diavolo


Gerberto in seguito diventerà arcivescovo di Reims (991), poi sarà nominato arcivescovo di Ravenna (995-999) e infine sarà eletto papa col nome di Silvestro II (999-1003) e aveva regnato solo pochi anni per poter diventare un grande papa, come avrebbe potuto. Era stato direttamente nominato con decreto da Ottone III (aveva conosciuto quindi tutti e tre gli Ottoni) in un periodo burrascoso della storia del papato, (v. Articoli: Storia sconosciuta ecc. La corruzione del papato nei sec. IX e X), successivamente alla morte di Gregorio V (996-999) morto avvelenato e dopo che gli erano stati strappati gli occhi. La sua cultura, come abbiamo visto, era straordinaria e aveva portato una ventata moralizzatrice combattendo la simonia e la vita licenziosa degli ecclesiastici e per questo fu accusato di negromanzia e di aver dato l’anima al diavolo “per potersi elevare sugli altri nella scienza e nelle cariche”. riuscendo così a costruire macchine meravigliose (come un organo che suonava col vapore). Il diavolo gli aveva predetto che sarebbe morto quando avesse celebrato messa in Gerusalemme e il papa aveva ritenuto poterla fare franca sapendo che a Gerusalemme non vi sarebbe mai andato (sebbene fosse stato il primo papa a parlare di una crociata contro gli infedeli). Ma recatosi a celebrare la messa nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme (a Roma), gli apparve il diavolo per ricordargli la promessa. Silvestro si indignò col diavolo e pentito, per espiare il suo peccato dispose che il suo corpo fosse fatto a pezzi. Alla sua morte fu sepolto in Laterano e si credette per lungo tempo che quando un papa stava per morire, la sua tomba sudasse e le sue ossa si agitassero. Quando però nel 1648 la tomba fu aperta si trovò l’intero corpo con paramenti e mitra e mani incrociate; a contatto dell’aria però il corpo si polverizzò completamente.

Gerberto scrisse parecchi trattati di teologia, filosofia e matematica, tra i quali Geometria, Regula de abaco computi e Libellus de numerorum divisione.



AMMAESTRAMENTI DEGLI ANTICHI

TESTO DIDATTICO

PER GLI STUDENTI DEL XIII SEC.

DI FRA’ BARTOLOMEO

DI SAN CONCORDIO



Fra' Bartolomeo da San Concordio (1262-1347), domenicano traduttore, di Sallustio e altri testi e autore di una “Summa casuum conscientiae” che raggiunse notorietà e fu tradotta in volgare col titolo di “Maestruzzo” o “Pisanella”, raccolta di sentenze morali, e del testo “Degli Ammaestramenti”; gli era stato attribuito anche il “Trattatello della memoria artificiale” in effetti scritto da Bono Giamboni, che si trova aggiunto agli “Ammaestramenti”.

Questo testo era stata scritto in latino col titolo “De documentis antiquorum” e tradotto su richiesta del fiorentino Geri degli Spini al quale è dedicata la traduzione in volgare.

L'opera è indirizzata ai giovani, ristampata nel 1856 con commento di Francesco Prudenzano, (in questa edizione concessa dalla americana Taylor Institution alla Google e da questa messa gratuitamente a disposizione dei navigatori di Internet (v. in Recensioni:La grande biblioteca virtuale di Google), che nella prefazione aveva scritto “dà facile adito ai giovani che vogliosi si commettono agli studi, di apprendere e securi di percorrere tutte le vie della umana sapienza”.

Il testo contiene una “Giunta agli Ammaestramenti” che si ritiene scritta dallo stesso fra’ Bartolomeo. L’opera è divisa in 40 “distinzioni” (*) e ogni distinzione in capitoli col titolo degli argomenti ai quali si riferiscono le sentenze prescelte.

Costituito da una raccolta che contiene mescolati insieme autori cristiani e pagani, come avveniva nelle compilazioni medievali, ma facendo molta attenzione al modo in cui erano trattate le opere pagane di cui venivano riportati soli aforismi, in quanto si doveva sempre fare i conti con la Inquisizione e la materia presentava seri pericoli di cadute eretiche per chi la trattava.

Gli scrittori pagani erano il pagano Seneca (che comunque aveva ispirato principi cristiani (v. in Schede di Storia: Le origini del cristianesimo ecc.) e Cicerone, e le loro sentenze, che unite a quelle degli autori cristiani, subiscono un travestimento moralistico e cristiano, mentre Ovidio, con qualche vena di sarcasmo è chiamato a discettare nei capitoli sulla lussuria e sulla bellezza corporale, mentre a titolo introduttivo è indicato il motto dell’Ecclesiaste: “sapientiam antiquorum exquiret sapiens” (il sapiente cerca la sapienza degli antichi).

La prosa di fra’ Bartolomeo era stata molto apprezzata dagli studiosi e lo stesso Parini l’aveva lodata per lo stile conciso e per la purezza.


Le Distinzioni: (riguardano un singolo argomento e i loro possibili risvolti trattati nelle Rubriche): 1. Sapienza degli antichi; 2. Delle naturali disposizioni degli animi 3. Delle opere che aprono la strada alla virtù; 4. Della virtù in genere; 5. Di cosa rode e malagevoli; 6. Dell’astinenza; 7. Dell'apparenza e degli atti; 8. Delle vigilie e orazioni; 9. Dello studio; 10. Dei dottori; 11. Della dottrina e dei modi del dire; 12. Della provvidenza delle cose che devono venire ; 13. Della pre-vedenza della morte (bisogna ricordarsi della morte: Tutta la vita dei savi è meditazione della morte, Platone); 14. Della compagnia e del modo di stare insieme; 15. Della fedeltà delle parole; 16. Del dare; 17. Del ricevere e del riconoscere i benefici; 18. Dell’amicizia; 19. Della pazienza; 20. Del riposo e giocondità 21. Di come hanno inizio i peccati; 22. Dei peccati in generale; 23. Delle molte pene del peccato; 24. Del vizio della gola; 25. Della lussuria; 26 Dell’avarizia; 27: Della superbia; 28 Della vanagloria; 29 Della invidia; 30: Dell’ira; 31: Della fretta (caratteristica degli uomini frettolosi è che sono incostanti e ingiusti!); 32. Dell’incostanza; 33. Dell’ingiustizia; 34: Dell’accidia; 35 Dei vizi delle femmine (la femmina è capo dei mali, sono mobili, le bevitrici, suocera e nuora!); 36. Dei peccati della lingua; 37. Della prosperità e del suo contrario. 38. Della ricchezza e povertà; 39. Dell’onore e del disprezzo; 40 Della dignità e soggezione.



GLI INSEGNAMENTI

PER UN PRINCIPE

RINASCIMENTALE

IN “GARGANTUA e PANTAGRUEL”



Francois Rabelais, umanista (nato alla fine del ‘400, forse 1494, e morto nel 1553), nel mondo fantastico di Gargantua e Pantagruel (che con la Divina Commedia e Don Chisciotte fa parte dei tre testi fondamentali e inscindibili della cultura mondiale) riassume tutta la cultura dell’epoca e dedica alcune pagine alla materia dell’insegnamento, rivoltandosi, come vedremo, contro la cultura medievale.

Nel libro Rabelais esprime le nuove conoscenze alle quali era giunto con altri amici studiosi, il quale, spogliandosi della scienza e del pensiero medievali, fatto di “summae” e di “sillogismi aristotelici”, rappresenta l’uomo nuovo rinascimentale nella ricerca di certezze razionali e sperimentali, che Rabelais espone con il più irriverente e fantasioso spirito critico dei tempi nuovi.

E proprio questa fiducia nei tempi nuovi, con le nuove conquiste dello spirito umano, si manifesta nella parte che riguarda l'educazione del giovane Gargantua e nella famosa “lettera sull’educazione” che questo scrive al figlio Pantagruel, che è un vero e proprio programma pedagogico e un documento di grande modernità.

In proposito è da dire che all’epoca si utilizzava molto la memoria: è evidente che con un precettore che seguiva il giovane notte e giorno, satireggiando sulla pedagogia scolastica (ovviamente Rabelais ogni tanto va sopra le righe ricorrendo alle caratteristiche iperboli!), riversa in quelle pagine tutte le conoscenze e tutto lo scibile che si era raggiunto nell’epoca rinascimentale vissuta da Rabelais.

Sarebbe stato impossibile per un giovane imparare tutto quello scibile, ma un giovane anche senza molto talento seguendo tutte le nozioni trasmesse da un precettore gli sarebbero entrate per forza nel cervello e difficilmente avrebbero potuto essere dimenticate (come dice Pantagruel: “ le cose dette gli restavano cosi bene impresse nella mente, che non c’era medico, allora, che ne sapesse la metà di lui”), e in base alla sua predisposizione o sarebbe stato portato a elaborare i dati acquisiti a fini culturali e poteva diventare uomo di studi come umanista, o di stato, o intraprendere la carriera ecclesiastica, oppure, se avesse avuto talento per l’arte militare, intraprendere questa carriera dal momento che di allenamento fisico ve n’era tanto, da poter diventare un gran capitano (non si dimentichi che i giovani erano così allenati che anche se intraprendevano la carriera ecclesiastica, e pur avendo la tonaca, erano sempre pronti a indossare l’armatura e all’occorrenza combattere, e di vescovi guerrieri ve n’erano tanti e non era neanche mancato un papa).


I personaggi che qui ci interessano sono il gigante Gargantua figlio di Grandgousier e Garganelle (che questa partorisce da un orecchio), principe ereditario del regno di Utopia il quale viene allevato con ogni cura e educato a Parigi secondo i principi della pedagogia scolastica, chiaramente satireggiati e scherniti. Gargantua a Parigi incontra Ponocrate che gli farà da maestro.

Gargantua a sua volta sposa Badebec dalla quale ha un figlio, Pantagruel anch’esso mandato a Parigi dove incontra Panurgo, figura di lestofante pieno di spirito, intelligenza e di dottrina, ma vizioso e maligno. Il suo nome deriva dal greco (“panourgos” = “che fa tutto”, in senso cattivo), che aveva qualche lineamento dello studente dell'Università di Parigi.

Per lo specifico intento che ci siamo proposti, relativamente ai metodi di insegnamento, abbiamo, da una parte quelli ricevuti dal padre Gargantua, legati alla pedagogia scolastica del medioevo e dall’altra quelli suggeriti da Gargantua al figlio, anch’egli gigante, Pantagruel, nella lettera che possiamo considerare di pedagogia rinascimentale.


Come Gargantua principe di Utopia

mandato dal padre a Parigi viene educato

giorno dopo giorno da Ponocrate


«Quando Ponocrate si fu reso conto delle viziose abitudini di Gargantua deliberò di ordinare diversamente i suoi studi a cominciare dalle buone lettere; ma, per i primi giorni, credette bene di lasciar correre, considerando che la natura non sopporta mutazioni subitanee senza grave offesa.

Intanto, per cominciare al meglio l’opera sua, supplicò un luminare della medicina di quel tempo, Mastro Teodoro, perché vedesse se c’era un mezzo per rimettere Gargantua sulla buona strada. Questi canonicamente, lo purgò con elleboro d’Anticira (usato per fortificare la mente e come rimedio contro la follia ndr.) e con tal medicina lo liberò da ogni alterazione e perversità del cervello. Con lo stesso rimedio Ponocrate gli fece dimenticare tutto ciò che aveva appreso sotto gli antichi precettori. Così faceva Timoteo con quelli dei suoi discepoli che erano stati istruiti da altri musici (Timoteo di Mileto, musico famoso dei tempi di Alessandro Magno). Secondo Quintiliano esigeva il doppio dell’ onorario dagli allievi già istruiti da altri per la fatica di svezzarli dai difetti acquisiti dai precedenti maestri .

Per affrettare lo scopo lo indusse a dimestichezza con le persone colte di Parigi, a emulazione delle quali crebbe in lui il bisogno e la voglia di studiare in modo nuovo e di farsi valere.

Poi ne ordinò gli studi in guisa tale che non perdeva un’ora sola della giornata, e dava tutto il suo tempo alle lettere e all’onesto sapere.

Si svegliava dunque Gargantua verso le quattro del mattino. Mentre lo asciugavano e lo massaggiavano, gli leggevano qualche pagina della sacra scrittura con voce alta e chiara e intonazione adatta alla materia, e a questo ufficio era chiamato Anagnoste (dal greco: lettore) un giovane paggio nativo di Basché. Spesso, a seconda delle suggestioni e degli argomenti di questa lettura, egli si dava a onorare, adorare, pregare e supplicare il buon Dio, del quale le cose udite avevano dimostrato la maestà e il giudizio meraviglioso.

Quindi si ritirava nei luoghi di decenza a fare escrezione delle digestioni naturali. Là il precettore gli ripeteva le cose appena lette e gliene spiegava i passi più oscuri e difficili.

Tornandone, consideravano lo stato del cielo; se era ancora come l’avevano osservato la sera avanti e in quale segno entravano quel giorno il sole e la luna.

Fatto questo, Gargantua veniva vestito (si noti: non si fa nessun riferimento alle abluzioni che non esistevano! ndr.), pettinato, acconciato, agghindato, profumato, e intanto gli si ripetevano le lezioni del giorno prima. Lui stesso le recitava a memoria e le riconduceva a qualche caso pratico riguardante l’umana condizione.

Talvolta l’esercizio si protraeva per due o tre ore, ma per solito smettevano quando avevano finito di vestirlo.

Poi, tre ore buone, gli tenevano lezione.

Alla fine uscivano all’aperto, sempre parlando delle cose appena studiate; andavano per diporto al Braque (Campo da gioco che portava l’insegna “Au chien braque”: al cane bracco), o nei prati, e giocavano a palla., a pallacorda, a palla trigona, esercitando bellamente il corpo come già avevano esercitato la mente.

Giocavano in tutta libertà, lasciando la partita quando loro piaceva, e di solito smettevano quand’erano vinti dal sudore e dalla stanchezza. Asciugati (solo dal sudore! ndr.) e massaggiati ben bene, si cambiavano di camicia e passeggiando quietamente se ne andavano a vedere se il pranzo era pronto Nell’attesa, recitavano con chiara dizione ed eloquenza alcune delle sentenze apprese al mattino.

Frattanto Monsignor l’Appetito si faceva vivo e non senza motivo sedevano a mensa.

All’ inizio del pasto veniva letta qualche piacevole storia di antiche gesta, fino al momento del vino Allora, a seconda degli umori, si continuava la lettura oppure si cominciava a ragionare allegramente, parlando, nei primi mesi, della virtù, proprietà, efficacia e natura di tutti i cibi che venivano serviti a tavola (pane, vino, acqua, sale, carni, pesce frutta, radici) e del modo di prepararli.

Così facendo Gargantua, in poco tempo, apprese tutto ciò che avevano detto al riguardo Plinio, Ateneo, Dioscoride, Giulio Polluce, Galeno, Porfirio, Appiano, Polibio, Eliodoro, Aristotele, Eliano ed altri. Spesso, dopo averne parlato, facevano portare in tavola i libri di costoro, per essere ben certi di non cadere in errore. E le cose dette gli restavano cosi bene impresse nella mente, che non c’era medico, allora, che ne sapesse la metà di lui.

Poi parlavano delle lezioni del mattino, terminato il pasto con un po’ di cotognata, Gargantua si puliva i denti con un rametto di lentisco, si lavava le mani e gli occhi con abbondante acqua fresca e insieme offrivano a Dio un rendimento di grazie con qualche bel cantico composto in lode della munificenza e benignità divina. Portavano poi delle carte, ma non per giocare, bensì per apprendere nuove invenzioni, le quali tutte avevano a fondamento l’aritmetica

Per tal modo egli prese passione alla scienza dei numeri e ogni giorno dopo pranzo e dopo la cena vi passava il suo tempo con lo stesso piacere che soleva prendere nel gioco dei dadi e delle carte E tanto ne approfondì sia la teoria sia la pratica che 1’inglese Tunstal, il quale pure ne aveva scritto ampiamente, confessò che al paragone di lui, si sentiva un principiante.

E non solo eccelleva in aritmetica, ma in tutte le altre scienze matematiche, quali la geometria, l’astronomia la musica, poiché durante il chilo e la digestione dei cibi, si divertivano a costruire mille strumenti e figure geometriche, e allo stesso modo prendevano dimestichezza coi canoni dell’astronomia.

Poi si deliziavano nel cantar musica a quattro o cinque parti o su di un tema unico, a piacere.

Quanto agli strumenti musicali, imparò a suonare il liuto, la spinetta, l’arpa, il flauto traverso e quello a nove fori , la viola e il trombone.

Impiegato così questo tempo, compiuta la digestione, si liberava degli escrementi naturali, poi tornava ad applicarsi allo studio principale per tre ore o più ripetendo la lezione del mattino, o continuando il libro incominciato o anche esercitandosi alla scrittura, a ben comporre cioè e tratteggiare pulitamente sia i caratteri gotici, .sia quelli latini.

Ciò fatto, uscivano dall’ostello, e con loro un giovane gentiluomo della Turenna chiamato Ginnasta lo scudiero, che gli insegnava l’arte del cavalcare.

Egli pertanto,cambiato il vestito, montava in groppa a un corsiero, a un ronzino, a un ginnetto (puledro spagnolo), a un veloce berbero, lo lanciava a briglia sciolta, gli faceva saltare il fossato, scavalcare lo steccato, lo faceva impennare, volteggiare nell’aria, corvettare (saltare), caracollare (il volteggiare dei cavalli spagnoli) tanto a destra quanto a sinistra.

Ma là, certamente, non rompeva la sua lancia, perché niente al mondo è più insensato che farsi vanto d’aver spezzato dieci lance in torneo o in battaglia: cosa che saprebbe fare un qualsiasi carpentiere. Mentre è degno di lode e vera gloria. con una sola lancia spezzarne dieci ai nemici. E lui, con la sua lancia temprata, solida e ferma, fracassava una porta, sfondava un arnese, sradicava un albero, centrava un anello, infilzava una sella da battaglia, un panzerone (maglia di ferro che si portava sotto l’armatura), una manopola (guanto di ferro). E tutto avendo indosso l’armatura al completo.

Quanto a muovere il passo del cavallo a suon di fanfara o a piccoli schiocchi di lingua, nessuno era da più di lui. E il gran volteggiatore di Ferrara (famoso lo scudiero ferrarese Cesare Fiaschi, per i suoi virtuosismi: a Ferrara e Mantova si allevavano cavalli) valeva sì e no una scimmia al paragone. In particolar modo poi si era addestrato con i cavalli cosiddetti desultori (volteggiatori) a saltare dall’uno all’altro senza toccar terra; a montar senza staffe sia da un lato che dall’altro con fa lancia in pugno, e a guidare il cavallo senza briglia a suo piacere, poiché tali cose convengono alla disciplina militare.

Un altro giorno si esercitava all’azza e tanto bene armeggiava, così rudemente incalzava di punta così agilmente mulinava di taglio, che superò tutte le prove e fu promosso cavaliere sul campo.

Poi brandiva la picca, giocava di spadone a due mani di spada bastarda, di daga, con armatura o senza, con lo scudo, la cappa, o la rotella (arma rotonda da difesa che copriva il braccio sinistro).

Cacciava il cervo, il capriolo, l’orso, il daino, il cinghiale, la lepre, le pernici, i fagiani, le ottarde. Giocava al pallone lanciandolo alto nell’aria sia col piede sia con il pugno. Lottava, correva saltava ma non a tre passi un salto, non a piede zoppo né alla tedesca, perché, diceva Ginnasta, sono salti inutili e di nessun vantaggio in guerra. Invece, superava d’un balzo un fossato, scavalcava una siepe, montava sei passi di slancio su per un muro e così si aggrappava a una finestra alta una lancia di terra.

Nuotava in acque profonde, bocconi , supino, sul fianco, con tutto il corpo, con i piedi soltanto o attraversava tutta la Senna con una mano fuori, reggendo un libro senza farlo bagnare, mentre coi denti si tirava dietro il mantello, come fece Giulio Cesare. Poi facendo forza su una sola mano, saltava su una barca, si tuffava di nuovo a testa in giù, esplorava il fondo, si cacciava fra gli scogli, s’inabissava nei baratri e nei gorghi. Poi girava la barca, la governava, la mandava veloce o lenta, sul filo dell’acqua o controcorrente, la frenava sulla rapida di una chiusa, con una mano la guidava mentre con l’altra maneggiava un gran remo, tendeva la vela, saliva sugli alberi per le sartie, correva sui pennoni, regolava la bussola, tirava le boline a controvento, reggeva il timone.

Uscito dall’acqua saliva alacre la montagna e ne discendeva con eguale facilità; si arrampicava come gatto, saltava dall’uno all’altro come uno scoiattolo, spezzava i grossi rami come un novello Milone (atleta dell’antichità, campione nei giochi di Olimpia) . Con due pugnali d’acciaio fino e due cavicchi (erano i chiodi che si infilavano per reggere il corpo) a prova del suo peso, si arrampicava come un topo, e poi saltava giù atteggiando le membra in modo tale da non farsi alcun male nella caduta.

Lanciava il dardo, la barra, il sasso, il giavellotto, lo spiedo, l’alabarda, tendeva l’arco a fondo, caricava a forza di reni le grosse balestre da assedio, puntava l’archibugio a braccio (i primi archibugi pesavano fino a diciassette chili, per sostenerli occorreva usare la forcella), incavalcava il cannone (dopo aver caricato il cannone con la polvere, si metteva la stoppa e si doveva calcare con forza prima di mettere la palla), tirava al bersaglio e al pappagallo, dal basso in alto, dall’alto in basso, di fronte di fianco e all’indietro, come i Parti.

Gli attaccavano al sommo di una torre una fune pendente fino a terra e per quella saliva e discendeva con le sole mani e con tanta agilità e sicurezza che più non si potrebbe andando per un prato in piano.

Una pertica gli mettevano poggiata su due alberi, e lui, standovi appeso con le mani e senza mai toccar terra, la percorreva tutta avanti e indietro così che non si sarebbe potuto raggiungerlo anche andandogli appresso a tutta corsa.

Pei tenere in esercizio il torace e i polmoni, urlava come un dannato. L’ho sentito una volta che chiamava Eudemone da Porta San Vittore a Montmartre. Stentore alla guerra di Troia, non spiegò mai una voce paragonabile.

Per ingagliardire i muscoli gli avevano apprestato due salmoni di piombo del peso di ottomila settecento quintali ciascuno che lui chiamava salati; li sollevava da terra uno per mano, li alzava al di sopra della testa e li reggeva così, senza vacillare, per tre quarti d’ora e più, che era una prova di forza inimitabile.

Giocava alla barra con i più forti e, quand’era il momento, si teneva così saldamente piantato sui suoi piedi da potersi promettere prigioniero del fortunato avversario che fosse riuscito a muoverlo di un ette come un tempo Milone, a imitazione del quale stringeva nel pugno una melagrana che offriva in dono a chi fosse riuscito a strappargliela.

Trascorso così il tempo destinato a questi esercizi, fatto un buon massaggio, ripulito e rinfrescato, si cambiava e se ne tornava senza fretta. E attraversando i prati o altri luoghi erbosi, indugiava a osservare alberi e arbusti, confrontandoli ai libri degli antichi che ne hanno scritto come Teofrasto, Dioscoride, Marino Plinio, Nicandro, Macer e Galeno e intanto coglieva a piene mani erbe, foglie, e radici per portarsele a casa dove un giovane paggio chiamato Rizotomo (tagliatore di radici) era incaricato di averne cura insieme alle marre (strumento per radere il terreno), ai piccioni, ai bidenti, alle vanghe, ai taglieri e agli altri attrezzi indispensabili a un buon erborista.

Arrivati al Castello, mentre si preparava la cena, ripetevano qual che passo delle cose lette e si sedevano a tavola.

Notate qui che se il desinare di Gargantua era sobrio (infatti mangiava soltanto per reprimere i clamori dello stomaco) la cena invece era copiosa e larga e mangiava quanto gli occorreva per conservarsi e nutrirsi; che è la vera dieta prescritta dall’arte medica migliore e più sicura anche se un branco di medici balordi incoronati di chiacchiere alla scuola dei sofisti, consigliano il contrario.

Durante il pasto della sera si riprendevano le lezioni di mezzogiorno fintanto che tornava gradito, e il resto del tempo era speso in bei conversari su argomenti letterari ed utili.

Dopo il rendimento di grazie, si abbandonavano al piacere del canto armonico, a suonare strumenti melodiosi o a certi piccoli passatempi con le carte, coi dadi e i bussolotti (gioco di destrezza di mano con un piccolo recipiente con cui si fanno apparire e scomparire piccoli oggetti) e continuavano così con grande spasso e allegria fino all’ora di dormire. Altra volta invece ricercavano la compagnia di letterati o di gente che avesse viaggiato il mondo.

In piena notte prima di ritirarsi, salivano al punto più alto della casa per osservare la volta del cielo, e là studiavano le comete quando ve ne fossero, e le figure, la disposizione, gli aspetti, le opposizioni e congiunzioni degli astri.

Poi con il suo precettore, Gargantua, alla maniera dei pitagorici, ricapitolava brevemente tutto ciò che aveva letto, veduto, appreso, fatto e sentito nel corso della giornata.

Così pregavano Dio creatore, adorandolo, attestandogli la loro fede, glorificandolo per la sua immensa bontà; e ringraziandolo per tutto il tempo passato, si raccomandavano alla sua divina clemenza per tutto il tempo a venire. Fatto questo, andavano a riposare ».



Come Gargantua impiegava

il suo tempo

nei giorni freddi e piovosi


(e costituiva una grande lezione di vita! ndr.)


«Nei giorni freddi e piovosi avanti il desinare era impiegato come il consueto salvo che si accendeva un bel fuoco nei grandi camini per temperare la rigidezza dell’aria. Ma, dopo mangiato, invece di esercitarsi all’aperto, restavano in casa e a scopo apoterapico (per tenersi in forma), si divertivano ad affastellare il fieno, a spaccare o segare la legna, a battere il grano nel granaio; poi si esercitavano nell’arte della pittura e della scultura o si studiavano di giocare l’antico gioco degli aliossi (gioco della trottola si faceva con in osso di tallone) così come lo ha descritto Leonico e come lo gioca il nostro buon amico Lescaris. E giocando richiamavano i passi degli antichi autori che ne hanno fatto menzione o ne hanno tratto qualche metafora.

Altrimenti andavano a vedere come si battono i metalli o come si fonde l’artiglieria; o indugiavano a veder lavorare i lapidari, gli orafi, gli incisori, gli alchimisti, i monetieri, i tessitori d’alto liccio (filo torto usato dai tessitori), i fabbricanti di panno, i vellutieri, gli orologiai, gli specchiai, gli stampatori, gli organari, i tintori e altri artigiani e maestri di bottega, e offrendo da bere a tutti scoprivano e imparavano i segreti dell’industria e dei mestieri.

Si recavano ad ascoltare le lezioni pubbliche, gli atti solenni, le ripetizioni, le arringhe dei principi del foro, i sermoni dei predicatori evangelici.

Nelle sale e scuole di scherma dove capitavano, Gargantua giocava d’ogni arma con i maestri dimostrando di saperne quanto e più di loro.

Invece di erborare, visitavano le botteghe degli speziali, degli erboristi apotecari (farmacisti), e qui osservavano con cura frutti, radici, foglie, gomme, semenze, unguenti esotici e, al tempo stesso, i modi con cui venivano elaborati.

E andavano anche a vedere giocolieri, prestigiatori, saltimbanchi e ciarlatani, e ne studiavano i gesti, le astuzie, le sortite, la parlantina; soprattutto di quelli di Chamys in Piccardia, gran parlatori, spacciatori eccellenti di cantafavole, bravissimi nel vendere la luna nel pozzo.

Tornati poi per la cena consumavano un pasto più sobrio degli altri giorni e fatto di cibi più essicativi. dimagranti affinché la temperie umida dell’aria comunicata al corpo per necessaria contiguità risultasse corretta e non venisse loro alcun danno dal non aver praticato i consueti esercizi.

Così fu educato Gargantua, e questa regola seguiva giorno per giorno traendone naturalmente tutto il profitto che voi pensate possa trarre un giovane giudizioso da un sì costante esercizio. Il quale, per quanto potesse sembrar gravoso al principio, divenne poi, per consuetudine, leggero e dilettevole tanto da somigliare a un passatempo da re più che a una disciplina da scolaro.

Ogni mese tuttavia Ponocrate, per distrarlo da un impegno tanto assillante, coglieva l’occasione di una bella giornata di sole per condurlo fuori città. Partivano al mattino e andavano a Gentily o a Boulogne o a Montrouge o al ponte di Charenton o a Vanves o a Saint-Cloud, e là trascorrevano tutta la giornata nella più gran baldoria che si potesse desiderare, scherzando, ridendo, cioncando (bevendo sconciamente), giocando, cantando, danzando, rotolandosi per i prati, snidando passeri, catturando quaglie, pescando gamberi e ranocchie.

Ma se la giornata passava senza libri e senza lezioni, non per questo andava senza profitto, perchè riposando sdraiati su un bel prato, ripetevano a memoria qualche verso prediletto dell’Agricoltura di Virgilio, di Esiodo, o del Rusticus di Poliziano e pigliavano gusto a comporre eleganti epigrammi in latino che poi volgevano in versi francesi, in ballate e in rondò.

Banchettando, si divertivano a separare l’acqua dal vino annacquato con una coppa d’edera, come insegnano Catone nel “De re rustica” e Plinio; purgavano il vino in un bacile pieno d’acqua e ne lo riestraevano mediante un imbuto; facevano passare l’acqua da un bicchiere all’altro; costruivano una quantità di piccoli congegni automaticj, vale a dire semoventi ».


Come Pantagruel stando a Parigi

ricevette una lettera dal padre

e quello che vi era scritto


«Come potete immaginare, Pantagruel studiava in modo egregio e profittava di conseguenza, perché egli possedeva un intendimento a doppio risvolto e una memoria della capacità di dodici otri più qualche botte da olio; e a Parigi, dove tuttavia dimorava, ricevette un giorno dal padre una lettera che diceva così:

«Mio caro figlio,

«Fra tutti i doni, grazie e prerogative ond’é il sovrano artefice, Dio onnipotente, ha dotato ed ornato l’umana natura fin dal suo primo cominciamento, singolare ed eccellente, sembra a me, la facoltà per la quale essa può, nel suo stato mortale, conseguire una sorta di immortalità e perpetuare, nel corso-effimero di una vita, il proprio nome e l propria semenza. E ciò per discendenza da noi generata in legittimo matrimonio. venendoci così in qualche modo restituito quello che ci fu tolto a causa del peccato dei nostri primi parenti, ai quali fu detto che, per aver disobbedito al comandamento di Dio creatore, sarebbero morti e che, con la morte, la nobilissima forma in cui l’uomo era stato plasmato sarebbe tornata nel nulla.

«Mercé questa propagazione seminale perdura nei figli ciò che si estinse nei genitori e nei nipoti, ciò che venne meno nei figli, e così di tempo in tempo fino al giorno del giudizio finale, quando Cristo Gesù avrà restituito al Padre Celeste il suo regno pacificato, immune ormai da ogni pericolo e contaminazione di peccato; perché a quel tempo la terrestre vicenda del nascere e del perire sarà terminata e gli elementi saranno affrancati dalle loro incessanti trasmutazioni, dacché la pace tanto desiderata sarà piena e compiuta e tutte le cose saranno pervenute alla perfezione del loro ultimo fine (il corsivo sottolinea il sarcasmo di Rabelais ndr.).

« Dunque non è senza giusta cagione, che io rendo grazie a Dio, mio salvatore per avermi egli concesso di veder rifiorita la mia canuta vecchiezza nella tua rigogliosa gioventù, giacché al momento che, piacendo a Lui che tutto regge governa, la mia anima si partirà da questa umana dimora, non mi parrà di morire totalmente, bensì di passare da un luogo in un altro, stante che in te e per te io rimango in questo mondo sotto visibile aspetto, vivendo, vedendo e conversando fra persone onorate e vecchi amici, com’era mia consuetudine. La quale consuetudine, mercé l’aiuto e la grazia divina, è stata non già senza peccato (lo confesso, perché tutti pecchiamo e ci volgiamo di continuo a Dio perché cancelli le nostre colpe) ma senza disonore.

Per la qual cosa, se mai accadesse che in te rifulgano le qualità dell’animo mio così come perdura l’immagine del mio corpo, tu non potresti essere riguardato come la gemma e il custode dell’immortalità del nostro nome e io ben poco avrei di che gioire, considerando come sia preservata e fiorente la parte infima di me che è il mio corpo e degenerante invece e imbastardita la parte migliore: l’anima intendo, cui tutto è dovuto se il nostro nome resterà imperituro e benedetto fra le genti. Né questo ti dico per diffidenza che io abbia della tua virtù, che già conosco per prova, bensì per incoraggiarti a migliorare e perfezionarti ognor più. E neppure, con ciò che al presente ti scrivo, intendo esortarti a vivere più nobilmente, quanto piuttosto a gioire di aver vissuto e di vivere così, e a riprendere Iena e coraggio per gli anni a venire.

«Ad avviare e condurre a buon fine una simile impresa puoi ben rammentare che nulla ho risparmiato, che anzi in ciò ti ho assistito come se nulla al mondo avessi di più prezioso che di vederti un giorno uomo compiuto e perfetto, tanto in virtù, dignità e probità quanto in ogni dottrina liberale e onorevole, e di lasciarti dopo la morte tal quale uno specchio raffigurante la persona di me tuo padre e, se non così eccellente di fatto come ti auguro, tale almeno e sicuramente nel desiderio.

«Ma ancorché mio padre Gargamagna, di buona memoria, avesse posto ogni cura nel farmi avanzare al possibile in ogni perfezione e dottrina di governo, e ancorché il mio lavoro e il mio studio corrispondessero assai bene e andassero persino al di là delle sue aspirazioni, i tempi tuttavia, come tu puoi comprendere, i tempi non erano così propizi né adatti alle buone lettere come lo sono oggidì, né io ho potuto avere tanti e tali precettori quali invece hai potuto avere tu.

«I tempi erano ancora tenebrosi e ancora pativano le afflizioni e le calamità della gotica barbarie che aveva fatto scempio di ogni buona letteratura Ma oggi, bontà divina è stata restituita alle lettere luce e dignità e io vedo in questo, tale un avanzamento, che ora a stento

sarei ammesso alle prime classi degli scolaretti, io, che. nella mia età virile ero reputato, e non a torto, il più dotto del secolo. Né questo io dico a te per vana iattanza (benché potrei pur farlo scrivendoti, giusta l’autorità di Cicerone - De Senectute - e conforme la sentenza di Plutarco nel libro “ Sul lodarsi da sé stresso senza invidia”) bensì per accendere l’animo tuo a più alte ambizioni.

«Adesso tutte le discipline sono rimesse in onore, le lingue restituite: il Greco - senza il quale è vergogna che una persona possa chiamarsi dotta -, l’Ebraico, il Cadaico, il Latino; e sono in uso stampe mirabilmente eleganti e corrette che furono inventate ai miei tempi per ispirazione divina, così come, al contrario, per consiglio diabolico, le artiglierie (le armi erano considerate strumenti infernali ndr.).

Il mondo, oggidì, è pieno di gente colta, di precettori dottissimi, di grandissime biblioteche e io penso che nemmeno ai tempi di Platone, Cicerone o di Papiniano vi fossero tante opportunità di studio quante se ne trovano oggi e che d’ora in avanti non si darà più il caso di dover incontrare per strada o in conversazione persona che non si sia dirozzata nell’officina di Minerva. Nell’inferno dei Misteri francesi del Medioevo figuravano i cannoni. Erasmo, in un suo adagio, chiamava le bombarde macchine tartaree. L’Ariosto aveva scritto: «Oh maledetto, oh abbomnoso ordigno / che fabbricato nel tartareo fondo / fosti per man di Belzebù maligno, / che ruinar per te designò il mondo - Io vedo i briganti, i carnefici, gli avventurieri, gli staffieri di oggi più dotti dei dottori e predicatori del mio tempo.

«E che più? Le donne e le fanciulle aspirano anch’esse a questo vanto, a questa manna celeste che è la buona dottrina; di guisa che io, all’età in cui mi trovo, ho dovuto acconciarmi ad apprendere la lingua dei Greci; non già ch’io l’avessi disprezzata, come Catone, ma perché non si dava, al tempo della mia giovinezza, alcuna opportunità di studiarla, e volentieri oggi mi diletto a leggere i Moralia di Plutarco, i bei Dialoghi di Platone, i Monumenti di Pausania, le Antichità di Ateneo, aspettando l’ora in cui piacerà a Dio mio signore di trarmi da questo asilo terreno chiamandomi a sé.

«Per cui, figlio mio, ti ammonisco a che tu impieghi la tua giovinezza a ben profittare e in dottrina e in virtù. Tu vivi a Parigi ed hai Epistemone per tuo precettore; l’uno potrà istruirti con i suoi insegnamenti a viva voce, l’altra con commendevoli esempi.

Io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il Greco come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il Latino; e poi l’Ebraico per le Sacre scritture, e il Caldaico anche e l’Arabico. E che tu modelli il tuo stile sull’esempio di Platone quanto al Greco e di Cicerone quanto al Latino e che non vi sia storia la quale tu non tenga a mente, al che ti aiuterà la Cosmografia di coloro che ne hanno scritto.

- «Per quel che riguarda le arti liberali – geometria, aritmetica e musica - io ti ho aiutato a prendervi qualche piacere quando eri ancora bambino, in età di cinque o sei anni; non le trascurare e apprendi ciò che resta. Dell’astronomia dovrai conoscere tutte le leggi e lascia pur perdere l’astrologia divinatoria e l’arte di Lullo (filosofo, astrologo, matematico catalano autore di numerosi libri tra i quali l’Ars magna ecc. ndr.), come quelle che sono inganno e vanità. Del diritto civile voglio che tu sappia i testi a mente e me li esponga con argomentazioni filosofiche.

« Quanto ai fatti della natura, dovrà guidarti la volontà di tutto conoscere: che non vi sia mare, fiume o fontana che tu sappia i pesci che vi stanno; e così per gli uccelli dell’aria, gli alberi tutti e arbusti e frutici della foresta, tutte le erbe della terra, tutti i metalli nascosti nelle profondità degli abissi, tutte le pietre preziose d’Ostro e d’Oriente, e che nulla ti rimanga ignoto.

Rivediti poi con cura i libri dei medici Greci, Arabi e Latini, senza disdegnare Talmudisti e Cabalisti, con frequenti anatomie, procura di acquisire conoscenza di quell’altro universo che è l’uomo; e infine, per qualche ora ogni giorno datti a leggere le sacre scritture : prima il Nuovo Testamento e le Lettere degli Apostoli, in greco, e poi, in ebraico, il Vecchio Testamento.

E voglio poi che al più presto tu dia prova di quanto hai preso profitto, il che non in modo migliore potrai fare che cimentandoti pubblicamente in dissertazioni di ogni disciplina, con tutti e contro tutti, e usando con persone dotte a Parigi come altrove.

Ma poiché secondo il saggio Salomone, Sapienza mai non alberga in cuore malvagio e Scienza, senza Coscienza altro non è che rovina dell’anima – ti converrà servire il tuo Dio, amarlo e temerlo, riponendo in lui ogni tuo pensiero e speranza, e con fede fatta di carità tenerti a Lui così stretto, che mai il peccato te ne separi. Guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane perché questa vita è peritura, ma la parola di Dio dimora eterna.

Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare e fa che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito. E quando capirai di aver conseguito tutto il sapere dei libri e dei maestri di costà, ritorna a me che ti veda e possa darti la mia benedizione prima di morire.

Figlio mio, la pace e la grazia del Signore siano sempre con te, Amen.

Da Utopia, questo diciassettesimo mese di marzo . Tuo padre Gargantua.


Ricevuta questa lettera, Pantagruel prese nuovo coraggio e si buttò a studiare con più à slancio e più profitto che mai, di sorta che a vederlo così infervorato a imparare sempre più, avreste detto che il suo spirito fra i libri era come il fuoco in uno scoperto, tanto appariva infaticabile e crepitante .




FINE