Il Diavolo Beemoth da una miniatura del XVmo sec

 

 

 

GLI “ECCERINIS”

LA TRAGEDIA

DIMENTICATA

DI

ALBERTINO MUSSATO

 di Michele Puglia

 

 

A

lbertino Mussato (1261-1329), contemporaneo di Dante (1265-1321) (1), letterato, poeta, storico, politico, oratore, ambasciatore presso il papa (Bonifacio VIII) e l’imperatore, aveva dominato per diversi anni la vita pubblica della città di Padova dal periodo dell’incoronazione dell’imperatore Arrigo VII a Pavia (1311), alla morte di Can Grande della Scala (1328).

Mussato faceva parte dell’area di Pietro d’Abano (1257-1315) e pur essendo    suo quasi coetaneo, non aveva condiviso la vita accademica (2), perché, a causa della morte prematura del padre, si era messo a fare il copista di libri scolastici e a questo modo si era formato una cultura di base (nella sezione Articoli pubblichiamo l’art. su Ezzelino da Romano, mostro e tiranno maledetto).. 

Tra le sue molteplici attività la sua figura emerge per la tragedia “Eccerinis” (Gli Ezzelini), che ancora oggi, per i suoi risvolti, suscita un tal rapimento che per il piacere intellettuale nostro e (ci auguriamo!) dei lettori, abbiamo ritenuto qui riassumerla per sommi capi. 

Albertino, come storico aveva scritto Historia Augusta, De Gestis Italicorum post Henricum Caesarem che ne costituisce la continuazione e Ludovicus Bavarus, ad filium, rimasto incompiuto  (per Ludovico il Bavaro v. in nota a Jandun, Marsilio da Padova in “La Scuola di Padova” ecc.).

Il “De gestis, costituisce la continuazione della “Storia Augusta” e avrebbe dovuto essere di maggior respiro ed essere estesa alla storia d’Italia, ma la morte dell’imperatore lo aveva portato a ridimensionarla: i primi sette libri trattano accadimenti (1313-1316) di Roma, Brescia, Milano, Napoli, Sicilia, Toscana, e  le discordie dell’impero dopo la morte di Arrigo VII; dall’ottavo il testo è limitato alla storia di Padova; la guerra contro Can Grande che in crudeltà non era da meno di Ezzelino IV, occupa gli ultimi cinque libri del testo.

Questo testo presenta una stranezza: i libri nono, decimo, undecimo sono in versi (tutti gli altri sono in prosa latina); il motivo era stato dovuto al fatto che dopo aver scritto la tragedia “Eccerinis” (3) per la quale Mussato aveva ricevuto il “lauro” dei poeti (come Dante), egli non aveva scritto più versi e la Società che gli aveva concesso la corona poetica, lo aveva minacciato di revocargliela con i beni donati, se non avesse scritto altri versi sugli eroi padovani e così Mussato aveva scritto quei tre libri in versi.

Durante la sua giovinezza Mussato aveva formato la sua cultura appassionandosi alle tragedie di Seneca (vale a dire a tutte le tragedie che indicavano Seneca come autore) e, dopo le opere letterarie e storiche, aveva scritto la tragedia in cui si avvertiva lo spirito di Seneca ma, come precisava Antonio Zardo che considerava l’opera un capolavoro (nel libro “Antonio Mussato, studio storico e letterario”, Padova 1884), “si trattava di forma esteriore che non era imitazione, mentre il suo contenuto è ben diverso dalle tragedie di Seneca”.

Dopo la morte di Ezzelino IV (1194-1259), i padovani avevano avuto un altro tiranno, Can Grande della Scala (1291-1329) e Mussatto (che viveva nello stesso periodo), dopo aver scritto la tragedia, aveva apportato delle correzioni facendo in modo che alcuni riferimenti a Ezzelino ricordassero quelli che i padovani stavano vivendo nella attualità con Can Grande, anch’egli, come il suo predecessore, vicario imperiale e nelle efferatezze e crudeltà non gli era da meno ...quando non lo aveva anche superato!

 

 

1)  Ambedue i personaggi in due occasioni si erano trovati nello stesso posto ma si erano ignorati; Mussato ben conosceva la Divina Commedia e Dante certamente conosceva l’opera di Mussato perché all’epoca le notizie circolavano anche speditamente; inoltre ambedue avevano ricevuto il “lauro poetico” per cui dobbiamo  ritenere che si fossero deliberatamente ignorati ... per reciproco orgoglio!

2) Per Pietro d’Abano si veda in Articoli: La Scuola aristotelica e averroistica di Padova; con Geri d’Arezzo (1270-1339) Benvenuto Campesani (1255-1323) Pietro d’Abano Rolando da Piazzola (?-1324) Geremia da Montagnone (1257c.a-1315) e Lovato Lovati (1241-1309) viene indicato come  facente parte del movimento noto come Scuola pre-umanista di Padova che costituì la base per la successiva opera di Petrarca.

3) La tragedia è intitolata non al solo “Eccerinus, ma alla intera famiglia “Eccerinis in quanto i primi quattro atti sono dedicati a Ezzelino, ma il quinto riguarda l’intera famiglia e la sua distruzione.

 

 

EZZELINO

CONCEPITO DAL DEMONIO

 

 

G

gli “Eccerinis è da considerare un capolavoro, peraltro ritenuta la prima opera di carattere umanistico, perché per prima recuperava, nella poesia, il metro classico dopo l’antichità; dimenticata in quanto mai rappresentata, ma oggetto di numerosi studi dottrinari (tra i più recenti (2013) la tesi di M. Bosisio: “Mussato Medievale”, con ampia bibliografia (in pdf scaricabile da Google).

Era una tragedia che anticipava Shakespeare nella descrizione  delle crudeltà commesse da Ezzelino IV da Romano nei confronti dei padovani, trucidato con la sua famiglia tre anni prima della nascita di Mussato, sì che tutta la sua infanzia era stata circonfusa dai fantastici racconti delle efferatezze compiute da Ezzelino, il mostro che si riteneva fosse stato concepito dal Demonio. 

E la tragedia (riassunta dal cit. Zardo), si apre con il racconto della madre Adeleita ai suoi due figli Ezzelino e Alberigo, del terribile segreto della loro nascita, non senza, prima del racconto, esser caduta in deliquio per l’orrore dell’infame ricordo dei rapporti carnali avuti con il Demonio da cui essi erano stati concepiti (per i rapporti carnali con i diavoli e i figli che nascevano v. in Articoli: L’Inquisizione tra intolleranza religiosa, persecuzioni, roghi e torture, Parte Seconda).

 

IL PRIMO ATTO

 

Riposava nell’eburneo talamo accanto al marito Ezzelino il Monaco nella Rocca di Romano quando sulla prima ora della notte udì un muggito dal profondo della terra, come se ne scoppiasse il centro e si aprisse il caos; un vapore di zolfo si diffuse per l’aria e si restrinse in nube e un’improvvisa luce, simile a quella del fulmine seguito dal tuono, illuminò la casa; la fumosa nube involge il letto e lo riempì di fetore ed ella si sentì avvinta e oppressa dall’ignoto adultero.

Era grande costui come un toro, aveva corna adunche sul capo irsuto e incoronato di setolose ispide chiome; sanguigna lue gli colava da entrambi gli occhi, le narici con frequenti sbuffi vomitavano fuoco e le faville gli salivano ai larghi orecchi; la bocca anch’essa vibrava, leggera fiamma e continuo fuoco gli lambiva la barba.

Poiché tal mostro ebbe sazie le voglie, con gran rovina si lanciò dal letto e si  profondò nella terra.

Da questo infame congiungimento nacque Ezzelino, dopodiché la madre lo portò nel grembo per dieci lunghi mesi di lagrime, di angoscie e di dolori; la nascita fu dolorosa; egli apparve fanciullo cruento, foriero di strage, minacciante con la fronte crudele ed annunziante, terribile a vedersi, atroce portento; Alberigo, anch’egli nacque con egual stupro, dal medesimo adultero”.

“Ezzelino, senza sentirsi compreso di orrore, incoraggia il fratello che sembra titubante: Arrossiresti, o stolto, gli dice, di tanto padre? Rinnegheresti l’origine divina? Siamo prole di Dei. Nemmeno Romolo e Remo ch’ebbero Marte per padre, possono vantarsi di progenie così elevata. Maggior Dio e di più vasto regno è il padre nostro, re delle vendette; al suo cenno i potenti, i principi, i re, i duchi  scontano le pene; nel paterno foro saremo giudici degni, se colle opere vendicheremo il regno del padre a cui piacciono le guerre, le morti, le stragi, le frodi gli inganni ed ogni danno dell’uman genere”.

Anche la parte dell’invocazione di Ezzelino al padre Satana anticipa un altro drammaturgo inglese, J. Milton, come ritenuto dal citato Zardo che la considera una delle più belle pagine della tragedia (ndr.)

Detto ciò, Ezzelino ritiratosi nella parte più remota della casa, dove non entra mai luce, si prostra a terra, e rivolge al demonio questa invocazione: Cacciato dagli astri, già risplendente in cielo sul mattino, padre superbo che tieni, triste regno, il caos profondo, e sotto il cui impero i morti scontano i delitti, dall’imo speco accogli, o Vulcano, le degne preci del supplicante figlio: io, tua certa e indubitata prole, t’invoco. M’empi del tuo spirito, esperimenta se può qualche cosa, l’innata volontà che ferve entro il mio petto. Lo giuro per le livide e nere acque di Stige, io negai sempre Cristo, l' aborrito Cristo, odiai sempre il nome della croce a me nemico.

... Non manchi nessuno che aneli alla rapina, né nessuno degli spiriti infernali; essi incitino gli animi all'ire, agli odii e all'invidie. A me si dia la spada sanguinosa; io stesso solo esecutore finirò le liti; la mano sicura non tremerà per nessun delitto. Acconsenti, o Satana, e approva un tal figlio”.

L’atto si chiude con il Coro che allude a Can Grande, ai nobili, ai potenti alla plebe; Can Grande (vicario imperiale di Verona) infatti, non contento di aver allargato il suo dominio a Vicenza, anelava (come aveva fatto il suo predecessore Ezzelino) a conquistare Padova.

 

SECONDO ATTO

 

Nel secondo atto un Nunzio narra al Coro come Ezzelino abbia con inganni e astuzie sottomessa Verona (Oh Verona, o antica sciagura di questa Marca, soglia di nemici, via aperta a ogni guerra, sede del tiranno, o che il tuo sito sia acconcio alla guerra, o che il suolo per sé stesso produca tal razza di uomini) al proprio giogo e come la nobile città di Padova, venduta dai nobili (ne pagano per primi la meritata pena!), obbedisca al tiranno.

Il Coro conclude questo atto enumerando le crudeltà commesse da Ezzelino: “Il fratello per accondiscendere al tiranno, uccide il fratello, il figlio sottopone con le proprie mani le fiamme al rogo del padre; né ciò bastando, egli stesso comanda che i fanciulli siano evirati...e che alle donne vengano tagliate le mammelle”.

 

TERZO ATTO

 

L’atto terzo si apre con la scena di Ezzelino e Alberigo che si narrano a vicenda le conquiste già fatte e parlano di quelle che hanno in animo di fare: “Verona, Vicenza, Padova già obbediscono al mio comando, dice Ezzelino, ma voglio andare più avanti, la Lombardia m’invoca a Signore ...ma qui non voglio arrestarmi: l’Italia intera dev’esser mia. Né ciò mi basterà ancora” ... .

L’atto termina con il Coro che racconta dell’inutile tentativo dell’atroce Ezzelino, che non avendo potuto soggiogarla torna a Verona e sfoga la sua ira facendo morire undicimila prigionieri padovani, i cui corpi sformati...che la madre più non raffigura il figlio, la moglie il marito, sono trasportati da carri ... la terra non basta a coprire tanti cadaveri, il lezzo corrompe l’aria.

 

QUARTO ATTO

 

Il quarto atto descrive il ferimento e la morte di Ezzelino che si era rivolto verso il milanese che intendeva conquistare e respinto al varco dell’Adda mentre indugia da che parte deve fuggire, una freccia gli trapassa il piede sinistro; chiede ai soldati il nome del luogo, il fiume Adda, gli fu risposto e questo è il guado di Cassano. Ahi Cassan... Assam...Bassam, qui, me l’hai predetto madre! E’ la mia morte egli grida; sprona il cavallo nell’acqua e raggiunge l’altra riva, ma una schiera di soldati gli va contro, Ezzelino resiste, ma uno di essi con un colpo gli fracassa la testa, è preso dai suoi ma rifiuta ogni aiuto minacciando con la terribile fronte: volontario egli scende alle ombre infernali del padre.  

 

QUINTO ATTO

 

La tragedia potrebbe anche chiudersi con il quarto atto, ma Mussato aveva aggiunto questo quinto atto in cui è narrato lo sterminio di tutta la famiglia degli Eccerini, da cui l’opera ha preso il nome e i fatti di seguito narrati ed esposti dal Nunzio, sono stati ritenuti da L. A. Muratori, come documento storico.

Alberigo, fratello di Ezzelino si rifugia nella rocca di san Zenone con la moglie e i figli; tre città avide di vendetta, Treviso, Vicenza e Padova si accampano intorno al monte, ad essi si uniscono il marchese Azzo con gli altri signori della Marca; poiché a quelli di dentro non rimaneva speranza di resistere e incalzava la fame e la paura della morte era imminente, la rocca fu presa senza lotta.

Le schiere irrompono nel castello, un bimbo strappato dalle poppe della madre e preso per i piedi, il molle capo è sbattuto contro un duro tronco; schizzano le cervella e il sangue sprizza il volto della madre; Ezzelino Novello, fanciullo di tre anni, corre incontro a uno con la spada in pugno chiamandolo zio e quegli: Tuo zio ci insegnò a dare ai suoi nipoti tal dono e gli taglia il capo e per far nota a tutti la sua immane scelleratezza, affigge su una lunga asta lo squallido capo che increspa le labbra e ruota gli occhi mentre insozza di sangue la mano di chi lo porta; altri dilania il fegato palpitante; Alberigo sull’alto della rocca viene nelle mani del popolo, mentre sta per volgere parole ingannatrici al popolo gli viene sbarrata con un freno la bocca  e trascinato a contemplare l’eccidio dei suoi.

Ed ecco la sua donna strappata dalle sue stanze dalla turba feroce, venire innanzi con le chiome diffuse, gli occhi al cielo e le mani avvinte da una stretta fune; dietro a lei cinque vergini, prole consacrata alle fiamme, tratte anch’esse con i capelli disciolti innanzi agli occhi paterni; attorno una turba ricorda i danni commessi, aizza i cani e indugia la strage per fvieppiù gustarla.

Ardeva un’alta catasta di grossi roveri ... e il pingue olio diffuso alimentava le fiamme ...il fuoco rumoreggiava al par del tuono... sicché ognuno credeva essere là dentro il Dio dell’Inferno; oh miserando spettacolo agli occhi dei genitori; dapprima viene posta sul rogo la schiera delle innocenti; non appena il fuoco offese i giovani seni e arse le bionde chiome, esse balzano indietro chiedendo aiuto ai genitori...ma il  feroce littore trascinando insieme con esse la madre, le sospinge nel rogo; ...con qual volto Alberigo, poiché parlar non potea, sostenne lo strazio della moglie e delle figlie; l’atroce...scuoteva il capo.. vi fu chi gli cacciò la spada nel destro fianco e uscir la fece dal sinistro; largo sangue fluì da entrambe le ferite; un altro gli fulmina un fendente sul collo e ne spicca la testa che mormora rotolando per terra; il tronco stette vacillante prima di cadere; il volgo stracciò a brani le membra e le diede in pasto ai cani.

La tragedia termina secondo i canoni cristiani che ognuno sarà rimeritato secondo le sue opere, nell’altra vita: per i buoni ad aver fede che ad essi è riservato il premio del Cielo e dei malvagi che meriteranno il castigo dell’Inferno.

 

 

*) Della tragedia, riferisce Zardo,  vi sono state tre traduzioni: di Luigi Mercantini, la meglio verseggiata, Palermo 1868; di Dall'Acqua-Giusti la più fedele all’originale  e di Federico Balbi che nonostante qualche tratto felice, avrebbe bisogno di essere riveduta dal traduttore.

 

 

FINE