RIVISTA
STORICA VIRTUALE
SPECCHIO
DELL’EPOCA
IL
CORPUS JURIS
CIVILIS
L’ABBAGLIO DEI RICERCATORI
SUL
CAOS
DELLA
LEGISLAZIONE
GIUSTINIANEA
a
cura di
Michele E. Puglia
SOMMARIO:
PREMESSA E IMPLICAZIONI; IN FRANCIA; IN SPAGNA: IL DIRITTO GOTICO;
L’EPOCA DEI FUEROS; IN GRAN BRETAGNA: COMMON LAW E CIVIL LAW; IN GERMANIA; SVILUPPI NEGATIVI IN
ITALIA: LE INCERTEZZE DEL DIRITTO POSITIVO; E LE RIFORME?; GLI ARTICOLI DI
VERRI; RAGIONAMENTO SULLE LEGGI CIVILI (IN NOTA: SOSTITUZIONE DEL DIRITTO
LONGOBARDO E DECORSO DEGLI STUDI DEL DIGESTO; LE SCUOLE PRE-IRNERIANE E
PRE-BOLOGNESI; ALCIATO E CUJACIO); DI GIUSTINIANO E DELLE SUE LEGGI..
(per
tutti i riferimenti storici
all’Impero
bizantino, rimandiamo alla
RIVISTA
STORICA VIRTUALE
<www.rivstoricavirt.com>
alla
sez. Articoli e agli argomenti indicati nella pagina relativa ai
“Mille
anni dell’’Impero bizantino” e per i Capitolari di Carlomagno
a
quella relativa a “Carlomagno e l’idea dell’Europa”;
per
la situazione italiana,
rimandiamo
alla sez. Schede, alla Premessa “L’Italia oggi”
dell’articolo
“Gli
italiani secondo Leopardi”).
PREMESSA
E IMPLICAZIONI
N |
el
presente studio riassumiamo due articoli che si possono considerare
rivoluzionari, scritti da Alessandro Verri (fratello del più famoso
Pietro e dello stesso, se non maggior spessore intellettuale), pubblicati nella
rivista letteraria “Il Caffè” (1764-1766): “Ragionamento sulle leggi civili” e “Di Giustiniano e delle sue leggi” .
Come
si vedrà, il Verri critica aspramente tutta l’opera di Giustiniano
scoperta in Occidente (si ritiene comunemente ad Amalfi o a Molfetta nel 1135
ma il ritrovamento è ritenuto leggendario), da considerare, oltretutto,
superata rispetto alle successive elaborazioni e maturazioni operate dagli
imperatori, suoi successori.
Secondo
Verri, i “glossatori”, dal momento della
scoperta delle Pandette (*) si erano
buttati a capofitto nello studio di un testo (poi diffuso per l’Europa)
oramai da considerare non solo
obsoleto, ma anche artefatto in quanto le vere e proprie leggi romane
erano andate tutte perdute.
Esse
infatti avevano subito, non
solo trasformazioni sulla base
delle opinioni degli interpreti e dei giureconsulti (con le “sottigliezze legali” come scrive
il Verri). Si pensi alle obbligazioni che per i romani nascevano da contratto o
da delitto - ex contractu, ex delictu
- mentre i bizantini, abituati alle
distinzioni sottili (1)
aggiunsero i “quasi contratti” e i “quasi delitti”(ndr.), ma erano
anche superate dalle successive elaborazioni intervenute da Basilio I il
Macedone (812-886) in poi (in Articoli: I mille anni ecc. Cap. VII).
Occorre
tener presente, a proposito del diritto
romano originario, che i romani non erano per le disquisizioni: noi invece la mentalità bizantina (in
negativo!) l’abbiamo tanto assorbita che fa ancora parte del nostro
patrimonio genetico, apprezzate e
accettate e per di più definite “squisite” o
“sottili”, e, come aveva scritto un misconosciuto giurista
italiano di fine settecento (Federico Thibaut) “avevano senso pratico e conciliativo e risolvevano le maggiori
difficoltà conciliando il diritto consuetudinario con le leggi scritte,
temperando il rigore dell’elemento civile con quello più vasto e
umanitario delle leggi e sciogliendo l’ardua questione del passaggio
dall’astratto al concreto e della sua applicazione ai bisogni reali con
l’Editto pretorio emesso dal Pretore, che diveniva diritto
consuetudinario”.
Gli
esplosivi articoli del Verri, con un
successivo studio del De Simoni
(Dei delitti di mero affetto, 1783), avrebbero dovuto suscitare, nel
secolo e mezzo seguito alla loro pubblicazione, se non una rivoluzione
intellettuale, almeno una forte reazione fra i tanti studiosi che si occupavano
specificamente di diritto romano. Ma,
a quanto risulta, la questione rimase sommersa dal silenzio!
Dobbiamo
dire però che un’altra voce si era levata già molti secoli
prima del Verri, e si può dire nell’imminenza della scoperta
(intorno al 1150), la prima a quanto è dato riscontrare, che aveva mosso le sue critiche al Corpus juris: era quella di san Bernardo (2),
che aveva definito le leggi di
Giustiniano “non tam leges, quam
lites et cavillationes” che avevano reso oscurissime e vane le
leggi perché mutilate e
tronche e spesso “battagliantesi”
e “contrariantesi” a
vicenda, altre intralciate di sofisticherie, vane sottigliezze e chimeriche
decisioni.
E
il De Simoni aggiungeva: Se non avessimo avuto tanti farraginosi
volumi di commentatori, interpreti, espositori, che sforniti di criterio e
senza l’arte di ben pensare, ammorbarono e corruppero il diritto romano
col puzzare di rancido, le leggi di
Giustiniano si intenderebbero meglio.
Ma non è per questo che non si
debba avere in sommo pregio le illustri fatiche di quei valentuomini, prosegue il giurista, che sulle orme dell’immortale Cujacio (v. sotto) si studiarono rischiarare eruditamente e
dottamente la romana giurisprudenza involta nelle tenebre della storia e degli
oscuri principi della filosofia dei suoi curatori.
Fu così che fu rivalutato
l’intero metodo usato da Giustiniano con i suoi inetti compilatori, nel
far compilare, a fascio e senza criterio e discernimento, senza avvedersi delle
palmari e solenni antinomie che venivano a stabilire, massime nei suoi informi
digesti e il suo imperfetto codice che così tronche e mutilate ed
isolate per lo più mancano del loro vero senso col quale egli aveva fatto il diritto romano.
Ciò non fece che eccitare una
vera e propria guerra di opinioni tra gli interpreti i quali in seguito, continua De Simoni, disperati di poter con tanti testi contraddittori fra essi, fissare
alcun sistema dello spirito del diritto romano, dedotto dalle massime, si sono
abbandonati a spacciare a proprio talento sentenze e opinioni bevute da quelle
fecciose fonti derivanti dalla barbarica e settentrionale legislazione di quei
selvaggi sbucati dalle caverne della Scozia (in effetti si trattava della
estrazione del diritto romano dai territori franchi dove veniva applicato, come vedremo più avanti ndr.).
E per rilevare il vero spirito della
giurisprudenza romana, oscurata e nascosta tra i rottami infelici e i ritagli
imperfetti malamente raccozzati da
Giustiniano, si dovette impegnare l’ingegno e il finissimo criterio dei
più dotti e sensati professori della scienza legale quali furono i
Cujaci, Alciati, Gotofredi, Merilli, Noodati, Binderfoechi, Donelli e
Duareni.
Ma, precisa De Simoni, dedurre
da un ammasso e accozzaglia indigesta di tronchi di mutilate sentenze e di
stolte decisioni quale è la realtà di tanto decantato corpo delle
leggi romane raccolte da Giustiniano, corrisponde a chi in riva ad ampio mare
osservando il moto fluttuante delle onde che s’incalzano e si accavallano
l’un l’altra, volesse imprimere un moto costante e regolare.
E
il giurista conclude e ci lascia ponendo un interrogativo: “Come può essere agevole analizzare un guazzabuglio e un centone di dette sentenze e
decisioni che riguardano casi per lo più particolari, senza che si abbia
una distinta notizia di quei casi proposti al legislatore o al giureconsulto,
per ravvisarne lo spirito e dedurne il sistema?”.
Ma,
ciononostante, come detto, nelle scuole italiane, particolarmente in quella di
Bologna (v. sotto, nota 1) del Ragionamento sulle leggi civili) i glossatori su quel “corpus” si buttarono a capofitto
disseminandolo in tutta l’Europa attraverso gli studenti che giungevano
da tutti i paesi dell’occidente e,
una volta addottorati, lo diffondevano rientrando nei paesi di origine.
Esaminiamo
ora le diverse evoluzioni che si ebbero in Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania
e particolarmente nella sventurata Italia, dove gli sviluppi hanno avuto ai
giorni nostri esiti disastrosi; seguono i due articoli del Verri.
*)
In effetti si trattava dell’intero Corpus juris costituito da Pandette in
50 libri e Codice (detto repetitae
praelectionis perché pubblicato nel 528), fu riveduto, ampliato e
ripubblicato nel
1) Ricordiamo che in campo religioso si
giunse allo scisma perché i cristiani nel credo avevano aggiunto una “e” “al “figlio”, il famoso “filioque” (si veda in: I mille
anni ecc., cit.).
2)
Nel Libro II del trattato De
consideratione , dedicato
al papa Eugenio III, che era stato suo discepolo, considerato
un manuale del perfetto pontefice.
IN
SPAGNA:
IL
DIRITTO GOTICO
I |
Goti si erano governati secondo i loro
costumi e consuetudini anche dopo che l’imperatore Onorio (1) (v. Articoli: I mille anni ecc.) aveva loro permesso di abitare
l’Aquitania. ma quando il re Evarico, considerato il primo legislatore
(secondo Isidoro di Siviglia, contro l’opinione di Sidonio Apollinare per
il quale il legislatore sarebbe stato il fratello Teodorico I (da non
confondere con il ravennate omonimo re degli Ostrogoti), suo predecessore,
aveva conquistato
Alarico.
suceduto a Evarico mandò il Breviario
(Lex Gothorum) presso tutte le provincie del regno da lui governato.
Queste
leggi furono mantenute fino al regno di Levighildo il quale ritenne di portare
dei cambiamenti nei costumi (inteso
in senso stretto di foggia del vestire)
e volle modificare il codice facendo aggiunte e eliminando ciò che vi
era di superfluo (gli studiosi però non sono stati in grado di risalire
alla fonte in quanto alcune disposizioni portano il nome del loro autore
(Gundemaro, Roccasuvindo, Eroigio, Egiga che regnarono dopo Evarico e Levigildo
all’inizio del 567), ma, scrive il giurista D.A.Asti (Dell’uso e autorità della
Ragion civile ecc. ed. 1841), “dalle
sentenze e dallo stile è possibile che le aggiunte siano state operate
da Levighildo”.
A questo modo, scrive ancora Asti, i Goti
si allontanarono dalle altre popolazioni barbariche, in quanto, oltre ad averle
scritte in ottimo latino, le conformarono in tutto a quelle romane (prendendo,
sia dal Codice teodosiano, sia dal Giustinianeo, tutto ciò che si
stimasse migliore e confacente al costume dei Goti, riportandole in dodici
libri per imitare (come aveva scritto Cujacio), a quelle di Giustiniano (*): Col risultato che le genti della Spagna
avevano avuto delle leggi migliori di altri popoli.
Quindi
Reccasuvindo
nel secondo anno del suo regno, rincarò la dose, nel senso che:
poiché le popolazioni gotiche per secoli erano vissute sotto le loro
leggi, egli le ricostituì nel Codice
delle Costituzioni Gotiche, e per radicarne l’osservanza presso i
suoi vassalli, a qualunque nazione appartenessero, stabilì una sanzione
di trenta libbre d’oro per chi avesse osato presentarsi con testi che non
contenessero disposizioni che non fossero gotiche e alla stessa pena (del
pagamento al fisco, di trenta libbre
d’oro) doveva soggiacere il giudice al quale fosse stato presentato
altro testo e non lo avesse lacerato (**).
E
così nell’anno 657 l’applicazione della legge romana
cessò per tutta
Ciò
aveva determinato una vacatio legis
per molte specie di reati (principalmente di carattere ecclesiastico), tanto
che il vescovo di Narbona, Siseboldo nel Concilio di Troyes (877) aveva
presentato al papa Giovanni VIII il Codice
delle Costituzioni Visigote, mostrando che esse non solo non contenevano
nessuna pena contro i sacrilegi, ma al giudice era vietato applicare altre
disposizioni che non fossero quelle visigote. E subito i padri del Concilio,
trovarono tra le leggi di Giustiniano, la punizione del sacrilegio, che si
trovava anche nei Capitolari di
Carlomagno, e stabilirono quindi per
Il
re Alfonso IX, o il successore Alfonso X, nel compilare le leggi delle “Partite” fece tradurre per miglior
comprensione dei vassalli, in castigliano il Codice di “Ragion civile” romano, vale a dire i due precedenti codici
teodosiano e giustinianeo.
1)
Dal tempo di Giustiniano e successivamente,
*)
Sive Wisigothorum Reges, qui Hispaniam et Galliam, Toleto sede regia tenuerunt,
ediuderunt XII Constitutionum libros, aemulatione Codici Justiniani, quorum
auctoritate utimur, saepe libenter, quod sin in eis omnia fere petita ex jure
civili et sermone latino
conscripta.
**)
...Judex quoque si vetitum librum, sibi
postea oblatum, dirumpere fortasse distulerit, praedictae damnationibus (XXX libras auri fisco persolvet), dispendio subjaceat.
L’EPOCA
DEI FUEROS
SOMMARIO:
INTRODUZIONE; I PRIMI FUEROS NEI REGNI DI NAVARRA E ARAGONA; E NEI REGNI DI
LEON E CASTIGLIA; I REGNI DI LEON E CASTIGLIA SI DIVIDONO; L’OPERA
LEGISLATIVA DI FERDINANDO IL SANTO E ALFONSO X; ALFONSO X IL SAGGIO PREDISPONE
IL FUERO REAL CON IL CODIGO DE LAS SIETE PARTIDAS; BECERRO DE LAS BEHETRIAS E
RECAPITLACION.
INTRODUZIONE
I |
l
termine “fuero” deriva da
“forum” e ha avuto diversi
significati; nel linguaggio giuridico del Mezzogiorno di Francia, era indicato con “for”
o “fors”,
in prossimità dei Pirenei, a Biscaglia, Guipuzcoa
e altrove “fuero”.
Nel
significato primitivo designava il romano
“forum”, luogo
dove si celebravano i processi; successivamente il termine era usato in
riferimento alle raccolte di giurisprudenza e delle decisioni, e infine, a
ciò che costituiva la giurisdizione locale.
In
Spagna aveva contraddistinto una specifica raccolta di leggi: “fueros real”, quella delle
leggi reali, che aveva preceduto la raccolta delle “Partidas”; questo stesso nome era stato dato al “Fuero viejo” (vecchio) che al'inizio era una raccolta di “consuetudini”, ovvero di diritto consuetudinario della
nobiltà, come anche di
sentenze e arbitrati che avevano formato una sorta di giurisprudenza.
Ma
ciò che sopratutto aveva portato il nome di “Fueros” erano i Fueros municipales (Fueros
municipali) i quali erano di due specie: la prima era una raccolta costituita
da consuetudini orali che gli
abitanti di una municipalità (vecinos) raccoglievano e redigevano per iscritto e per le
quali richiedevano sanzioni reali; la seconda era
costituita dai privilegi che i
monarchi concedevano alle città riconquistate dalle quali cacciavano i
Mori e rimanevano deserte (la cacciata dei Mori, come degli Ebrei era stata una
enorme perdita di ricchezza per il paese!
ndr.); oppure a territori recentemente riconquistati ma posti ai confini
dei paesi occupati “dai nemici del
popolo cristiano” (come si usava dire e scrivere!).
Questi
privilegi avevano lo scopo di
attrarre abitanti per queste città e di creare una specie di colonie
militari di frontiera dove la guerra era pressoché permanente.
Questi
“Fueros” erano chiamati
anche “Cartas de poblacion” vale a dire "Carte di ripopolamento" e con gli altri fueros
sono stati tanto numerosi per i
diversi regni di Spagna, che per la loro catalogazione l’Accademia di
Storia di Madrid aveva impiegato decenni e l’enorme a quantità
delle leggi (come ora abbiamo in Italia!) aveva creato, con le interpretazioni
date dai giuristi, una tale
confusione che non solo i vari giudici, ma gli stessi singoli giudici
emettevano sentenze diverse e contrarie.
I
PRIMI FUEROS
NEI
REGNI DI
NAVARRA E ARAGONA
I |
l più
antico dei “fueros” di
Spagna è considerato quello di Sobrarbe (con questo nome si designava l’originario territorio della
Navarra e Aragona, successivamente divenute indipendenti) e le sedici leggi in esso contenute, sono state
considerate come l’embrione di tutte le successive; esse, secondo alcuni
storici erano state fatte o riconosciute dai cristiani che si erano rifugiati
sulle montagne delle Asturie e dei Pirenei (per combattere gli invasori Mori
nell’anno 711), quando si
riunirono per eleggere don Pelagio, il primo re cristiano della Spagna del Nord
(di stirpe visigota †737), che aveva fatto un’aspra guerra ai Mori
nelle Asturie; si riteneva che Pelagio avesse dominato su tutte le montagne
delle Asturie e dei Pirenei e che la sua sovranità fosse stata
universalmente riconosciuta.
Ma
altri storici invece quelle leggi le riportano al tempo di Garcia Ximenez (724-758?), primo re di Sobrarbe, il piccolo regno
considerato come il germe dei reami di Navarra e Aragona.
In
ogni caso le sedici leggi erano state
scritte (con suggerimenti di Lombardi e Franchi) in latino e successivamente
tradotte in lingua volgare al tempo di re Sancio
Ramirez (1043-1094) che le aveva fatte riportare all’inizio dei Fueros primitivos, i fueros raccolti per gli “infanzones de Sobrarbe” (nobili di Sobrarbe) che contenevano norme per la elezione del re.
Il
fuero di Sobrarbe
non tardò a impiantarsi in
Aragona dove furono poco tempo dopo promulgati i fueros di Jaca e di Daroca, che sembra fossero stati
importati anche in Navarra quando le due corone furono riunite sulla testa di
Sancho Ramirez (verso l’anno 1076), successivamente separate; seguirono
altri fueros municipali concessi alle
popolazioni incorporate a questi reami quando furono riscattati dal dominio
musulmano.
I
due regni (riuniti e poi separati) riconoscevano ambedue le legislazioni,
fueros e gotica (v. sopra), fino a quando i loro rispettivi codici non furono trasformati in codici legali
prima della metà del XIImo secolo.
Don
Teobaldo I (1234-1253) aveva aggiunto (1237) al codice diplomatico della
Navarra le leggi e i fueros (che si
davano ancora per sussistenti nel
1870).
Nel
1246 si tennero a Huesca le Cortes di Aragona alle quali don Giacomo I (1208-1276), il
re giurista, fece accettare la compilazione delle leggi di Sobrarbe
e delle leggi successive, divise in sei libri; don Giacomo II (1267-1327) e don
Pedro IV (1319-1387) aggiunsero in
seguito due nuovi libri.
E
NEI REGNI
DI
LEON E CASTIGLIA
P |
arallelamente
ciò che si era praticato con l’applicazione dei fueros in Aragona e Navarra, fu fatto nei due regni di Leon e
Castiglia, anch’essi separati e riuniti con Ferdinando il Grande che
prese la corona nel 1037.
Nel
Leon, Alfonso V (994-1028) aveva voluto, è stato detto, imitare il conte
Sanchez (1010-1029) e dare ai suoi un” fuero real” oltre al “forum judicum” ricostituito per lui
nel 1003.
Nel
1020 dopo aver riedificato la città di Leon, distrutta da Almanzor, egli fece riunire un Concilio al quale assistette
la regina donna Elvira e in cui erano presenti tutti i vescovi, gli abati, i
grandi del regno.
Fu
in questa circostanza che si stabilì il fuero primitivo, composto di quarantanove leggi o capitoli
che sono gli atti stessi del concilio; i primi sette capitoli erano relativi al
governo ecclesiastico e gli altri al
potere temporale dei popoli di
Leon e delle Asturie, della Galizia e del Portogallo: il fuero è conosciuto come fuero leonese
o di Leon.
Fu
così composta la legislazione generale dei due reami di Castiglia e
Leon; furono questi due fueros con il
fuero juzgo che il
re Alfonso V aveva ricostituito poco prima ristabilendo la sua corte e i suoi
uffici di palazzo, secondo l’etichetta e lo stile della vecchie regole
gotiche.
Con
il matrimonio di Ferdinando I di Castiglia con Sancia
I regina di Leon, si univano (1050) le due corone di Leone e di Castiglia e
Ferdinando riunì a Coyanca un concilio con le Cortes generali alle quali concorsero
vescovi, abati e signori dei reami, in cui promulgò diverse leggi
relative alla riforma delle imposte, dei feudi e della polizia locale,
confermando i fueros di don
Sancio (fuero viejo) per tutta
Nel
1076 don Alfonso VI (1040-1109) e sua moglie Ines confermarono il fuero speciale di Sepulveda
(dovuto originariamente al conte Ferdinando Gonzalez) e andando al di là
dei limiti nei quali era stato confermato, aggiunse diverse disposizioni con
cui concedeva per gli abitanti di questa città diversi privilegi,
franchigie e libertà.
Alfonso
VI , il primo dei re di Castiglia che aveva messo di nuovo in risalto e
solennemente confermato il Fuero di Sepulveda, avendo conquistato la
città di Toledo, antica capitale dell’ regno gotico, dovette
ricordarsi in questa occasione, del forum
judicum o fuero juzgo che aggiunse (1091) al fuero di Leon con altri
fueros, determinando in quale forma
dovessero essere decisi i processi tra giudei e cristiani.
Più
tardi i castigliani che andarono ad abitare a Toledo, avendo supplicato il re
di farli giudicare con il fuero di
Castiglia e non con il fuero juzgo dei
mozarabi (cristiani che vivevano nei territori musulmani), il re accondiscese
ai loro desideri e concesse loro un alcade
che li avrebbe giudicati per tutte le loro contestazioni private, ma volle
altresì che essi restassero sottomessi alla giurisdizione dell’alcade dei mozarabi nelle cause penali
(disposizione che non potette che dispiacere ai castigliani che essi
consideravano come dipendenza dallo straniero!).
Il
re dichiarò dunque, mostrando spirito di tolleranza, che i cristiani di
questa città rimanessero sottomessi alle leggi gotiche e che i giudei e
i mori continuassero ad avere alcadi del loro paese e della loro religione; risultarono quindi tre tipi di fueros dati alle tre classi di cristiani
che componevano la popolazione: i mozarabi, i castigliani e i franchi (questa
era una specie di colonia venuta dal mezzogiorno della Francia).
Alfonso
VI inoltre, con la famosa ordinanza di Naxera o Najera (composta da centodieci leggi e da non confondere
con il fuero viejo con il quale essa non si è mai fusa ed era estesa ai
reami di Leon e di Castiglia) completò il diritto pubblico del tempo
definendo i privilegi, franchigie, oneri e obbligazioni della nobiltà e
regolando i diritti e doveri reciproci dei sovrani, dei ricos-hombres e degli hidalgos,
nonché dei loro rispettivi vassalli, secondo la diversità
dello stato sociale di questi ultimi.
Alfonso
VI, pur avendo avuto sei mogli e due concubine aveva avuto una sola figlia, Urraca che gli succede alla sua morte; Urraca,
donna estroversa (sulla quale non possiamo soffermarci senza uscire fuori thema), aveva
sposato il cugino Alfonso d’Aragona, che regnando su molti territori si
farà eleggere (1126) imperatore
e sarà il VII di quel nome.
Alfonso
e Urraca confermarono di nuovo il Fuero di Sepulveda il cui originale si
conserva ancora negli archivi di quella città, scritto in latino (porta
la data 15 delle calende di dicembre
dell’anno 1214), e Alfonso VII confermerà il fuero dei mozarabi inserendolo nei
privilegi indirizzati al concilio di Toledo, senza far menzione alle tre classi
di abitanti.
Così mentre si tendeva a considerare il fuero juzgo come diritto comune e si tendeva a estendere
l’applicazione del fuero di Toledo,
si sentiva nello stesso tempo il bisogno di modificare parzialmente la
legislazione visigota e a sostituirla poco per volta a una legislazione nazionale
completa.
I
REGNI
DI
LEON E CASTIGLIA
SI
DIVIDONO
Ferdinando
II (1137-1188) figlio di Alfonso VII, alla morte del
padre (1157) aveva ereditato il regno di Leon mentre il regno di Castiglia era
toccato al fratello primogenito Sancio III (1134-1158), morto prematuramente, la cui corona era
passata al figlio Alfonso VIII (1158) ancora
minore.
Alfonso
VIII (1155-1214)
sarà detto il Nobile e si renderà famoso per le vittorie sui mori
(Las Navas Toledo 1212), emise delle prammatiche contro le spese eccessive e la
corruzione dei costumi e provvide alla ratificazione degli antichi privilegi di
Toledo concessi dai suoi predecessori e alla concessione di nuovi fueros che
entrarono nella collezione di Ferdinando III il Santo intitolati “fueros municipal e general de Toledo”.
Egli
aveva incaricato i “ricos-hombres”
e gli “hidalgos” di
Castiglia di raccogliere e scrivere in un ordine conveniente, le loro
tradizioni e i loro fueros nonché
le sentenze e gli arresti che essi avevano conservato per poter avere una
giurisprudenza costante.
Queste
disposizioni però non furono eseguite a causa delle continue guerre che
agitarono il regno: ma ciò deve essere considerato come un tentativo di
unificazione della legislazione generale; nello stesso tempo, nel reame di Leon
Alfonso IX (1171-1230) aveva concesso dei fueros
particolari a diverse comunità del reame.
L’OPERA
LEGISLATIVA
DI
FERDINANDO
IL
SANTO
E
DI SUO FIGLIO
ALFONSO
X
F |
erdinando
III (12o1-1252) detto il Santo per l’armonia che aveva creato tra arabi,
cristiani e mori, dopo aver emanato
il fuero di Logrono,
aveva comunicato alle tre classi degli abitanti di Toledo i loro fueros e rispettivi privilegi che
dispose (1222) fossero inseriti nel “Fuero general” di Alfonso VII; dispose inoltre la traduzione in
lingua volgare del Forum judicum al
quale fu dato il nome di Fuero juzgo o Librum
judicum (Lex wisigotorum, Libros de los jueces); nel corso della
traduzione i traduttori avevano apportato nel testo qualche modifica che non
poteva certamente soddisfare i bisogni di una società in trasformazione
in quanto il Forum judicum
conteneva la vecchia legislazione
dei visigoti.
Il
re aveva fatto un primo tentativo di abbozzo emanando il Settenario (Septenario) che prelude alla celebre opera (Partidas)
di Alfonso X il Saggio (v. sotto).
Il
re Ferdinando III man mano che conquistava le città (dai mori),
accordava i Fueros e i privilegi,
come avvenne con Carmona (1248), Siviglia, Toledo (1250), privilegi poi
integrati da Alfonso il Saggio (1252 e 1263) confermati successivamente dai re
cattolici (1475) e loro successori.
ALFONSO
X IL SAGGIO
PREDISPONE
IL
FUERO REAL CON
IL
CODIGO DE LAS SIETAS
PARTIDAS
L’ |
era
dei fueros particolari alle varie città, compresa Madrid, continua
durante il regno di Alfonso X il Saggio o
il Dotto (1221-1284), ma le sue concessioni erano provvisorie in
quanto era in preparazione il Fuero des las leyes o Fuero real.
Il
monarca aveva avuto l’accortezza di raccogliere nel Fuero real i fueros anteriori
e di preparare un codice da applicare in Castiglia; egli, consapevole della
incompletezza dell’opera che aveva fatto distribuire in tutti i distretti
del regno, incominciò a prepararne un’altra, certamente
influenzato dai giurecoconsulti romanisti e canonisti che avevano rilevato che il
Fuero real non conteneva i progressi
che nel frattempo erano intervenuti negli studi universitari giunti in Spagna
da Bologna.
Per
questo egli aveva presentato un nuovo piano sotto il nome di Partidas (Las siete partidas (*)) che aggiornava il Septenario di Ferdinando, opera
monumentale e più scientifica rispetto al Fuero real; essa però
sebbene pubblicata, non era stata resa esecutiva.
A
tal proposito i castigliani avevano chiesto (1270-1272)
che se fosse stato dato loro un codice generale, fosse loro concesso almeno il Fuero viejo consacrato da una lunga
tradizione; la loro petizione fu accolta dalle Cortes di Burgos (1272) dove dominava l’influenza dei ricos-ombres, ma dopo qualche anno cadde in desuetudine e
conservato come Fuero particolare in
qualche città e distretto.
Alfonso
X aveva introdotto la novità della sostituzione del latino con la lingua
volgare, che costituiva una prima rottura con il passato e una prima
affermazione della nazionalità castigliana.
Alfonso
XI (1311-1350) riprese la sua opera di unificazione legislativa per tutto il
suo reame e a lui si devono le diverse leggi generali (nel numero di
quarantasette) che fece emanare (1325-26) dalle Cortes (di Valladolid, Madrid, Villareal e Segovia);
quella di Alcalà emanò (1348) un regolamento (ordenamiento) di una certa importanza col quale sembrava che i Fueros acquistassero un valore superiore alle Partidas continuando a essere confermate anche dai suoi successori.
Suo
figlio don Pedro I introdusse la
riforma e la raccolta dei Fueros di
Castiglia (riducendole a duecentoquaranta) distribuite in trenta titoli e
cinque libr, incorporandole ai Fuero
primitivi di don Sancio e
aggiungendo l’ordinanza di Najera dell’imperatore don Alfonso e
quella delle fazañas (sentenze dei tribunali) che avevano acquisito
una autorità equivalente alle stesse leggi; questa raccolta promulgata
nel 1356, prese l’antico nome
di Fuero viejo di Castiglia.
*)
Il nuovo Codice, denominato “Las siete Partidas”
era stato predisposto da Alfonso X (o XI: si tenga presente che la numerazione
degli Alfonsi cambia a seconda che si introduca Alfonso I d’Aragona e VII
di Castiglia che aveva sposato la regina Urraca
(1109)),
Il
Codice ledeva i privilegi e aveva suscitato la immediata reazione dei Grandi
del regno; tutti si allarmarono e
guardarono questo Codice come una
novità che andava a ledere le antiche libertà, le franchigie e la
totalità dell'anarchia feudale, per cui Alfonso X, nella sua
saggezza, si astenne dalla sua pubblicazione; il suo successore Alfonso XI (o
XII), dopo avergli dato un nuovo assetto e dopo averlo emendato e corretto, lo
mandò alle Cortés che lo confermarono e pubblicarono (1386).
Ma
quali precauzioni furono adottate per la sua osservanza? Esso fu collocato
nella classe delle leggi sussidiarie: si stabilì sottilmente che le sue
disposizioni fossero applicate in mancanza di fueros particolari o di ordinanze municipali o di leggi posteriori
alla sua promulgazione e così, il nuovo codice fu collocato nella
classe delle leggi sussidiarie e supplementari che sarebbero state applicate
dai giudici e dai tribunali.
Si
confermava inoltre per il Diritto Romano la deroga a come era stato applicato
in precedenza e da questo momento esso sarebbe stato letto, citato e insegnato
negli Studi in generale e nelle Università, per la istruzione letteraria
della gioventù
BECERRO
DE
LAS
BEHETRIAS
E
RECAPITLACION
P |
er
ordine di don Pedro I (1334-1369) era stato fatta (1351) un’altra
raccolta intitolata Becerro de las
Behetrias (istituzione particolare della Spagna), destinata a fissare dei limiti alle consuetudini che vigevano in
alcuni paesi del beneficium (suona
come l’omaggio del torello),
l’omaggio dovuto dai vassalli nei confronti dei re (che aveva trovato
l’opposizione dei ricos-hombres e
hidalgos) e dalla popolazione nei confronti dei signori.
Gli
atti dei monarchi che erano succeduti a don Pedro I fino alla Nueva Recopitlacion del 1567 (durante il regno di Filippo II) provano che
si continuò a dare ai Fueros viejo,
al Fuero real e a un gran numero di Fueros provinciali e municipali, una
autorità legale superiore alle Partidas
(con tutta la confusione di cui abbiamo fatto cenno nella Introduzione!).
Enrico
I (1204- 1217) fece confermare il Fueros
viejo dalle Cortes di Toro (1369); la stessa conferma fu fatta da Giovanni
I (1406-1454) nelle Cortes di Valladolid (1385), da Giovanni II, nella sua
prammatica (1427) e nelle Cortes di Segovia (1433); infine Enrico IV
(1425-1474) in quella di Cordoba
(1455).
Nella
prima delle leggi della città di Toro (contenente ottantaquattro leggi)
i re cattolici (Isabella e Ferdinando) avevano ordinato che si sarebbe
continuato a osservare l’ordinamento di Alcalà e alla cessazione
di questo ordinamiento e nelle
prammatiche posteriori sarebbero seguite, per le decisioni dei processi, le
disposizioni del Fuero real e quelle
dei Fuero municipali rimasti in
vigore, dando preferenza alle Partidas
alle quali non si sarebbe fatto ricorso che sussidiariamente.
Con
l’avvento della Recopilacion continuamente aggiornata (nueva, novissima ecc.) i fueros conserveranno un valore
relativo, applicabili solo nel caso in cui le nuove leggi non avessero previsto
una specifica deroga, ciò che comportava la possibilità di
trovarne le vestigia fino al XIXmo secolo, mentre nelle province basche si
ritrovavano ancora quasi tutti nella loro interezza!
IN
FRANCIA
L |
e Gallie,
prima della conquista romana, non avevano leggi scritte che furono introdotte
dopo la conquista con gli editti dei governatori, i quali rispettavano il
diritto consuetudinario, e quindi il diritto romano fu successivamente seguito
nelle province del sud dove rimasero famiglie romane.
E’
discusso invece che ciò possa essere avvenuto nelle province del nord
dove fin dal 450, dai franchi fu cancellata ogni traccia di diritto romano.
Nelle
contrade meridionali furono poi applicati i codici Teodosiano e molte altre
Costituzioni posteriori che finirono nella compilazione del Breviarium
Aniani o Alarici (Lex romana wisigotorum approvata
da Alarico II nel 506).
Si giunse
quindi ai Capitolari di Carlomagno (v. cit. art. Carlomagno e l’idea
dell’Europa), che valevano per tutto l’impero, mentre
successivamente alla sua frantumazione vi provvidero i rispettivi monarchi
(capetingi, se non i vassalli che avevano potere legislativo nei loro domini,
ma il diritto romano e canonico non mancavano di avere una forza sussidiaria
(v. Art. I carolingi e il disfacimento dell’impero).
Con
l’avvento di Filippo IV il Bello (1268-1314), il quale mirava a unificare
il regno, si realizzarono riforme a carattere sia amministrativo sia
legislativo (v. in Articoli: L’Europa verso la fine del medioevp, P.II).
Il monarca
aveva trovato un primo ausilio nel giurista Pierre Dubois
(1255-1312) il quale aveva partecipato alla riscoperta del diritto romano
durante il suo regno, e (sulla base dell’idea della monarchia universale
formatasi nel medioevo, fondata sull’assolutismo romano) aveva teorizzato
la figura del monarca come “D0minus
Mundi”, in quanto Dubois credeva che il
mondo, per avere giustizia, dovesse essere sottoposto a un unico governante,
individuato, non nell’imperatore germanico, ma nel re di Francia, unico discendente di
Carlo Magno.
Filippo si
servì proprio dei “dottori”, che furono introdotti in
seno al suo Consiglio (i suoi
ministri), dal quale il re aveva eliminato i nobili e gli ecclesiastici,
sostituendoli con questi nuovi sofisticati giuristi borghesi, espertissimi in
diritto.
Essi, scrive Michelet,
si servivano della fiscalità
imperiale delle Pandette, che consideravano la loro Bibbia e, a torto o a
ragione, la loro risposta era “scriptum est”, appunto,
è scritto nelle Pandette.
Questi “cavalieri del
diritto”, prosegue Michelet, demolirono il
medioevo, il pontificato, il feudalesimo e la cavalleria, ma, bisogna
confessarlo, conclude lo storico, “furono i fondatori
dell’ordine civile moderno”.
I dottori
quindi, favorirono l’accentramento monarchico (che si concluderà
nell’assolutismo di Luigi XIV il quale guardando all’assolutismo
bizantino, aveva disposto la raccolta di tutto il Corpus di studi bizantini, v. in Schede: Lo Stato bizantino), che
Filippo IV introdusse mandando nelle province balivi, siniscalchi, prevosti,
procuratori, cioè coloro che saranno i funzionari statali
dell’età moderna (è il caso di ricordare, per quanto diremo
più avanti, l’efficienza della a burocrazia francese che non
è impastoiata come quella
italiana).
Dal dodicesimo al quindicesimo secolo
furono raccolti dai monarchi le “Coutumes” (Consuetudini).
Durante
Il Codice civile che va sotto il suo
nome di “Code Napoleone”
era stato voluto dall’imperatore fin da quando era stato eletto
“primo console” al quale aveva dato impulso, anche con la sua
personale partecipazione, per la necessità che si presentava di una legislazione
unificatrice in quanto questa
risultava suddivisa, come abbiamo visto, tra la legislazione romana, vigente
nelle province meridionali, e la legislazione consuetudinaria, vigente nelle
province settentrionali (raccolta, come detto, nelle Coutumes), dando luogo a
disparità giuridiche assai gravi nell'ambito dello stesso territorio
nazionale.
Napoleone
quindi, riformando la costituzione dello stesso Tribunato, che in particolare
ostacolava il progetto, ebbe ragione di ogni opposizione, affidandone la
compilazione a una commissione formata da soli quattro membri (Tronchet, Bigot de Préameneu,
Maleville e Portalis) che
vi provvidero con grande sollecitudine.
Il
progetto così redatto fu distribuito tra le corti giudiziarie per le
osservazioni, inoltrandolo poi alla discussione delle assemblee legislative, e
nel giro di soli quattro anni dalla sua prima impostazione, il codice fu
emanato il 21 marzo 1814, inserendo infine le trentasei successive leggi con le
quali esso risultò approvato dal Corpo legislativo.
Il “codice” fu decantato
per l’ordine della materia, chiarezza delle sue disposizioni, precisione
e facilità espositiva, insomma fu considerato un capolavoro della
produzione umana (ciò che vorremmo poter dire dei farraginosi codici
italiani!), e che fu adottato da molti paesi europei, ad esclusione dei
tedeschi dai quali fu aspramente criticato e addirittura disprezzato in quanto
avrebbero sentito la sua adozione come una imposizione del vincitore. E non fu
accettato anche perché rispecchiava motivi di fondo incompatibili con la
mentalità tedesca portata all’astrazione che in tutte le cose
cerca e investiga l’elemento ideale, mentre quella francese era dotata di
spirito fortemente pratico.
1)
IN
GRAN BRETAGNA:
Common
Law e Civil Law
I |
n Inghilterra mentre il diritto
romano (Civil law) era considerato solo oggetto di studio e la
“Civil law”
era applicata nelle corti ecclesiastiche e in poche altre corti speciali,
vigeva la applicazione della Common Law. Ma non erano pochi gli addottorati in “Civil law”
che uscivano dalle Università inglesi che comunque non potevano
competere con Padova e Bologna.
Common law è il
diritto autoctono e consuetudinario comune a tutti i sudditi inglesi e del
Galles e a tutte le materie trattate nelle corti di giustizia inglesi che si
erano andate man mano organizzando sin dalle origini, unitamente
all’istituto della giuria.
Paul Koshaker
riferisce (L’Europa e il diritto romano) che Lanfranco (arcivescovo di
Canterbury e cancelliere di Guglielmo il Conquistatore), del quale era stato
scritto che era “eruditus et in scholis liberalium artium et legum saecolarium”,
ebbe legami con la scuola giuridica di Pavia, per cui alla corte del re
certamente si sapeva qualcosa del diritto romano; e che Vacario,
scolaro dei glossatori, verso il 1139 nella “domus” di Teobaldo, arcivescovo di Canterbury, che
probabilmente aveva insegnato per qualche tempo diritto romano a Oxford, aveva
scritto (1149) il “Liber pauperum”,
un compendio tratto dal Digesto e dal Codex,.
Koshaker precisa che
in quei paesi (il riferimento è all’Inghilterra) “l’idea del diritto imperiale non
poteva avere , e questo già nel XII sec., alcuna forza di propaganda,
giacché in essi l’impero romano occidentale della nazione
germanica, veniva respinto sempre più, sia nella letteratura pubblicistica,
sia nell’opinione pubblica”.
Negli anni ottanta del 1500, era
giunto dall’Italia Alberico Gentili il quale aveva dovuto allontanarsene,
con il padre e il fratello Scipione per motivi religiosi, e, cultore del
diritto romano, aveva ottenuto l’insegnamento di questa materia alla Università
di Oxford.
Egli si era subito messo in polemica
con gli altri insegnati in quanto, contrario allo studio linguistico e
filologico del diritto, sosteneva l’autonomia dell’arte legale
dalle discipline storiche e sermoniali: sosteneva
infatti, contro i cultori della “parola”, il “senso”
del testo giuridico, tesi che aveva trasfuso nell’opera “Dialogi de juris interpretibus sex” (1582).
Originariamente
la giustizia era fortemente centralizzata in quanto, a parte i pochi casi (nisi prius) in cui
il giudice del re decideva che il giudizio si svolgesse sul posto, per il resto
essi venivano celebrati presso
Ma il sistema
creava problemi a causa delle difficoltà per le parti e difensori che
dovevano recarsi nella capitale, ed esso fu modificato con l’istituzione
degli itinerant justices (i “missi dominici” istituiti da Carlomagno, che portavano la
giustizia del re, poi imperatore in tutti gli angoli del regno-impero: v. in Riv.: Articoli: Carlomagno e l’Idea dell’Europa”).
I giudici
itineranti (itinerant justices),
operanti già dal tempo di Guglielmo il Conquistatore (battaglia di
Hastings 1077), istituzionalizzati da Enrico II (1154-1180), si recavano con
regolarità, in tutte le parti del regno per amministrare la giustizia
del re, con il compito di trattare le cause civili e penali della Corona,
acquistando poi competenza generale in tutte le controversie pendenti innanzi
alla Curia Regis.
Il paese fu
diviso in “circuits”
(“county courts”)
dove risiedeva uno “shire- reeve” o
“sheriff”
(era già presente prima della conquista normanna, e aveva sostituito
l’alderman) al quale era riservato il compito di
eseguire le sentenze, convocare la giuria,
sovrintendere alle elezioni parlamentari,
Le giurie
furono istituite nel XII sec. ed erano costituite da elementi che non solo
conoscevano i fatti che dovevano essere giudicati ma anche le consuetudini
locali che i giudici avrebbero applicato al caso in esame in nome del re.
I giudici al
loro ritorno a Westminster esaminate e selezionate le varie consuetudini
locali, realizzarono un sistema uniforme di regole valido per tutto il paese,
che costituì la common law. Si passò quindi alla
applicazione dello “stare decisis”
che comportava che la regola (rule)
che era servita a decidere una controversia, veniva applicata dagli altri giudici che
esaminavano casi analoghi e in questo modo si andò a formare la “common law of England” che costituiva la legge comune a tutto
il paese e che nulla aveva a che fare con il diritto romano.
La regola (rule) che era servita alla decisione di
una controversia aveva però portato a un sistema processuale rigido, con
la conseguenza che il diritto sostanziale era subordinato al rimedio
procedurale per farlo valere, fondato su un formalismo definito “remedies procede rights”
vale a dire subordinato e condizionato dal “writ” (ordine di
comparizione emesso dalla cancelleria), che veniva concesso all’attore.
Ma essi erano
limitati in quanto nel medioevo i baroni facevano pressioni sulla corona per
tenerne ristretto il numero, in quanto la maggior parte delle azioni erano
normalmente dirette nei loro confronti.
Essi “writs”
erano limitati al “writ of trespass”
(azione per atto illecito) “writ of debt” (azione per
il recupero di credito) “writ of detinue” (azione per ottenere la restituzione
della cosa mobile detenuta da altri),
con la conseguenza che tutte le altre situazioni rimanevano senza tutela
giuridica.
Un
temperamento a questo sistema, suggerito dalla massima “ubi remedium ibi ius”, fu apportato
dallo Statute of Westminster (1285), per cui quando
l’ufficio del Cancelliere (Chancelor) non
rinveniva un “writ”
per proporre l’azione, ne emetteva un altro basato su casi analoghi ad
altri emessi in precedenza.
Il rigido
formalismo che comportava gravi ingiustizie, portò allo sviluppo della
“equity” termine intraducibile che non
corrisponde alla “aequitas”
del diritto romano (che contrariamente alla prima, non costituisce fonte di
diritto), col quale si
sviluppò un procedimento parallelo, venendo a costituire fonte
sussidiaria integrativa del diritto inglese.
Infatti, le
parti che si trovavano senza tutela, incominciarono a rivolgere delle suppliche
(petitions)
al re, prima fonte di giustizia, che
affidava i casi al Chancelor il quale decideva “secondo coscienza” (equity).
Queste
decisioni diedero luogo alla creazione di una giurisdizione speciale (Chancery
court) distinta e spesso in contrasto con la common law court, e a un insieme di
regole (rules of equity) separate e a
carattere complementare e integrativo della common
law: con la conseguente dicotomia del sistema in common law ed equity, tra cui si giunse a una lotta
senza quartiere (XVII sec.), collegata alla contesa tra le tendenze
assolutistiche della monarchia che si appoggiava alle “courts” a
lei fedeli (tra le quali
Per l’equity in cui era insito il concetto evolutivo
(mentre la common law secondo i giudici conteneva norme
esistite da sempre), si giunse al principio dell’applicazione della
dottrina dei “precedents”,
col risultato che
Anche la
procedura seguita presso
Il sistema
giuridico moderno è fondato sui Judicature Acts
(1873-75) che aveva previsto due diversi ordini di regole e di rimedi da parte
degli stessi organi giudiziari, con la conseguenza che sono gli stessi giudici
ad applicare i due diversi sistemi. E, nel caso di conflitto tra le regole
della common law
e quelle dell’equity, sono
queste ultime a prevalere.
IN
GERMANIA
T |
oqueville
spiega che alla fine del medioevo il diritto romano divenne il solo studio dei
giuristi tedeschi che formavano la propria cultura nelle università
italiane.
Nel
medioevo in Germania era applicato il “diritto germanico”: con cui si intendeva diritto e
istituzioni che traevano origine dagli usi e costumi della Germania nei tempi
anteriori alla introduzione del diritto romano e del diritto canonico, diviso
in due parti: diritto privato (Deutches privatrecht) e diritto
pubblico (Deutches staatrecht).
Quest’ultimo abbracciava a volte anche tutte le altre istituzioni
politiche dell’impero germanico.
T.
spiega che in seguito agli studi, gli studenti tornati in patria col titolo di
“dottori”, con le nuove idee acquisite dai
glossatori italici, poiché avevano il compito di interpretare e
applicare le leggi, procedettero alla demolizione del diritto germanico e se non potettero abolirlo, lo deformarono per
farlo rientrare nel diritto romano, applicando le leggi romane a tutto quanto
nelle istituzioni tedesche sembrava avere qualche analogia con la legislazione
di Giustiniano.
Egli richiama
l’esempio originario della contea del Würtemberg
nata come contea nel 1250 fino alla
nascita del ducato (1495), dove la
legislazione autoctona, composta di
consuetudini e di leggi locali fatte dalle corti feudali, aveva subito quel
cambiamento (soltanto nelle cose ecclesiastiche si applicava il diritto canonico, che era straniero), e
dal 1495 il diritto germanico cambia
in seguito alla costante penetrazione del diritto romano.
I “dottori” che avevano studiato
diritto in Italia, scrive T., entrano nel governo e si impadroniscono delle
corti di giustizia, anche se la società politica li combatte. Nella
Dieta di Tubinga (1514) e successivamente, i rappresentanti della
feudalità e i deputati delle città, presentano ogni sorta di
rimostranze nei loro confronti attaccando tutti i giuristi che fanno irruzione
in tutti i tribunali e cambiano lo spirito e la lettera di tutti gli usi e di
tutte le leggi precedenti.
In
un primo momento sembra che non riescano a spuntarla in quanto il governo
promette che saranno messi nei tribunali supremi, non i “dottori”, ma solo uomini scelti
tra la nobiltà o nel ducato, e una commissione composta di delegati del
governo e di rappresentanti degli Stati avrebbe elaborato un progetto di codice
atto a servire tutto il paese.
Il
tentativo è inutile: il diritto
romano (*) finisce con lo scacciare completamente il diritto nazionale
mettendo radici ovunque fosse stata lasciata la legislazione nazionale. Nelle
università, tranne il diritto feudale, il diritto romano sostituisce completamente il diritto germanico, e sebbene non fosse più insegnato, nel
secolo XVImo era stato raccolto tutto ciò che
rimaneva delle leggi franche, alemanne, sassoni e gli “specchi”
(raccolte: Sachsenspiegel-Schwabenspiegel) dalla
Francia ai Paesi Bassi, all’Italia e altre parti d’Europa.
Questo
trionfo del diritto straniero su quello nazionale, spiega T., è
attribuito dagli storici tedeschi a due cause: 1. al movimento che trascinava
in quel tempo, tutti gli spiriti verso le lingue e letterature
dell’antichità; 2. all’idea
che
aveva sempre dominato nel medioevo tedesco e che si faceva strada anche nella
legislazione di quel tempo, in base alla quale il Sacro Impero, essendo la
continuazione dell’impero romano, doveva essere anche l’erede delle
sue leggi.
Ciò
però, non spiega, scrive T., come mai lo stesso diritto sia penetrato
nella stessa epoca, contemporaneamente in tutto il continente.
La
spiegazione, scrive T., è che in quel periodo si stava affermando il
potere assoluto dei principi sulle rovine delle vecchie libertà europee,
e il diritto romano, diritto di
schiavitù, coincideva a meraviglia con i loro intendimenti.
Il
diritto romano, conclude T., che ovunque ha perfezionato la società
civile ha teso a degradare la società politica perché è stato principalmente l’opera di un popolo
civile e molto asservito.
I
re lo adottarono con entusiasmo e
lo introdussero ovunque fossero padroni.
In
Europa gli interpreti di quel diritto divennero loro ministri o i loro
principali agenti. All’occorrenza i giuristi fornirono loro
l’appoggio del diritto contro lo stesso diritto.
Vicino
a un principe che viola le leggi
è rarissimo che non vi sia un giurista il quale assicura non esserci
nulla di più legittimo, dimostrando
dottamente che la violenza è giusta e che l’oppresso ha torto.
Agli inizi
dell’800 si stava facendo strada negli studi del diritto romano medievale
Friedrich Karl Savigny (1779-1861) il quale stava
preparando i volumi della “Geschichte des römischen Rechts in Mitteralter” (Storia del diritto romano nel Medioevo),
dal Thibaut, in una recensione dell’Allgemeine Literatur-Zeitung (1804)
viene elogiato come uno degli eletti del diritto civile e dallo stesso Thibaut
verrà invitato (1814) a preparare un Codice civile germanico comune, che
Thibaut vedeva “modellato sul
diritto razionale che comunicandogli il suo carattere di universalità lo
avrebbe reso applicabiole a tutti i popoli e
superiore a tutte le differenze di tempo e di luogo”.
La
risposta di Savigny sarà il celebre “Von
Beruf unsrer Zeit für Gesetz-gebung Rechts-wissenshaft” (Scienza del diritto per la
formazione delle leggi) che con l’articolo che inaugurava
Una
intensa critica della dottrina della scuola storica fu esercitata da Rudolf von
Jhering (1818-1892) nello “Spirito del diritto romano nelle
diverse fasi del suo
sviluppo” (Der Geist des römischen Rechts auf den
verschiedenen Stufen seiner Entwicklung), pubblicato
nel 1865.
Egli
infatti sostiene che l'affermazione di questa scuola secondo cui il diritto romano faccia parte integrante
del diritto germanico contrasta con l'affermazione della nazionalità
del diritto. Il principio supremo del diritto è infatti l'universalità, e non la nazionalità; il diritto romano
che è opera meravigliosa dell'ingegno umano, risponde al requisito della
universalità e questo spiega la sua applicazione in tutti i paesi civili
e la sua perenne vitalità, e in ciò consiste il fondamentale
principio della scuola giusnaturalista e la giustificazione del suo
atteggiamento anti-storico.
Seguiranno
infine gli studi sul diritto romano-bizantino condotti da Morteuil e Zachariä von Lingental
seguiti da Bernhard Winscheid (1817-1892), che
portano quest’ultimo a pubblicare il “Manuale del Diritto delle Pandette” (Lehrbuch
der Pandektenrechts), intendendo per Diritto delle
Pandette “il diritto privato comune germanico di
origine romana” di derivazione però, romano-bizantina,
che applicato fino a quel momento, costituì la base della elaborazione
(1874-83) del primo Codice civile germanico (v. in Schede: Storia della
storiografica bizantina), che con i successivi aggiornamenti ha dato risultati che certamente sono
ben diversi da quelli del tutto negativi che, come vedremo, abbiamo avuto in
Italia.
*) Anche il diritto penale subisce
rimaneggiamenti; nel 1532 fu
promulgata a Ratisbona la “Constitutio criminalis”, rectius, “Capitalibus judicis constitutio” (col nome di “Carolina”, ma l’imperatore
Carlo V non aveva apportato alcun contributo) che è all’origine
del diritto penale germanico.
Questa
“Constitutio” era già stata elaborata
dai primi del 1500 e fu ricalcata sulla
“Constitutio criminalis
Bambergensis” (redatto dal barone Johann
von Schwarzenberg nel 1507).
Essa
era fondata sul diritto romano e canonico e non fu facile farla digerire
ai principi tedeschi in quanto le leggi in vigore erano fondate sul diritto
germanico che essi stessi applicavano. Una volta però introdotta divenne
“comune” e quindi
applicabile a tutto il territorio dell’impero.
Con
questa “Constitutio”
cessa il diritto di farsi giustizia da sé, cioè il diritto di
punizione per essere stato leso il
diritto altrui e viene introdotto il principio che la punizione del diritto
leso spetta allo Stato che interviene perché è stato leso un
diritto pubblico. Alla persona offesa dal reato spetterà invece il
risarcimento del danno.
Relativamente
al diritto di prova, ai precedenti
metodi di prova previsti dal diritto germanico si sostituirono norme relative a
prove e indizi materiali.
Sulla
punizione dei reati però non si faceva alcun passo avanti: erano
previste le precedenti pene invalidanti come il taglio delle orecchie, del
naso, della enucleazione degli occhi, lo stroncamento delle dita e delle mani e i supplizi previsti dal
diritto canonico e applicate dalla Santa (!) Inquisizione, come quello della
ruota, dell’attanagliare con tenaglie roventi ed altro, e rimaneva
comunque la pena capitale di morte. con la decapitazione.
GLI
SVILUPPI NEGATIVI
IN
ITALIA
G |
gli articoli di Verri, come abbiamo
detto, non avevano suscitato
nessuna reazione e gli studi di diritto romano in Italia (per le scuole medievali
v. nota 1 del par. relativo al Ragionamento
sulle leggi civili: Le scuole pre-irneriane e pre-bolognesi), erano proseguiti tranquillamente e senza
scosse, con ampia produzione bibliografica nell‘800 e ‘900
(ricordiamo il Corpus Juris
di Giovanni Vignali 1862, nella versione latina con
traduzione a fronte; gli studi del Betti, De Ruggero e tantissimi altri), e
il diritto romano estratto dalle Pandette
ha continuato ad essere considerato non come diritto bizantino proveniente dal diritto romano, ma come diritto romano tout-court. Con la precisazione che l’unico (a quanto
è dato sapere), che avesse specificamente richiamato l’attenzione
sull’origine bizantina delle Istituzioni di Giustiniano era stato il
prof. Ortolan (1), docente presso l’Università di
Parigi verso la metà del 1800.
Dobbiamo
subito dire che, come abbiamo visto relativamente alla Germania e alla stessa
Francia, l’applicazione del diritto
romano, seppur bizantino, ha
sortito effetti ben diversi da quelli ottenuti in Italia.
Esso
ha costituito materia fondamentale nelle numerosissime facoltà di giurisprudenza delle università italiane (negli anni passati il corso era
addirittura biennale), ultimamente cresciute a dismisura e sul cui numero, per
mera serietà, occorrerà intervenire con una drastica
eliminazione, e della succedanea di
scienze politiche, tra le
facoltà umanistiche (seguita
dalle letterarie...ed ora anche da scienza della comunicazione), tanto
affollate quanto oramai improduttive (a scapito delle facoltà
scientifiche), e la materia è da considerare tra le più deleterie
per la formazione degli studenti anche se se Koshaker (L’Europa e il diritto romano, cit. Ed.
Sansoni) ritiene “non ritengo che
il diritto romano sia arrivato al punto di scomparire come disciplina giuridica;
spero di aver dimostrato che vi
è ancora la possibilità di farne una parte vitale della formazione di ogni giurista,
conservandogli così la sua
funzione storica che è quella di fare da intermediario fra i
grandi sistemi di diritto privato europeo in quali, in definitiva si sono
diffusi in tutto il mondo”.
In
esse sono forgiate le future classi professionali e dirigenti, e tra costoro, i burocrati dell’apparato amministrativo dello Stato (in ogni
caso il 50% dei laureati in Itala entra nella pubblica amministrazione), i legislatori e i magistrati, che maturano una mentalità vetero-bizantina,
infarcita di retorica e formalismo:
insomma, a dirla in maniera chiara, i giovani laureati, con gli insegnanti che
sono i più vecchi in Europa, vengono fuori da queste università
con una mentalità già vecchia e superata.
I
risultati sono sotto gli occhi di tutti: con i burocrati che bloccano
tutto il lavoro amministrativo dello Stato e ciò non permette il
necessario sviluppo del paese; i
legislatori (che Montanelli chiamava legulei...nel
senso deteriore del termine), non sanno dare codici da cui emerga una vera e
propria certezza del diritto e siano
tali da far funzionare speditamente la macchina della giustizia; e i magistrati
che scrivono sentenze ottocentesche, spesso indecifrabili, prolisse (2) e
contraddittorie, dove ognuno può prendere a suo piacimento, il dritto o
il rovescio della medaglia.
Queste
sentenze, sono purtroppo commentate solo nelle parti in diritto, e nessuno si
permette di criticarle nei loro risvolti
formali negativi (perché la
critica, in un paese come il nostro, fondato sull’ipocrisia, è
anestetizzata da motivi corporativi e/o
carrieristici), critiche ovviamente costruttive, che servirebbero a
stimolare i magistrati ad esprimersi, evitando il vecchio linguaggio curialesco, che andrebbe sostituito da una terminologia chiara, comprensibile e
sintetica (2) e possibilmente evitando i ragionamenti contraddittori che emergono con una
prima parte contro e una seconda
parte pro!
La
incertezza del diritto positivo,
costituisce un handicap tutto
italiano, fondato su codici farraginosi, improntati a inutile ed eccessivo
formalismo, aggiornati con novelle
apparentemente riformatrici e semplificatrici, che li complicano ulteriormente, e si
ripercuotono non solo sulla chiarezza ma anche sulla durata dei processi che
con l’intento di abbreviarli, si allungano a dismisura (qui si trova la
chiave del problema che blocca la giustizia, non altrove!), e il più
delle volte si risolvono in una bolla di sapone.
Non
sono pochi infatti i processi che
dopo anni di lavoro e di costi per lo Stato, sono annullati per qualche vizio di
procedura (ricordiamo un importante processo di mafia annullato in Cassazione -
dopo tre gradi di giudizio - perché
in un verbale di primo grado non
era stato indicato il nome del Pubblico Ministero... con la felicità
dei mafiosi, tutti assolti!).
Se
si vogliono inserire norme di nullità si deve evitare di pre-costituire
l’arma segreta per far saltare l’intero processo alla fine
dell’iter.
Basterebbe
stabilire che le nullità debbano
essere rilevate nella prima udienza successiva al loro verificarsi, dando al giudice la possibilità di
provvedere a eliminarne la causa...disponendo che se non tempestivamente
eccepite, “si hanno per
decadute”. Elementare Watson!
Ma
non ci illudiamo neanche di sperare in disposizioni elementari,
perché in Italia non si arriverà
mai ad avere semplificazioni a causa della
formazione anzi de-formazione di
chi è stato educato a rendere difficile
il facile, attraverso l’inutile!
L’Italia,
considerata retoricamente “la patria del diritto”, in materia di
amministrazione della Giustizia ha il
primato del 181esimo posto nel mondo (a livello dell’Angola),
mentre gli altri paesi europei mediamente sono classificati tra i primi
cinquanta; e per la durata siamo al 150mo!
Stiamo
vivendo un’epoca di pieno disfacimento dei valori, morali e di
dignità della persona, incrementato da una TV spazzatura che per
aumentare “l’audience”
esalta personaggi raccolti dalle periferie o che acquistano notorietà
per aver commesso dei reati (estorsioni ed altro!), presentati come personaggi
di successo... con
bell’esempio educativo per le giovani generazioni!
Il
paese è ad alta vocazione di criminalità, con ampia diffusione di
truffe, piccole e grandi, di reati finanziari, di corruzione e concussione
cresciute a dismisura (del 229% nel 2o1o), e di illegalità che
ritroviamo a tutti i livelli, con infiltrazioni di mafia e camorra nei gangli
vitali delle istituzioni, della pubblica amministrazione e della politica.
In
questo poco edificante contesto,
Insomma,
invece di offrire i mezzi per abbreviare il processo e renderlo più
efficiente e più spedito, si ricorre alla beffa della eliminazione
processo…perché lo Stato non è in grado di farlo svolgere in tempi brevi.
E
così si rischierebbe di assolvere malfattori, imputati di reati finanziari (si pensi
ai reati degli amministratori di note società fallite e banche
truffaldine, che hanno lasciato un buco da 5omld.di euro, tolti dalle tasche
dei risparmiatori, azzerati con un colpo di spugna), come se la colpa fosse dei
risparmiatori che hanno investito in quelle società per fare andare
avanti l’economia del paese.
E’
evidente che queste sono soluzioni da paese sottosviluppato e non
dell’ottava potenza mondiale come
si vanta di essere l’Italia!
E le riforme? Dietro la
parola riforma c’è il
vuoto! Tutti le invocano (in via generica!), da destra e da
sinistra, senza però chiarire di quali riforme si tratta: e a volerne
fare un elenco sarebbe senza fine se si vuole arrivare alla modernizzazione del
paese!
Tra
queste è evidente che vi è la riforma della Giustizia, riforma
che dovrebbe essere a tutto campo, ma non si parla d’altro che di uno dei
suoi aspetti, neanche principale,
quello della divisione delle carriere dei
magistrati.
Non
si parla invece di uno degli aspetti più importanti, quello della riorganizzazione e accorpamento degli
uffici giudiziari (che comporterebbe la eliminazione di varie sedi
improduttive), tema mai affrontato dai Governi di qualsiasi colore e non toccata da quella specie di riforma dell’Ordinamento giudiziario fatta dal precedente governo.
Abbiamo
perso ogni speranza!: non sappiamo se quella in preparazione sarà una
vera e propria riforma, o ne porterà solo il nome, perché vediamo
già pronti ad insorgere gli interessi corporativi, che non permetteranno
avvenga alcun cambiamento.
Vi
è poi la necessità di una seria riforma dei codici per i quali non si è ancora capito che occorre finirla con l’eccessivo
formalismo e con il regime
delle nullità che se inserite
per la garanzia di un giusto processo, si risolvono nella negazione del
diritto.
Purtroppo
in Italia quando si interviene per migliorare, l’effetto è sempre
contrario (3): se p.es. prendiamo il codice di procedura penale in preparazione, da quanto risulta,
è ancora più farraginoso dell’attuale in vigore …e se
i risultati sono questi ...sarà meglio lasciare le cose come stanno.
E
certamente i processi penali neanche si prova a snellirli nelle discussioni
finali, dove tutti gli attori (avvocati, che spesso esordiscono con la solita
frase: sarò breve, e poi
parlano per ore, e pubblici ministeri) si beano della propria pomposità,
retorica e prolissità pensando di fare sfoggio di cultura con citazioni
ad effetto, con riferimenti a Shakespeare, Nietzsche o Platone,
nell’assenza di intervento dei Presidenti che se li sorbiscono, invece di
richiamarli alla sintesi e all’essenziale!
In
Italia non si è mai preso in considerazione il reato di “offesa alla Corte” che troviamo
nel processo nord-americano, particolarmente nei confronti degli avvocati, che
dovrebbe essere inserito nel nostro sistema civile e penale, come offesa al giudice, ma rilevando la
norma direttamente dal processo americano, perché se dovesse elaborarlo
il nostro legislatore chissà quale mostruosità verrebbe fuori.
Anni
fa (1999) si era persa anche l’occasione del giudizio di “equità” (il diritto del caso pratico) su cui
è fondato il diritto anglo-americano, che si era tentato di introdurre
nei giudizi dei giudici di pace: e
sarebbe servito poi a estenderlo alle altre giurisdizioni, ma il tentativo si
è scontrato con la mentalità italiana che tende verso la teorica dottrinaria piuttosto che verso
il caso pratico. Il risultato è quello di sentenze prolisse che si
contorcono intorno alla interpretazione dei vari articoli di legge.
In
proposito è da dire che il tanto criticato Giustiniano una cosa giusta l’aveva detta: che la legge
va applicata non interpretata. Sono le interpretazioni (non solo dei giudici di
pace) (4) che
portano al caos della giurisprudenza che è sotto
gli occhi di tutti.
I
codici, per finire su questo argomento che troviamo poco gradevole, devono
essere opera di pratici del diritto, possibilmente illuminati,
vale a dire, preparati da parte di chi abbia una visione aperta ma nello stesso
tempo chiara delle norme che non possono essere predisposte da teorici del diritto i quali abituati alle distinzioni sottili e a distillare il pensiero, perdono di vista
la realtà e fanno venir meno qualsiasi certezza del diritto. E’ da dire ciò che ha scritto Verri alla
fine del suo saggio sul Ragionamento delle leggi civili:
“le leggi non sono soggetto di
erudizione e devono limitarsi all’essenziale in quanto nulla di esse deve
essere inutile”.
Concludiamo
augurandoci che quella in preparazione possa essere veramente una seria e
grande riforma della Giustizia, fatta da ambedue le forze politiche che
rappresentano il paese, di governo e di opposizione, sebbene il clima di astio,
di litigiosità e di lotta tra guelfi e ghibellini (in cui sono ancora
divisi gli italiani) che negli ultimi tempi si è andata sempre
più accentuando, non ce lo lasci molto sperare.
1) Ortolan
scrive (in Spiegazione storica delle Istituzioni di Giustiniano, Napoli 1856)
che le Istituzioni di Giustiniano, non furono che una imitazione e per lo
più una copia di quelle che le avevano precedute. Le Istituzioni di cui
si ha notizia, appartengono tutte ai settant’anni che dividono il regno
di Antonino Pio (86-161) da quello di Alessandro Severo (205/8-235) e sono:
Istituzioni di Gaio denominate Commentari (in quattro libri); Istituzioni di
Fiorentino (in dodici libri); Istituzioni di Callistrato
(3 libri); Istituzioni di Paolo e di Ulpiano (ciascuna in dodici libri) e
Istituzioni di Marciano (diciotto libri).
Queste
secondo Ortolan sono le istituzioni romane nate sul
suolo d’Italia sulle rive del Tevere. Le Istituzioni di Giustiniano che
vennero trecento anni dopo, egli scrive, non sono che bizantine nate su suolo
asiatico sulle rive del Bosforo e l’osservatore illuminato non
mancherà di sentire in esse la differenza d’origine, di
popolo e di civiltà. Di
tutte queste Istituzioni solo quelle di Gaio e di Giustiniano sono pervenute
fino a noi e costituiscono, le
prime la parte alta, le seconde la parte bassa della scala.
Le
Istituzioni di Gaio erano emerse nel
medioevo per puro caso: la pergamena su cui erano riportate era stata
utilizzata nel periodo delle invasioni barbariche, da un monaco per scrivere le
Epistole di s. Gerolamo e il volume era conservato nella biblioteca del
monastero di Verona.
Solo
nel 1816 Niebuhr e Savigny
fecero la scoperta e riuscirono a riportare alla luce la precedente scrittura e
così si ebbe conoscenza delle Istituzioni di Gaio nella loro
integrità. Si è potuto constatare che le Istituzioni di
Giustiniano erano state copiate in buona parte da quelle di Gaio, con la stessa
distribuzione delle materie e una infinità di passi identici, ed era
stato fatto per essere utilizzato dai maestri che dovevano insegnarlo ai discepoli.
Ciò, scrive Ortolan, che si continua a fare
(con l’insegnamento delle Istituzioni (di Giustiniano!) in Francia), che egli suggerisce di non
studiarlo più scolasticamente, ma storicamente.
Aggiungendo:
studiare le Istituzioni di Giustiniano isolatamente e come legge è un controsenso
e una fatica inutile. Esse, suggerisce Ortolan, andrebbero studiate insieme in quanto in
quelle di Gaio troviamo la nazionalità
e l’attualità del tempo di Marco Aurelio, in quelle di
Giustiniano la nazionalità e
l’attualità di Giustiniano e riempiendo l’intervallo con
la legislazione pervenuta fino a noi, possiamo ricostruire nelle sue diverse
età la società romana.
2)
Ricordiamo che quando negli anni di piombo i brigatisti si rifugiavano in
Francia e i giudici italiani facevano le richieste di estradizione, queste
richieste si sviluppavano in decine
di pagine (a detta di uno di
quei magistrati), che per i magistrati
francesi abituati alla sintesi divenivano incomprensibili e le richieste di
estradizione erano tutte respinte!
Lo stesso deve essersi verificato con la bocciata estradizione di Cesare
Battisti (genn. 2011) da parte del Corte Suprema del Brasile che ha lasciato
attoniti tutti gli italiani partendo dal Presidente della Repubblica!
3)
Di recente sono entrate in vigore le nuove norme del codice di Procedura
Civile, con l’intenzione di rendere più spedito il processo
civile, ma lo è solo nelle intenzioni: basta la disposizione
dell’art. 115 (che stabilisce che il
giudice pone a fondamento della decisione...anche i fatti non specificamente
contestati dalla parte che si
costituisce). Questa disposizione che apparentemente vuol dare al magistrato la
possibilità di velocizzare il processo, ha un risvolto negativo, nel
senso che il difensore della controparte si trova a dover contestare punto per
punto tutti i fatti addotti dall’attore ...per non correre il rischio di
vedersi riconosciuti quelli non contestati! Per non parlare delle complicazioni introdotte
dall’art. 195 relativo alle CTU. che prima erano più spedite, e ancora le
complicazioni dell’art. 275bis sulla testimonianza scritta, il cui modello sembra essere stato redatto da
un funzionario dell’ex Unione Sovietica. Ma chi mai studia tali complicazioni?
4)
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con sentenze dei Giudici di Pace prolisse e
linguaggio curialesco che hanno dello strabiliante, in cui ciascuno cerca di fare sfoggio di
scienza giuridica anche su
argomenti minimi, sentenze che
GLI
ARTICOLI DI VERRI
T |
ornando
al più piacevole argomento dei due articoli di Verri, come abbiamo detto, la loro
pubblicazione non aveva provocato nessuna reazione - e all’epoca si
leggeva e le idee circolavano! - neanche una scalfittura, da far ritenere che
erano stati completamente ignorati!
Allora,
le domande che sorgono spontanee sono la seguenti: Erano stai ignorati per
pigrizia mentale degli studiosi o peggio, deliberatamente, per mantenere lo status quo oramai stabilizzato, o peggio
ancora, per mancanza di basi intellettuali per poterli
contestare o criticare?
Gli
articoli sono di un certo spessore e la loro lettura non è facile per il
modo di scrivere del tempo. Abbiamo
cercato di riproporli,
riassumendoli nelle parti più incisive, con l’intento di
una maggior diffusione dell’argomento, che avrebbe bisogno dopo circa un
secolo e mezzo finalmente di essere affrontato - nel bene o nel male!
E,
se il Verri fosse nel giusto, come molto umilmente riteniamo possa esserlo,
sarebbe giunto il momento di liberarci una buona volta di questo diritto romano-che-tale-non-è, e che tanti danni
ha procurato (nei termini de-formativi innanzi espressi, di distorsione
retorica e formalista), sostituendoli, dal
punto di vista storico, alla luce degli approfondimenti relativi agli
sviluppi successivi a Giustiniano, operati dall’imperatore Basilio I (v.
Articoli: cit. I mille anni dell’impero ecc. Cap. VII) in poi, che
avevano dato luogo a quel corpus
recepito, dopo la caduta di Costantinopoli (1453), dall’impero ottomano.
E,
dal momento che il passato non si può cancellare e la storia del passato
deve servire per il futuro, come maestra di vita, si renderebbe
necessaria una nuova storia del diritto romano sulla base delle Istituzioni di
Gaio oppure una storia del diritto
romano-bizantino...tutta da scrivere!
RAGIONAMENTO
SULLE
LEGGI CIVILI*
E |
’
noto che la raccolta operata da Triboniano per incarico di Giustiniano (v.
Articoli: I mille anni dell’impero ecc. Cap. III), conosciuta come Corpus Juris è distinta in Digesto o Pandette, Codice, Novelle e Istituzioni.
Il
Digesto raccoglie le proposte
di trentasette giuristi romani vissuti al tempo di Augusto e successivi
imperatori a casi ad essi sottoposti con commenti che essi fecero alle antiche
leggi romane, massimamente agli editti dei pretori che ne costituivano la
maggior parte.
Questi
frammenti dell’antichità sono disposti per titoli, divisi per
materie.
Il
Codice raccoglie le
costituzioni degli imperatori da Adriano (56-138) fino a Giustiniano (n.428 -
imp.527- 565), quindi cinquantaquattro legislatori.
Queste
costituzioni o sono sentenze di casi particolari, come avveniva quando gli
imperatori giudicavano cause private, o sono lettere imperiali dirette ai
presidi delle province, ai prefetti del pretorio e agli altri magistrati.
Le
Novelle sono costituite da sessantt’otto proclami promulgati da Giustiniano dopo
la raccolta, esse mutano, si evolvono limitano, estendono confondono la
compilazione (del Codice).
Le
Istituzioni (*) sono
l’unico vero codice in quanto contengono gli elementi del diritto, preso
per regole generali e senza ricorrere a casi particolari.
Vi
si spiegano in massima e vi si danno in stile legislativo i principi per
decidere le questioni.
Furono
compilate per l’istruzione dei giovani e sono un estratto delle Pandette e del Codice. Ecco in cosa consiste la raccolta
di leggi romane.
Queste
leggi sono piene di riferimenti alla religione, al governo, ai costumi dei
romani per i quali furono fatte quindi inadatte o inutili nella massima parte
per noi, come ciò che concerne i servi, i liberti, gli ingenui, le manomissioni,
le concubine, le sepolture, i luoghi sacri, i funerali, le nozze, la
giurisdizione del prefetto, dei vigili, i decurioni, le province, le
città i municipi, il censo,
i vettigali (proprietà), le gabelle, le imposte statali, insomma tutto
il sistema di governo e di economia, le azioni, le stipulazioni, le chiamate in
giudizio rette da formalismo, la patria potestà le successioni intestate
dalle leggi municipali ovunque
cambiate, ed altre materie che formano una considerevole parte delle leggi del
Codice e del Digesto.
Si
comprende facilmente che questo non è un Codice ma una raccolta di un
vasto materiale traboccante d’inutilità, di lungaggini, di
confusione, di contraddizioni e tale è appunto il codice romano.
Lo
stesso dicasi delle Pandette: Sarebbe un codice ben regolato l’ammasso
delle risposte in iure dei nostri
avvocati - aggiunto qualche pezzo di glossa e commenti fatti dai nostri dottori alle
leggi romane?
Eppure
il Digesto è fatto in questo modo.
Un
codice dovendo prendere in considerazione le leggi e stare su principi generali
e costanti, non può mai essere compilato con vari pezzi di legislazione
fatta in vari tempi e per vari casi. Il confuso ammasso di questi frammenti,
nati uno ad uno, non faranno mai un
tutto, e un codice deve esser fatto per formare un tutto; è giocoforza affermare che a parte le Istituzioni, non abbiamo
nulla che assomigli a un codice.
Questa
raccolta di Giustiniano sostituì le leggi franche, longobarde,
borgognone e di altri popoli che avevano invaso l’Europa.
Il
primo a studiarle dopo il ritrovamento (avvenuto nel 1135/36) non può
essere attribuito a Irnerio a Bologna (come invece ci hanno fatto studiare
nelle Università ndr.), morto nel 1125.
Irnerio
a Bologna iniziò con le glosse sulla legge romana che circolava prima della scoperta (v. in fondo nota 1), seguito dagli altri maestri Giacomo, Martino,
Bulgaro, Rogerio Bossiano (o Bassiano), Piacentino,
Ugolino, Balduino, Roffredo che ne fecero tante che
fornirono ad Accursio (1182-1260) il materiale per compilarne una vasta
raccolta.
E
così man mano che cresceva il numero degli scolari, si estendeva
l’applicazione di queste leggi da lungo tempo sepolte. Ad esse si
aggiunsero le allegazioni composte in
occasione di cause che costituirono una considerevole parte di legislazione (i
cui autori furono Odofredo, Dino Mugellano, Oldrado, poi Bartolo detto lucerna juris, Baldo e Saliceto, i due Rafaeli,
Comano e Fulgoso, Immola e il Castrense, Socino, Giasone e tanti
altri).
Seguì
la turba dei trattatisti, vale a dire
di dottori che raccogliendo quanto era stato scritto su una materia nel testo,
nei commenti e nei consigli, ne ricavarono dei trattati.
Seguirono
i decisionanti che erano altri dottori che prendevano
le decisioni dei tribunali sulle diverse materie, le discutevano e trattavano.
A questi si aggiunsero gli eruditi che vollero distruggere ciò che aveva
fatto l’ignoranza dei loro predecessori.
A
quest’opera si accinsero Alciato e dopo di lui Cujacio (2)
il cui scopo fu quello di dare ai testi il loro senso, di riportare alla luce
l’erudizione romana, di conciliare le contraddizioni, di adoperare una
lingua latina meno barbara.
Ma
essi non riuscirono nella loro opera in quanto si trovarono di fronte a un
lavoro immane di glossatori e consulenti per cui la legislazione continuò ad essere fondata su quelle opere,
col risultato che le nostre leggi non sono fondate su quelle romane andate
disperse, ma sulle opinioni che si sono ramificate senza fine sulle
quali erano fondate le sentenze dei tribunali, spesso contraddittorie.
Ma
il rimedio fu peggiore del male perché ogni opera che entra nella folla
delle altre accresce la massa delle
opinioni e non fa una vera riforma
e suscita nuove dispute e nuove disquisizioni e nulla più.
“Vorrei concludere”, scrive infine Verri, “dicendo che le leggi non sono soggetto di erudizione e devono
limitarsi all’essenziale in quanto nulla di esse deve essere
inutile”.
1)
SOSTITUZIONE DEL DIRITTO LONGOBARDO E
DECORSO DEGLI STUDI DEL DIGESTO. Secondo G.D.
Romagnosi l’imperatore Lotario II († 1137) dopo il ritrovamento delle Pandette
(1135), aveva dato disposizioni di sostituire nella scuola di Bologna lo studio
delle leggi longobarde con quelle romane ,
Sempre
secondo Romagnosi gli studi della giurisprudenza
romana, dall’epoca di Lotario avevano seguito quattro periodi: Il primo
dei Ripetitori: il secondo dei
Glossatori; il terzo dei Topico-legisti e il quarto dei Filologi.
Il
periodo dei RIPETITORI è quello della scuola irneriana
(meglio dire post-irneriana essendo Irnerio morto
prima del ritrovamento ndr.) che nell’insegnamento ubbidiva con tale
scrupolo alla collezione giustinianea che lungi dal pensare a un metodo diverso
si conformava ciecamente alla collezione quasi che Giustiniano avesse anche il
diritto di comandare alla logica. E siccome Giustiniano con un suo editto aveva
vietato ogni sorta di commentari e interpretazioni (a parte i “paratitli” che consistevano in
illustrazione dei titoli) all’infuori delle strette interpretazioni
letterarie, così gli irneriani limitarono le
loro interpretazioni a brevi sommari dei titoli e delle leggi e a chiarire
vocaboli che avevano un significato oscuro. Per questo motivo i maestri della
scuola irneriana non svolgevano altra funzione di
quella di ripetitori del testo giustinianeo.
Il
secondo periodo è quello
della scuola di Accursio, definito dei
GLOSSATORI. Azzo (Azone) aveva raccolto le summe e le interpretazioni precedenti e
le sue (importanti da tenere sempre a portata di mano onde il detto: “Chi non ha Azzo non vada a palazzo”),
seguito dal suo allievo Accursio che riformò il corpo delle glosse e dei
commenti fino ad entrare nel merito delle massime della legge e dei testi,
confrontando e conciliando, abituando la mente degli studiosi tessere
combinazioni e a trarre più ampie conseguenze.
Il
terzo periodo fu occupato dalla scuola di Bartolo alla quale R. dà il
nome di TOPICO-LEGISTI in quanto
intenti ad estrarre regole generali dal testo giustinianeo e in tal modo furono
intenti ad estrarre luoghi topici (sistemi di ragionamento) degli
argomenti legali successivamente ampliati dai grandi giureconsulti.
Il
quarto periodo è occupato dalla scuola di Alciato Milanese e di Ferretto
Toscano (oriundo di Ravenna), al quale R. dà il nome di periodo dei FILOLOGI, proseguita da Duareno, discepolo di Alciato, illuminata da Gaveano, discepolo di Ferretto, continuata dai celebri
professori della scuola di Burges in cui Alciato
fondò il gusto per la schietta
antichità, propagata dalla scuola di Tolosa resa illustre da Cujacio
che vi spiegò tutta la sua erudizione. La grammatica e la filologia
coltivate e poste in onore dei Poliziani, Parrasi, Bembi
ed Erasmi. venne in aiuto alla giurisprudenza e
richiamò la comprensione dei testi alla loro originaria purezza.
Siamo
in epoca Rinascimentale e l’insegnamento nelle Università (non in tutte in
quanto il metodo fu pesantemente criticato e osteggiato) fu ordinato sulla base
degli studi di Duareno, Donelli, Cujacio relativi alla spiegazione dei titoli del
Corpus giustinianeo, fu disposto che tre diversi professori, nello stesso anno
si alternassero nella spiegazione delle tre parti, e l’anno successivo i
tre professori scambiavano i ruoli nel senso che il terzo passava a spiegare la
prima, il primo la seconda e il terzo la prima.
LE
SCUOLE PRE-IRNERIANE E PRE-BOLOGNESI.
E’ accertato che le glosse
bolognesi ebbero inizio con la scoperta dei testi giustinianei e
successivamente alla morte di Irnerio.
Ma
prima di Irnerio che aveva promosso
Successivamente
alle invasioni barbariche che avevano portato la desolazione, tra il VII e IX
sec. si ebbero in Italia scuole ecclesiastiche e laicali di grammatica e
retorica in cui, sia come parte dell’antica letteratura, sia come
completamento degli studi del
trivio, come seguito della retorica, e del quadrivio, si insegnavano i canoni
ecclesiastici e le leggi romane.
Da
alcuni autori (G. Salvioli) è quindi negato che
lo studio del diritto romano sia avvenuto dopo il ritrovamento delle Pandette
che avrebbe dato luogo a una sua rinascenza
in quanto esso si studiava già da secoli in particolare nella scuola
di Pavia. Le cause, sostiene Salvioli, di un
risorgimento dipendono innanzitutto dagli uomini, che vi furono, e gli avidi di sapere, stanchi della teologia, si rivolsero alla poesia e al diritto.
A
questo motivo si aggiunsero cause di ordine politico, sorte dall’orgoglio
di sentirsi discendenti dei
romani, ed economico, vale a
dire derivante dalla disgregazione dell’ordinamento feudale, non solo, ma
anche dalla lotta per le
investiture che in pratica si svolgeva sulle basi della giurisprudenza e della
legislazione romana in quanto da una parte i canonisti vi cercavano la conferma dei privilegi
del clero e delle immunità, i civilisti invece, i confini entro i quali
le pretese esorbitanti degli ecclesiastici. Intervenne anche il concomitante sviluppo della economia,
della popolazione e della ricchezza cittadina e l’intensificarsi dei
commerci e delle relazioni tra le città nonché il sorgere di un capitalismo usuraio e
commerciale che non poteva essere regolato dalle antiche consuetudini ma trovava
la sua rispondenza proprio nel
diritto romano.
Le
antiche scuole preparavano i notai che imparavano le formule tradizionali della
stilistica romana e facevano circolare quanto del diritto romano bastava per i
bisogni delle popolazioni romane alle quali era concesso di servirsi fra loro
della legge di origine.
Generalmente
tale insegnamento connesso con la grammatica e la dialettica piuttosto che con
le fonti era parte di quelle trattazioni enciclopediche, care al medioevo,
fatte col solo sussidio di glossari e manuali, i più di pessima
qualità e di fattura medievale,
e da questi derivavano le comuni notizie sul diritto romano.
Non
erano scuole organizzate ma libere e la loro importanza, come la natura e
profondità degli insegnamenti dipendeva da chi insegnava.
E’
certa l’esistenza di quella di Roma nell’XImo
sec., erede della precedente voluta
da Giustiniano che l’aveva arricchita di privilegi. Gli ostrogoti
l’avevano mantenuta a spese del fisco e nei secoli seguenti visse come
istituzione privata, anche nel periodo longobardo e franco fino allo
spopolamento di Roma causato da continue rivolte, che aveva ceduto il posto a
quella di Ravenna. Ne esistevano a
Pisa, a Firenze (a Mantova, Bologna, Milano Verona e presso il monastero di Nonantola, a Benevento e Salerno dove si
insegnava diritto romano e
longobardo) come anche a Pavia.
Nell’Italia
meridionale, invece, si perpetuava una tradizione letteraria “misera” con un basso livello
culturale perché nelle
scuole esistenti presso i monasteri non
si studiavano tutte le arti liberali.
In
Francia come scuola di diritto romano vi era Orleans dal IX all’ XImo sec. Lione dal X all’XImo
sec.
A
Pavia (ricordiamo capitale del regno d’Italia) gli insegnanti di diritto
romano ebbero il merito di dare una sistemazione al diritto longobardo
applicato dai giudici e causidici palatini. La scuola di Pavia era frequentata
da studenti del mezzogiorno della Francia, che terminati gli studi, portavano
in patria il gusto del diritto romano e l’uso di manuali giuridici italiani che rimaneggiati
diedero origine al Petri except.- Il libro
di Tubinga.
Di
Ravenna si hanno notizie nell’XI sec., ma la sua esistenza è
precedente. In essa convenivano studenti della Romagna e della Toscana che
trattavano scientificamente il diritto romano, “ratiocinando, assumendo, colligendo, multimodo, cavillationum
argumenta” (Pier Damiano).
Ravenna
era per il diritto Romano quello che Pavia era per il diritto longobardo, in
quanto in Romagna si erano mantenuti gli usi e le consuetudini e romani erano
l’ordinamento giudiziario e
la procedura.
Da
tener presente che Ravenna ebbe due periodi: uno bizantino e l’altro
post-bizantino con produzione in ambedue i periodi di glosse (clausolae).
La
letteratura giuridica di queste scuole, anteriore al XIImo
sec. era consistita in manuali,
commenti e glosse sulle cui basi si era formata una tradizione scolastica e
letteraria del diritto romano, riconosciuto dai re longobardi (v. in Articoli: La costituzione del
regno d’Italia) che avevano permesso ai notai di redigere gli atti e i formulari seguendo il
diritto romano e il suo uso nei Tribunali e nelle collezioni canoniche.
La
conseguenza fu che buona parte della società italiana, prima del mille,
visse secondo un diritto romano volgare, dal momento che i
romani sotto i longobardi non furono spogliati del loro diritto che
potevano applicare come legge tra di loro che erano in maggioranza e
finì col sopraffare lo stesso diritto longobardo.
In
proposito, occorre tener presente che, come già detto, in
territorio longobardo e tosco vi
erano intere contrade abitate a maggioranza da popolazioni romane e il diritto
romano era applicato come legge territoriale. Il glossatore bolognese Odofredo scriveva: “Ultra Paduam et in Tuscia servatur
jus longobadorum” e così Baldo. Ma questa
affermazione non è da prendere alla lettera in quanto Padova fu
città prevalentemente romana, come Genova, Bologna e Modena, Ravenna e
le coste adriatiche ove le professioni di leggi longobarde figurano come
deviazioni e diritto locale prevalente. E romano fu il diritto nelle isolette
lagunari di Venezia e quello prevalente a Roma e nel Lazio. Gli stessi re
longobardi proclamarono il diritto romano “lex omnium generalis”.
Per
concludere su Irnerio, quando aveva istituito
Quanto
alla scuola di Bologna che sarebbe
sorta nel 433 per una costituzione di Teodosio, o per opera di Carlo Magno o
per influenza di Matilde di Canossa, si tratta di leggenda sorta nel XIII sec.,
che comunque conferma l’antichità della scuola che come altre, non
era sorta per atto di autorità, ma spontaneamente, in seguito a una
serie di concause che ne avevano fatto un centro di studi giuridici quali la
questione delle investiture (Federico Barbarossa aveva concesso nel 1158, con
la costituzione “Habita”, agli scolari di
Bologna, una costituzione autonoma, attribuendone la competenza al loro magister), il fatto che erano scesi in
lizza Irnerio e Lamberti di Fagnano, il primo per difendere i diritti
imperiali, il secondo i diritti
della Chiesa.
Prima di
Irnerio a Bologna aveva insegnato Pepo o
Pepone (1106), non molto stimato da Odofredo che di lui aveva scritto “quidquid fuerit de scientia sua, nullius nominis fuit”, insomma...una
nullità!, da altri considerato un
ciarlatano che insegnava a vanvera...sta di fatto che Pepo aveva posto le
basi della futura grandezza della
Scuola di Bologna. Di altri si son perse le tracce.
Poi giunse
Irnerio (1055/56-1125), lucerna juris, originariamente magister in artibus ad inaugurare il
periodo delle grandi glosse grammaticali
e lessicali e delle discussioni dottrinali, passando poi alla glossa
sulla legge romana che circolava prima del ritrovamento delle Pandette. Egli
ebbe come continuatori, detti per antonomasia “i quattro dottori”, Bulgaro “os aureum” († 1116) Martino Gosia
“copia legum”
(† 1116 c.ca),
Jacobo
(† 1178), Ugo da Porta
Ravegnana “ mens legum” (†
1178).
2)
ALCIATO E CUJACIO. Andrea Alciato (1492-1550) insegnò in
Italia e Francia, iniziando la sua attività scientifica a ventidue anni.
Funzione fondamentale dei suoi insegnamenti fu quella di combattere la communis opinio, A
questo scopo fondò la
“giurisprudenza culta”
con l’intento di migliorare l’esposizione dialettica tradizionale e
riavvicinarsi alle fonti sottoponendole a critica storica e filologica,
fuggendo le inutili prolissità, esponendo concisamente, chiaramente e
con eleganza, cercando di eliminare il degrado in cui erano caduti i precedenti
interpreti e di scalzare l’autorità dei commentatori.
Queste
sue vedute non solo rimasero
incontrastate fino ai tempi moderni,
ma rimasero inascoltate in Italia (dove furono accolte da un
gruppo di giuristi di grande spessore intellettuale i quali non trovando spazio in Italia,
per la maggior parte andarono a insegnare in Germania) e in un primo momento
anche in Francia, dove però furono accolte in seguito alla loro
diffusione da parte di Cujacio
Jacopo
Cujacio (1522-1590) francese di Tolosa, insegnò a Torino poi a Bourges;
si era reso conto che il Corpus
juris considerato come un tutto omogeneo, era invece prodotto di tempi, autori e
scuole diversi, pensò di
scomporlo e ricomporlo. riunendo i frammenti e ricomponendoli in base alle
opere alle quali appartenevano. Cercò di ricreare ciò che
Triboniano aveva eliminato facendo resuscitare ogni giureconsulto e mostrando
che non vi era unità in una compilazione fatta di elementi che spesso si
contraddicevano. Restituì integrità e commentò quindi con
minuziosa opera esegetica opere di
Papiniano, Paolo, Africano limitandosi alla restituzione del testo con brevi
note. Non compose lunghi commenti, si servì della storia e della
filologia con parsimonia, con stile sobrio e conciso. Fu insuperabile nelle
spiegazioni, nelle analisi e nelle
correzioni, riuscendo a scoprire il senso originale delle leggi e far rivivere
con la forza dell’intuizione lo spirito dei singoli giuristi. Le sue
“Observationes” furono considerate incomparabili e divine. Dalla sua scuola
di Bourges emerse il suo “mos gallicus” antitesi del “mos italicus jus docendi”
e suoi seguaci furono Brissonnio, che
illustrò le formule romane, Dionisio Gotofredo
autore dell’ edizione più diffusa del Corpus juris, Balduino, storico del diritto, Molineo (Du Moulin)
celebre nelle dispute e per la sua violenta opposizione al feudalesimo.
Si
delinearono così due tendenze, quella derivante da Alciato che volle
essere giurista e formare dei consulenti e quella di Cujacio che volle essere filologo e i cujaciani vollero emendare e ricomporre i testi e contro
Triboniano facevano valere più la pompa dell’erudizione che
l’amore della scienza, dichiarando falsa una lezione solo perché
contraddiceva le loro opinioni. Da
essi derivarono i c.d. flagellatori di Triboniano che provocarono una reazione capeggiata da Alberico
Gentili.
La
maggior parte degli italiani si mantenne estranea ai movimenti derivanti dai
due giuristi rimanendo impigliati nelle pastoie della autorità e dello
scolasticismo. Insomma, i giuristi del ‘500 e ‘600, come gli
umanisti e letterati, per amore dell’antichità si
mantennero legati al metodo analitico della casistica in opposizione al metodo
storico-sintetico cadendo nelle infinite distinzioni e limitazioni e
mantenendosi nella tenace osservanza della filosofia aristotelica, con
l’accumulo delle citazioni, con l’abuso del principio
dell’autorità, col risultato che si perse di vista lo spirito
critico le cui ripercussioni negative si avvertono ancora oggi a distanza di
secoli.
GIUSTINIANO
E
LE SUE LEGGI*
I |
libri di Giustiniano che formano il Corpus Juris (Pandette o Digesto, Codice
e Novelle), presso i bizantini subirono tali mutazioni che furono mandati al
bando, perché il diritto romano non era più contenuto in essi ma
in altri testi.
Nell’impero
bizantino questa messa al bando, avvenne per due ragioni:
La prima, a causa
delle nuove costituzioni che furono promulgate dai successivi imperatori (da
Giustino nell’anno
La seconda, furono le
tante altre compilazioni che seguirono, alcune più ristrette, altre
più ampie, fatte dai successivi imperatori, che oscurarono quelle di
Giustiniano.
Le più ristrette
acquistarono vari nomi: Prochira
ovvero Promptuaria,
Euchinidia,
vale a dire Manualia,
Ecloghe o Delectus ovvero collezioni di
parti più scelte dette anche Sinopsis, Epitome,
cioé compendi.
Le più ampie
andarono sotto il nome di Basilici,
(non dall’imperatore Basilio
I, che fu il primo a comporle, ma da βαςιλεύς imperiale
(1).
Sono
dieci gli imperatori dai quali le nuove leggi furono promulgate (Giustino,
Tiberio il Giovane, Eraclio, Costantino V Pogonato,
Leone III Icomonaco, Leone V Armeno, Teofilo e
Basilio Macedone, con il figlio Leone VI e Costantino VIII).
Per
quarant’anni dopo la morte di Giustiniano, sotto gli imperatori Giustino,
Tiberio e Maurizio i suoi libri, così come scritti in latino, ebbero in
Costantinopoli e nel foro la loro autorità e il loro vigore. Ma
succeduto Focas
(602), principe inetto, che non seppe reprimere le invasioni subite dal suo
impero, né seppe conservare le leggi e sebbene non fosse venuta meno
l’autorità dei libri di Giustiniano, si videro però
trasformati e tradotti in greco e da giureconsulti greci e considerati come
nuovo corpo di legge greca, al quale erano aggiunte le Novelle che si andavano
divulgando in base alle quali i Codici di Giustiniano cominciavano a perdere
l’antico vigore.
Ma
ancora una maggiore scossa il Corpus di Giustiniano lo ebbe con le costituzioni
e novelle che furono emanate dopo Basilio e i suoi figli. Si contarono fino a
diciassette gli imperatori che le emanarono (2).
Le
notizie di queste novelle (aveva scritto Giannone) giunsero a noi se non dopo
secoli, quando gli studiosi di Francia e Italia le portarono poco alla volta
alla luce. Esse comunque non ebbero da noi alcuna autorità in quanto
dappertutto primeggiavano i libri di Giustiniano. Dopo molti secoli gli eruditi
che le rintracciarono provvidero a tradurle dal greco e furono aggiunte nelle
nuove edizioni che si facevano dei codici giustinianei.
Molte
ne riportò alla luce Edmondo Buonafede, altre Giovanni Leunclavio e Carlo Labbeo e
inserite nel Corpus di Dionisio Gotofredo il quale vi aggiunse le interpretazioni di Enrico
Agileo e di Buonafede.
Esse
in ogni caso non furono mai utilizzate nei tribunali per la decisione delle
cause e quindi non avevano acquistato nessun valore; lo stesso dicasi per i Basilikà. Tra gli imperatori bizantini non ve ne fu
nessuno come Leone VI (886-911) figlio di Basilio, amante delle lettere che per
lo studio e perizia delle leggi, della storia e della filosofia fu detto “il filosofo”. Pubblicò 113 Novelle, scrisse libri
sull’apparato e disciplina militare, un libro sulla caccia, Oracoli e
vaticini di Roma e Costantinopoli, oltre ad aver dato miglior ordine e forma ai
testi avviati dal padre.
Il
primo quindi ad interrompere il corso delle leggi di Giustiniano fu Basilio che
anche con l’aiuto dei figli, Costantino associato all’impero e
Leone e Alessandro nominati cesari, avviò la compilazione del Prontuario o Procheyron (Introduzione)
contenente norme di diritto da applicare nei casi pratici, nel quale furono
raccolte le principali leggi riassunte in quaranta titoli.
Leone
VI non soddisfatto di aver dato forma migliore al Procheyron paterno e di aver
emanato tante Novelle,
pubblicò una epitome delle leggi che raccoglieva in modo elegante
definizioni e regole. Ma il maggiore impegno lo dedicò ai Basilici. L’opera iniziata dal padre e compilata intorno
all’886 distinta in sessanta libri, in sei volumi.
L’opera
fu organizzata secondo lo stesso
ordine del Corpus giustinianeo, anche
parte della materia, di cui furono presi tredici Editti e Novelle e quelle
degli imperatori successivi, eliminando tutto ciò che fosse ritenuto
superfluo e superato dal tempo e diversamente dal latino usato da Giustiniano,
fu usata la lingua greca. La disposizione della materia era quella data al Corpus di Giustiniano da Triboniano.
Costantino
VIII Porfirogenito (905-959) figlio di Leone VI,, come suo padre e suo
fratello, volendo oscurare la memoria dei libri di Giustiniano,
rimaneggiò i Basilici paterni (detti Priori), con
emendamenti e così aggiornati e corretti (pubblicati nel 920),
furono detti Posteriori, ma in ogni caso, la base fondamentale, seppur depurata
e aggiornata era sempre costituita dal diritto giustinianeo che continuava ad
essere applicato dai tribunali fino a quando (1169) il tribunale imperiale, in
una memorabile sentenza, stabilì che le fonti precedenti ai Basilici erano da intendersi abolite ed
erano le disposizioni contenute nei Basilici
che dovevano essere applicate.
Questa
nuova versione pubblicata e conosciuta come Jus greco rimase in vigore
fino alla fine dell’impero bizantino (poi adottato dall’impero
ottomano, dopo la caduta di Costantinopoli ndr.).
Molti
furono i giuristi greci che si dedicarono al commento dei Basilici, e vi furono
anche giuristi latini indicati da Cuiacio nel suo
Index (3), che non si sa bene in quale epoca fossero
vissuti, molti dei quali erano omonimi di commentatori del Digesto.
Giannone
fa riferimento al “coacervatore” di leggi discordanti o antinonìe che fu il patriarca Fozio
autore del Nomocanone, diviso in 14 titoli e
pubblicato nell’880.
L’Ecloga dei Basilici, detta Sinopsi, il cui autore sarebbe stato
Romano il giovane, figlio di Porfirogenito, fu ritrovato in Taranto che faceva
parte dell’impero bizantino ai tempi di Romano e Giovanni Leunclavio la fece stampare a Basilea nel 1576
Antonio
Galateo narra che Niceta, filosofo di Otranto, poi monaco basiliano, raccolse
molti codici e ne arricchì la biblioteca di quel monastero di s.
Basilio, non molto lontano da Otranto (i cui libri erano finiti nella
biblioteca del Vaticano). E’
pertanto da ritenere, scrive Giannone, che a Napoli e in tutte le città
greche ad essa sottoposte, erano applicate le Novelle pubblicate
dagli imperatori che erano succeduti a Giustiniano.
Mentre
in Italia, gli studi giuridici furono interrotti dalle incursioni dei saraceni,
in Grecia (si noti che Verri non fa nessun accenno ai Basilici) continuarono fino alla Caduta di
Costantinopoli, “studi che si svilupparono sulle materie tratte dai libri
di Giustiniano, dai quali non poco
toglievano e molto vi aggiungevano di ciò che era stato fatto dopo di
lui”.
Avvenne
che ai tempi di Lotario II (1060-1137) sceso in Italia nel 1132 e 1136 (v.
Articoli: I carolingi e la dissoluzione dell’impero), morto mentre
rientrava in Germania (1137) furono trovate ad Amalfi o a Molfetta (1135) le
Pandette.
E
Verri in proposito scrive. Questo ammasso di leggi, monumento di una grande
opera mal eseguita, può paragonarsi alle rovine di una grande e informe
palazzo; si può dire che non si fece che distruggere. Non solo bastava
ridurre tanti volumi in uno solo, ma bisognava fissare i principi generali.
E
perché mai, si chiede Verri, raccogliere nelle Pandette diversi frammenti di Ulpiano e di Paolo?
Perché così venerare
alcune risposte ai casi particolari a segno di volerle mandare alla
posterità?
E
risponde: Un legislatore che per formare un codice non si limita ai principi
generali dai quali dedurre tutte le conseguenze per quanto si può,
formerà una vasta biblioteca di
- per lo meno - inutili volumi. So che il comprendere nelle leggi tutti
i casi possibili non è concesso agli umani legislatori, ma so
altresì che migliori saranno quelle leggi che ne abbracciano la maggior
parte possibile; nè perché in una cosa
non si può avere la perfezione che fu sempre bandita dalle umane
vicende, non si deve trascurare di accostarvisi più che si può.
Non
sono certo del parere di quelli che guardano alle leggi giustinianee con una
stupida venerazione, la maggior parte dei quali non le hanno neppure avute tra
le mani o, se le hanno lette non le intesero in gran parte, ovvero dissimulano
il loro interno disprezzo perché profittano della comune idolatria per
le leggi romane, diventando ricchi a spese dell’altrui cecità.
Triboniano
fu incaricato della compilazione degli infiniti senato-consulti, risposte dei
prudenti, costituzioni imperiali che avevano inondato l’impero dopo le
leggi delle Dodici Tavole, venute dalla Grecia. Il solo progetto di ridurre
questa informe massa in un volume
fa capire che non si pensava di
dare allo Stato delle leggi salutari. Era mutato il sistema di governo, la repubblica
divenuta monarchia degenerava in dispotismo e il complesso di leggi fatte in
sì differenti situazioni non poteva essere che confuso ammasso di assurdità
e contraddizioni.
Gli
occhi di un saggio legislatore non avrebbero visto in quella estesa libidine di
giurisprudenza che l’abuso del potere legislativo e un testimone del
decadimento della tirannia.
Se
ai giorni nostri vi fosse un Triboniano incaricato di compendiare quanto
scrissero dopo Giustiniano i repetenti, consulenti, e trattatisti, credete voi che si farebbe un buon complesso di leggi?
Erano
le antiche leggi sparse in duemila volumi, ora lo sono certo in numero
maggiore. Lavorarono a quest’opera per cinque anni, diciassette delegati
dall’imperatore (ed è difficile, commenta Verri trovarne un tal
numero!). In tale spazio di tempo non era possibile scegliere giudiziosamente alcuni
buoni principi, naufraghi di un mare immenso di ignoranza e confusione. Il
pregio dell’opera corrisponde esattamente alla cura che si adoperò
e alle non rare contraddizioni che si ritrovano nelle leggi delle Pandette. Così pure nel Codex che oltre alle contraddizioni che
ha fra i suoi testi, contraddice anche ad alcune leggi delle Pandette e queste alle Istituzioni e Novelle, che al resto contraddicono, e il ritrovarsi perfino dei
testi contraddittori a se stessi, e tutte queste parti che dall’una all’altra
derogano e si collidono, bastano per lo meno a farci dubitare della sapienza di
quei legislatori.
“Frutti son questi delle
antiche sette di Atteio e Capitone, giureconsulti che
avevano pareri discordi e che lasciarono dopo di loro uno scisma che abbandonava
alla vanità e alla ostinazione di partito un punto dei più
importanti alla pubblica tranquillità”.
Si
possono riguardare le Pandette come
un ammasso di leggi dove regna ora la ragione ora l’opinione, da cui
possono ricavarsi molti lumi e molte cognizioni per la formazione di un nuovo
volume di leggi, essendovi sparsi di tanto in tanto, tratti di vera filosofia.
Le
Istituzioni sono pure l’unico
ordinato codice di leggi romane, ma ciò non si può dire del Codice giustinianeo in cui sono raccolti
gli editti degli imperatori cominciando da Adriano, fino a Giustiniano.
A
quanta decadenza fosse giunta e vi propendesse sempre più in questo
lasso di tempo la potenza romana, quanto la tirannia e il dispotismo
l’avessero avvilita e oppressa che i Tiberi, i Claudi,
i Neroni i Caligola e altri simili mostri avevano tollerati
e serviti, ce lo insegna la storia, per cui le leggi furono conseguenti alla
corruzione del governo, né più se ne videro ornate
dell’antica maestà e miranti al pubblico bene, ma noiosamente
prolisse e impregnate di quel pubblico disprezzo per gli uomini, finché
si arrivò a fare quel fatale paralogismo che molti milioni di uomini fossero destinati alla felicità di
uno solo.
Da
tale spirito distruttore fu redatta quella barbara legge di Arcadio (377-408) e
Onorio (384-423) contro i rei di lesa maestà (deberunt perire supplicio). Con simile legge si
stabiliva un vero e proprio dispotismo, poiché nei governi liberali non
si ha tanto timore dei ribelli, né si puniscono tanto crudelmente.
Quanto
fosse radicato ai tempi di Giustiniano quel male al quale è destinata
per natura l’Asia, chiamato tirannia,
lo provano le espressioni di una stravagante vanità che si trovano nelle
sue leggi e consistono nel comando di “adorare la sua eternità”, il riferimento alla sua
“bocca divina” e al suo
“divino oracolo”.
Costanti
e generali principi di giustizia (che sono alla base di ogni legge) non furono
osservati in quest’opera nella quale oltre a Triboniano ebbe una parte
principale Teodora (come si rileva dalla Novella ottava, cap. I,... in cui
Giustiniano dice:...hic quoque participem consilii sumentes eamquae a Deo data est nobis
reverendissima coniugem).
Con
questo sistema, scrive Verri, si può aver arricchito Triboniano
(presentato come uomo avaro e ben remunerato da Giustiniano per il suo lavoro, ndr.), e secondare le mire di Teodora, ma non si può fare un
codice per la felicità della nazione.
Eppure
queste sacrosante leggi le abbiamo da lungo tempo adottate, venerate, studiate
quasi idolatrando questa sovrumana sapienza!
Le
leggi romane, scrive Verri, furono perdute dopo il diluvio dei Goti,
Vandali e tanti popoli che
cambiarono la faccia dell’Europa.
Lo
studio delle Pandette in Italia era sorto nel XII sec. a seguito del loro
ritrovamento (si ritiene) ad Amalfi (o a Molfetta) sulle quali si buttarono a
capofitto i glossatori di Bologna. E a poco a poco si bandirono le leggi
longobarde, gotiche, saliche e tutte quelle portate dai barbari forse più
disprezzate di ciò che meritavano e si introdusse la giurisprudenza
romana accolta con avida stupidità, credendo di fare una riforma quando
si fece solo un cambiamento.
E
così Irnerio, Accursio, Bartolo (da Sassoferrato,1314-1357) e Baldo e tanti altri celebri ignoranti,
inondarono l’Italia di grossi volumi che trovarono con nostra vergogna,
dei veneratori e di cui riempirono le nostre biblioteche. Il decadimento
accompagnò le sottigliezze legali e fummo circondati di libri di
giurisprudenza senza leggi.
Se
il codice è chiaro, i commenti sono inutili o sono un abuso, se invece
è oscuro i commenti sono tutt’al più un rimedio parziale:
conviene a questo punto rifonderlo e abolirlo. Questa cogente verità
conclude Verri, fu tenuta presente dallo stesso Giustiniano.
1) Quando Basilio aveva preso il potere,
nell’impero era in vigore la legislazione giustinianea (v. cit. I mille
anni ecc., Cap. III) e si utilizzava l’Ecloga di Leone III (ibidem v. Cap. VI). Basilio raccolse una
commissione di giuristi usciti
dall’università di Bardas (ibidem v.
Cap. VI) perché raccogliesse e riorganizzasse le leggi, che andranno
sotto il nome di “Anacatarsis ton palaion nòmon” (Purificazione delle antiche
leggi).
Nel frattempo pubblicò con il suo none e
quello del figlio Leone co-imperatore un codice, “Procheiron nòmoi”, manuale pratico per
i giudici. contenente le principali norme di diritto civile e canonico, con
l’elencazione delle pene da applicare ai vari reati redatto sulla base
delle Istituzioni di Giustiniano e della bistrattata Ecloga di Leone III, (alla quale non si dava riconoscimento
ufficiale e considerata “non una
summa, ma un pervertimento del diritto”, però ugualmente
utilizzata nella pratica) che rimarrà in vigore fino alla fine
dell’impero. Il Procheiron
sarà tradotto, come lo era
stata l’Ecloga, in slavo e
sarà utilizzato da slavi, russi
e bulgari.
Sotto Basilio I è anche redatta l’Epanagoghe (879)
che costituisce la introduzione ai Basilici
che saranno pubblicati da Leone VI (ibidem Cap.VII),
in cui si nota l’influenza di Fozio che fa una
chiara distinzione tra potere civile e potere ecclesiastico, con le rispettive
sfere di competenza.
L’opera giuridica di Basilio, Leone e
Costantino VIII avrebbe dovuto oscurare la fama di Giustiniano, ma non fu
così sebbene fossero queste
le leggi osservate a Bisanzio, non solo fino alla caduta dell’impero ma
successivamente riprese dai turchi. Non solo, ma ciò era avvenuto
ugualmente nonostante, come attestato dal
Giannone, in Italia vi fossero stati commentatori come Genziano, Erveo e Annibale Fabrotto, mentre
in Grecia ve ne furono numerosissimi (Giannone riprendendoli da Cujacio,
li elenca tutti) che tolsero al Corpus di Giustiniano tutto ciò che era
inutile e tutto ciò che era andato in desuetudine e aggiunto tutto
ciò che era stato disposto dai successivi imperatori, pur mantenendosi
la disposizione delle materie così come era piaciuto a Triboniano.
L’opera di aggiornamento proseguì
con Costantino VIII che aggiornò i Basilici, che così
com’erano furono detti Priori,
mentre quelli elaborati da
Costantino furono detti Posteriori.
2)
Costantino VIII Porfirogenito, Romano Lecapeno,
Romano Porfirogenito, Niceforo II, Foca, Basilio il
giovane, Romano IV, Argiropulo, Zoe, Isacco Comneno,
Michele VII Ducas, Niceforo
Botoniate, Alessio Comneno, Giovanni Comneno (detto Colagiovanni), Emanuele Comneno, Alessio III Comneno,
Isacco Angelo, Giovanni III Ducas che regnò in
Asia minore e Nicea e Michele Paleologo che scacciò i Latini e
recuperò Costamtinopoli.
(3)
Essi erano Stefano (omonimo del
giurista el periodo di Giustiniano) , Niceo, Taleleo (omonimo del giurista del periodo di Giustiniano),
Isidoro e Teodoro (ambedue anche omonimi dei precedenti del periodo di
Giustiniano), Eustazio, Eudossio,
Calociro, Sesto, Callistrato,
Lione, Foca, Modestino, Domnino, Gobidas,
Cumno, Giovanni, Agioteodoreto,
Doxapater, Gregorio, Caridas
Bestes, Bafio e Teofilo, ai
quali Freero aggiunse Patzo,
Teofilitzeo, Fobeno, Teodoro, Ermopolita,
Demetrio e Cartofilace
*) Per chi poi volesse approfondire gli
articoli originali, sono pubblicati
nei due volumi de “Il
Caffé” a cura di G.
Francioni e S. Romagnoli editi da Bollati-Boringhieri Ediz. 1998: Giustiniano e le sue leggi,
1° vol. pag. 177;
Ragionamento sulle leggi civili,
2° vol pag. 571,
FINE