Carlo III di Borbone

 

 

 

NOBILTA’ RIBELLE

NEL REGNO DI NAPOLI

 I VICERE’

TOLEDO E MEDINA-COELI

LA CONGIURA  DI MACCHIA

 

Michele E. Puglia

 

 

PARTE SPECIALE

SECONDA

 

 

PARTE SPECIALE SOMMARIO PARTE SECONDA: I CONGIURATI RICERCATI SONO UCCISI O FATTI PRIGIONIERI; IL GIUDIZIO IMMEDIATO LE CONDANNE E LE PRIME ESECUZIONI; VOLTAFACCIA E VILTA’ DEL PRINCIPE DELLA RICCIA; LA FUGA DEL PRINCIPE DI MACCHIA E DI TIDERIO CARAFA; FINALMENTE A VENEZIA E POI ALL’ACCAMPAMENTO DEL PRINCIPE EUGENIO; AL CAMPO GIUNGE UN CAVALIERE DEL MARCHESE DEL VASTO; A VIENNA GLI ESULI VIVONO TRA FESTE E INTRIGHI - IL DUELLO TRA TELESE E CARAFA E LA MORTE DI MACCHIA; FALLITA LA CONGIURA DEI NOBILI SE NE SCOPRE UNA POPOLARE; ... E ANCORA UNA BORGHESE (In nota: Polemica delle immunità per i rifugiati nelle chiese); LA SOSTITUZIONE DEL VICERE’ MEDINA-COELI E LA VISITA A NAPOLI DI FILIPPO V; FILIPPO V DISPENSA CARICHE ONORIFICENZE E CONDONI; LA GRANDE CAVALCATA “NON SE NE VIDE MAI DI PIU’ BELLA” E LA PARTENZA DEL RE; IL CAMBIO DELLA GUARDIA: ARRIVANO GLI AUSTRIACI; CON CARLO III DI BORBONE NAPOLI TORNA A ESERE CAPITALE DEL REGNO; LE REALIZZAZIONI DI CARLO III.

 

I CONGIURATI

RICERCATI

 SONO UCCISI O

FATTI PRIGIONIERI

 

R

istabilito l’ordine in città il viceré torna a palazzo con la famiglia e tutte le dame che avevano trovato rifugio in Castelnuovo (in città apparvero in giro dei cartelli satirici che rimproveravano i nobili di aver ricoverato le loro mogli in Castelnuovo, esponendole alla lascivia del viceré come in un postribolo!).

Poiché ricorreva l’ottavario di san Gennaro (vale a dire gli otto giorni di festa durante i quali avveniva la liquefazione del sangue) e dal sabato precedente il prodigio non si era verificato, lo sarà quando sarà espugnato San Lorenzo (sembrano eloquenti messaggi di San Gennaro che partecipa alle sorti della città!).

Il lunedì successivo si fece una grande processione di ringraziamento in cui fu portata la testa e il sangue del santo con le statue degli altri santi protettori, alla quale intervennero il viceré,  seguito dalla intera compagnia di cavalleria della sua guardia e quattro carrozze di ufficiali, i ministri e tutta la nobiltà; finita la processione, tutti si recarono a palazzo per congratularsi con il viceré manifestando grandi adulazioni e cortigianerie; anche il nunzio monsignor Casoni andò a congratularsi, ma il viceré gli fece intendere che la congiura proveniva da Roma, fomentata dai sudditi pontifici; a Roma il viceré manda il duca d'Atri, Giovan Girolamo Acquaviva per riferire gli accadimenti di Napoli, incaricato poi di recarsi negli Abruzzi come vicario per la difesa delle frontiere.

I congiurati che erano riusciti a fuggire avevano raggiunto i boschi degli Appennini, erano scemati di numero in quanto molti se n’erano andati per proprio conto; il principe di Macchia con quelli che lo seguivano, stanchi  per il lungo  cammino, si fermarono a riposare nel monastero di san Pietro a Casarano e dopo essersi riposati e ascoltato la messa (era domenica), giunsero all’eremo dei camaldolesi dell’Incoronata, da dove inviarono al principe della Riccia un armigero, chiedendo con lettera, una scorta che potesse accompagnarli a Benevento.

Avendo saputo che ad Altavilla erano in attesa del principe, inviano un’altra lettera, sollecitando la scorta per poter trovare riparo a Sermoneta dal principe di Caserta o dal marchese del Vasto; questa lettera fu data a un certo Nicolò Minichino, gentiluomo di Nola che travestito, partì a mezzanotte.

Nella valle sottostante giunse il Preside di Montefusco, Lodovico Parisano che andava a  caccia dei fuggiaschi; con lui erano Carlo e Vincenzo Carafa, fratelli di Tiberio con altri nobili del posto mandati dal padre (*) per agevolargli la fuga.

Parisano si era fermato nel bosco in prossimità di sant’Angelo della Scala per far colazione, quando giunse un contadino di Chiusano che riconosciuti i Carafa, senza badare alla presenza di Parisano e degli altri, disse che Tiberio e il principe di Macchia erano all’Incoronata e probabilmente li stavano aspettando.   

Parisano rimase turbato per essere amico del principe di Chiusano, per cui chiamati in disparte Pomponio Salvi marchese di S. Angelo e Nicolò Cutillo, anch’essi amici del principe, chiese loro  come potesse favorire l’amicizia, senza tradire l’onore e il suo dovere.

Si ritenne suonare le trombe in modo che gli altri potessero darsi alla fuga e nello stesso tempo è dato l’ordine al tenente di marciare con parte dei soldati verso l’Incoronata.

Di ritorno, il Minichino riferiva che il principe della Riccia non aveva voluto ricevere la  lettera e neanche ascoltarlo, dicendo di non conoscere nessuno dai quali egli diceva di essere mandato, minacciando di farlo impiccare se non fosse andato via!

Nel frattempo il contadino (della gaffe!) giunge con un monaco e riferisce di aver visto il Preside con la squadra e i fratelli di Tiberio (tacendo di aver detto dove essi si trovassero); era tornato anche l’armigero (che con altri del gruppo di Parisano in effetti erano uomini del principe della Riccia) della prima lettera, che riferiva che il principe l’aveva lacerata senza dare risposta e gli aveva ordinato di arrestare i congiurati e condurli da lui, ritenendo a questo modo di tirarsi fuori da ogni sospetto... ma nello stesso tempo fece intendere ai propri compagni che il principe aveva mandato in loro aiuto Domenico Oliva e l’abate Cicchetto con rinforzi, che se fossero riusciti a resistere fino alla sera, sarebbero scappati col favore del buio.
A questo punto Capece disse che gli armigeri del principe della Riccia dovevano essere mandati via, ma giunse nel frattempo Cicchetto che per individuare gli altri gridò Chi viva! E gli altri risposero Viva Filippo V!

Ribelli, canaglie, urlò e preso l’archibugio incominciò a sparare seguito dai suoi, contro quelli del principe di Macchia, di Capece e di Tiberio; stavano per batterli, quando alle spalle si videro arrivare la rimanente squadra di Parisano, per cui abbandonarono il campo dandosi alla fuga.

Il principe di Macchia, accompagnato da un domestico e da Lodovico Serrano, si era cacciato in un burrone e essendo di grossa corporatura aveva i piedi sanguinanti per il lungo cammino; era sopraggiunto Tiberio, al quale il principe disse: Siamo perduti; Tiberio rispose che sarebbero morti con onore e suggerì di tenere ciascuno una pistola per potersi uccidere a vicenda, piuttosto che cadere nelle mani degli sbirri e dei carnefici.

Tiberio si offrì di sostenere il principe che non poteva camminare, aiutato anche dagli altri due, giunsero in una radura dove trovano il prete Ziccardi con dei ragazzi e delle donne che raccoglievano castagne, il quale, interrogato da Tiberio dice di essere di Summonte (suo feudo) e che a otto miglia si trovava Chiusano (feudo del padre), al quale Tiberio chiese di prestargli aiuto.

Il prete gli risponde che lo avrebbe fatto volentieri anche a costo della vita, ma, gli dice, siete circondati da tutte le parti da nemici, ed è giunta a Sant’Angelo da Napoli la cavalleria e il Preside è venuto ad alloggiare a Summonte; gli suggerisce di nascondersi tra le rocce e tornato di notte, li accompagna a Summonte in una casetta fuori dell’abitato.

Un altro gruppo era formato da Capece, dal figlio di Malizia e da Ferdinando Acquaviva il quale consigliava di andare verso lo stesso burrone dove avevano visto andare Tiberio; ma Capece era del parere di andare piuttosto in su, verso i monti; a sera però incontrano Cicchetto e il capitano d’Arco con altri; Cicchetto era pratico di quei luoghi e suggerisce di scendere verso il piano, ma Capece si rifiutava ostinatamente; stava spuntando l’alba per cui mentre tutti gli altri vanno via, con Capece rimangono il giovane Carafa, Acquaviva e Cicchetto che riparano nella vicina grotta.   

Il Preside sul far del giorno si rimise alla ricerca dei fuggiaschi, questa volta la sua squadra era ingrossata da altri cento soldati e dalla cavalleria di Napoli ed erano guidati da contadini del posto con cani; seguendo le orme, per primi, un contadino con un soldato, giungono alla caverna; Capece appena li vede impugna lo schioppo, il soldato tirandosi indietro incomincia a gridare: Compagni, accorrete, sono qui! quelli che erano nella grotta tentano la fuga, ma si accorgono di essere circondati da tutte le parti.  

Capece che aveva lasciato lo schioppo e aveva con sé la pistola e spada, punta questa  per terra dalla parte del pomo e incurvandosi vi appoggia sopra il petto e con una pistola nella sua destra minaccia di uccidersi dicendo che non lo avrebbero preso vivo; chiede ripetutamente di ucciderlo dicendo che il primo che lo avesse fatto, avrebbe potuto prendere la sua borsa; i soldati cercano di farlo desistere, ma poiché Capece insisteva caparbiamente, partì una scarica che lo prese in pieno e cadendo rimase trafitto dalla spada che si era puntata al petto; anche Cicchetto è ucciso mentre si stava avventando contro i soldati; il giovane Carafa, viene preso ferito; il capitano d'Arco e Acquaviva si arrendono; Capece ancora semivivo riceve l'assoluzione; aveva detto  che dava la sua borsa al primo che l'avesse ucciso, ma la dividono quelli che gli avevano sparato; nella borsa trovano duecentoquarantasei dobli, un orologio d'oro e un anello di damanti.

Dopo averlo portato all'Incoronata, gli tagliano la testa; il caporale Montefusco riceverà seimila ducati promessi come taglia; gli altri muoiono chi colpito e chi cadendo nei precipizi; la testa di Capece è portata a Napoli con i prigionieri ed è esposta in una gabbia di ferro su un torrione di Castelnuovo.  

Nel frattempo il prete Ziccardi, considerando poco sicuro il primo rifugio, aveva portato il principe di Macchia e Tiberio in un altro rustico appartenente a un altro prete di Summonte, suo amico, Sabato Jovane, dove la sera essi portavano da mangiare; Jovane nella sua casa ospitava il Preside Parisano e i gentiluomini che lo accompagnavano e poiché mangiavano assieme, sentiva tutto ciò che essi si raccontavano, e la sera andava a riferire al principe e a Tiberio.

Egli aveva sentito dire che al Preside interessava più che altro l’arresto di Macchia, perché per Tiberio avevano avuto, in segreto dal viceré, disposizioni di lasciarlo fuggire in quanto da tutte le deposizioni era emersa non solo la sua moderazione nei suggerimenti che dava ai congiurati, ma che si era costantemente opposto al suo assassinio (per lo scampato pericolo del vicerè, la vice regina aveva fatto officiare una messa di ringraziamento).

Parisano come amico di famiglia del principe di Chiusano, aveva a sua volta dato disposizioni ai caporali delle sue squadre di lasciare andare Tiberio, e partito da Summonte si reca, ad assediare la chiesa di Benevento, per cui Jovane pensò di trasferirli nella sua casa dove avrebbe potuto meglio occultarli; qui vengono a conoscenza della triste fine di Carlo di Sangro.

 

 

*) Il padre di Tiberio Carafa, principe di Chiusano, quando aveva saputo che suo  figlio Tiberio era stato uno dei capi della  congiura, espose davanti al suo palazzo la statua di Filippo V circondata da paggi con le torce accese davanti al quale fece un rogo sul quale, con accanto gli altri due figli, bruciò  il ritratto di Tiberio dicendo che come padre e gentiluomo doveva riparare all’ingiuria fatta dal figlio, giurando che da questo momento lo avrebbe trattato come il più crudele nemico e in mancanza della sua persona sacrificava la sua effige .

 

 

 

IL GIUDIZIO

IMMEDIATO

LE CONDANNE

E LE PRIME
ESECUZIONI

 

 

S

ulle tracce dei congiurati erano stati messi il principe di Valle, il principe di Sant'Animo con i suoi fratelli Fabrizio e Domenico Ruffo e il duca di Sarno figlio del principe di Ottajano i quali e recatisi in san Lorenzo trovano Chassignet, rannicchiato in una cantina stringendo una borsa con tremila dobli  d'oro; ciò fece approfondire la ricerca e furono trovati numerosi documenti, comprese le istruzioni dell'imperatore e trovano anche in un letto Carlo di Sangro.

In Castelnuovo la commissione giudicatrice era presieduta da Ulloa (*); i prigionieri Carlo di Sangro, Gioacchino del Rio, il cocchiere Anastasio, l’abate Giovanni Bosco, lo schermidore Nicola Rispolo, furono subito sottoposti a giudizio con rito abbreviato ("ad modum belli et ad horas"), concedendosi loro due ore per le difese.

Inutilmente di Sangro aveva eccepito di essere al servizio dell'Austria ed era in corso la guerra di successione e pur essendo in un letto, gli fu imposta la tortura delle "stanghette" (due legni con morsetti che stringevano i piedi); per gli altri furono riservati i tratti di corda (le due mani legate dietro la schiena e tirate in alto da una corda!), derogandosi al divieto di tortura per i patrizi.

Egli voleva redigere il testamento ma non gli fu concesso in quanto i suoi beni erano stati interamente confiscati; fu inutile l'intervento del fratello, marchese di San Lucido che con altri nobili si era recato dal viceré chiedendogli almeno di farlo morire in privato; il viceré senza rispondergli gli voltò le spalle andando via; poté avere solo l'assistenza della Confraternita dei Bianchi (che recava conforto ai condannati a morte).   

Gli fu tagliata la testa sul palco allestito davanti alla porta di Castelnuovo, senza addobbi funebri; non potendo camminare era stato portato in seggetta; non volle che il boia gli legasse le mani e posò egli stesso il collo sul ceppo; la sua testa fu messa sul torrione accanto a quella di Capece e il cadavere fu sepolto nel Castello (3 Ottobre 1701); la nobiltà si risentì sia per l'assenza dell'addobbo scuro del palco, sia perché la testa non era stata messa in un bacile coperta da velo nero come previsto per i nobili.

Per gli altri condannati, dopo la tortura furono preparate le forche in piazza Castello; l'esecuzione avvenne dopo quella di di Sangro, alle dieci; dopo l’impiccagione i loro corpi furono fatti a pezzi e le loro teste, messe in gabbie di ferro, furono esposte ai campanili di santa Chiara, san Lorenzo e alla porta della Vicaria.  

In merito alla esecuzione di di Sangro, è da dire che era giunta una lettera del re di Francia Luigi XIV, in risposta alla relazione inviata da Medina-Coeli riguardante la rivolta, con la quale il re si congratulava con lui  per la sedata sollevazione e di estendere la sua gratitudine alla nobiltà e al popolo per la loro fedeltà; il re chiedeva di mandare Carlo di Sangro in Francia, ma oramai era troppo tardi; anche dalla corte di Spagna era giunta la raccomandazione di non infliggere il supplizio a di Sangro ... ma vi fu un segreto apprezzamento nei confronti del viceré che aveva affrettato  i tempi!  

Alla fine non erano mancati gesti di sfacciata ipocrisia da parte del fratello di Carlo, marchese di San Lucido e del marchese della Terza, cognato di Capece, i quali si recarono dal viceré per complimentarsi di aver fatto giustizia dei ribelli ... ma il viceré anche questa volta, disprezzando la loro viltà, gli voltò le spalle e andò via!

Vi erano altri colpevoli per i quali era stata richiesta la pena di morte, che erano Ferdinando Acquaviva, Domenico d'Arco, Giuseppe Carafa e Domenico Oliva ma non si procedette a causa delle lettere giunte dalla Francia e dalla Spagna che raccomandavano di non spargere sangue.

Per giudicare i latitanti erano stati chiamati come giudici i Pari Lucio Caracciolo, duca di San Vito e Pompeo Pignatelli duca di Montecalvo e la sentenza  (emessa il 19.x), dichiarava il principe di Macchia e i duchi di Castelluccia e Telese, fuoriusciti e nemici pubblici e come rei di fellonia i loro beni erano dichiarati confiscati e le loro case dovevano essere abbattute, passandovi l'aratro e spargendovi il sale.

Telese  per assicurare il suo palazzo fuori di Porta San Gennaro dalla confisca e dall’abbattimento, lo aveva  venduto a suo zio cardinale d'Asti il quale vi aveva fatto esporre il suo stemma, ma era stato inutile perché il palazzo, uno dei più belli di Napoli, fu ugualmente abbattuto (Telese però ne farà costruire un altro!).

Questa sentenza era seguita da altra analoga contro il principe di Caserta e il marchese di Rofrano, anch'essi espropriati dei loro feudi; il marchese del Vasto sarà successivamente (marzo del 1702) condannato in contumacia alla decapitazione.

Gli altri prigionieri che si trovavano in Castelnuovo erano duecento dei quali centocinquanta furono strozzati;  per altri venti  il viceré aveva deciso di farli fucilare in Porta Spirito Santo, ma dopo esservi stati portati, l'ordine fu revocato per non esasperare il popolo e furono riportati in castello.

Nel frattempo viene subito dato corso ai lavori di riparazione dei danni fatti a Castel Capuano e riprendono le attività dei Tribunali ai quali sono assegnate sedi provvisorie e ritornano nelle loro sedi originarie nel successivo mese di novembre.

Medina-Coeli dal giorno della processione di san Gennaro non si era fatto più vedere in pubblico e uscì  (15.x) per recarsi nelle chiese del Carmine maggiore e santa Teresa  accompagnato dall’intero corpo di guardie svizzere e duecento suoi dipendenti, armati con armi da fuoco; passando davanti a Castelnuovo dava disposizione di togliere le forche che erano state lasciate come avvertimento e passando dal Mercato getta monete e fu così applaudito.

Nonostante le manifestazioni di benignità mostrata si continuava nelle ricerche nei confronti dei congiurati; essendosi venuto a sapere del coinvolgimento nella congiura dei fratelli Acquaviva, essi vennero arrestati sebbene si fossero recati a palazzo (la notte del 22) e avessero seguito il principe di Montesarchio nella ricerca dei ribelli; furono portati in castel dell'Ovo e la mattina seguente perquisita la loro casa furono sequestrati tutti i documenti rinvenuti e arrestati tutti quelli che vi si trovavano, gentiluomini, camerieri e perfino gli staffieri.

Poiché tra viceré e nobiltà ci si guardava con reciproco sospetto (e da parte della nobiltà vi era anche una certa preoccupazione per la propria libertà) il viceré per eliminare qualsiasi sospetto, decise di formare un reggimento di cavalleria  dividendolo in cinquanta unità per dieci capitani che scelse tra i nobili (**) i quali nell’occasione non risparmiarono gran lusso e magnificenza che saranno sfoggiati nel superbo carosello che sarà fatto per il re Filippo (v. sotto).

 

 

*) Gli altri componenti erano il Reggente e Luogotenente della regia Camera Alfonso Perez de Arciel, Gennaro d’Andrea e Gregorio Mercado, il Consigliere del Sacro Consiglo Francesco de Torreson y Peñalosa e Reggente Serafino Biscardi come avvocato fiscale.

**) Di Sangro, principe di Sasevero, Piccolomini principe di Valle, duca di Sarno figlio del principe di Ottajano, il principe di Belvedere, il principe della Guardia, figlio del duca di Maddaloni, il principe di Giulianova figlio del duca d’Atri, Giovan Battista Caracciolo di Martina, Fabrizio Ruffo della Bagnara, principe di San Antimo e Antonio della Marra .

 

 

VOLTAFACCIA E

 VILTA’ DEL PRINCIPE

DELLA RICCIA

 

 

M

alizia Carafa era corpulento e nerboruto e fu preso da quattro sgherri e mentre continuava a dibattersi, gli furono legati i polsi e trascinato con forza, mentre Saverio Rocca aveva accettato la sventura con più coraggio e cercava di consolarlo.

All'improvviso giunse un messo della principessa della Riccia che aborriva le infamie del marito, con l'ordine di  liberare i due prigionieri i quali, liberati, si recarono a Benevento dove si rifugiarono nella chiesa di san Bartolomeo; quivi si trovavano gli altri fuggiaschi che lo avrebbero aiutato a vendicarsi di della Riccia, il quale preso da spavento si mise in viaggio quel giorno stesso seguito da una scorta di sessanta cavalieri; egli dovette passare davanti alla chiesa e Malizia appena lo vide lo investì di invettive per il suo tradimento e di villanie.

Della Riccia intanto mandò suo figlio, conte di Montuoro dal viceré per avere il permesso di entrare a Napoli; il viceré gli rispose che non c’era bisogno che si recasse a Napoli, ma gli dava licenza di andare a servire per qualche tempo in Lombardia (dove si combatteva!).

 Il principe della Riccia si era messo in viaggio con i suoi sessanta uomini ed era giunto non senza qualche disavventura (in cui aveva perso il suo cavallo), nello Stato pontificio dove trova riparo presso una chiesa diruta, a breve distanza dalla Terra del Monte, che pur appartenendo al papa, faceva parte del ducato di Sora nel regno di Napoli; questo era posseduto dalla famiglia Buoncompagno con cui il principe non solo aveva rapporti di amicizia ma legami di sangue; il duca era assente e della Riccia scrive al fratello, Antonio Buoncompagno, duca d’Arce, chiedendo qualcosa per rinfrescarsi e un cavallo per poter proseguire il viaggio.

All’alba però si ritrova la chiesa circondata da cento armigeri e gli viene intimato di arrendersi; a nulla valgono le sue proteste di non essere il principe di Macchia e di essere cugino del duca di Sora, partito da Napoli con il permesso del viceré e di trovarsi in luogo sacro con la protezione del diritto d’asilo.

Ma della Riccia è ugualmente portato a Isola e consegnato al marchese Garofalo, vicario della provincia, il quale lo fa portare a Gaeta e qui imbarcato per Napoli è fatto sbarcare a castel dell’Ovo e di notte trasferito a Castelnuovo dove viene interrogato dalla Giunta.

Le sue risposte erano tanto bugiarde, con accuse e calunnie nei confronti di tutti i suoi compagni, compreso il figlio conte di Montuoro, da suscitare il ribrezzo del vicario e del vicerè che non le fecero neanche trascrivere nel verbale di interrogatorio.

Non vi furono altre conseguenze all’infuori di una  protesta giunta da Roma per l'arresto fatto da Buoncompagno nella chiesa che era da considerare luogo consacrato e Garofalo era minacciato di scomunica, con richiesta al Nunzio Casoni di chiedere che il principe fosse riportato nella chiesa; ma la questione non ebbe più seguito, all’infuori di una "pasquinata"(*), perché la chiesa era in stato di abbandono,

Anche con la chiesa di san Bartolomeo a Benevento era sorto il problema del diritto di asilo, che la Chiesa intendeva difendere; in essa si trovavano Malizia Carafa e Saverio Rocca e vi avevano trovato rifugio tutti i fuggitivi che avevano partecipato alla congiura e al tumulto (erano tre-quattrocento), dove il viceré aveva mandato soldati che avevano circondato la chiesa e minacciavano di entrare nel caso non venissero consegnati i colpevoli e principalmente Malizia e Rocca; ma l’arcivescovo Orsini riteneva oltraggioso per l’autorità pontificia l’accesso dei soldati e fece portare i due proscritti e altri nel castello, sulla parola pontificia che vi sarebbero stati tenuti fino alla risoluzione dei monarchi (con la pace o con la guerra); i prigionieri saranno   in seguito trasferiti in Castel s. Angelo 

 

 

*) Pasquino in abito di sbirro richiesto da Marforio (l'altra statua su cui venivano affisse le satire) di cosa intendesse fare vestito in quel modo, rispose che andava a custodire la frontiera pontificia per i torbidi di Napoli; Marforio si meravigliava che partisse da solo, ma Pasquino replicava di non aver paura fino a quando sul confine vi fosse stato un Buoncompagno.

 

 

LA FUGA

DEL PRINCIPE

 DI MACCHIA

E DI

 TIBERIO CARAFA

 

 

T

iberio Carafa di Belvedere dopo essere stato a Chiusano a salutare i genitori, con il principe di Macchia si reca a Melfi dove trovano ospitalità nel convento (badia) dei cappuccini della vicina Monticchio; qui il padre guardiano li consiglia di recarsi, passando di convento in convento, sulla marina dove i frati li avrebbero aiutati a imbarcarsi per Venezia.

Così i tre fuggitivi, dopo essere passati dal convento di Venosa (22 ottobre) giungono (il 24), alle prime ore dell’alba al convento dei cappuccini di Barletta, villanamente respinti dal frate portinaio perché, aveva detto, era troppo presto e vi erano ordini di non fare entrare gente sospetta; il principe di Macchia, collerico, suggerì di andare a trovar riparo in qualche capanna e con il suo domestico stava per andar via quando accetta il suggerimento di Tiberio, visto che il muro di cinta del convento non era troppo alto, di scavalcarlo.

Entrati nel convento decidono di attendere l’alba, quando appare il frate portinaio, verso il quale Tiberio si dirige e prima che il frate potesse profferir parola, lo prende per il cappuccio e gli appunta il coltello alla gola; il frate si spaventa, ma Tiberio lo rassicura dicendo, non spaventarti, siamo uomini da bene, portaci dal padre guardiano, dal quale sono accompagnati.

Il padre guardiano era vecchio e venerando e Tiberio con belle parole del suo linguaggio forbito, gli chiede perdono per come si sono presentati e fidando nella carità della sua religione si mettevano nelle sue mani chiedendo ospitalità; il padre commosso lo abbraccia e gli assicura che avrebbero avuto tutta l’assistenza che i cappuccini erano in grado di offrire.

Il principe di Macchia, che diversamente da Tiberio, non si scopriva facilmente, aveva voluto dar l’impressione di essere il domestico del suo cameriere, ma il padre guardiano dalla persona e dai modi aveva capito che le cose stavano diversamente, ma tralascia ogni approfondimento e chiede di cosa avessero bisogno. 

Saputo che intendevano andare a Venezia, gli dice che in convento aveva un padre teatino, padre Busca, al quale una nave giunta da Venezia aveva portato della roba e potevano approfittare del suo ritorno per noleggiarla; essi trovano padre Busca disponibile, il quale  aggiunge che lo faceva volentieri... anche se uno di loro fosse stato il principe di Macchia! il principe arrossisce e a questo punto si rivela al padre guardiano.

Tiberio era in attesa del danaro che doveva ricevere dal padre e che non gli era ancora pervenuto e neanche aveva ricevuto mille ducati d’oro inviatigli dalla sorella, duchessa di Sessa, malauguratamente affidati a mani non sicure; ma egli aveva un gioiello di gran valore datogli dalla moglie quando era andato a salutarla, che  consegna a padre Busca, da dare in pegno al padrone della nave (con l’ordine di non mostrarlo a nessuno).

La nave si era recata nel frattempo a Bisceglie dove padre Busca la raggiunge con un calesse per patteggiare il nolo; questo è concordato col padrone della nave per trecento ducati veneziani, e il frate gli lascia in pegno il gioiello.

Il padre, quando stava trattando con il padrone della nave, era stato poco accorto in quanto, mentre mostrava il gioiello, era stato visto da un doganiere che avendo pensato di appropriarsene, si prepara a tendergli un agguato.

Mentre il padre, col calesse percorre la strada di ritorno, il doganiere gli sbuca all'improvviso, gli punta l'archibugio sul petto e lo fa fermare; il padre scende impaurito e il doganiere gli chiede il gioiello che aveva mostrato al padrone della nave; il frate dice di non sapere di cosa stia parlando e alzando le braccia, gli chiede di frugargli pure nelle tasche; mentre il doganiere fruga, il frate forte e nerboruto con le braccia alzate, lo abbraccia con forza e toltogli il pugnale dal fianco glielo infila nelle reni; il doganiere stramazza dibattendosi per terra, il frate, ad evitare che gli potesse nuocere, lo finisce con numerose pugnalate alla gola e al petto, poi nasconde il cadavere tra i sassi e rimontato sul calesse ritorna spedito al convento.

 

 

L’ARRIVO DEI

FUGGIASCHI

A VENEZIA E POI

ALL’ACCAMPAMENTO

DEL

PRINCIPE  EUGENIO

 

 

G

iunto il giorno della partenza i fuggiaschi sono accompagnati dal padre Busca e altri cappuccini a Trani, tutti armati (per loro la città era pericolosa perché sede del Preside e del Tribunale della provincia) e imbarcatisi, incontrano Francesco Ceva-Grmaldi, amico di Tiberio; alla fine del viaggio, sbarcando a Malomocco (l’11.xi) da dove si recano in un albergo a Venezia, con il principe di Macchia febbricitante  durante tutto il viaggio.

Tiberio, così com’era vestito con una grossa casacca di panno avuta in montagna, un berretto comperato da un marinaio e scarpe e calze da pastore, si fa accompagnare dall’ambasciatore austriaco conte Berg il quale gli chiede subito del principe di Macchia e del principe di Chiusano e Tiberio gli risponde che il principe di Chiusano è lui e Macchia era febbricitante in albergo; l’ambasciatore lo abbraccia e dispone per la loro ospitalità nel suo palazzo mandando a prendere  Macchia e il suo domestico.

Preparato l’appartamento per gli ospiti, sono riforniti di finissima biancheria recata in due grossi bacili d’argento, di ricche vesti da camera ed è chiamato un sarto per preparare abiti convenienti; l’ambasciatore fa provvedere a pagare il noleggio della nave e restituisce a Tiberio il gioiello dato in pegno; agli ospiti sono inoltre offerte  due borse di cinquecento ducati d’oro, una  per ciascuno, ma  Tiberio si rifiuta di accettarla, deriso da Macchia che gli dice che non era quello il momento di far mostra di disinteresse per il danaro!

Poiché il principe Eugenio era nel mantovano e Tiberio sapeva che si apprestava ad andare a Napoli, manifesta l’intenzione di seguirlo e il principe, avvertito dal conte Berg e dallo stesso imperatore della sua venuta.

Tiberio riceve un’ottima accoglienza da parte del principe che lo fece sedere alla sua tavola, tra il principe di Vaudemont e il conte Carlo di Stahremberg e gli parlava in italiano mentre di solito si esprimeva in tedesco o francese.

Tiberio, abituato al fasto spagnolo, era stupito di vedere un principe di casa regnante e famoso in tutta Europa, vestito con semplicità e seduto a mensa con i suoi generali che conversava familiarmente con loro come con suoi camerati.

Finito il pranzo il principe si ritirò con Tiberio per conoscere minutamente quale fosse la situazione a Napoli, essendo in buona parte già stato messo a conoscenza dal duca Spinelli da Roma e da Malizia Carafa da Benevento, della debolezza del governo spagnolo che si era reso odioso e della condizione dei napoletani che aspettavano gli austriaci come liberatori; Tiberio lo sollecitava quindi a far presto, prima che i francesi si rafforzassero in Italia.

Ma il principe Eugenio lo deluse in quanto proprio per combattere i francesi aveva subito molte perdite e aspettava che l’imperatore gli inviasse rinforzi che però tardavano ad arrivare ed egli pur essendo vincitore non aveva occupato nessuna delle città munite.

Il principe, chiede a Tiberio di cosa avesse bisogno, e questo gli risponde che desiderava avere solo un cavallo per seguirlo e non volle accettare neanche la pensione che veniva data a tutti gli altri napoletani; Eugenio apprezzando la sua modestia gli fece dare uno dei suoi migliori destrieri, ospitandolo nel suo quartier generale e tenendolo con sé a mensa.

Tiberio nel campo ricevette una lettera da Vienna dal duca di Telese che gli riferiva che con lui erano Angelo Ceva-Grimaldi e il marchese di Rofrano che spettegolavano sui loro compagni mettendoli in cattiva luce, dicendo di Malizia Carafa che era corrotto e pieno di alterigia, di Tiberio che era di umore bestiale e avventato, di Macchia che aveva dissipato il suo patrimonio in dissolutezze e bagordi, del duca Spinelli che si era introdotto anzitempo in Castelnuovo e aveva fatto fallire la congiura; tutto ciò era valso a mettere a corte, in cattiva luce i loro stessi nobili compagni!

Il principe di Macchia era guarito e aveva raggiunto Tiberio presso il principe Eugenio che nel frattempo aveva trasferito l’accampamento sul Po, presso il monastero di san Benedetto di Mantova; Macchia era accompagnato da un fratello del principe di Castiglione che lo aveva raggiunto a Venezia; egli, diversamente da Tiberio era un opportunista e chiedeva danaro a tutti come se gli fosse dovuto, e visto che presso il principe Eugenio e con Tiberio non v’era da fare molta fortuna, ritenne più probabile andarla a cercare alla Corte di Vienna, dove decise di recarsi.

Il campo del principe Eugenio era divenuto rifugio di gente di ogni risma proveniente da Napoli; vi giungevano gentiluomini, avvocati, ecclesiastici dottori, armigeri, artigiani, frati libertini che seguivano i propri istinti e anche malfattori fuggitivi che si spacciavano per perseguitati... e tutti mostravano la loro devozione per la casa d’Austria!

Costoro furono affidati in un primo momento alla sorveglianza di Tiberio e di Macchia; molti di essi proseguirono per Vienna e poiché quelli che rimasero creavano disordini, partito Macchia,  furono  messi sotto la sorveglianza e disciplina  del principe di Castiglione.

 

 

AL CAMPO

GIUNGE

UN CAVALIERE

DEL MARCHESE

DEL VASTO

 

 

G

iunta la primavera (1702) il marchese del Vasto aveva assunto uomini per occupare il castello di Manfredonia dove avrebbero dovuto giungere gli austriaci e aveva pensato di mandare un suo cavaliere al campo del principe Eugenio per accertare se gli austriaci fossero pronti per la sospirata spedizione.

Questo cavaliere, borioso quanto lo era il suo padrone, per il pranzo, era stato messo alla mensa dei domestici di Tiberio, ma egli si rifiutò dicendo che non era un valletto e non intendeva mischiarsi con costoro, pronunciando delle villanie non solo nei confronti di un cameriere di Tiberio ma anche contro il suo padrone; prevedendo però la reazione di Tiberio, andò subito a raccomandarsi al principe di Commercy il quale lo rassicurava dicendogli “che non erano a Napoli e dove erano non si commettevano soprusi”!

Il cavaliere ebbe però la dabbenaggine di andare in giro a vantarsene e Tiberio appena venuto a conoscenza lo fece bastonare (ma fuori del campo austriaco!), dallo stesso cameriere che aveva subito le sue insolenze; il cavaliere si reca a lamentarsi da Commercy il quale adirato si rivolge al principe Eugenio; il principe, conciliante, fa chiamare Tiberio e all’istante convince ambedue a dimenticare l’accaduto, facendoli abbracciare.

Il principe Eugenio oltre ad avere grande talento militare, era  dotato di fascino che si esprimeva in carisma; ammirevole nei modi, possedeva tutte quelle grandi doti che di norma suscitano ammirazione nei grandi spiriti, ma nei mediocri suscitano altrettante grandi invidie, come vedremo tra breve.

Il duca di Telese, Ceva-Grimaldi, e il marchese di Rofrano erano giunti a Vienna dove i ministri li rassicurano che tutto era pronto per la spedizione e suggeriscono che potevano tornare al campo per affrettarla, riferendo che nel frattempo il generale Commercy e il marchese del Vasto erano stati nominati aiutanti di campo (dell’esercito che doveva essere mandato nel Sud), e poiché il marchese non aveva esperienza in campo militare, gli era stato affiancato come aiutante Rocco Stella, col titolo di Sergente maggiore.

Così rincuorati i due ripartono, ma giunti nell’accampamento (13.ii) vengono a sapere che il principe non ha nessuna intenzione di muoversi se da Vienna non gli mandano gli aiuti richiesti; non solo, ma gli ufficiali che aveva mandato a Vienna gli avevano riferito che non vi era nessun preparativo in corso; il principe poi, aveva ricevuto una lettera segreta di Leopoldo che, alle sue rimostranze, rispondeva “di non tener conto degli ordini ufficiali e di regolarsi come meglio ritenesse più opportuno”!

Al Commercy veniva ordinato di seguire, nei suggerimenti di carattere politico, il marchese del Vasto e i principi di Macchia, Caserta, di Tiberio Carafa. del duca della Castelluccia, del marchese di Rofrano, di Malizia Carafa e di Angelo Ceva Grimaldi, tutti nominati consiglieri di Stato dall’arciduca Carlo... il quale non aveva nessuna cognizione dei rapporti che intercorrevano tra i nobili napoletani, pieni di orgoglio e gelosie e per questo, nessuno di essi intendeva dipendere da nessuno; e in particolare, nessuno intendeva dipendere dal marchese del Vasto e ancor più di tutti il principe di Macchia, che insofferente e collerico appena  era venuto a conoscenza delle prime voci di queste disposizioni, pieno di sdegno corre dal principe Eugenio e dal Commercy....dicendo “che se ne sarebbe andato a chiedere asilo in Turchia, piuttosto che tornare in patria con l’onta di dover dipendere dal marchese del Vasto”!

Non sappiamo cosa i due principi avessero potuto pensare di tutte le beghe dei nobili napoletani che sorgevano solo per meschinità e falsi principi di orgoglio e certamente non deponevano a loro favore; ma essi, di tutt’altro stile e di tutt’altra tempra, consigliarono a Macchia la moderazione, la concordia e a stare tranquillo, che tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi; ma Macchia, finito il colloquio, continuò a bofonchiare, prendendosela con la presunzione del marchese e con la condiscendenza dell’imperatore, e pur febbricitante (il suo male non gli dava tregua con la  febbre), vedendo che nel campo non vi era altro da fare, se ne partì per Vienna!

Il principe Eugenio, come abbiamo accennato, a Corte aveva dei nemici, primo fra tutti il principe di Salm, maggiordomo dell’imperatore, scaltro e astuto cortigiano, invidioso della sua fama, principalmente perché era straniero e lo aveva sempre osteggiato cercando di sminuirne i meriti; tra questi nemici era sospettato anche il principe Luigi di Baden, sebbene fosse di tutt’altra tempra e avesse riportato ripetute vittorie nei confronti dei turchi.

Sta di fatto che ambedue suggerirono all’imperatore di mandare le migliori truppe di cui egli disponeva, invece che al principe Eugenio, in Alsazia, a combattere i francesi; per di più l’ambasciatore di Filippo V, duca di Moles, suggeriva di mandare l’arciduca Carlo in Spagna, tralasciando la Lombardia (per la quale non era stata dichiarata alcuna guerra) e Napoli, ed essendo quest’ultimo a Corte molto apprezzato, aveva convinto Leopoldo che gli spagnoli erano contrari ai francesi ma favorevoli alla casa d'Austria e con l'aiuto degli inglesi e olandesi, sarebbe riuscito a ottenere il trono di Spagna; Leopoldo sulla base di questi suggerimenti aveva quindi disposto di armare numerose navi, da mandare ufficialmente a Napoli, ma in effetti dovevano essere dirette in Spagna.

 

A VIENNA GI ESULI

 VIVONO TRA

FESTE E INTRIGHI

IL DUELLO

TRA  TELESE E CARAFA

 E LA MORTE DI MACCHIA

 

 

G

li esuli che si trovavano presso il principe Eugenio, persa la speranza di un immediato intervento delle truppe austriache, poco per volta se ne andarono tutti a Vienna, ciascuno con la speranza, in un modo o nell’altro, di far fortuna; ben accolti dall’imperatore,  ciascuno era gratificato  con una pensione pari al proprio stato.

Il duca Spinelli appena giunto a Vienna aveva richiesto al duca di Telese (che come abbiamo visto non aveva fatto altro che propalare maldicenze nei confronti dei propri pari conterranei), di  smentire per iscritto tutto ciò che aveva detto contro Tiberio Carafa, il principe Macchia e gli altri; Macchia, di natura beffardo, a sua volta, per mettere allegria nella compagnia non si faceva mancare le occasioni per attaccarlo, ma si comportava così con tutti e non si faceva neanche troppi scrupoli a  indirizzare le sue maldicenze nei confronti del suo stesso protettore principe di Lichtenstein, approfittando del fatto che il principe pur essendo potente e orgoglioso, non aveva un alto talento intellettivo.

Il marchese di Rofrano co la sua passione del gioco aveva fatto grandi vincite a Napoli, a Roma in Francia e Inghilterra, che investite in paesi sicuri, unitamente alla pensione ricevuta dall'imperatore, gli consentivano di condurre una vita lussuosa e con Ceva-Grimaldi era assiduo frequentatore di casa Lichtenstein; mentre Giovanni Carafa, sempre in cerca di fortuna si vantava di essere senza patria e di considerarsi indiano e le cose di Napoli gli importavano quanto quelle della Mongolia o del Giappone” ....anche se poi viveva a spese dell'erario austriaco!

Egli con ogni genere di servilismo si era guadagnato la protezione del principe di Salm (mentre il principe Eugenio lo teneva in poco conto!); Giovanni era cugino del più celebre Antonio Carafa, la cui vedova era maggiordoma presso la regina dei romani (il marito Giuseppe, re dei romani, era figlio di Leopoldo), il quale, nonostante non fosse ben visto dall'arciduca Carlo, gli fece ottenere il grado di maresciallo e il comando supremo (futuro!)  delle armi del regno di Napoli.

Tra gli esuli vi erano  il cav. Castiglione, Rocco Stella, i due fratelli Torres e numerosi altri che godevano, come abbiamo detto, tutti di una pensione; alcuni di costoro però, con il loro comportamento, screditavano la causa che sostenevano e il proprio paese, ma erano tollerati  in quanto un giorno avrebbero potuto essere utili!

Chi approfittava alla grande della generosità dell’imperatore era il principe di Macchia che non badava a spese nel condurre una vita dispendiosa, tanto che il principe Lichtenstein (incaricato delle finanze) dovette correre a Corte per far presente all’imperatore che se si continuava a finanziarlo...avrebbe finito per prosciugare l'erario come aveva fatto con le proprie sostanze; ma Leopoldo rispose che gli sembrava giusto che un uomo tanto benemerito trovasse a corte ciò che aveva lasciato a casa ....e così chiuse l'argomento!

La morte del principe sarà coerente con la vita bella e sregolata che conduceva, a causa di una banale imprudenza; dopo una festa mascherata data dal re Giuseppe, alla fine della festa, dopo aver danzato per tutta la notte, non aveva trovato il suo mantello e scoperto, sudato e febbricitante per il male di cui soffriva (era il ventisette gennaio), esce all'aria aperta e prende una polmonite; le amorevoli cure prestate dalla moglie del principe di Darmstat, principessa Veterani e dallo stesso principe  suo grande amico, mattina e sera, non riescono a salvarlo e muore compianto da napoletani e austriaci e dall’imperatore che gli fece apprestare un funerale con tre giorni di esequie.

Il duca di Telese, come abbiamo visto, nonostante avesse dato assicurazione e promesso al duca Spinelli che si sarebbe astenuto dalle maldicenze, aveva continuato imperterrito, rincarando la dose contro Spinelli che, lamentandosene con Tiberio, gli aveva manifestato l’intenzione di sfidarlo a duello; ma Tiberio gli rispose di essersi impegnato lui stesso con tutti i napoletani, a salvaguardarli e spettava a lui risolvere la questione.

Incontrando Telese a Corte il giorno della partenza dell’arciduca, gli disse risentito, "di smetterla con le sue cabale, perché gliene avrebbe dato conto", voltandogli le spalle; Tiberio quindi riferì a Rofrano che intendeva sfidare Telese a duello, e glielo disse, in modo che (per dovere dell’ospite) ne fosse avvertito l'arciduca Carlo, ma quando il duello fosse già avvenuto.

Dopo qualche giorno, Tiberio dopo pranzo, andò ad aspettare Telese presso la sua abitazione (di fronte alla chiesa di san Michele) e mentre era in attesa, aveva visto giungere la carrozza del figlio del Delfino di Francia, ambasciatore a Venezia, che andava a prenderlo  per una passeggiata.

Tiberio salito sulla propria carrozza lo seguì fino ai Prater dove, avvicinatosi, dopo essersi scusato con l'ospite, gli rivolgeva una gran villania, sfidandolo a battersi; Telese scende subito dalla carrozza con la spada sguainata andandogli incontro, mentre il principe francese rimaneva nella carrozza assistendo al duello.

Al primo scontro Telese riporta una lieve ferita all'omero destro e Tiberio, senza dargli tregua con la mano sinistra libera riesce ad afferrargli il polso destro e appuntargli la spada sul petto, intimandogli di arrendersi; Telese si arrende cedendogli la spada, ma accortosi che Tiberio compiaciuto della vittoria si era distratto, lo afferra con le braccia ai fianchi e lo butta per terra e gli si getta bocconi sopra e tenendogli con una mano la mano destra, con l'altra gli afferra la cravatta stringendola per soffocarlo; Tiberio si dibatteva ma inutilmente in quanto Telese era più nerboruto e vista per terra la sua spada, la prende dalla parte mediana e gliela affonda nel fianco, trapassandolo;  Telese lanciando un urlo si rivolta dall'altro lato, mentre Tiberio balzato in piedi, gli mette un piede sul petto facendogli balenare davanti agli occhi le due spade, che inutilmente Telese afferra, pensando di strappargliele, ferendosi ad ambedue le mani, mentre Tiberio gli diceva, “confessa che sei un marrano o morirai”; a questo punto interviene il Delfino che gli  chiede di donargli la vita; Tiberio gli risponde di non essere abituato a uccidere chi era senza difesa, lasciandolo in vita.

A questo punto il Delfino con i suoi servitori e quelli di Telese lo adagiano nella carrozza e mentre Tiberio gli restituiva la sua spada gli disse: “Ecco ti rendo la tua spada e puoi darla a tuo fratello per provarla nuovamente con la mia, chissà che non possa essere più fortunato”.

La notizia dell’avvenimento si sparge immediatamente e il Delfino la riferiva direttamente al principe Eugenio dal quale Tiberio si reca la stessa sera; Eugenio gli dice che da tempo se l’aspettava e che al duca di Telese gli stava bene; il marchese del Vasto e il duca Spinelli raccontarono l’avvenimento al Moles perché ne informasse l’imperatore; la ferita di Telese non era mortale e l’imperatore “pro forma” mandò da Tiberio il conte Martiniz, maresciallo della Corte, ad arrestarlo (agli arresti domiciliari).

Il re Giuseppe poi mandò da Tiberio uno dei suoi cavalieri a rassicurarlo della sua grazia e protezione e tutta la nobiltà viennese si recò a visitarlo, felicitandosi per l’esito del duello; Telese perfidamente, aveva dato alla principessa di Lichtenstein che a sua volta la riferiva alla regina, in presenza di altre dame, una versione diversa che metteva in cattiva luce Tiberio (aveva detto di essere stato ferito quando era a terra, senza scendere nei particolari, ciò che appariva poco onorevole per il feritore!); ma Tiberio, su consiglio del principe Eugenio, pregò il Delfino di scrivere una relazione da presentare all’imperatore che il Mariniz fece sottoscrivere da Telese, in modo da dipanare ogni dubbio e riabilitare Tiberio!

 

 

FALLITA

LA CONGIURA

DEI NOBILI

SE NE SCOPRE

UNA POPOLARE

 

 

A

Napoli lo spirito di rivolta non era cessato (vi erano stati focolai nella vicina Aversa, a Lecce e anche nell’altro viceregno di Sicilia), ciò perché il governo spagnolo oltre ad aver suscitato rancori era divenuto intollerabile, con la conseguenza che, essendo i francesi ritenuti peggiori degli spagnoli,  tutti erano divenuti sostenitori dell’Austria!

E’ da dire in proposito che popolo e borghesia erano rimasti delusi dal governo di Filippo V che pur avendo fatto molte promesse di riforme, non aveva alleviato il peso fiscale ed erano continuate le violenze e gli abusi; anche parte della nobiltà era insoddisfatta; dopo l’esito infelice della rivolta, ora preferiva attendere, ma partecipando per la venuta degli austriaci.

Non erano ancora terminati gli strascichi della congiura del principe di Macchia, che la sera di un giovedì (8.xi.1701), viene alla luce la notizia di una sollevazione popolare, ordita dagli operai tessitori di seta (il cui numero si riteneva fosse di quarantamila lavoratori) che avevano chiuso fondachi e botteghe, ma il Governatore li aveva costretti a riaprire, mandando a ogni due fondachi cinque sbirri armati e a ogni sei botteghe una truppa di soldati spagnoli comandati da un ufficiale.

Si era verificato che durante una partita di caccia del duca di Vietri, un tessitore gli riferisce che era stato concertato che durante la notte sarebbe stato messo a fuoco il palazzo reale, il viceré sarebbe stato trucidato e la nobiltà fatta a pezzi e la città sarebbe stata saccheggiata; il duca conduce il tessitore dal viceré al quale riferisce tutti i particolari; il viceré  senza perdere tempo fece rinforzare tutte le guardie della città con nuove soldatesche armate di granate, che potevano servire a disperdere la folla; la guardia di palazzo è rinforzata con duecento soldati; l’antistante piazza del palazzo è piantonata con fanteria e cavalleria, ai castelli sono alzati i ponti levatoi e i bombardieri sono allertati a tenere accese le micce dei cannoni; per la città circolavano pattuglie di soldati a cavallo e alle strade principali erano stati disposti corpi di milizie; alle due di notte il vicerè esce nell’anticamera dove tutte le sere si radunavano i nobili, perché anch’essi potessero avere assistenza, ai quali  raccomandava di rinforzare la sorveglianza dei propri palazzi e, se volevano, potevano portare le loro mogli a palazzo per poi essere accompagnate con la viceregina presso Castelnuovo.

Divulgatasi la notizia per la città, la popolazione si era riversata per le strade tra gemiti e urla, con le donne che portavano i figli e ciò che ritenevano poter salvare, senza sapere dove andare; le carrozze con donne vestite in tutta fretta si dirigevano a briglia sciolta verso i conventi; la mattina seguente circolavano carrozze piene di cavalieri armati seguite dagli staffieri anch’essi armati; facchini e carrette ingombravano le strade in quanto i nobili mandavano le loro preziose suppellettili ai loro feudi, non ritenendo più sicuro mandarle nei monasteri, come avevano fatto altre volte.

I castelli erano stati muniti di bombe e la torre di santa Chiara, di san Lorenzo e la Vicaria e altri punti strategici erano stati muniti di granate; il vicerè aveva autorizzato i proprietari di case a difenderle con le armi; dalle botteghe degli archibugieri erano stati acquistati  tremila archibugi per armare la gente del Mercato e della contrada denominata “Lavinaro”, dove si raccoglieva “la plebe più vile”.

Ma ciò che preoccupava maggiormente era la reciproca diffidenza di tutti nei confronti di tutti: il viceré diffidava della nobiltà a sua volta nemica del viceré e diffidente del popolo; il popolo nemico del viceré e ancor più nemico della nobiltà! 

Il viceré convoca l’Eletto del popolo e altri rappresentanti facendo loro intendere che tutti i lavoratori e in particolare le loro mogli che avessero avuto lamentele da svolgere, potevano rivolgersi direttamente a lui che avrebbe sopperito alla mancanza di lavoro, con il mantenimento delle loro famiglie; uno stuolo di costoro si era recato a palazzo e il viceré accolti con cortesia, fece distribuire monete d’argento assicurando che avrebbe preso a suo carico il mantenimento delle famiglie.

Il viceré convocò quindi i rappresentanti dell’Arte della seta chiedendo loro di disporre che si desse corso alle manifatture e ai lavori; poiché i mercanti più ricchi avevano rinchiuso le loro stoffe, aveva richiesto di rimetterle in circolazione, assicurando che era in preparazione un provvedimento in base al quale sarebbe stata interdetta la importazione di pannine, drapperie di lana e di seta e d’oro forestiere; nello stesso tempo si richiedeva alla nobiltà di vestire con giustacuore alla francese e d’estate con abiti di seta e d’inverno con abiti di velluto di produzione locale ovvero, di abbigliarsi alla spagnola (che prevedeva  la “goniglia” il tipico colletto spagnolo a cannoncini).

E’ da dire peraltro che le rivolte di norma erano fomentate dagli ordini religiosi, per cui il viceré d’accordo con il Collaterale e il cardinale arcivescovo, avevano mandato in esilio duecentocinquanta religiosi dei diversi Ordini  (francescani, minori conventuali, olivetani, carmelitani, e teatini) che si erano “scatenati” contro gli spagnoli e francesi (sostenendo la pietà, giustizia e clemenza dell’imperatore e il valore e la generosità della nazione alemanna!) e allontanando altri “inquieti” dalla città.

Nel convento di San Marcellino due nobili suore, una, sorella del principe di Macchia e l’altra, del cardinale Cantelmo (l’una sostenitrice degli austriaci, l’altra dei francesi) dopo reciproche ingiurie erano venute alle mani e il vicario era intervenuto con la forza per prelevare la Giambacorta, ma le suore che nella maggior parte la sostenevano, si erano opposte, chiedendo che lo stesso trattamento dovesse essere usato con la Cantelmo.

Dagli spalti del Castel Sant’Elmo si videro giungere in mare un gran numero di vele che non riuscivano ad avvicinarsi al porto a causa di un fortissimo scirocco e furono riconosciute dal una feluca inviata dal viceré, al comando del duca Vittor Maria d’Estrées, maresciallo di Francia, grande di Spagna di prima classe, nominato da Filippo V Luogotenente generale del mare, inviate dalla Francia, salutate con le artiglierie di tutti i castelli.

 

....E ANCORA,

 UNA BORGHESE

 

 

M

entre finalmente gli animi apparivano pacificati, ancora un’altra congiura si stava preparando (nel mese aprile, quando doveva arrivare in visita Filippo V); questa volta era la borghesia a far sentire i suoi sussulti, mentre il cardinal Grimani da Roma non cessava di rinfocolarli facendo spargere nel regno  manifesti, proteste, libelli e persino inviando lettere per posta  al fine di rendere sospetti i destinatari.

Il viceré Ascalona, per istruzioni ricevute aveva mitigato il governo della città, ma ciò nonostante gli imperiali si comportavano provocatoriamente fomentando congiure e tumulti e per puro caso si viene a conoscenza di una congiura, preparata questa volta da borghesi.

Un primo gruppo di congiurati era costituito da Giovanni Maria Maltese di Cristofaro, Carlo Foresta di Avella (protetto del marchese di Rofrano  che, saputo della non riuscita della congiura di Macchia, gli aveva dato un cavallo e una lettera di presentazione per il principe della Riccia) e Ferdinando Ballati di Siena, servente dei Cappuccini di s. Efremo Nuovo.

Un altro gruppo era formato da Domenico Chianese e Aniello Migliaccio, farmacista di Pisciuola, un Ricciardo di Giugliano con un suo fratello medico, zii di Migliaccio, il prete Cacciapuoto e un altro prete dipendente del marchese del Vasto, oltre a parecchi venditori di derrate e artigiani, pochi i gentiluomini, neanche molto convinti, tra i quali Girolamo de Luna e Lelio Dentice parente del duca di Telese, tutti spinti all’impresa da agenti del cardinal Grimani

Al fine di concedersi una maggior credibilità, i congiurati si attribuiscono cariche con patenti austriache, ben falsificate su pergamene riproducenti lo stemma imperiale intagliato in rame e scritte con caratteri in oro e minio, con altrettanto falsa sottoscrizione dell’imperatore Leopoldo; e così  Ricciardo era divenuto, Cappellano Maggiore, il fratello, Protomedico, Maestri di Campo tutti quelli che procuravano armati; Cristofaro si firmava col nome di Silvio Pantellini, Generale dell'imperatore!

Luogo di riunione sarebbe stata una masseria presso san Rocco in Capodimonte, in proprietà dei padri Agostiniani, messa a disposizione da un padre che li frequentava per la questua; il cardinal Grimani aveva fatto sapere di non muoversi senza suo avviso.

Tra coloro che dovevano arruolare armati vi era un artigiano argentiere, Pietro Lionetti che convinto che, se nella precedente congiura  non erano riusciti i nobili, non sarebbero riusciti neanche loro, si era confidato con padre Brancia, francescano della Scarpa, il quale pensò bene di andare a riferire tutto al viceré; nel frattempo il giudice Plastena faceva arrestare Bartolomeo  Cipolletta, venditore di maccheroni, il quale, sulla promessa dell'immunità, non ebbe difficoltà a rivelare tutto ciò di cui era a conoscenza!

Per precostituire le prove, Lionetto e padre Brancia erano stati mandati con due sbirri travestiti dal Ballati, che aveva preso in affitto una casetta a fianco della chiesa dell'Arenella, dove si trovavano Cristofaro, Foresta, Chianese e altri due i quali parlavano liberamente dei loro progetti; in base a quanto si era venuto a conoscenza e alle confessioni di Lionetto e Cipolletta, il viceré aveva ordinato molti arresti.

L’intento dei congiurati era quello di sollevare una rivolta a Napoli per poi estenderla a Caserta, ma tutti questi preparativi dovevano andare in fumo in quanto il figlio di Francesco Antonio Petillo, congiunto di Foresta, bargello del duca di Marigliano,  invitato a unirsi ai rivoltosi, dopo aver suggerito al Foresta di abbandonare l’impresa, non essendo riuscito a convincerlo, si recava dal duca al quale svelava il complotto.

Il duca dopo essersi accertato della sua veridicità, manda suoi armigeri alla casa di Foresta (ad Avella), dove si trovavano Cristofaro e Ballati e dopo averla circondata li arrestano mandandoli a Napoli  in catene; erano seguiti altri arresti a tappeto, sia di persone emerse dalle confessioni di Lionetto e Cipolletta, sia anche di sospettati che avevano avuto parte nella precedente sollevazione e tra costoro vi erano il duca di Noia, il principe di Trebisacce, l’abate Pappacoda, Domenico de Luna ed anche il castellano di Bari.

I tre arrestati, Cristofaro, Foresta e Ballati venivano portati a Castelnuovo; di costoro, solo Ballati rivelava qualcosa nell'intento di salvarsi; costui con il Cristofaro sono condannati a morte; quest'ultimo sottoposto alla tortura della corda, alla fine rivela ogni cosa, ma gli è inferta ugualmente la pena capitale.

Foresta dopo essere stato ferocemente torturato sul tavolone a coda di cavallo, é impiccato e lasciato appeso sulla forca;  gli unici a uscirne vivi sono Chianese che dopo aver subito la tortura senza fare rivelazioni, è condannato a sette anni per aver preso parte alla congiura di Macchia, mentre a Cipolletta, dopo la tortura è comminato l'ergastolo a vita, ma ingiustamente in quanto era ventenne e questa pena era prevista solo per chi avesse compiuto i venticinque anni. 

Il farmacista Migliaccio riesce a fuggire travestito da prete andando a rifugiarsi nella chiesa di Mugnano a Capodimonte; essendo risultato che era uno dei capi della cospirazione, il viceré manda ad arrestarlo (facendo emergere la polemica delle immunità*); Migliaccio condannato a morte è ferocemente torturato ma riesce a sopravvivere fino all'arrivo degli austriaci dai quali, come vedremo,  sarà liberato.

Ballati, a seguito della sentenza di condanna a morte emessa dal marchese di Villarosa è impiccato alle forche nella piazza di Castelnuovo dove il cadavere fu lasciato penzolare; stranamente dalla bocca e dal naso gli fuoriusciva sangue, ciò che non accadeva mai per gli impiccati e molti popolani credendolo innocente, andavano a intingere i fazzoletti per conservarli come reliquie (è noto che Napoli è considerata la city of blood, la città del sangue per la straordinaria raccolta di ampolle di sangue di santi, tutte ritenute  più o meno miracolose dalla credulità popolare, nel senso che si sciolgono a scadenza come il sangue di san Gennaro!).  

I processi proseguivano senza sosta e i castelli erano pieni di arrestati di qualsiasi condizione:  il cappuccino fra' Casimiro e due terziari di Caserta vennero rinchiusi nel castello di San Efremo Nuovo, il principe Partenio Petagna di Trebisacce fu confinato a Oriano.

Non mancarono i delatori i quali, per vendetta personale o perché si aspettavano ricompense, denunciavano innocenti; molti riacquistarono la libertà all'arrivo degli austriaci, alcuni persero anzitempo la vita come il fratello del prete Jovene (che aveva nascosto nella sua casa a Summonte il principe di Macchia e Tiberio Carafa); costui, denunziato dall'alfiere Nicola de Oses è condannato a  vita a servire su una galera, ma a seguito delle rimostranze dell’avvocato dei rei Carlo Antonio de Rosa, è mandato nel castello di Sant'Elmo e poi nei Presidi di Toscana dove muore anzitempo;  contemporaneamente a Napoli si sentirono suonare le campane che annunciavano la morte del cardinale Cantelmo.

All’inizio del nuovo anno (14 gennaio  1702) un tremendo terremoto che si avvertì fino a Roma, colpiva l’Abruzzo e la città dell'Aquila rimase interamente distrutta con molti morti tra persone e  animali e  duemilaquattrocento abitanti  rimasero senza abitazione; le scosse continuarono fino al mese di marzo quando si aprì nella valle del monte Sigillo vicino alla terra della Posta, una immensa voragine (lunga 200 palmi e larga 160) e non bastarono trecento canne (circa due mt. per ogni canna) di corda a misurarne la profondità; centoventi paesi rimasero danneggiati e si contarono cinquemilatrecento morti.

Per la nomina del nuovo arcivescovo di Napoli su cui doveva decidere il papa Benedetto XIII, vi erano diversi aspiranti, tutti nomi eccellenti quali monsignor Gaetani tesoriere e chierico di camera del papa, il cardinale Orsini, vescovo di Benevento, il cardinale Buoncompagno fratello del duca d'Arce, monsignor Acquaviva, nunzio in Spagna, fratello del duca d'Atri, monsignor Caracciolo, vescovo di Aversa, monsignor Ruffolo, maestro di camera del papa e monsignor Pignatelli arcivescovo di Taranto, fratello del duca di Monteleone, il quale riuscì a spuntarla su tutti i concorrenti.

 

 

*) POLEMICA DELLE IMMUNITA’ PER I RIFUGIATI NELLE CHIESE.

La questione evidenzia i rapporti tra la Chiesa e l’Autorità reale e le polemiche sorte tra le due autorità erano servite, da una parte a mitigare le asperità dei giudizi dei tribunali secolari portati a emettere facili condanne senza prove sufficienti e sottoponendo gli imputati (e anche i testimoni) a  crudeli torture che spesso, quando non erano condannati a morte e sopravvivevano, rimanevano storpi per tutta la vita; dall’altra, alla moralizzazione dei preti, che senza farsi troppi scrupoli approfittavano del loro stato per esercitare il contrabbando e per fare contrattazioni simulate al fine di sottrarsi al pagamento delle gabelle e, come abbiamo visto, erano molti  coloro che si facevano ordinare chierici per acquisire il privilegio di sottrarsi al foro secolare e farsi giudicare da quello ecclesiastico.

L'arresto di Aniello Migliaccio avvenne di domenica (4.ix) quando la chiesa era piena di fedeli e il cardinal Cantelmo protestando presso il viceré, richiamava una bolla del papa  Gregorio XIV che pur privando dell'asilo i rei di lesa maestà, ne rimetteva la cognizione ai vescovi, per cui il cardinale chiedeva che il colpevole fosse restituito alla Chiesa, promettendo di procedere nelle dovute forme per consegnarlo alla Corte secolare. Ma questa bolla non era stata mai applicata negli Stati spagnoli e lo stesso Filippo II aveva richiesto ai giuristi di contrastarla non volendo ammettere che l'autorità ecclesiastica intervenisse in simili casi.

E' anche da dire che Carlo di Sangro e Giovanni Bosco erano stati arrestati allo stesso modo e condannati a morte e Cantelmo non aveva nulla osservato in proposito, anzi aveva tollerato che si ricercassero altri ribelli nelle chiese.

Il viceré mandò prima il Reggente, cardinal Serafino Biscardi per convincerlo a desistere, ma Cantelmo rispose che era disposto per il viceré a rinunciare anche alla porpora, ma non a contravvenire gli ordini di Roma; Cantelmo fece affiggere il provvedimento e nella ricerca dei precedenti, si trovò che la richiesta dell’autorità ecclesiastica era fatta verbalmente, senza formalità e quindi Cantelmo pensò di presentare la richiesta al Segretario del Regno, Fiorillo e, fatto ciò, il cardinale si ritirò nel convento dei teresiani, annunciando un ritiro spirituale.

Il Collaterale ritenne a questo punto che la questione dovesse ritenersi chiusa, ma quando venne pubblicata la condanna a morte di Migliaccio, il cardinale richiese al Consigliere Consalvo Machado e al Fiscale (Procuratore) della Giunta di Stato, Vincenzo de Miro, di restituirlo entro tre ore e che un loro rappresentante dovesse presentarsi entro sei ore innanzi al Tribunale ecclesiastico, minacciando  ai ministri l’anatema.   

Immediatamente si riunì la Giunta della Regia Giurisdizione che decise di mandare un proprio rappresentante dall’arcivescovo per far presente la nullità del procedimento.

Dall’arcivescovo si recò il Segretario Fiorillo, ma prima che potesse aprir bocca, il cardinale gli fece presente che “non aveva intenzione di ascoltare oratorie o ambasciate e avrebbe scomunicato chiunque avesse avvilito la sua porpora”, dopodiché gli diede il permesso di parlare; ma mentre il Segretario gli riferiva di non avere altra richiesta all’infuori di quella di esporre le ragioni del re, il cardinale lo interruppe nuovamente dicendo che gli scomunicati (tali dovevano ritenersi i rappresentanti della giustizia del regno), non erano comparsi nel  tempo prefissato e che non gli rimaneva altro che ricorrere al papa, salvo il caso in cui il Migliaccio non fosse restituito alla Chiesa; il cardinale poi aggiungeva di meravigliarsi del fatto che in Castelnuovo vi fossero sessanta arrestati per lo stesso reato, e si infieriva solo contro chi era stato preso in una chiesa con tanto scandalo, reo di un semplice tentativo senza effetto... con ciò era evidente che si intendeva colpire l’immunità che egli avrebbe difeso fino all’ultima goccia di suo sangue!

Inutilmente Fiorillo aveva detto che la sua intenzione era quella di rappresentare le ragioni della giurisdizione reale, il cardinale lo interruppe minacciando di scomunicare anche lui ...e  dicendo che Dio avrebbe giudicato il tutto, si alzò accompagnandolo alla porta e dicendogli che non lo scomunicava solo a causa della sua giustificazione (di rappresentare la giurisdizione reale!).

Il viceré, dopo aver concesso la dispensa ai ministri (Machado e De Miro) scomunicati da Cantelmo, diede ugualmente l’ordine di procedere alla esecuzione; il povero Migliaccio era rinchiuso nella cappella di Castelnuovo e aveva subito inumani torture, ma riuscì a sopravvivere, come abbiamo detto, fino all’arrivo degli austriaci, che gli concessero la libertà.

 

 

LA SOSTITUZIONE

DEL VICERE’ MEDINA-COELI

 E LA VISITA A NAPOLI

DI FILIPPO V  

 

 

A

 Napoli si viveva in una atmosfera di regime poliziesco tra proscrizioni, arresti, supplizi, confische e segrete indagini sui sospettati, con la reggia messa sotto stretto controllo delle guardie a cavallo e il viceré che appariva in pubblico circondato dalla guardia del corpo con le sciabole sguainate e persino nella stessa reggia egli usciva nella propria anticamera circondato da ufficiali.

Le strade della città erano deserte, percorse da pattuglie di cavalleria e da sbirri e tutti gli spettacoli pubblici erano stati vietati; Medina-Coeli a questo modo si era reso odioso, principalmente nei confronti della nobiltà, per le torture e la decapitazione inflitte a Carlo di Sangro; la situazione era stata riferita alle corti di Francia e Spagna e Luigi XIV provvede immediatamente a sostituirlo, con sua grande sorpresa (febbraio 1702), con  Giovanni Emanuele Pacecco di Acugna, duca di Ascalona e marchese di Vigliena, viceré di Sicilia (dove fu nominato il cardinale Francesco Giudice, fratello del duca di Giovinazzo); il principe Ottajano che reggeva la Vicaria, rassegna le dimissioni ed è sostituito da Gonzalo Machado y Aguiar; per cancellare il ricordo dei giorni passati,  il conte d’Estrées,  viene riferito, di aver portato in Francia il principe della Riccia, i fratelli Acquaviva e il barone di Chassignet  (indicato anche come Sassinet) dove sarebbero stati rinchiusi nella Bastiglia, ma dai registri di quell’anno della Bastiglia, non risulta alcuna consegna di prigionieri italiani.

Era dal tempo di Carlo V (1535) che non vi erano stati re di Napoli che fossero giunti in visita; Filippo aveva appena sposato in prime nozze (1701) Maria Luisa Gabriella figlia del duca Amedeo di Savoia; il re Luigi XIV, sempre vigile e attento (anche a causa delle contestazioni sollevate dagli altri Stati), aveva deciso fosse giunto il momento di una visita del nipote a Napoli e Milano e gli aveva scritto una lettera piena di affetto, di consigli e suggerimenti su come doveva comportarsi, (...Trattate bene i nobili, fate sperar sollievo ai popoli quando gli affari ve lo permetteranno, ascoltate le doglianze, rendete giustizia e usate benignamente la vostra presenza senza perdere la dignità...premiate coloro che  ultimamente vi hanno mostrato il proprio zelo e conoscerete l’utilità del vostro viaggio...Non mi resta che assicurarvi della mia tenera amorevolezza e del piacere che io vedendolo di giorno in giorno voi  ve ne rendiate maggiormente degno).

La data è fissata e annunciata per  il mese di aprile (1702); per l’occasione giungono a Napoli ambasciatori del duca di Savoia, delle repubbliche di Genova e Lucca, del Gran Maestro di Malta; giungono da Roma il duca di Uzeda, il cardinale Janson, da Benevento il cardinale Orsini, prelati francesi, il Connestabile Colonna, il principe Borghese e vari  nobili romani che possedevano feudi a Napoli; i nobili siciliani  con le galee di quel regno al comando di Emanuele de Sylva: “il lusso, la magnificenza della Corte, le feste, le cavalcate, i tornei raggiunsero tanto lustro e splendore da far gareggiare la città con le più superbe città europee”.

Giunto il giorno di Pasqua (16.iv) il giovanissimo (diciottenne) re era accompagnato dagli spagnoli conte di Santo Stefano, i duchi di Medina Sidonia,  di Gandia, di Ossuna, di Veha, di Monteleone, il principe di Belvedere giunto con la propria famiglia, i conti Benvenuto, Colmenar Priego e di Las Torres, dai grandi di Spagna e dal francese conte di Marsin; tutti dal porto passarono per una porticina che conduceva direttamente al palazzo reale.  

Molto apprezzato per l’eleganza e la raffinatezza dei modi, gli furono fatti grandi festeggiamenti con spettacoli, fuochi d’artificio, un superbo carosello della nobiltà nella piazza antistante il palazzo reale (*), ammirevole per la bellezza dei destrieri, la ricchezza degli abiti dei cavalieri e delle gualdrappe dei cavalli, l’agilità e destrezza mostrata dai cavalieri; infine la grande cavalcata, simboleggiando l’ingresso ufficiale del re in città, coronava i festeggiamenti.

Non mancarono grandi doni, fatti e ricevuti: Il papa gli aveva inviato una croce d’oro (del valore di novemila scudi), e a titolo personale una statua di Ercole del Bernini e una dama di alabastro orientale, una vaschetta di porfido, una tazza d’agata adorna di gemme, un ricchissimo tabernacolo ornato di miniature, perle e altri gioielli, quaranta cassette di profumi, rivestite di broccato, dieci portiere intessute con oro finissimo e altre devozioni;  da parte della città gli furono offerti donativi per oltre settecentomila ducati (a Carlo V era stato dato, come abbiamo già visto, unmilione e mezzo di ducati); tra tutti i feudatari (presenti a Napoli), che non si erano in precedenza riuniti per decidere il donativo, furono raccolti trecento ducati; a sua volta il re fece doni ai principali personaggi di corte.

 

 

*) Comandavano il carosello, come  Maestro di Campo, il principe Caracciolo di Santobono; capi delle quadriglie il marchese Acquaviva di Giulia, il principe d'Aquino di Castiglione, il marchese Caracciolo di Sant'Erasmo, il duca di Popoli, il principe Carafa della Guardia, i principi di Belvedere, di Valle e di San Severo.

 

 

FILIPPO V DISPENSA

 CARICHE ONORIFICENZE

 E CONDONI

 

 

A

vvicinandosi il giorno della partenza Filippo V dispensa cariche e onorificenze a coloro (nobili e singoli cittadini) che avevano appoggiato la rivolta e (indirettamente) il suo partito; il duca Antonio Buoncompagno d’Arce, che aveva arrestato il principe della Riccia e il principe di Montesarchio, sono insigniti dell’Ordine del Toson d’Oro; al principe di Montesarchio è concesso il futuro comando delle galee di Napoli; al duca d’Atri, Giovan Girolamo Acquaviva, primo duca del regno, è concesso l’Ordine del Toson d’Oro che il re gli pose personalmente al collo, nominandolo Sergente generale di battaglia; il duca ebbe verso il re una tal gratitudine, che quando arrivarono gli austriaci, pur di non abbandonare l suo partito, si lasciò confiscare tutti i beni e partì in esilio; il duca di Sora, fratello del duca Boncompagno d’Arce, il Connestabile Filippo Colonna e il duca di Popoli ricevono la  nomina di gentiluomini di camera d’entrata e il duca Cantelmo di Popoli, è nominato Maestro di Campo, Generale dell’esercito del regno di Napoli (con cinquecento ducati al mese di soldo); questa carica al momento era ricoperta da Giuseppe d’Aozza mantenuta fino a quando il duca non partì per la Spagna.

Il duca di Popoli, era un combattente ed era passato per tutti i gradi nell’esercito e sin da giovane aveva servito nelle Fiandre, in Catalogna, a Orano (in Algeria sotto la Spagna), in Sicilia e Filippo per dimostrargli riconoscenza gli conferisce l’Ordine di San Michele e Santo Spirito; al principe di Castiglione, d’Aquino, oltre alla chiave d’oro è dato il grado di Generale di cavalleria del regno per aver appoggiato il principe di Montesarchio nella cacciata dei ribelli;  il duca di San Vito che aveva fatto parte dei Pari nel giudizio contro i nobili rivoltosi, è nominato Consigliere del Collaterale di cappa e spada; il principe di Santobono è nominato ambasciatore a Venezia; Carlo Carafa dei duchi della Marra è nominato viceré di Orano;  Domenico Recco diventa Generale di battaglia e a Piccolomini di Valle è dato il comando di un terzo dei fanti di stanza in Catalogna; al duca di Laurenzana è riconosciuto il titolo di Grande di Spagna e al duca di Maddaloni che già godeva di questo titolo, gli è riconosciuto in via ereditaria.

Questo riconoscimento gli fu dato alla presenza degli altri Grandi quali il Connestabile Colonna, i principi di Bisignano e Castiglione, il marchese di Torrecuso; Scipione Brancaccio è nominato Governatore perpetuo di Cadice; il duca Coppola di Canzano, Tenente generale della cavalleria straniera a Milano, è promosso Generale di artiglieria con successione a quello di Maestro di Campo; fra’ Carlo Carafa, cavaliere gerosolimitano, è destinato come viceré in Sardegna, in sostituzione del conte di Lemos.

Dopo tutte queste nomine il re era rimasto disgustato per l’enorme quantità di richieste che gli erano ulteriormente pervenute, anche perché si era reso conto delle divisioni che correvano tra i nobili e dell’invidia che ciascuno aveva nei confronti dell’altro!

I consiglieri spagnoli dei francesi, dato il numero eccessivo di richieste, non essendo possibile contentare tutti, avevano suggerito al re di lusingarli, promettendo ... ma senza fare concessioni, “in quanto ciascuno sarebbe stato contento di vedere che anche gli altri non le avevano ottenute”!       

Filippo provvide anche a concedere l’indulto ai carcerati: a suon di tromba è annunciato per tutta la città il generale indulto a favore di tutti i carcerati del regno eccettuati i colpevoli di gravi delitti e gli ufficiali (funzionari) dei banchi che si fossero appropriati di danaro; ai debitori che si trovavano in carcere (per debiti non pagati) veniva concessa la possibilità di essere liberati su cauzione, a condizione che i debiti fossero pagati entro tre mesi, se si trattava di debiti a carattere pubblico o sei mesi se di debiti a carattere privato (o comunque entro il termine assegnato si fossero messi d’accordo con i creditori).

 

 

LA GRANDE CAVALCATA

NON SE NE VIDE MAI

DI PIU’ BELLA

E LA PARTENZA DEL RE

 

 

I

l 20 maggio vi fu la grande cavalcata che sanciva l’ingresso ufficiale del re nella città: Antonio Bulifon che aveva scritto la cronaca del periodo di permanenza di Filippo a Napoli, nel descrivere la cavalcata aveva premesso: “Vi assicuro che difficilmente potrò trovare le parole che bastino a farvi concepire una giusta idea della magnificenza di una tal funzione, che sorpassa ogni forza di umano intendimento. Voi sapete che ho visitato una non piccola parte dell’Europa e mi sono trovato nelle occasioni in cui si vede quanto può valere ogni nazione dalla sua magnificenza, eppure posso dirvi per certo che una più bella non ne vidi mai in tutta la mia vita”.

Il sole (raffigurato nelle monete e negli addobbi...e in Francia a rappresentarlo vi era il re Luigi XIV!), quel giorno era splendente, e poiché le strade che dovevano essere attraversate dalla cavalcata, di norma intasate dal grandissimo e strabocchevole numero di carrozze e di popolo “che non si poteva camminare”! (il problema ancora permane con il traffico automobilistico, grazie alla incapacità di chi si alterna nel governo della città!), venne vietato dal mezzogiorno in poi.

Lungo il percorso era  disposta la milizia con novemila soldati spagnoli, francesi e napoletani; archi trionfali, statue, orchestre, tutto inneggiava alle lodi del re; a Porta Capuana vi era un arco trionfale con rappresentato un sole dorato in atto di dare a Filippo le redini del suo carro, con epigramma; i Seggi erano tutti addobbati e vi erano luminarie per la città con il bellissimo spettacolo notturno, dal mare, delle galee della squadra francese e del regno illuminate.

Era stato vietato ai nobili di farsi seguire da più di sei domestici in livrea, senza ornamenti d’oro o d’argento, ad eccezione del Sindaco; i feudatari a cavallo erano centoquarantasette e sarebbero stati di più, ci dice il cronista, se non vi fosse stato il divieto di usare livree con trine d’oro e d’argento, in quanto molti le avevano fatte preparare a questo modo e non avevano avuto il tempo di farle sostituire; ciascuno aveva al seguito i sei domestici concessi (per avere un’idea della sfilata, solo costoro erano ottocentottantadue!).

Seguivano i quattro ministri della città (il Segretario, il Razionale, lo Scrivano di Razione e il Credenziere) e gli Eletti con roboni di broccato rosso intessuto d’oro e i berrettoni di velluto dello stesso colore con i pennacchi bianchi guarniti di diamanti, preceduti dal loro Maestro delle Cerimonie e ventiquattro mazzieri (ossia portieri del Corpo della Città) vestiti di scarlatto coi bastoni dorati su cui erano dipinte le armi reali e quelle della città e quattro araldi con i bastoni dì argento e in mezzo ad essi il “re delle armi” con lo scettro e lo stemma reale ricamato sul petto e dietro le spalle e quindi il Gran Tesoriere, principe di Ischitella che gettava al popolo monete d’argento di nuovo conio con l’immagine di Filippo.

Seguivano i rappresentanti delle sette cariche del regno, il Connestabile Colonna, il duca Medina Sidonia appena nominato Gran Giustiziere (il quale muterà il titolo di duca con quello di principe in quanto la moglie, come unica erede era succeduta al fratello principe di Stigliano); il Gran Cancelliere, principe di Avellino; il Gran Siniscalco Ravaschiero principe di Satriano; mancavano il Gran Protonotario, principe Doria, che si trovava a Genova; il Gran Camerlengo, marchese del Vasto, proscritto come ribelle e il duca Marzano di Sessa, Grande Ammiraglio che si trovava in Spagna.

Il Sindaco Giovan Battista Capece Minutolo, duca di Valentino, per impossibilità a partecipare aveva chiesto di farsi rappresentare dal figlio primogenito, in rappresentanza del Comune della città; era seguito da otto paggi, sei gentiluomini e sei staffieri;  il viceré  fra due araldi reali e quindi il re circondato dalle guardie svizzere e dagli arcieri detti della Cocciglia; il cavallo del re era portato ai freni da due nobili rappresentanti dei Seggi che si davano il cambio in modo che fossero rappresentati tutti i Seggi; i cardinali Janson e de’ Medici (a cavallo) erano seguiti da ventisette vescovi e altri prelati; seguivano i rappresentanti delle magistrature, il reggimento napoletano di cavalleria e le carrozze vuote del re, viceré, del Sindaco, del duca di Ossuna e marchese di Gregny Governatore delle ami del regno.

La cavalcata partita da Poggio Reale dove era stato allestito un padiglione (costato venticinquemila scudi!), all’esterno in tela bianca seminata di gigli d’oro con gli emblemi dei regni di Spagna e all’interno rivestito di drappi di seta con ricami  d’oro;  la prima tappa è a Porta Capuana dove era stato preparato un trono per il re al quale il duca Nicolò Coppola di Canzano rivolge parole di benvenuto mentre gli Eletti (*) gli presentano le chiavi della città; altra tappa è fatta al Duomo per il giuramento del re, per la osservanza dei Privilegi e Capitoli della città (il 25 maggio nel Duomo si ripeterà il giuramento di fedeltà degli Eletti, dei deputati e vassallaggio feudale al re).

Il Gran Tesoriere principe d’Ischitella gettava monete, il re salutava le dame alle finestre e ai balconi togliendosi il cappello (sul quale scintillava uno smisurato diamante e la grandiosa perla detta “la pellegrina”...la più bella mai vista)!

Dal Duomo la sfilata giunge a Castelnuovo per la cerimonia della consegna delle chiavi: il portone è chiuso, si bussa e il governatore don Antonio Crux in spagnolo chiede: Chi viene? la risposta è: Il re Filippo V; e dall’interno: Viene nell’ora buona; il governatore esce e si inginocchia davanti al re baciandogli la mano e presentando le chiavi su un vassoio d’argento e dice: Qui vi sono le chiavi del castello, le metto ai piedi di vostra maestà e Dio lo guardi;  e il re: Le tenga per me; poi la cavalcata prosegue e termina al palazzo reale.  

Filippo si imbarcherà (venerdì 2 giugno) sulla capitana del regno, seguita da venti galee delle quali due francesi trasportavano equipaggi e un reggimento di cavalleria napoletano; si imbarcarono anche molti gentiluomini per andare a combattere per i francesi  in Lombardia; tra costoro, il principe Giudice di Cellamare, il conte di Montuoro figlio del principe della Riccia, il principe di Leporano, il principe di Scanno e suo fratello Andrea d'Affitto, il marchese Caracciolo di Torrecuso, il marchese di Sant'Eramo, e il principe di Avellino nonostante fosse rammaricato  per non essere stato rimborsato per le enormi spese sostenute da militare in alta Italia l'anno precedente e ciò per non perdere i meriti acquisiti.

Era partito anche Carlo Carafa, fratello di Tiberio, terzogenito del principe di Chiusano al quale il re aveva destinato una pensione; Carlo poco dopo moriva e il re scrisse personalmente al principe una lettera di condoglianze e volle che la pensione destinata a Carlo fosse data a qualcun altro dei suoi figli.

Durante la navigazione le navi si erano avvicinate ai porti del c.d. Stato dei Presidi; giunto a Livorno erano sorti  problemi di etichetta con il granduca Cosimo III che chiedeva che si applicasse il cerimoniale riservato a una testa coronata, che Filippo non volle riconoscere (tra l’altro il re doveva scendere dalla nave mettendo piede su territorio non suo ma del granduca); alla fine Cosimo si contentò della promessa che al duca di Savoia fosse riservato lo stesso trattamento.

Chiarito questo punto, Cosimo si recò sulla nave con la sua famiglia; la granduchessa stava per inchinarsi davanti al re ma egli non glielo permise, abbracciandola e baciandola, considerandola come una zia.

Il giorno successivo le navi si diressero verso Genova dove furono riservati sontuosi preparativi, ma anche a Genova il re non volle scendere e dopo le accoglienze sulla sua nave si dirige a Finale Ligure dove si recò a incontrarlo il principe di Vaudemont e rappresentanti della nobiltà milanese; poi Filippo prosegue per Acqui dove doveva incontrare il duca di Savoia col quale sorgevano gli stessi problemi di etichetta sorti con il granduca di Toscana; il duca, di carattere insofferente, sdegnato se ne tornò a Torino, mentre Filippo si reca a Milano.

Qui lasciamo Filippo a seguire gli scontri tra l’esercito francese comandato dal principe Vendôme e l’esercito austriaco comandato dal principe Eugenio e passiamo direttamente all’arrivo degli austriaci che sostituiscono gli spagnoli nel regno di Napoli e ducato di Milano.

 

 

*) Gli Eletti dei sei Seggi erano: di Capuana, Domenico Crispano; Montagna, Giuseppe Rosso e Nicola Coppola duca di Canzano; Nido, Fabrizio Spinelli della Scalea; Porto, Andrea Venato; Portanova, Matteo Capuano; per quello del popolo, Francesco d’Anna, duca di Castelgrandine.

 

 

IL CAMBIO

DELLA GUARDIA:

 ARRIVANO

GLI AUSTRIACI

 

 

L

'imperatore Leopoldo I (succeduto al fratello Ferdinando IV nel 1657) muore di idropisia nel 1705 e gli succede il figlio Giuseppe I (1678-1711), re dei romani, che avrà un regno breve in quanto muore prematuramente colpito da vaiolo, senza aver avuto figli; gli succede il fratello arciduca Carlo, il quale eredita l’impero col nome di Carlo VI (1685-1740), e, nominalmente, il trono di Spagna.

Come abbiamo visto, Carlo aveva sposato (1708) Elisabetta Cristina di Brunswich-Wolfenbȕttel (1691-1750), che, sebbene la notte gli offrisse soddisfacenti prestazioni (come egli stesso aveva annotato nel suo diario “regina molto affettuosa di notte”!), gli aveva dato solo due figlie femmine Maria-Teresa (che varrà più che un “imperatore”, e nello stesso tempo più che una madre, avendo messo al mondo una caterva di sedici figli!) e Maria Anna, e così si estingue la linea diretta degli Asburgo d’Austria.

Maria-Teresa (1740-80) a diciannove aveva sposato Francesco Stefano di Lorena-Toscana e inaugurerà così la nuova linea asburgica degli Asburgo-Lorena e in  base alla Prammatica Sanzione (1724) predisposta dal padre (che sostituiva la legge salica vigente nella dinastia con la legge borgognona che prevedeva anche la successione della linea femminile), è incoronata regina a ventitre anni.

Maria Teresa non avanza pretese nei confronti dei possedimenti acquisiti dai francesi, in modo che la  corona di Francia rimaneva ai successori di Luigi XIV e quella di  Spagna a Filippo V di Borbone e suoi discendenti; era stato previsto che nel caso quest’ultimo non avesse avuto discendenti, il regno sarebbe passato al duca di Savoia al quale era stata restituita la Savoia e tutti i territori ad essa collegati come le Valli, Casteldefino e Nizza, con i territori conquistati nel Monferrato e milanese.

Filippo V rimasto vedovo di Maria Luisa Gabriella di Savoia, con l’interessamento dell’abate Alberoni, sposa (1714) Elisabetta Farnese che gli porta in dote il ducato di Parma e Piacenza, con i diritti sulla Toscana in quanto discendente da Margherita de’ Medici figlia del Granduca Cosimo III.

Come abbiamo visto (Prima P. Spec.), alla morte di Carlo II di Spagna, Filippo V era stato proclamato re di Spagna a Versailles e si era subito recato a Madrid (1701) prendendo le redini del governo, ma il suo regno sarà turbato dalle pretese, dinastiche e territoriali  dell’Austria, appoggiata dagli inglesi e olandesi.

Gli imperiali combattevano i francesi e gli spagnoli senza che fosse stata dichiarata la guerra che è ufficialmente dichiarata dall’Austria alla Francia e alla Spagna (15.v.1702), combattuta fino alla firma del trattato dell'Aia (7.xi.1702), il quale prevedeva che sarebbero state occupati a garanzia della successione dell'Austria, i Paesi Bassi spagnoli, il ducato di Milano, il Regno di Napoli e Sicilia, i porti della Toscana denominati Stato dei Presidi; agli inglesi e olandesi sarebbe andato tutto quello che avrebbero conquistato nell'America spagnola; la pace si sarebbe fatta di comune accordo e a condizione che Francia e Spagna non sarebbero mai state unificate.

Il trattato - come di norma! -  non viene osservato e le occupazioni diventano appropriazioni, con l’Inghilterra che si impadronisce dei Paesi Bassi spagnoli (v. P. Gen.) mentre l’arciduca Carlo, si reca con l’esercito in Spagna (aiutato dalla marina inglese) e si stabilisce nella ribelle Barcellona (sempre ostile alla unità con il resto del paese e tutt’ora, con la Catalogna, separatista!), dove è proclamato re di Spagna (1706); in questa città è celebrato il suo matrimonio con Elisabetta Cristina, ivi portata da navi inglesi, dove egli la lascerà come  governatrice quando rientrerà a Vienna dopo la morte dell’imperatore Giuseppe I per assumere la corona imperiale.

Durante la sua permanenza a Barcellona molti napoletani si recano alla sua Corte in cerca di fortuna; vi giunge anche Tiberio Carafa accolto dal re con grandi manifestazioni di stima e dopo la sua permanenza, al momento della partenza, gliene dà una dimostrazione  nominandolo Grande di Spagna e concedendogli una pensione di seimila ducati gli dice “che era solo un pegno di ciò che intendeva fare per lui”.

A Barcellona si stava recando anche Telese che aveva noleggiato una nave pirata inglese, con patto fatto con il comandante che non doveva predare navi durante il suo viaggio; ma quando sono nelle acque della Provenza, il comandante vede una nave francese e contravvenendo all'impegno, la insegue a vele spiegate nonostante il cattivo tempo; la nave si rovescia facendo naufragio e tutti muoiono annegati e così termina la vita del controverso duca di Telese.

Dopo che le armate imperiali avevano riportato vittorie nelle Fiandre e nel Nord Italia e avevano occupato Milano, Mantova e le altre piazze della Lombardia, i francesi dovettero ritirarsi; a Vienna finalmente viene dato ordine al conte Wirrico Daun di recarsi a Napoli e gli esuli possono così rientrare, tutti arricchiti dall’imperatore ad esclusione del nobile (ancor più di animo!) Tiberio, che rifiuta il feudo di Sabbioneta e dice di aver lasciato il suo paese con una spada e due pistole e con quelle intende rientrare.

Daun con Martiniz e i generali Vauban, Vetzel, Poté e Giovanni Carafa giungono a Napoli  (7.vii. 1707) e ricevono gli omaggi della città a Porta Capuana; poi si recano al Vescovado ad ascoltare la messa e visitare il tesoro di s. Gennaro (attualmente il più grande esistente al mondo: ... con un’orgia di pietre preziose!), dichiarato da Filippo V Protettore della Città e l’ampolla del suo sangue, dopodiché sfilano per la città.

Il vicerè Ascalona all’arrivo di Daun aveva lasciato presidiati i castelli di Napoli, affidandoli  al duca di Bisaccia (*) e al principe di Cellamare (che avevano tentato di resistere come vedremo più avanti) e si era ritirato a Capua che sarà presa dopo tre mesi di assedio.

Martiniz con il generale Daun prendono provvisoriamente alloggio presso il palazzo del principe Sanseverino dove è fatto un gran ricevimento di nobili e magistrati e un gran pranzo al quale partecipano il nuovo viceré, il generale Daun, Giovanni Carafa, tutti gli ufficiali tedeschi, i nobili napoletani e monsignor Carmignano, vescovo di Cava.

La contessa della Cerra, Cardines, nata Spinelli-Scalea, aveva organizzato nel suo palazzo un pranzo per tutti i parenti al quale partecipa il vecchio principe di Chiusano che rivede il figlio Tiberio dopo sette anni; Tiberio doveva alla contessa la sua gratitudine per averlo tirato fuori dalla congiura e per aver assistito anche la moglie, principessa di Campolieto, che per tutto il periodo di assenza del marito era vissuta nascosta nel convento di san Francesco.

Il governo del viceré Martiniz era durato circa un anno in quanto con il generale Daun non correva buon sangue e i due nutrivano reciproca insofferenza; oltretutto, mentre Martiniz godeva a Vienna delle simpatie dell’imperatore e più ancora dell’imperatrice, non  godeva invece le simpatie del re Carlo il quale si era risentito della nomina di plenipotenziario fatta dal fratello imperatore su suggerimento dell’imperatrice, e il re per ripicca aveva nominato Daun Governatore generale delle armi e plenipotenziario, mandando a lui tutte le disposizioni e ignorando Martiniz.

Costui non ha goduto neanche le simpatie degli storici che lo hanno considerato “di poca levatura e piuttosto stravagante” e di lui avevano anche scritto che  la sua mente confusa e la sua imprudenza gli fecero commettere errori gravissimi, mentre quando si avvaleva degli altrui consigli vi aggiungeva sempre qualcosa di suo, guastando ogni cosa ... e quando faceva da sé era ancor peggio”!

Egli stesso finirà per presentare richiesta di lasciare l’incarico per motivi di salute e così il generale Daun  assume la carica di viceré (1708).

Dopo che gli austriaci avevano occupato la città, i popolani erano andati a dar fuoco alla bottega dello scrittore e tipografo francese Antonio Bulifano che stampava una Gazzetta e aveva parlato molto male del governo austriaco; poi si dirigono  verso Piazza Gesù Nuovo per abbattere una bellissima statua equestre di Filippo V (inaugurata nel 1705 il cui modello si trova al Prado).

Saputo ciò, Tiberio Carafa si reca dal Martiniz per chiedergli di far cessare gli eccessi, ma Martiniz gli risponde che un anno prima (1706) a Barcellona  per ordine del Municipio era stato bruciato un ritratto dell’arciduca Carlo acclamato re di Spagna; alla fine però acconsente a far rimettere l’ordine al quale provvede Tiberio con soldati austriaci e napoletani, anche se non riuscì a salvare la statua, ma impedì che venissero commessi altri eccessi, come pure, riuscì a salvare molti partigiani degli spagnoli. 

Uno per volta, sono ripresi tutti i castelli affidati a Pignatelli e Cellamare che sono fatti prigionieri, senza spargimento di sangue; Castelnuovo con il presidio di cinquecento soldati al comando di Emanuele Borda e Antonio Crux, di Castel dell’Ovo con una guarnigione di centodiciassette soldati al comando di Antonio Carreras; il comandante di  Castel Sant’ Elmo, Rodrigo Correa non voleva arrendersi, ma cede quando gli dicono che sarebbe stato impiccato e la guarnigione passata a fil di spada; il Castello d’Ischia si arrende ai soldati austriaci e locali guidati da Giacomo Liguori; Baia si arrende al generale Wetzel ad opera del principe di Montesarchio che aveva persuaso il comandante Giuseppe Piaciente ad arrendersi.

Carlo III, acclamato re di Napoli, aveva disposto la cacciata di tutti i francesi dal Regno e aveva revocato (31.vii), disponendo che “tutti gli impieghi, uffici e grazie, di qualunque qualità e professione emessi dal duca d’Angiò, debbano restar nulli e cancellati (sebbene in via segreta fosse stato dato incarico al viceré di provvedere “ad interim per gli uffici necessari”, che poi avrebbero dovuto far ricorso per mantenere i loro privilegi).

Furono invece sostituiti tutti gli ufficiali che avevano il comando dell’esercito; fu inoltre disposto l’ “exequatur regium” col quale era il re che confermava tutte le bolle e provvedimenti che provenivano da Roma, emessi dal papa; fu vietata l’alienazione di fondi reali e l’unico utile provvedimento fu la eliminazione di ogni vestigio di Inquisizione; la nobiltà fu accontentata con la conferma di tutti i privilegi concessi dai precedenti monarchi e in campo feudale fu stabilita una successione più ampia, fino al quinto grado (già concessa, come abbiamo visto da Filippo V); infine relativamente alle entrate fiscali...ad ogni buon conto, fu stabilita la loro prescrizione nell’arco di cento anni!

Il giorno 30.vii era stata fissata la cerimonia dell’acclamazione di Carlo III re di Napoli e prima della cerimonia il Vesuvio faceva sentire la sua voce: “Cominciò a vomitare torrenti di fiamme scagliando nell’aria fra tuoni e saette, grossi sassi infuocati”, vi fu quindi una sospensione per la cerimonia alla quale partecipò in gran parata tutta la nobiltà, in particolare quella parte che era stata incline alla Francia...perché non gliene fosse fatta colpa!

Dopo aver concesso una tregua, il Vesuvio (2.viii), si scatena eruttando fumo denso, cenere e fiamme, oscurando completamente il sole; si fece una processione con la statua di san Gennaro seguita dall'arcivescovo e dal viceré, che fu posta su un altare preparato davanti alla chiesa di santa Caterina a Formello: “il vulcano tuonò ancora orribilmente e dopo aver scagliato una smisurata trave di fuoco e innumerevoli saette, l'eruzione cessò”.

Dal momento della occupazione del Regno di Napoli (1707) gli austriaci, a seguito del trattato di Utrecht (1713, in nota in Parte Generale), mentre Filippo V veniva riconosciuto re di Spagna e delle Indie, all’Austria è riconosciuto il ducato di Milano e Mantova, i Presidi di Toscana, la Sardegna e il regno di Napoli dove gli austriaci rimarranno per trent’anni (1734), fino alla nomina del nuovo re che pone termine a due secoli di viceregno durante i quali vi era stato solo un anonimo avvicendamento di viceré (**).

 

 

*)  Nicolò Pignatelli, duca di Bisaccia,  era stato nominato governatore della Sicilia dove stava per recarsi e si trovava per caso ancora a Napoli quando il viceré lo obbliga ad assumere il comando delle milizie; era un ottimo militare e aveva combattuto in Ungheria e nelle Fiandre raggiungendo il grado di tenente generale; aveva sposato l’unica erede di casa Egmont  che gli aveva portato in dote grandi ricchezze.

**) I vicerè austriaci furono; conte Giorgio Adamo Martiniz (1707-1708); maresciallo, conte Wirrico Daun principe di Teano (1708); gli subentra il Cardinal Vincenzo Grimani, (fino al 1710); conte Carlo Borromeo (fino all’aprile 1712);  ritorna il conte Daun (1712-1718).

Nel 1718 Carlo VI rinuncia ai regni di Spagna e Indie in favore di Filippo V, trattenendo i possedimenti italiani, con i vicerè per il Regno di Napoli,  Giovanni Wenceslao conte di Gallas (1719, dall’1 al 19 giugno); Cardinale Wolfgang Hannibal Schrattembach vescovo e principe di Olmutz (fino al febbraio 1721); Marco Antonio Borghese, principe di Sulmona e Rossano (dal febbraio 1721 al febbraio 1722); Cardinale Michael Frederic von Althan  1721-1722; Fra’ Gioacchino Portocarrero Mendoza balio dell’Ordine Gerosolimitano (fino dicembre 1728); conte Luigi Tommaso d’Harrach 1728-1733; conte  Giulio Visconti-Aresi (1733-1744).

 

 

 CON CARLO III

 DI BORBONE

 NAPOLI TORNA

A ESSERE
   CAPITALE DEL REGNO

 

 

A

lla morte del duca di Parma e Piacenza (1731) gli imperiali  occupano i ducati (rivendicati dal papa!), ma il re Filippo manda seimila soldati spagnoli che sbarcano a Livorno e l’Infante Carlo è riconosciuto  duca di Parma e Piacenza e Granduca di Toscana, dopodiché l’esercito comandato dal conte di Montemar è inviato a Napoli e Sicilia a impossessarsi dei due regni per conto di Carlo.

Nel 1734 mentre si combatteva la guerra di successione polacca (1733-38) tra la Francia e la Spagna, Filippo V attacca i possedimenti imperiali in Italia ed è nuovamente proclamato re di Napoli (10.V.1734)

Occorre a questo punto rilevare che i numerosi trattati che intercorrevano tra le potenze belligeranti e si affastellavano l’uno sull’altro, non servivano a risolvere le situazioni concrete; infatti, mentre in essi si disponevano scambi e cessioni di territori, essi nella pratica, continuavano a rimanere occupati dalle truppe e occorreva combattere per riaverli; ciò era avvenuto in diverse parti del Regno di Napoli, ufficialmente assegnato a Filippo V il quale, con l’assenso del primogenito principe delle Asturie (futuro Filippo VI), concede al figlio Carlo il Regno di Napoli. Quivi le truppe spagnole dovettero combattere contro quelle austriache rimaste in diverse piazze della Puglia, tra le quali  quella di Bitonto dove vi furono tra spagnoli e austriaci diverse migliaia di morti; dopo aver conquistato Bari, le truppe spagnole proseguono verso la Sicilia dove non vi furono resistenze e Carlo fu incoronato a Palermo (1735) re delle due Sicilie, come Carlo III (il numero non indicava la numerazione dei regnanti di nome Carlo, ma seguiva il precedente re di Spagna Carlo II).

Con il trattato di Vienna del 1736 (che non era il primo e ve ne sarà un altro nel 1738!) Filippo V e il re di Napoli Carlo III, rinunziano in favore dell’Austria al ducato di Parma e Piacenza che sono assegnate all’imperatore Carlo VI, delle quali prende provvisoriamente possesso il generale Wactedonck a nome del duca Francesco di Lorena (promesso sposo dell’arciduchessa  Maria Teresa).

In questo anno all’età di settantatre anni, dopo lunga malattia è trovato morto nella villa del Belvedere a Vienna (costruita in stile italiano). il principe-condottiero Eugenio di Savoia, colonna portante dell’impero d’Austria.  

L’anno successivo (1737) muore il Granduca di Toscana Gian Gastone, ultimo dei Medici  (ma era ancora vivente la sorella Anna Maria Luigia, vedova dell’elettore Palatino che avanzava le sue pretese successorie) e il principe di Craun ne prende possesso a nome di Francesco di Lorena; il Regno di Napoli e Sicilia e i Presidi sono riconosciuti a Carlo III.

E ancora l’anno dopo (1738), è organizzato il matrimonio del re Carlo al quale è stata destinata la principessa Maria Amalia di Sassonia-Walburg, figlia del re Federico Augusto di Polonia che aveva appena compiuto quattordici anni; sposata per procura è accompagnata dal fratello principe Federico Cristiano a Palmanova, è qui ad attenderla Gaetano Buoncompagno duca di Sora, nominato suo maggiordomo maggiore, il quale con il seguito dopo essersi recato a visitare Venezia e Padova, dopo aver fatto tappa a Loreto, giunge a Portello dove li attende il re Carlo.

A Napoli la nuova regina trova (2 .vii.1738) ad accoglierla il popolo con le strade  addobbate, con archi trionfali e illuminazioni; il re Carlo a ricordo, istituiva l’Ordine dei Cavalieri di San Gennaro che assegnò ai nobili di Napoli e Sicilia e ai Grandi di Spagna; in quest’anno veniva firmato (nel caso ve ne fosse stato bisogno!), un ulteriore trattato a Vienna ...che confermava l’attuale situazione, vale a dire la cessione dei ducati di Parma e Piacenza e Granducato di Toscana a Francesco di Lorena.

Francesco di Lorena e Maria Teresa d’Austria si erano nel frattempo sposati e in viaggio di nozze si recarono nei territori assegnati per prenderne possesso e dopo essersi fermati a Venezia (20 gennaio dell’anno successivo) si erano recati a Firenze che li accolse in gran festa con archi trionfali e illuminazioni.

 

 

LE

REALIZZAZIONI

DI CARLO III

 

 

S

iamo giunti al termine di questo lavoro in cui abbiamo ritenuto inserire la congiura di Macchia in un quadro generale di due secoli del regno di Napoli dove, come abbiamo visto, operava una nobiltà avida e ribelle, sempre in fermento che da una parte mal sopportava l’autorità reale, nonostante fosse da questa gratificata e beneficata, ma dall’altra non era in grado di mostrarsi unita e coesa e quando decideva di rivoltarsi contro finiva sempre per soccombere, come era avvenuto con la congiura di Macchia, ma vi erano stati precedenti di più rilevante portata come la Congiura dei baroni (v. in Specchio dell’Epoca), che il re don Ferrante e suo figlio Alfonso avevano domato con una spaventosa carneficina.

Chiudiamo questo lavoro con un accenno alle realizzazioni di Carlo III che si può considerare il miglior monarca che avesse potuto avere il Regno di Napoli.

Egli, amante dell’arte, aveva dato a Napoli la sua dignità di capitale con la costruzione del magnifico Teatro San Carlo, (inaugurato il giorno del suo onomastico 4.xi.1737); della strepitosa scoperta delle città sepolte (con la eruzione dell’anno 79) di Ercolano e Pompei, patrimonio unico dell’Italia e dell’Umanità (fino ad ora mal gestite, ma nonostante sia stata sostituita la gestione si verificano gli inconvenienti delle assemblee durante le ore di apertura che costringono i turisti, per la maggior parte stranieri, ad attese di ore sotto il sole cocente che costituiscono una vergogna per l’intero Paese, e non è l’unico caso in quanto lo stesso inconveniente si è verificato - ahinoi - anche al Colosseo!).

Carlo III aveva inoltre dato inizio alla costruzione della splendida reggia di Caserta (1752), per la quale il re aveva ottenuto la cessione della proprietà dal conte di Caserta, Michele Gaetani (compensata con il principato di Teano e con altri beni), compiuta solo fino al primo piano al momento della sua partenza per la Spagna (1759) e proseguita dai suoi successori, nonché di altre realizzazioni dell’epoca “settecentesca”, come la Reggia di Capodimonte e di Portici con le famose seterie.

Per quanto riguarda l’assetto istituzionale del regno, il re (assistito da ottimi ministri tra i quali Bernardo Tanucci o giuristi come Genovese e Fortunato) aveva emesso molti provvedimenti riguardanti la giustizia, lo sviluppo del commercio e i rapporti (sempre critici a causa delle sue prevaricazioni!) con la Chiesa.

Era stato emanato il codice c.d. carolino il quale purgava la legislazione napoletana da tutte le precedenti legislazioni che si erano sovrapposte, dalla feudale ed ecclesiastica, alla romana, longobarda, sveva, normanna, angioina, aragonese e spagnola e sarà completato in epoca successiva (1789).

Carlo III aboliva il Consiglio Collaterale (che faceva da sostegno per i viceré) sostituendolo con il Consiglio di Stato; per attivare il commercio il re emise un provvedimento con il quale autorizzava gli ebrei (scacciati da Carlo V e don Pedro Toledo) a rientrare, con permanenza di cinquant’anni, concedendo loro privilegi, franchigie, immunità ed esenzioni e accordando anche un giudice che giudicasse le questioni che insorgessero tra di loro... ma i cattolici fecero valere il loro fanatismo e un padre Pepe, gesuita “uomo di molta virtù” (!)...”non smise di condannare dal pulpito la introduzione di questa gente”; ... giunse anche un cappuccino che ebbe l’ardire di minacciare il re “che non avrebbe avuto figli maschi finché non avesse licenziato gli ebrei”; e l’intollerante storico cattolico scrive: “la dispregevole condotta di costoro, origine della instabilità della loro fortuna e un prudente consiglio, mossero il sovrano a revocare e annullare le grazie concesse”; e il sovrano ordinò con un editto (1547) che nello spazio di nove mesi gli ebrei uscissero dal regno (*)!!!

Nello stesso tempo, in campo commerciale il re Carlo aveva stipulato con il Gran Turco, per mezzo del suo plenipotenziario a Costantinopoli Finocchietti (1740) la libertà di commercio e assicurata la libera navigazione con i regni di Napoli e Sicilia.

Abbiamo visto  (in Parte Generale) che in tutto il periodo del viceregno vi era stata una dura opposizione alla istituzione del Tribunale della Inquisizione; ma gli arcivescovi (non si sa bene quando, ma al momento della nomina ad arcivescovo del cardinale Giuseppe Spinelli (1734), egli trovò tutto già disposto e lasciò le cose come stavano) lo avevano introdotto ugualmente per fare processi segreti e per la cattura per proprio conto, di delinquenti, apponendo al palazzo arcivescovile una targa con scritto “Santo Uffizio”.

Il popolo se ne lamentò con il re, per mezzo dell’Eletto che gli rappresentò che a questo modo venivano turbate le leggi del Regno; il re emise un editto (1746) che aboliva tutto questo apparato, bandì due canonici e dispose che da quel momento si per i processi si dovesse procedere in via ordinaria, con obbligo di comunicazione  dei reati all’autorità secolare e incaricò della vigilanza i Deputati contro il Tribunale del Santo Ufficio (l’editto venne rinnovato nel 1761, da Ferdinando IV), e per evitare ulteriori abusi prescrisse che qualunque disposizione fosse emessa da arcivescovi, vescovi e prelati del regno, dovesse essere emesso previo esame e autorizzazione della Real Camera.

Per i poveri il re Carlo fece costruire (anche a Palermo) un “Albergo per i poveri” (1751) affiancato da una Congregazione laica di vari soggetti, introducendo la originale disposizione (1753) che i notai, quando fossero richiesti di redigere testamenti, richiedessero ai testatori di indicare qualche lascito per l’Albergo ... e non sono che una parte delle realizzazioni (tra le quali la fabbrica dei cristalli e degli specchi) del primo re della dinastia dei Borbone di Napoli.

Nel 1759 in Spagna moriva Ferdinando VI (figlio di Filippo V avuto dalla prima moglie Maria Luisa Gabriella di Savoia) e il nostro re Carlo III andava ad occupare quel trono, lasciando il regno al suo terzogenito Ferdinando (che sarà Ferdinando IV, ma in effetti I del Regno di Napoli e Sicilia).

L’errore storico di Carlo (che comunque risaliva all’epoca dei due vicereami distinti di Napoli e Sicilia) era stato quello di non aver provveduto a una riforma costituzionale uniforme con la Sicilia (rimasta  ultra in tutti i sensi!) che aveva  presupposti diversi del regno citra, in quanto in Sicilia vi era un parlamento nelle mani dei baroni feudatari ciascuno dei quali aveva un numero di voti pari ai feudi posseduti; quindi, mentre il regno di Napoli si era sviluppato sia dal punto di vista politico e culturale, ciò non era avvenuto con la Sicilia; comunque alla fine il cerchio seppur con il diverso sviluppo, si è chiuso in senso negativo per tutti e due gli ex regni dive, ora Meridione d’Italia, quel Meridione che non riesce a svilupparsi rimanendo sempre in uno stato di sottosviluppo rispetto all’altra realtà italiana, ciò che ha consentito alle tre note organizzazioni criminali di insediarsi e dominare il territorio; inutile illudersi che la diuturna lotta delle forze dello Stato possa sradicarle; le forze dello Stato potranno continuare a combatterle, ma ad ogni vittoria conseguita con arresti e sequestri di beni, esse hanno la capacità di rigenerarsi come la mitica “araba fenice” che pur morendo, rinasceva dalle sue ceneri!

 

 

*) Mel momento in cui siamo intenti a scrivere proprio questa parte riguardante la persecuzione degli ebrei le cui sventure hanno sempre avuto la nostra partecipazione, apprendiamo della vittoria in Israele della parte oltranzista (e gli oltranzisti repubblicani USA non hanno mancato di manifestare il loro plauso!), che ha fondato la propria campagna sulla promessa del primo ministro vincitore “di uno Stato di Israele più forte e che non vi sarà alcun riconoscimento di uno Stato palestinese”!

Perdiamo così  quel lume di speranza di un riconoscimento dello Stato palestinese e della cessazione delle ostilità che abbiamo manifestato in altra parte della Rivista (Schede S., Israeliani e Palestinesi), e poiché è nella nostra memoria la tragedia dei campi di concentramento nazisti, non possiamo fare a meno di ritenere che il razzismo e la crudeltà nazista viene ora riversata dagli israeliani estremisti (i moderati, come avevamo già detto, tacciono colpevolmente!) nei confronti dei palestinesi, con lo spettacolo dei campi profughi, muri e filo spinato, che ricordano esattamente quelli nazisti che pensavamo fosse un argomento chiuso con la fine della seconda guerra mondiale!

Possiamo prevedere che se non vi sarà un intervento delle forze occidentali, peraltro attualmente occupate dal nuovo fronte aperto dallo Stato islamico (sul quale, non solo sono incapaci di prendere delle decisioni in quanto tra di esse, sulle modalità di intervento regna solo confusione, ma pensano di muovere critiche sull’operato di Vladimir Putin che è l’unico Capo di Stato a poterlo bloccare), lo Stato forte di Israele finirà per prevalere e prima o poi i pochi palestinesi che attualmente occupano quegli sparuti territori finiranno per scomparire ...come d’altronde vogliono gli oltranzisti israeliani!

 

 

 

 

FINE

PARTE SPECIALE

SECONDA