Luigi XIV rappresentato in tutta la sua Maestà

 

 

VELENI

FILTRI D’AMORE

E MESSE NERE

ALLA CORTE LUIGI XIV

 

LA CAMERA ARDENTE

 

Michele E. Puglia

                                                                                                                             

 

PARTE PRIMA

 

Per gli approfondimenti sulle amanti di Luigi XIV indicate

nell’articolo, si veda “Amanti e favorite del re Sole e di Luigi XV”

 

 

SOMMARIO: L’INIZIO DELLO SCANDALO; LA GRAN FESTA AL CASTELLO DI VAUX; LA RICCHEZZA DI FOUQUET; L’ARRESTO DI FOUQUET; IL PROCESSO A FOUQUET  GLI ABUSI E LA POVERTA’ DEL PAESE; IL MECCANISMO DELLE OPERAZIONI FINANZIARIE DELL’EPOCA;  FRANCOIS VATEL: LA FESTA A CHANTILLY E LE LEIIERE DI M.ME DE SÉVIGNÉ; GAUDIN DE SAINTE-CROIX; LA MARCHESA DI BRINVILLIERS; SAINTE-CROIX ALLA BASTIGLIA; LA BRINVILLIERS AVVELENA IL PADRE; LA BRINVILLIERS AVVELENA I FRATELLI; LA MARCHESA TENTA DI AVVELENARSI; LA MARCHESA MITOMANE PENSA DI AVVELENARE LA SORELLA E LA COGNATA; LA MISTERIOSA CASSETTA; IL CONTENUTIO DELLA CASSETTA; LOUIS REICH DE PENNAUTIER; LA FUGA DELLA BRINVILLIERS E L’ARRESTO; IL PROCESSO E LA CONDANNA ALLA DECAPITAZIONE; LA PERSONALITA’ DELLA BRINVILLIERS. 

                                                                               

 

L’INIZIO

DELLO

SCANDALO

 

 

N

el periodo più brillante del regno di Luigi XIV, in  Francia scoppiava lo scandalo dei veleni in cui si era trovato coinvolto tutto il gran mondo che girava intorno a Versailles e al grande monarca,  non solo, ma verrà coinvolta la stessa sacra persona del re, ignaro, in quanto le polveri, che nelle intenzioni di chi le usava sarebbero servite come filtri d’amore, avrebbero finito per  attentare alla sua stessa vita, avvelenandolo.

All'epoca l'intera faccenda era rimasta avvolta nel mistero, tra i processi che si erano svolti a porte chiuse e la mancata pubblicazione di ciò che si vociferava in quanto, i principali giornali, Gazette de France e Mercure Francais, avevano osservato il più assoluto silenzio.

La stessa M.me de Sevigné (1626-1696) al corrente di tutto ciò che succedeva presso la Corte, all’inizio  ignorava la storia sollevata attorno agli avvelenamenti.  

Peraltro, i verbali originali erano stati bruciati dal re in persona, e soltanto per la meticolosità del capo della polizia Nicolas La Reynie, che aveva annotato tutto in documenti personali, scoperti all'inizio del '900, si erano potuti ricostruire tutti i particolari.

Lo storico che aveva scoperchiato il calderone, era stato Jules Michelet (1798-1874) che aveva gioito nell’aver trovato le tracce dei processi della marchesa Brinvilliers e della Camera Ardente, che gli davano le prove  di descrivere i vizi dell’animo umano  e la decadenza della società del gran secolo.

Michelet oltre ad aver riportato l’argomento nella sua Storia di Francia, aveva scritto un articolo sulla “Decadenza morale del XVII sec.” (in Revue des deux Monde), in cui lamentava che il paese languiva nella miseria e nella desolazione [a parte Versailles che brillava intorno al re]: le terre erano abbandonate (*); l’energia umana si era indebolita, non si facevano figli per il prevalere dei “quattro ministri del diavolo (vino, caffè, tabacco e oppio), offerti al mondo dalla Turchia, da dove il caffè era arrivato in Inghilterra  e poi in Francia (1669) e prima della fine del secolo il tabacco era penetrato dappertutto, e avevano portato il gusto dei piaceri solitari e della ebbrezza non condivisa”.   

Michelet nei due processi della marchesa Brinvilliers (sulla quale A. Dumas e V. Hugo avevano scritto rispettivamente un saggio e un breve romanzo) e della Voisin, aveva visto, nel secolo tanto decantato da Voltaire, l’inesplicabile mostruosità che nella società aveva portato all’aberrazione individuale del senso morale; ma purtroppo, sappiamo che ogni secolo ha le mostruosità e le aberrazioni del senso morale, che gli scrittori hanno il dovere di portare a conoscenza dell’opinione pubblica (come aveva fatto Michelet), per essere d’insegnamento alle generazioni successive, che, purtroppo, per una sorta di malvagia evoluzione, se non commetteranno le stesse aberrazioni e mostruosità ... ne commetteranno  altre ... semplicemente diverse!

In questo contesto si inseriva un altro processo (**), questa volta politico, contro il ministro Nicolas Fouquet dovuto da una parte alla ostentazione delle sue ricchezze che avevano suscitato velenose invidie di tutta la nobiltà che le aveva trasmesse al re, e dall’altra alle perfide manovre di Colbert che intendeva prendere il suo posto.

 

*) Da ciò Michelet aveva  dedotto l’originale idea che nei campi si erano propagate le erbe velenose che avevano dato luogo all’espandersi dell’uso dei veleni; ma sappiamo che in effetti i veleni usati dagli avvelenatori non erano costituiti da erbe ma da prodotti chimici.

**) Tralasciamo il quarto processo contro il cavaliere de Rohan della storica famiglia.

 

LA GRAN FESTA

AL CASTELLO DI VAUX

 

I

l mattino del 17 agosto, giorno in cui il re era stato invitato dal suo ministro Fouquet. per inaugurare il bellissimo castello di Vaux, Luigi   era risentito per l’offesa (ingigantita nella sua mente), fatta da Fouquet alla La Valliére, con l’idea di fare arrestare Fouquet nella sua stessa casa, ma, con gli insegnamenti avuti da Mazzarino sulla dissimulazione, il re decise di aspettare.

Parti da Fontainbleu come se dovesse andare alla guerra, scortato dal corpo di guardia che procedeva il corteo al suono dei tamburi; accompagnavano il re, la regina madre in carrozza,  con le sue dame, Madame in lettiera, con le sue dame e un numeroso seguito di cortigiani.

Sebbene Fouquet fosse uomo di gusto, il fasto appariva grossolano e ostentato; per ospitare i seimila invitati (non solo francesi ma da ogni parte d’Europa) erano stati abbattuti tre villaggi per preparare tutti i dintorni del castello.

La lunga fila di ospiti giunse sul tardi, passato mezzogiorno; attraversata la corte d’onore e il castello ebbe inizio la passeggiata negli stupendi giardini ricchi di statue, figure allegoriche, fontane con giochi d’acqua (ve n’erano più di ottocento!) e la cascata; tutti i condotti erano fatti con tubi di piombo fatto venire dall’Inghilterra e, sotterrati per la prima volta in Francia; poiché il tempo incominciava a scurirsi  si ritenne prudente entrare per la cena: un’altra magnificenza!   

Erano state preparate tovaglie per apparecchiare ottanta tavolate e una trentina di buffet, centoventi dozzine di tovaglioli (di varia manifattura tra le quali le manifatture di Venezia); cinquecento dozzine di piatti fondi d’argento e trentasei dozzine di piatti piani; un servizio in oro massiccio e per di più una zuccheriera in oro massiccio, di un lusso inaudito, che non aveva neanche il re (costo, a detta di tutti,era stato di quarantamila scudi!).

Finito il pranzo si passò alla rappresentazione della commedia di Moliére presente in persona  (era nel periodo in cui stava riscuotendo maggior successo), che presentava lo spettacolo: una conchiglia si aprì e ne uscì una bellissima naiade che recitò un prologo in versi in onore del re; dopodiché fu rappresentata la commedia  les Fcheaux” (gli Importuni):

tutto era stato perfettamente organizzato da Francois Vatel.

 

 

LA RICCHEZZA

 DI FOUQUET  

 

 

N

icolas Fouquet (1615-1680), il nome esatto era Foucquet - convenzionalmente Fouquet (ma per il fratello abate, che faceva il farfallone amoroso con le dame di corte, di cui parleremo in altro articolo, era rimasto il nome originario).

Figlio di un ricco armatore che commerciava con le colonie, per le sue speciali conoscenze nell’attività paterna, era entrato in contatto con il cardinale Richelieu il quale, viste le sue capacità, lo fece entrare nel consiglio della marina e del commercio.

A vent’anni il padre gli fece ottenere la carica di “addetto delle richieste al Parlamento”; quindici anni dopo, il fratello abate, nelle buone grazie di Mazzarino, gli fece avere la carica di procuratore generale, rimasta nel frattempo vacante; nel Parlamento Fouquet rese buoni servizi al cardinale Mazzarino; essendo morto (1653) il duca di Vieuville, sovrintendente delle finanze, questo incarico fu affidato a Fouquet e Servien; nel frattempo quest’ultimo  moriva (1659) e Fouquet rimaneva il solo titolare della carica.

Il decreto di nomina del re riportava una premessa elogiativa che non faceva prevedere la burrasca che si verificherà dopo otto anni di servizio: «nei sei anni precedenti aveva dato prova di prudenza e zelo, la vigilanza che aveva esercitato, l’esperienza acquisita nel lavoro e in altre molteplici occasioni al nostro servizio, assicurano che la carica, per lo svolgimento degli affari e la loro speditezza, non debba essere divisa e possa essere affidata a voi solo: Noi ne saremo ben serviti e il pubblico con Noi».

Nell’anno di nomina (1653) alla sovrintendenza delle finanze, la sua fortuna personale, per sua propria stima, ammontava a un milione seicentomila lire, compreso il valore della sua carica  di procuratore generale per la quale doveva ancora pagare (ricordiamo che le cariche erano pagate dai nuovi titolari) più di quattrocentomila lire.

Al momento della sua disgrazia egli diceva di avere preso a prestito intorno a 12 milioni di lire "Che i miei nemici si fanno carico di prendersi tutti i miei beni a condizione che paghino i miei debiti e lascio loro il resto".

I suoi beni erano costituiti dal castello di Vaux che gli era costato nove milioni (ma il fratello abate gli rimproverava che ne aveva spesi quindici!), tra acquisto terreni, lavori,  abbellimenti e arredamento; anche per la casa  di piacere Saint-Mandé aveva fatto spese considerevoli come per la casa di città in via Petit-Champs e per le fortificazioni a Belle-Isle-sur-mér, di cui aveva avuto il governatorato dalla duchessa de Retz; per di più aveva terreni anche se di medio valore; le spese per la sua casa erano assolutamente esagerate e ammontavano a quattro milioni l'anno!

I suoi nemici dicevano che egli avesse emissari (ambasciatori particolari), nelle principali città d’Europa: per il loro pagamento non sarebbero bastati né i le entrate delle sue cariche, né i suoi beni, né quelli della moglie: E allora, ci si chiedeva, i pagamenti per tutte queste spese, da dove venivano?

 

L’ARRESTO

DI FOUQUET

 

 

I

 due processi dei veleni erano stati preceduti da un altro processo che aveva scosso la società francese, quello contro il ministro Fouquet; questo processo più che giudiziario, era un processo politico, dovuto, come abbiamo detto, alla invidia della nobiltà (suscitata dalla ostentazione della ricchezza e delle spese sostenute da Fouquet), che l’avevano trasmessa al re, e alla lotta feroce condotta nei suoi confronti dal perfido Colbert, che intendeva occupare il suo posto.

La rovina di Fouquet era già stata segnata dal momento in cui Colbert aveva cominciato a lavorare segretamente per il re; il motivo scatenante era stata la grande festa, dalla quale il re era andato via con l’intenzione di vendicarsi di Fouquet.

Questa dell’invidia del re, considerata  una leggenda, era reale; il giovane Luigi infatti, che aveva passato cinque anni tra paure e fughe causate dalla Fronda (cogliendolo dai dieci fino ai quindici anni),  per la prima volta si trovava di fronte a tanto sfarzo di giardini abbelliti da statue e fontane all’esterno, mobili, quadri e arazzi (di cui Fouquet aveva messo su una fabbrica!) e arredamento, che non avevano riscontri nei suoi palazzi di Parigi e in quello di Fontainbleu (sebbene fosse stato notevolmente arricchito da Francesco I); Luigi si ricorderà di tutto questo sfarzo quando farà costruire Versailles. 

Alla irritazione del re per la magnifica festa era da aggiungere l’opera dei cortigiani che accompagnavano il re, che gli avevano fatto perfidamente notare che l’innocente figura rappresentata nello stemma di Fouquet da uno scoiattolo inseguito da una biscia, rappresentasse l’avido ministro, e il motto: “Quo non ascendum? Ou ne monterai-je point?” (Perché non sali? Dove mai non salirò?), aggravava la situazione sulla sua ambizione senza limiti; per di più Luigi covava l’offeso dei corteggiamenti fatti dal ministro a M.lle La Valliére, alla quale l’ingenuo ministro (che aveva costosi capricci con le dame di corte e con le giovanissime dame d’onore della regina), pensando di riuscire, come in altri casi, a ottenere con il danaro i suoi favori , aveva offerto in dono centomila lire (*) che La Valliére aveva rifiutato con indignazione; non solo, ma quando Fouquet si era reso conto di non poter avere il suo amore, aveva peggiorato la situazione, proponendosi come suo confidente! La Valliére indispettita era andata a riferire tutto al re, il quale, sentitosi offeso nella sua persona, aveva concepito per il ministro un odio mortale!

Tutti questi particolari avevano determinato il re a fare arrestare il ministro, mentre si recava a Nantes (5 settembre 1661) dove si trovava la Corte.

Fouquet era procuratore generale del Parlamento e questa carica gli dava la possibilità di essere giudicato dall’assemblea della Camera; Colbert astutamente gli suggerì di vendere la carica e Fouquet accolse il consiglio e la mise in vendita per centoquarantamila franchi, ma tutto questo danaro non servì a salvarlo: il re  dissimulava continuando a fargli favori, e Fouquet fu arrestato durante il viaggmentre si recava a Nantes e portato alla Bastiglia.

 

 

*) Era il doppio di quanto offriva ad altre damigelle: a m.lle de Menneville aveva offerto cinquantamila scudi, costei doveva sposare il duca di Danville il quale approfittò prendendo da Fouquet  tutto il denaro che aveva potuto, e quando Fouquet era stato arrestato il duca ebbe un pretesto onesto per non sposarla e la de Menneville finì in un convento; a un’altra damigella d’onore, Benigne du Fouilloux, sua amante, che aveva sposato il marchese d’Alluye, le aveva assegnato una dote (secondo Sevigné) da far bella figura fino al resto dei suoi giorni!).

 

 

IL PROCESSO A

 FOUQUET 

GLI ABUSI

 E LA POVERTA’

DEL PAESE   

 

 

P

er lo svolgimento del giudizio, su suggerimento di Colbert fu istituita una Camera di Giustizia, composta dal cancelliere (vice presidente) Pierre Seguier, dal primo presidente de Lamoignon e da  ventisei membri scelti tra i funzionati del Consiglio di Stato.

De Lamoignon nel discorso di apertura constatava la deplorevole situazione nella quale  appaltatori e sostenitori  avevano ridotto il reame: due giorni prima dell’arresto di Fouquet, Guy Patin scriveva: “In tutta la Francia i poveracci muoiono di miseria, di oppressione, di povertà e di disperazione”.

Questo quadro rappresentava esattamente le condizioni del paese; nella maggior parte delle province in effetti i contadini morivano letteralmente di fame e nella maggior parte dei casi i campi rimanevano incolti, i lavori erano interrotti a causa delle pesanti imposizioni aggravate dalla carestia.

De Lamoignon non esagerava quando diceva che: “Il popolo si lamenta in tutte le province sotto le mani degli esattori e sembra che tutte le loro sostanze e il loro sangue non fosse sufficiente a soddisfare la sete degli appaltatori. La miseria di questa povera gente è allo stremo, tanto per la continuazione dei mali  che hanno sofferto così per lungo tempo che per l’aumento dei prezzi e la carestia  degli ultimi due anni”.

In questo stesso tempo, era stato emanato un editto (opera di Colbert) nel cui preambolo era detto:  Gli abusi nell’amministrazione delle finanze si erano spinti così lontano che “il re aveva deciso di prendere personalmente conoscenza dei particolari di tutte le ricevute e spese del reame al fine di impedire che qualcuno, per vie illegittime, potesse raggiungere prodigiose fortune dando lo scandaloso esempio di un lusso capace di corrompere i costumi e tutti i principi della pubblica onestà”.     

Qualche giorno dopo una monitoria fu affissa in tutte le chiese del reame per provocare delle denunce contro i finanzieri, e un decreto della Camera vietava a tutti i tesorieri, ricevitori, appaltatori e loro emissari o funzionari delle finanze del re, di uscire, senza autorizzazione, dalla città dove essi si trovavano, sotto pena di essere accusati del crimine di peculato [appropriazione di denaro pubblico], che successivamente con una legge venne punito con la morte; tra l’altro, Fouquet, aveva dato all’avido cardinale Mazzarino, che glieli aveva chiesti in tutti i modi, due anni prima che morisse (1661), cinquantamilioni (una cifra enorme pari a più della metà delle entrate che nel 1659 erano state di 90milioni) (*)!

I capi d’accusa erano:  Crimini di Stato e Malversazione (dilapidazione del denaro pubblico); i Capi si sviluppava in altri più specifici; ciascuno dei capi di malversazione era provato da prove particolari che nell’insieme erano giustificate da tutti i beni, acquisizioni e spese che Fouquet non avrebbe potuto  fare senza far ricorso ai denari del re.

Il processo, ebbe una durata di tre anni, superiore alla normale durata dei processi, a causa di alcune irregolarità emerse contro Fouquet;      l’accanimento nei suoi confronti del presidente Séguier, che si era comportato con estrema durezza nei suoi confronti e il suo malore, avevano suscitato compassione nella opinione pubblica.

Il verdetto finale di condanna al bando perpetuo, rispetto ai reati commessi da Fouquet (che aveva dilapidato denaro pubblico anche per fini personali e il cui lusso sfrenato era in aperto contrasto con le condizioni in cui versava il paese,),  in effetti, non era stato un verdetto severo:  M.me de Motteville lo aveva qualificato “un gran ladro-un grand voleur”!; il re - giustamente - lo aveva mutato con la pena più grave della prigione a vita; essa doveva essere scontata nella cittadina di Pignerol dove Fouquet fu portato accompagnato da cinquanta moschettieri al comando di  D’Artagnan (il capitano che sarà celebrato da A. Dumas).

La salute di Fouquet era in pessime condizioni: egli lamentava di avere le gambe gonfie, la sciatica, le coliche, le emorroidi, i calcoli, la renella, senza contare i raffreddori, il mal di testa, i flussi, i ronzii alle orecchie, gli occhi deboli, i denti minati.

La cosa più giusta da fare, aggiungeva, sarebbe quella di lasciare interamente la cura del corpo e di pensare all'anima; non sappiamo se si fosse preparato per l’anima (aveva nel frattempo scritto libri di pietà), ma la morte (vera) sopraggiunse all’età di sessantacinque anni (6.IV.1680), per apoplessia, ossia infarto (con i sintomi del vomito, senza vomitare, come aveva scritto la Sévigné).

 

*) Oltre a distribuire pensioni  segrete a nobili, faceva doni in danaro ai personaggi più potenti della Corte come al duca di Brancas 600mila lire, al duca di Richelieu 200mila lire, al marchese di Crequy, 100mila lire.

 

 

IL MECCANISMO

DELLE

OPERAZIONI

FINANZIARIE

DELL’EPOCA

 

                                                            

M

a da dove veniva tutto questo danaro, era la domanda sulle esorbitanti spese di Fouquet?

Per avere una risposta (scrive P. Clement in “Colbert”, Paris 1846), bisogna risalire al curioso meccanismo delle operazioni finanziarie dell’epoca, meccanismo pieno di complicazioni, che, a prima vista, dovevano prevenire le malversazioni, tanto dalla parte del sovrintendente, quanto dei tesorieri e finanzieri.

 Il citato Clement dice che questo meccanismo delle operazioni finanziare era  stato analizzato con chiarezza dal barone Walkenaer, e lui le riassumeva nel modo seguente:

Innanzitutto è da considerare che il Sovrintendente delle finanze non era, come si potrebbe credere, un funzionario contabile che  riceveva e dispensava i denari dello Stato: egli era solo un agente ordinatore; quanto al ricevere e al dare [entrate e uscite], esse si facevano  presso il tesoriere del risparmio, solo agente contabile, giudicabile  unicamente da parte della Corte dei Conti.

Il Sovrintendente invece era  giudicabile solo dal re, e ciò significa che egli era esente da qualsiasi controllo come lo era  l’amministrazione delle finanze del regno e la gestione del sovrintendente.

I conti del tesoriere del risparmio e il registro dei fondi spese permettevano di seguire l’insieme e i dettagli  delle operazioni; quindi, il tesoriere del risparmio (ne erano nominati tre che si alternavano a turno  di un anno ciascuno), gestiva durante l’anno e rendeva i conti separatamente per esercizio.

Alcune somme non potevano essere ricevute o pagate per lo Stato, senza che ciò fosse ordinato dal Sovrintendente e riportate nel registro del risparmio, che non menzionavano che la data dell’ordinanza e i fondi su cui esse erano assegnate.

Ma, nello stesso tempo, e presso  il tesoriere in esercizio, era tenuto un altro registro, chiamato registro dei fondi, in cui erano  iscritte, giorno per giorno, tutte le somme versate al risparmio o pagate per esse, con l’origine e i motivi del ricevimento o della spesa e i nomi delle partite.

Il registro dei fondi non era controllato dalla Corte dei Conti, esso rimaneva  segreto tra il re e sovrintendente. Inoltre, l’agente incaricato di questo registro e i tesorieri del risparmio, essendo nominati direttamente dal re, erano completamente indipendenti dal Sovrintendente.

I tesorieri del risparmio si limitavano ad allegare le ordinanze del sovrintendente come pezze giustificative dei loro conti.

Quanto al registro dei conti esso serviva nello stesso tempo a controllare la loro gestione e quella del sovrintendente.

Ecco quali erano i principi e le regole, scrive Clement: sembrerebbe di primo acchito  che dovessero prevenire tutte le malversazioni, tanto dalla parte del sovrintendente quanto dei tesorieri e dei finanzieri.

Ma vediamo, scrive lo storico, come questo ordine così ben esposto, in apparenza così rigoroso, potesse comportare degli abusi.

Perché un’ordinanza fosse pagabile dal risparmio, non era sufficiente che fosse firmata dal sovrintendente; essa doveva portare alla base dell’ordinanza un ordine particolare dello stesso sovrintendente, indicante il fondo speciale su cui essa doveva essere pagata.

Il tesoriere del risparmio non poteva, né doveva pagare, fintanto egli non avesse dei valori appartenenti al fondo su cui l’ordinanza fosse assegnata; ma siccome non ne aveva quasi mai, atteso che le entrate erano, in quest’epoca, spesso spese due o tre anni in anticipo, egli consegnava in cambio dell’ordinanza, un biglietto di risparmio, ossia un mandato sull’appaltatore dell’imposta sul quale essa era assegnata; inoltre, per la facilità degli affari e dei pagamenti, l’ammontare di una stessa ordinanza si suddivideva in diversi biglietti di risparmio.

Vi erano inoltre dei fondi intatti o dove le entrate erano assicurate e prossime all’emissione dei biglietti che le riguardavano, mentre le entrate  di altri fondi erano posticipate o mandate a scadenze ipotetiche.

Da ciò risultavano spesso delle differenze considerevoli nei valori dei biglietti di risparmio; gli uni erano alla pari, altri, più o meno al di sopra del pari, altri, assolutamente senza valore.

Ciononostante essi provenivano  tutti dalla stessa fonte e portavano tutti le stesse firme; ma ciò che appariva più straordinario e incredibile,  era che spesso i biglietti, completamente deprezzati - tanto da finire  nelle mani di qualche povero diavolo - acquistavano più alto valore, passando dal portafoglio di un appaltatore o di un cortigiano in favore, ed era qui che si faceva il più odioso e abominevole traffico.

In effetti, Fouquet e Pelisson, molto spesso deliberavano, per errore o scientemente, delle ordinanze tre o quattro volte superiori ai fondi che dovevano acquistare; facevano allora ciò che si definiva una riassegnazione, vale a dire un nuovo ordine di pagamento su un altro fondo e qualche volta su un altro esercizio.

La stessa operazione si praticava per tutti i biglietti di una data un pò vecchia che non aveva potuto essere pagata sui fondi primieramente designati; perché, più un biglietto era vecchio più era difficile ottenere il pagamento e vi erano quelli che erano così riassegnati cinque o sei volte, spesso su nuovi fondi che finivano nelle mani di persone da niente, o che vivevano di rendita o modesti fornitori; gli altri, appaltatori, curatori e  sostenitori, che erano in grado di fare grandi anticipazioni, concordavano la riassegnazione dei loro biglietti (che si erano procurati in grandi quantità a vil prezzo!) su fondi sicuri ... e di altri esempi, che omettiamo, ve n’erano ancora tanti!

La prodigalità e il disordine amministrativo di Fouquet, valsero alla Francia l’ordine e la probità che Jean-Baptist Colbert (1619- cercò di ricostituire durante il periodo in cui ricoprirà l’incarico di Sovrintendente.

 

FRANCOIS VATEL:

 LA FESTA

A CHANTILLY E

 LE LETTERE DI

M.ME DE SÉVIGNÉ

 

 

D

i questo personaggio sappiamo ben poco e si conoscono solo le due grandi feste, organizzate, la prima del ministro Fouquet a Vaux, la seconda del Gran Condé a Chantilly (con la sua crema rielaborata in questa occasione, da cui aveva preso il nome), ambedue in onore di Luigi XIV.   

Questa  di Chantilly era stata anche l’ultima (ricordata nel film del 2000 con Gerard Depardieu, regia di Roland Joffré), durante la quale Vatel per il ritardo nell’arrivo della fornitura di pesce, credendosi disonorato perché del pesce erano arrivati solo due carri e la cena era importante, perché capitava nel giorno di magro (venerdì) e per la presenza del re.

Vatel era già caduto in depressione perché a una tavola era mancato l’arrosto  ... e il giorno dopo a causa del poco pesce arrivato, ritenendosi  disonorato, si suicidò: ironia della sorte, gli altri carri che portavano pesce in abbondanza arrivarono subito dopo la sua morte!

Vatel, era nato in Francia, la suiua famiglia era di origine alemanna o fiamminga, e il suo cognome era Wattel, come d’altronde si firmava, ma per i francesi che hanno avuto sempre il vezzo di francesizzare tutto ciò che è straniero, era Francois Vatel (1622/27-1671).

Era stato portato alla notorietà per merito di M.me de Sévigné che ne parlava in due lettere inviate alla figlia, una  del 24, l’altra del 26 aprile 1671; nella prima riferiva che: “Il re era giunto a Chantilly la sera precedente e aveva inseguito un cervo al chiaro di luna; aggiungeva che, la luce delle lanterne avevano fatto meraviglie: i fuochi erano stati un pò attenuati dal forte chiarore della luna, ma nel complesso la serata, la cena, i giochi, tutto era andato a meraviglia”.

“Il tempo di oggi”, proseguiva M.me de Sévigné,  “ ci ha fatto sperare in un seguito degno di un così gradevole inizio, ma ecco che apprendo una notizia dalla quale non riesco a riprendermi e per la quale non so neanche io cosa vi mando: è che Vatel, il grande Vatel, maitre d’hotel di M. Fouquet, che attualmente lo è del principe [Condé]; quest’uomo di una capacità distinta da tutte le altre, donde la testa è capace di provvedere alle cure di uno Stato; quest’uomo che io conoscevo, vedendo che alle otto il pesce non è arrivato, non ha potuto sostenere l’affronto dal quale è stato sopraffatto ed è morto per essersi pugnalato. Potete pensare l’orribile accidente che ha causato durante questa festa. Pensate, che il pesce è arrivato quando lui è spirato;. Non dubito  che la confusione sia stata grande; è una cosa spiacevole in una festa da cinquantamila scudi”. 

La seconda lettera del 26 aprile era più dettagliata [Berhoux aveva messo in rima il suo contenuto, pubblicato in “Gastronomie”], e la marchesa riferiva che: “Il re è arrivato giovedì sera; la passeggiata, la merenda fu fatta in posto tappezzato di giunchiglia in cui tutto fu servito a piacere; a cena a qualche tavola era mancato l’arrosto a causa dei molti invitati che non erano stati previsti”.

“Vatel”, proseguiva la scrittrice,  “aveva detto a Gourville (*): La testa mi gira; sono dodici notti che non dormo; aiutatemi a dare gli ordini; Gourville lo aiutò come poté. L’arrosto che era mancato, non alla tavola del re, ma alla venticinquesima  tavola, gli veniva sempre in mente e turbava il suo spirito”.

Gourville lo riferì al principe e il principe si recò nella sua camera e gli disse: “Vatel, tutto va bene, nulla è andato meglio della cena del re”, e lui rispose:  Monsignore, la vostra bontà mi consola ma l’arrosto è mancato a due tavole”; “Non importa, rispose il principe, non fateci caso, tutto è andato bene”.

“A mezzanotte i fuochi”, riprendeva la marchesa,  “non erano ben riusciti a causa delle nuvole, erano costati sedicimila franchi. Alle quattro del mattino Vatel fa un giro e trova che tutti dormono , incontra un portatore che porta solo due carichi di pesce e gli chiede, è tutto qui? Si signore, rispose l’altro, non sapendo che Vatel aveva mandato le sue richieste a diversi porti di mare. Vatel attende qualche tempo gli altri portatori che non arrivavano; la sua testa andò in fumo, egli credette che gli altri non sarebbero arrivati. Vatel incontrò Gourville e riferendosi al ritardo, gli aveva detto: “Signore, io non sopravviverò a questo  affronto”; Gourville si fece beffe di lui, ma Vatel  salì in camera e si pugnalò”

A Chantilly la festa durò due giorni e come tutte le feste di Chantilly consisteva nel divertimento di caccia, pesca, luminarie e pranzi nel bosco, che era migliore di quello di Fontainbleu, di Compiégne e di Versailles e “si prestava alla fortunata alleanza della bellezza della natura, con le sorprese e le magnificenze dell’arte”.

Gourville scrive: “Il re giunse  il 23 aprile,  soggiornò  il 24 e partì il 25. Il duca, che aveva più spirito e più immaginazione di ogni altro uomo che io abbia conosciuto, mi aveva incaricato della organizzazione a Chantilly dove il re e la corte dovevano essere nutriti e gli equipaggi erano da mantenere. Per questo avevo inviato presso diversi villaggi più vicini provviste per uomini e cavalli, e, man mano che essi arrivavano a Chantilly veniva loro dato un biglietto con indicato il villaggio dove dovevano andare ad alloggiare”.

“Vatel”, scrive Gourville  “uomo sperimentato, era controllore presso il principe e l'indomani mattina, che era giorno di magro, quando vide che la provvista di pesce non era arrivata, salì nella sua camera, chiuse la porta dal di dietro e mettendo la spada contro il muro si uccise. Dopo che la porta era stata forzata, vennero ad avvertirmi e la prima cosa che dissi fu di metterlo su un carretto e portarlo alla parrocchia, a mezza lega di distanza, per farlo interrare, e nel frattempo vidi che la fornitura di pesce stava arrivando.

Il principe, avendo saputo della morte di Vatel, fece venire i “maitres d'hotel”, controllori e ufficiali al seguito del re per il servizio non solo della tavola del re ma per le altre tavole e dette tutte le necessarie disposizioni in modo che l'assenza di Vatel non si avvertì minimamente.

Si fece venire da Parigi tutto ciò che riguardava la musica e i musicisti e le carrozze che li avevano portati li accompagnarono nei loro alloggiamenti dove furono serviti a dovere”.

La corte, durante la sua permanenza aveva consumato quattro pasti e quando partì andò a dormire a Compiégne; la  festa era costata quasi centottanta e passa mila lire (tre volte quella indicata dalla Sévigné che aveva fatto comunque riferimento a scudi (**) e non a lire).    

Qualcuno aveva pensato che Vatel si fosse ucciso per essersi innamorato di una dama della corte, dalla quale aveva avuto un rifiuto; ma questa ipotesi era stata esclusa; come poteva, era stato detto, un uomo occupato  dalla venuta della corte a Chatilly, tra i fuochi d’artificio, le sorprese, gli spettacoli, la presenza del re e i pasti per seimila persone, dichiarare la sua passione a una dama, certamente troppo occupata nella sua toeletta, da non aver avuto il tempo per dare udienza a un sospirante? Come mai, era stato detto, M.me de Sévigné, sempre ben informata, non aveva fatto cenno a una simile ipotesi? Essa quindi era da escludersi.

Sulle modalità del suicidio è da dire che Vatel quando aveva messo la spada contro il muro, alla prima spinta la spada non era penetrata completamente nel suo corpo e aveva dovuto spingere una seconda e terza volta.

Quando la notizia fu riferita a Monsieur e questo la riferì tristemente al re, si disse che era stato il suo modo di salvare l’onore alla sua maniera e il suo coraggio fu nello stesso tempo lodato e biasimato.

 

*Jean Herauld de Gourville (1625-1703) autore delle Memoires, da non confondere con Francois de Gourville (1655-1718), autore  di “Histoire des hommes illustres de la France”;ù.

Aveva  iniziato la sua carriera come valletto dell’abate de la Rochefoucault (1643); successivamente segretario del principe di Marillac, al momento dell’arresto dei principi (per la Fronda), aveva avuto modo di mostrare la sua abilità negli intrighi segreti, nel tentativo di evasione dei principi (che egli racconta con dovizia di particolari nelle Memorie), in cui egli aveva agito come intermediario presso i frondisti del Parlamento.

Dopo aver ricoperto la carica di consigliere nel Consiglio del re, era entrato al servizio  del principe di Condé come sovrintendente della casa di Monsignore, dove lo troviamo durante la festa di cui parliamo.                                                                                                                 

 

*) All’epoca la differenza tra lire e scudi era di cinque-sei lire per uno scudo per cui le due cifre più o meno si equivalevano.

 

Saint-Croix e Glazer

 

 

GAUDIN

DE SAINTE-CROIX

 

 

T

utto aveva avuto inizio con la morte (30 luglio 1672) di un gentiluomo di nome Gaudin de Sainte-Croix: si raccontava che era morto nel corso di una operazione chimica in quanto la maschera di vetro che aveva sul viso per ripararsi dai vapori di veleno (mercurio ndr.) si sarebbe rotta; in effetti il decesso era giunto dopo cinque mesi di malattia, probabilmente per le esalazioni dovute alla lavorazione di veleni.

Viveva separato dalla moglie e aveva molti creditori, per questo la moglie aveva chiesto la apposizione dei sigilli: nel suo misterioso domicilio,  che si trovava nel cul-de-sac di Place Maubert, fu mandato il commissario, Picard e il sergente Creuillebois che trovarono: un forno di digestione (l’athanor il forno degli alchimisti per la lavorazione dei metalli,  intendendosi per digestione la cottura alchemica; questo forno, secondo Dumas, era di Glazer che, da quanto egli dice, era morto durante il lavoro, come era morto Sainte-Crroix, perché gli si era rotta la maschera di vetro (*) e la moglie aveva nascosto questi particolari), su un tavolo una carta arrotolata con la scritta “mia confessione” che per scrupolo religioso si decise di bruciare immediatamente, e altro e furono apposti i sigilli alla presenza del commissario Picard, del sergente Creuillebois, di due notai del procuratore della vedova e un procuratore dei creditori

Sainte-Croix si era dato per proprio conto questo predicato, il suo nome era Gaudin, con l’aggiunta di Sainte-Croix, mentre aveva un fratello si chiamava semplicemente Gaudin.

Nel suo quartiere era ritenuto bastardo di un grande casato, onesto, pio, con accesso alla migliore società; aveva un buon tenore di vita  con due servitori, dei portatori, una carrozza, ma non si sapeva gestire.

Aveva esercitato la professione delle armi come capitano di cavalleria prestando servizio nel reggimento de Tracy cavalleria, di cui era  comandante  il marchese di Brinivilliers ; con il comandante e la moglie, Sainte-Croix era entrato in amicizia e al ritorno  dalla guerra era andato come ospite a vivere presso di loro. 

 

*) A. Dumas, a proposito di questa versione della morte di Sainte-Croix, è consapevole dell’altra versione che indichiamo, riportata in nota.

                              

 

LA MARCHESA

DI

BRINVILLIERS

 

 

I

l marchese Antoine Gobelin di Brinvilliers, era figlio di un Presidente della Corte dei Conti, diretto discendente di Gobelin, il fondatore delle celebri manifatture; era divenuto militare (il titolo era recente, ma era imparentato con la migliore nobiltà di Parigi) e amava  la mondanità e i piaceri e non curava molto la sua piccola moglie che aveva sposato (1651) per amore;  lei, nata nel 1630, aveva ventun anni e aveva portato una dote di centomila lire, ma il marito era ricco per suo conto e i due, per l’epoca, godevano di un’ottima posizione economica: avevano avuto cinque figli di cui tre maschi e due femmine.

Figlia di un magistrato, Antoine Dreux d'Aubray, Maria-Maddalena era la figlia maggiore di cinque figli, di cui due fratelli, uno consigliere e l’altro luogotenente e due sorelle di cui una sposata senza figli e l’altra religiosa carmelitana.

Di piccola corporatura, aveva bei capelli castani, il viso rotondo e bello, gli occhi dolci e color blu, la pelle straordinariamente bianca, il naso ben fatto, e nei tratti non aveva niente di sgradevole.

Lei era una ragazza  poco fortunata, ma aveva molta grazia e godeva dell'amicizia di Sainte-Croix con cui chiacchierava: «egli non l'ascoltava, esigeva che lo tenesse occupato, lui la consolava...e alla fine lei si rassegnò» ; Sainte-Croix che studiava alchimia e scriveva di misticismo, le trasmetteva le sue conoscenze.

Tutti tre vivevano in perfetta armonia, il marchese aveva già da diverso tempo un’amante coastosa, Dufay, alla quale la marchesa si era  rassegnata, e più del senso dell’onore amava i piaceri e la sua libertà, al di fuori dell’ambito domestico, per questo non vedeva o non voleva vedere.

 

SAINTE CROIX

ALLA

BASTIGLIA

 

S

e i tre vivevano in perfetta armonia (il legame tra i due amanti era niziato nel 1659), ciò non piaceva al padre della Brinvilliers che aveva un proprio senso morale e aveva ottenuto una lettera di cachet con la quale Sainte-Croix fu arrestato e finì alla Bastiglia (1665), i cui registri, nei diversi tempi, rigurgitano di nomi di avvelenatori italiani.

Qui, durante il suo soggiorno, aveva conosciuto un italiano di nome Exili (il vero nome era Egidi), famoso produttore di veleni; si raccontava fosse stato l’esperto di veleni di donna Olympia Maldachini, amante del papa Innocenzo X, che a dire di Michelet aveva fatto avvelenare centocinquanta persone da cui lei aveva ereditato! (qualche storico indica invece la poco probabile regina Cristina di Svezia  (1626-1689)) ; costui aveva istruito Sainte-Croix sui veleni, per averli appresi da Christophe Glaser presso il quale aveva soggiornato  sei mesi.

Glaser (Cristophe Glazer), tedesco di origine, era chimico e farmacista del re e di Monsieur (fratello minore di Luigi); scopritore del solfato di potassio,  autore  di un Trattato di Chimica (1665);  aveva trovato un tipo di veleno semplice, che non lasciava  tracce e non si scopriva nel corpo del defunto quando era eseguita l’autopsia.

L’Italia era nota per i veleni i cui terribili segreti erano stati ereditati dall’Oriente; i francesi venendo in Italia per fare le guerre si erano appassionati anche al modo usato nelle varie corti per disfarsi dei nemici: il veleno.

L’attrazione di strani personaggi intriganti, affaristi, sedicenti profumieri esperti di veleni, in Francia era iniziata al seguito di Leonardo, Andrea del Sarto e Primaticcio, chiamati alla sua corte da Francesco I.

Poi era giunta Caterina de’ Medici che aveva portato con sé il patrimonio di arte, moda, cibi e astrologia e sulla sua scia erano arrivati  maghi, astrologi, preparatori di filtri e profumieri i quali divennero maestri nell’arte delle polveri (denominate polveri di successione); l’avvelenamento era divenuta un’arte: “venins foudroyants insasissable”, veleni fulminanti inafferrabili ... che non lasciavano nessun segno su chi era stato avvelenato, e chi lo aveva assunto, lo aveva fatto  senza accorgersene .

A. Dumas che aveva avuto modo di accedere a documenti originali, a proposito di Exili scrive con la sua penna dorata, “che non era un avvelenatore volgare ma un grande artista in fatto di veleni come avevano fatto i Medici e i Borgia; per lui la morte era divenuta un’arte e l’aveva sottoposta a regole fisse e positive. Sainte-Croix scrive ancora Dumas, poco a poco aveva preso interesse a questo terribile gioco che mette la vita nelle mani di un solo individuo  ed era stato tanto acuto da uscire dalla Bastiglia come l’allievo che uguaglia il maestro; ciò che egli cercava, scrive Dumas, era un veleno così sottile che i suoi soli effluvi potessero uccidere, come si era verificato con il fazzoletto che uccise il fratello di Carlo VII che si era asciugato il sudore mentre giocava a pallacorda ed era morto, oppure, come si racconta dei guanti di Giovanna d’Albret; questi segreti si erano perduti e Sainte-Croix sperava di ritrovare la formule”.

Alla corte di Caterina giunsero Renato Bianchini detto il Fiorentino (con boutique di “polveri” in pont Saint-Michel) e Cosme Ruggeri (astrologo della regina) e sotto la sua reggenza aumentò molto l’uso dei veleni,  sebbene la regina, ingiustamente accusata, non vi avesse mai fatto ricorso, cosa che non si può affermare per gli appartenenti al suo seguito!

Nel XVII sec. era divenuta famosa   l’acqua tofana  o “acqua di Napoli”; il nome derivava da Giulia Tofana (1569), famosa cortigiana,  fattucchiera e avvelenatrice, alla corte napoletana di Filippo IV di Spagna,  alla quale era attribuito  un  carico di seicento avvelenamenti, tra i quali due papi!

Pare che a Sainte-Croix la Bastiglia avesse portato fortuna, perché era entrato povero e ne era uscito ricco: infatti quando uscì si sposò, prese casa, lacché, portatori, carrozze; aveva  un intendente oltre a due vecchi servitori Giorgio e La Chausée che cedette il primo a Hannyvel, il secondo a madame Brinvillers che a sua volta lo assegnò ai suoi fratelli d’Aubry.

Sainte-Croix riprese la relazione con la Brinvilliers, che si sentiva ferita nell’orgoglio per il suo arresto e un odio violento contro il padre che lo aveva denunciato; la sua morte non solo l’avrebbe vendicata ma le avrebbe portato una cospicua eredità di cui aveva bisogno in quanto, la vita che conduceva, il gioco, le spese con il suo amante, avevano prosciugato la sua fortuna.

I due amanti si recavano in carrozza a Saint-Germaine  dove scesi dalla carrozza, andavano a piedi in rue Petit-Lion alla farmacia di Glaser ... e presto si vide la giovane signora che si recava all’ospedale Hotel de Dieu, e sotto l’aspetto della pietà e della religione, fermandosi davanti al letto dei malati, offriva loro dei dolciumi, vino, biscotti ... ed essi non tardavano a morire tra dolori atroci.

 

 

LA BRINVILLIERS

 AVVELENA IL  PADRE

 

 

D

opo aver sperimentato gli effetti del veleno con biscotti, dolciumi e vino sui malati degli ospedali, la Brinvilliers si decise ad avvelenare il padre.

Costui già soffriva di parecchi mali e si era trasferito (1666) nelle sue terre a Offémont (nell’Oïse, comune di Saint-Craipine-aux-Bois, ma il castello esistente apparteneva al conte Pillet-Will), dove invitò la figlia ad andare a passare due o tre settimane.

Dal momento dell’arrivo della figlia,  i mali del poveretto  raddoppiarono, ogni giorno erano più violenti, fino a quando egli morì a Parigi (1666), dove si era fatto trasportare, per ricevere cure migliori dai medici parigini ... assistito dalla figlia che lo aveva accompagnato.

La Brinvilliers confesserà che lei stessa lo aveva avvelenato  per ventotto o trenta giorni  con le sue stesse mani, servendosi del suo servo di nome Gascon che le aveva dato Sainte-Croix, e che l’avvelenamento era durato  otto mesi e non sapeva spiegarsene la ragione, sebbene lei avesse ogni volta raddoppiato la dose; la polvere usata era normale arsenico e il padre soffriva di vomito continuo e  violento che lo condusse alla morte.

Da questo momento la Brinvilliers non ebbe più freni morali anche per la sua sessualità e, oltre a Sainte-Croix, aveva avuto numerosi amanti per volta! 

Da Sainte-Croix aveva avuto due bambini che andavano ad aggiungersi a   quelli avuti dal marito; nel frattempo era divenuta amante del marchese Pouget de Navaillac, cugino di suo marito; prese per amante un suo cugino germano, dal quale ebbe un figlio e infine accordò i suoi favori al precettore dei suoi bambini, Briancourt.

Le spese e le prodigalità non tardarono a ridurre l’eredità paterna anche se la parte più considerevole di questa nuova successione era andata ai due fratelli di cui uno era intendente a Orleans e l’altro consigliere della Corte: per questo la Brinvilliers aveva pensato di farli assassinare; Sainte-Croix si era mostrato d’accordo dietro promessa di venticinquemila lire per il primo e trentamila per il secondo fratello.

 

 

LA BRINVILLIERS

AVVELENA

I FRATELLI

 

                                                                                           

N

el 1669 la Brinvilliers  aveva assunto, in qualità di servo, un miserabile di nome Jean Hamelin, detto La Chaussée, che aveva mandato presso il secondo fratello; i due fratelli, il consigliere e il luogotenente abitavano nella stessa casa e La Chaussée  poteva facilmente distribuire il veleno ad ambedue somministrandolo nell’acqua o nella minestra o nelle torte.

Un giorno che egli serviva il luogotenente, la dose che aveva messo nel bicchiere era così forte che il luogotenente alzatosi, gridò: “Miserabile cosa mi hai dato? Credo che tu voglia avvelenarmi” E ordinò al suo segretario di annusarlo; il segretario prese un cucchiaio e  annusando sentì un vivo odore di vetriolo. La Chaussée non si perdette d’animo e disse “E’ senza dubbio il bicchiere di cui si è servito Lacroix, il valletto di camera, che al mattino ha preso la medicina”, e si precipitò a versare il contenuto nel camino.

Il luogotenente si era recato in una sua campagna a Villequoy (in Beauce) per passare con la famiglia le feste di Pasqua (1670) e il fratello consigliere era della partita. Il luogotenente portò con sé un solo domestico che era La Chaussée, il quale durante il soggiorno aiutava il cuoco e serviva a tavola una torta di rigaglie; tutti quelli che la mangiarono l’indomani stettero male, quelli che non la mangiarono stavano bene; tornando a Parigi il luogotenente aveva il viso di chi aveva estremamente sofferto.

Anche questo avvelenamento era stato orribile in quanto l’avvelenamento non aveva fatto subito il suo effetto e La Caussée glielo somministrava in ogni momento; il corpo del luogotenente era divenuto puzzolente da non poter entrare nella camera, il malato era di cattivo umore e non si poteva avvicinarlo; la Brinvilliers evitava le visite e mandava la sorella. La Chaussée era l’unico che serviva il suo padrone e lo spostava dal letto sul materasso e dal materasso al letto.

Lo sfortunato soffriva un male incredibile e La Chaussée arrivava a escalamare tra sé e sé : “Questo  individuo langue bene! fa proprio pena! non so quando creperà”!

La Brinvilliers era a Sains in Piccardia e raccontava a Briancourt il precettore dei suoi figli divenuto suo amante, che era occupata ad avvelenare suo fratello il consigliere; spiegava che aveva in animo di metter su una “buona  casata” con il figlio maggiore che già chiamava Presidente che un giorno avrebbe occupato la carica di luogotenente civile di d’Aubry, aggiungendo che aveva ancora qualcosa da fare; essa cercava dio elevare i suoi figli, “che erano la sua carne”, diceva, conformemente ai sogni brillanti che nutriva per l’avvenire della sua casata ... e incominciò ad avvelenare la propria figlia, che trovava “sciocca”, ma poi ebbe un pentimento e le dette da bere del latte.

Per lei vivere con onore significava  un brillante seguito, dei begli ornamenti, un gran tenore per la casa e intrattenere i suoi amnti in maniera magnifica: doveva essere “la gloria del mondo”, l’espressione le veniva spesso sulle labbra: era stato per l’onore che aveva avvelenato tante persone!

Le sofferenze del fratello luogotenente, durarono tre mesi; egli dimagriva, diveniva secco - dichiarava il medico - aveva perso l’appetito, vomitava continuamente, gli bruciava lo stomaco”; morì nel mese di giugno (1670), mentre il fratello consigliere morì nel settembre successivo: Questa volta i chirurghi, Duvaux e Dupré, e il farmacista Gavart, dopo l’autopsia dichiararono che il luogotenente era morto avvelenato ma non trovarono testimoni in quanto il silenzio di La Chaussée era costato cento scudi; per questi avvelenamento, poiché il delitto era ritenuto  inconcepibile,  la polizia non svolse indagini.

Dopo la morte del padre e dei suoi due fratelli l’onore e la vita della Brinvilliers erano nelle miserabili mani di La Chaussée che lei riceveva nella sua saletta privata dove gli dava delle monete, dicendo: “E’ un buon ragazzo, mi ha reso buoni servizi”; i visitatori che arrivavano all’improvviso la trovavano con lui in grande familiarità; un giorno  che  era  giunto il signor Consté per farle visita, lei lo fece nascondere tra il letto e il muro.

 

  LA MARCHESA

TENTA  DI

AVVELENARSI

 

 

S

ainte-Croix era un complice più temibile di La Chaussée, e quale non fu il suo dolore quando poco a poco la marchesa si rese conto che quest’uomo, al quale aveva tutto sacrificato, aveva visto in lei uno strumento di piacere e di fortuna  e approfittava per spillarle danaro con i più volgari mezzi di intimidazione?

Sainte-Croix aveva conservato in una cassetta che doveva diventare famosa, trentaquattro lettere che la marchesa gli aveva scritto, le  obbligazioni di danaro per l’avvelenamento dei due fratelli e diverse piccole fiale che contenevano diversi tipi di veleno.

La marchesa insisteva con Sainte-Croix per avere la sua cassetta e voleva che costui le restituisse un biglietto contenente una sua promessa di pagamento di tremila pistole, altrimenti lo avrebbe fatto pugnalare.

La marchesa, poco prima che andassero a porre i sigilli all’appartamento di Sainte-Croix, disperata e presa da terrore, aveva pensato di avvelenarsi e gli aveva scritto un biglietto in cui gli riferiva di questo proposito e che avrebbe preso  il veleno che lui le aveva donato e che proveniva da una ricetta di Glaser, dicendogli che gli sacrificava la sua vita e che prima di morire voleva avere la possibilità di vederlo in qualche luogo per un ultimo saluto.

Il veleno che Sainte-Croix le aveva mandato era arsenico che lei assunse per suicidarsi, ma dopo averlo bevuto, pentitasi, bevve una gran quantità di latte caldo che la salvò, ma per qualche mese non stette molto bene.

 

 

LA MARCHESA

MITOMANE

PENSA DI AVVELENARE

LA SORELLA

E LA COGNATA

 

 

L

a marchesa, da buona mitomane, come si direbbe oggi, andava  raccontando in giro le sue faccende e prima della morte di Sainte-Croix andava raccontando che aveva fatto di tutto per impadronirsi della cassetta e se fosse riuscita in questo intento,  l’avrebbe fatto sgozzare; quando parlava con qualcuno portava la conversazione sui suoi misfatti, arrivando a parlare di veleni al primo venuto, mentre in casa i domestici trovavano flaconi di arsenico sparse nel suo bagno.

Un giorno in cui aveva bevuto un pò troppo, nella sua camera aveva tra le mani una specie di cassetta e diceva alle domestiche “che aveva di che vendicarsi dei suoi nemici e che aveva in quel recipiente diverse eredità

termine che ebbe fortuna nel processo dove il veleno fu chiamato “polvere delle eredità o polvere delle successioni”. 

La marchesa non mostrava alcun rimpianto per l’uccisione dei suoi due fratelli mentre piangeva solo quando parlava di suo padre.

Aveva come discepola la signorina Villeray (1673), e probabilmente per assicurarsi il suo silenzio la avvelenò; poiché raccontava tutto a Briancourt, che testimonierà nel processo, costui riferiva che la marchesa un giorno entrò nella sua camera come una furia dicendogli che non si fidava di lui in quanto gli aveva raccontato cose che  avrebbero potuto rovinarla; egli le rispose con le lacrime agli occhi che poteva fidarsi e se lei ne avesse dubitato, lui se ne sarebbe andato; lei si rabbonì dicendogli “so che sarete discreto, io farò la vostra fortuna, ne sono convinta”, poi chiamò Sainte-Croix col quale si trattenne molto: la Brinvilliers confesserà al processo che questo Briancourt era figlio di Sainte-Croix.

Dopo aver avvelenato il padre e i due fratelli, la Brinvilliers aveva pensato di sbarazzarsi anche della sorella Marie-Therése d’Aubray, vedova del luogotenente civile Mangot, e di sua cognata Marie-Therese Mangot.

Briancourt le chiese di riflettere in quanto già aveva assassinato crudelmente il padre e due fratelli e ora voleva assassinare anche la sorella e nella storia dell’antichità non si era mai visto un esempio di tanta crudeltà e perversità, alle quali l’aveva portata Sainte-Croix; e  lui aveva cercato di far avvertire la signora d’Aubry  per mezzo di m.lle Villeray che sarà successivamente avvelenata.  

La Brinvilliers aveva pensato di avvelenare lo stesso Briancourt che censurava le sue azioni, e costui raccontava che Sainte-Croix aveva messo nella casa della Brinvilliers un portiere, parente di La Chausseée, e un servo di nome Bazile, che aveva il compito di servirgli da mangiare e da bere, ma con le sue furbizie lo maltrattava a tal punto che la marchesa dovette licenziarlo.

 

 

LA MISTERIOSA

CASSETTA

 

L

a Brinvilliers che inutilmente aveva cercato di riavere anche col denaro la cassetta, non essendo riuscita ad averla, partì, facendosi  rappresentare dal suo procuratore  Delamarre,  che dichiarò che nella cassetta vi era una promessa di pagamento per  trentamila lire (ovvero tremila pistole sopra indicate) che la marchesa avrebbe fatto annullare.

La marchesa si era recata a Picpus dov’era il commissariato e dopo aver fatto chiamare il sergente Cluet col quale parlò nella sua carrozza, gli disse che aveva una gran pena per la cassetta e che avrebbe donato cinquanta luigi d’oro per riaverla; essa aggiunse che ciò che la cassetta conteneva era del sig. Pennautier e che non avevano concertato nulla insieme.

Sapendo che alcuni documenti riguardavano costui, la marchesa aveva pensato di coinvolgerlo per approfittare della sua posizione e della sua influenza. Cluet rispose che non poteva far niente senza il commissario Picard e la marchesa si recò da lui che le fece dire di non poterla ricevere  se non l’indomani mattina.

La mattina seguente Picard ricevette la visita del procuratore Delamarre  che curava gli interessi della marchesa, il quale gli disse che la cassetta era di estremo interesse per la marchesa, “che avrebbe donato tutto quello che egli potesse desiderare al mondo”; dal commissario si era recato anche un uomo vestito di nero (era Briancourt) dicendogli che la marchesa gli avrebbe dato tutto ciò che avrebbe desiderato, ma i due emissari non ottennero alcuna soddisfazione.

Uno scritto di Sainte-Croix, chiedeva umilmente che la cassetta fosse  consegnata alla Brinvilliers, che abitava in rue Neuve-Saint-Paul, il cui contenuto apparteneva solo a lei.

 

 

IL CONTENUTO

DELLA CASSETTA

 

 

A

ll’apertura dei sigilli erano presenti il commissario Picard, assistito dal sergente Creuillebois e Delamarre in rappresentanza della marchesa e  i sigilli furono tolti (11 agosto 1672).

Nella cassetta furono trovate le trentaquattro lettere della marchesa, le due obbligazioni per l’assassinio dei fratelli e del padre; infine, una ricevuta e una dichiarazione di restituzione di un prestito al marchese e marchesa Brinvilliers di diecimila lire, prestate da  Pennautier, ricevitore generale del clero.

Queste due dichiarazioni erano in una busta su cui era scritto “Carta da restituire al sig. Pennautier, come a lui appartenente di cui prego umilmente la consegna”; vi erano inoltre due pacchetti, uno contenete sublimato corrosivo,  e l’altro mezza libbra di sublimato, un altro sei once, in due dosi di vetriolo romano, un altro ancora mezza oncia di sublimato, un altro del vetriolo calcinato; in un pacchetto piegato due dracme di sublimato corrosivo in polvere; in un altro pacchetto piegato, un’oncia di oppio, un pezzo di regolo d’antimonio del peso di tre once, infine un pacchetto contenente sei confezioni per quindici libbre di sublimato; vi era inoltre un piccolo barattolo contenente pietra infernale (o caustico lunare: nitrato d’argento); su una busta era scritto: Per arrestare la perdita di sangue femminile; e infine un pacchetto su cui vi era la scritta “Diversi segreti curiosi” (un insieme di veleni e prodotti alchemici con ventisette pezzi di carta ciascuno contenente una ricetta per la sordità, ricetta per ottenere la pietra filosofale (*).

A Parigi sia Pennautier sia la Brinvilliers ne fecero oggetto di conversazione! La Brinvilliers diceva di Pennautier: “Se io lo disgusto pioverà su Pennautier”.

Vi era un altro personaggio che si era opposto ai sigilli: era La Chuassée il quale sosteneva di aver lasciato i suoi guadagni, frutto di sette anni di servizio presso Sainte-Croix, dietro la finestra del gabinetto, con un biglietto che indicava che il danaro era suo; ma quando il commissario gli aveva detto che sarebbe stata aperta la cassetta, La Chausser  se ne fuggì; fu arrestato da un ufficiale di polizia, Thomas Regnier (4.sett.1672), e accusato di avvelenamento.

Processato allo Chatelet (antica fortezza adattata a Palazzo di Giustizia), resistette alla tortura dei legni alle gambe, ma poi spontaneamente confessò i suoi crimini, fu condannato a morte (23,febbr.1673) e arrotato vivo mediante smembramento sulla ruota; la Brinvilliers fu condannata in contumacia alla decapitazione.  

La Brinvilliers pensò di andare a far visita a Pennautier ma non lo trovò e lui saputo ciò, andò a cercarla presso il Commissariato di Picpus (Pique-Puce in faubourg Saint-Antoine)); nell’interrogatorio dopo l’arresto, gliene fu chiesto il motivo ed egli rispose che  non ritenendola colpevole aveva pensato di farle i complimenti, come aveva fatto in altre occasioni; egli aggiungeva che i due signori Brinvilliers gli avevano prestato trentamila lire ed egli ne era estremamente grato.

 

*) La formula della pietra filosofale di Sainte-Croix, ci sembra piuttosto semplice, in quanto non indica l’elemento fondamentale quale lo zolfo, e neanche parla del mercurio sofico che era il preparato di mercurio e zolfo: Prendete dello spirito e versatelo su otto oncc di mercurio nel matraccio (recipiente a forma di pallone con collo lungo e fondo piatto), mettetelo sul fuoco di sabbia del forno di digesione e per evitare che il matraccio rischi di rompersi, spalmate il tutto; mettete...mancano alcune parole e lasciatelo per otto giorni al loro scadere la pietra sarà pronta; nel caso la pietra non sia dura, date ancora dodici ore di cottura aggiungendo due grossi (due ottavi di oncia) di spirito!  Per fare lo spirito o per aumentare quello che avete, prendete quattro porzioni di argento e granaglia con una di spirito e li mischiate, mettendo per mezz’ora sul fuoco di sabbia!

 

LOUIS REICH DE

PENNAUTIER

 

L

ouis Reich Pennautier da semplice cassiere, per suoi meriti, aveva raggiunto gli alti gradi della carriera burocratica come tesoriere del clero e tesoriere di Stato (equivalente a ministro) e infine era divenuto collaboratore di Colbert.

Era un bell’uomo, galante, e aveva molto spirito, e si era fatto strada anche nel gran mondo; ma un bel giorno, accomunato alla Brinvilliers, con questa, era stato citato dal luogotenente civile (22 agosto 1672) per l’esame delle scritture trovate nella cassetta di Sainte-Croix.

L’arresto aveva suscitato la meraviglia, anche dei suoi avversari, che avevano scritto con veritiera ironia, che “toccato da un sentimento di civiltà egli esponeva gli interessi e la fortuna; l’eccesso del suo senso di civiltà gli aveva fatto dimenticare i propri interessi; il carattere di quest’uomo era raro e meraviglioso e egli stesso era stato la causa del suo ’arresto”.

I suoi rapporti con il marchese e la marchesa si fondavano su un prestito che essi avevano fatto a Pennautier, di trentamila lire e lui aveva cercato di dimostrar loro tutta la sua riconoscenza; ma la Brinvilliers lo aveva coinvolto perfidamente nelle sue trame.

Infatti, Pennautier verrà arrestato (15 giugno 1676) a causa dei biglietti  della Brinvilliers, che non dicevano nulla di particolare, ma avevano messo la polizia in condizione di sospettare che vi fossero dei rapporti di intelligenza tra lui e Sainte-Croix

Se i biglietti della Brinvilliers facevano nascere dubbi a carico di Pennautier, era sopraggiunta come un macigno l’accusa di Marie Vosser vedova di Hannyvel de Saint-Laurent, predecessore di Pennautier nella carica di ricevitore del clero, che, come una furia, aveva eccitato l’opinione pubblica.    

La Vosser accusava Pennautier di aver avvelenato il marito (morto il 2 maggio 1669), per succedergli nella considerevole carica occupata da Hannyvel: essa con l’aiuto di un buon avvocato aveva raccolto la documentazione - che poteva servire al caso -  costituita da libelli che correvano per le strade!

La rapida fortuna di Pennautier, lungi dall’agevolarlo, gli aveva procurato molti nemici; la gente guardava con stupore la sua influenza e la sua ricchezza da cui nasceva l’invidia (come si era verificato per Fouquet); la nobiltà lo invidiava apertamente.

Egli durante il suo interrogatorio aveva risposto con netta chiarezza, presentando una memoria in cui sosteneva la falsità dell’accusa fattagli dalla vedova di Saint-Laurent e su cui i suoi avversari fondavano l’accusa contro di lui.

Mi accusano di aver avvelenato Saint-Laurent”, sosteneva Pennautier, “ma hanno provato che egli fosse morto avvelenato? E’ singolare che mi incolpino di un crimine che non ho commesso, dal memento che i medici avevano accertato che egli era morto di morte naturale; é ben strano, - aveva poi aggiunto - che la vedova mi abbia  accusato dopo sei anni dalla morte”. 

Pennautier fu quindi prosciolto e, uscito di prigione (27 luglio), fu  reintegrato nelle sue alte funzioni; egli giocò un ruolo importante nello sviluppo del commercio e dell’industria francesi sotto la direzione di Colbert, del quale era stato uno dei più attivi e intelligenti collaboratori.

 

 

LA FUGA DELLA

BRINVILLIERS

E L’ARRESTO

 

 

L

a Brinvilliers nel frattempo era fuggita a Londra dove conduceva una vita miserabile in preda alla paura, e per il  processo era  intervenuto personalmente Luigi XIV chiedendo che esso fosse istruito e si facesse luce in maniera completa.

All’Inghilterra era stata chiesta l’estradizione della Brinvilliers (novembre-dicembre 1672), l’ambasciatore presso il re d’Inghilterra marchese Colbert de Croissy,  fratello del ministro; il re fece sapere che non si poteva far procedere all’arresto da parte di ufficiali inglesi, ma a seguito dell’intervento del ministro Colbert, il re inglese si convinse per l’arresto, nel momento in cui la Brinvilliers lasciava l’Inghilterra partendo pei i Paesi Bassi.

Per mezzo del marchese di Brinvilliers, la marchesa con i propri figli e la servitù si era installata nel castello di Offémont, appartenente, con i circostanti terreni, alla successione del suocero e dei suoi due cognati assassinati dalla moglie; il re con due letteres de cachet le ingiungeva di lasciare il castello e fermarsi a tre leghe di distanza per permettere a M.me Antoine d’Aubray, vedova del luogotenente, di entrare nel possesso dei beni.

La marchesa sarà arrestata a Liegi (marzo 1676) dove si era rifugiata in un convento, dopo aver peregrinato in diverse città tra Londra  a Liegi; era stata prima a Cambrai, poi a Valenciennes in un convento e da qui a Liegi; quando era a Valenciennes aveva chiesto al marito di raggiungerla ma il marito aveva rifiutato “per timore di essere avvelenato come gli altri” (la Brinvilliers aveva già tentato di avvelenare il marito che era stato salvato da Sainte-Croix), Michelet scrive: !avvelenava per piacere, per amicizia,per carità, che so io! In un convento avendo visto una novizia chwe piangeva perché i suoi parenti la costringevano al chiostro, lei disse: Calmatevi essi non vivranno, me ne incarico io”!

Durante il viaggio da Liegi a Parigi aveva tentato il suicidio, una prima volta con un pezzetto di vetro che aveva nascosto tra i denti, ingoiandolo dopo averlo masticato, ma non fece alcun effetto; l’arciere che le faceva da guardia, l’aveva ripresa dicendole “siete una donna malvagia, dopo aver messo le mani nel sangue della vostra famiglia, volete fare altrettanto su di vo”i; lei rispose: “se l’ho fatto è stato per i  malvagi consigli” (!).

Una seconda volta, in cui aveva fatto un altro tentativo,in una maniera peggiore, le fu rimproverato: “Ah, miserabile, vedo che vi volete annientare voi che avete avvelenato i vostri fratelli”; e lei rispose: “Si ho avuto un buon consiglio. Vi sono spesso dei cattivi momenti” (!).

Il terzo tentativo era stato ritenuto troppo spinto per parlarne, sebbene gli arcieri ne avessero dato una esatta descrizione,  ritenuta non riferibile e si era fatto ricorso a una perifrasi, per dire dove la marchesa aveva infilato un bastone: “indovinate dove?”, era scritto in un biglietto  di Emanuel de Colange, mandato da M.me de Sevigné a M.me de Grignon: “non nell’occhio, non nell’orecchio, non nel naso e neanche alla turca” (sedere)! ... senza riuscire nel suo intento!

Il re aveva richiesto fosse interrogata prima di arrivare a Parigi, e fu interrogata a Méziéres, ma l’interrogatorio non aveva avuto nessun risultato in quanto a ogni domanda la marchesa aveva risposto o di non sapere o di non ricordare.

 

 

IL PROCESSO E

LA CONDANNA ALLA

DECAPITAZIONE

 

 

Q

uando la Brinvilliers era stata arrestata a Liegi, nella sua camera erano stati trovati dei fogli che costituivano appunti di una sua confessione: C’era di tutto! Le parti più scabrose erano scritte in latino! Quei fogli avrebbero fatto la felicità di uno psichiatra; a leggerli si capisce subito che la Brinvilliers, al minimo  non aveva equilibrio psichico ... e, come era naturale, al processo dirà che quelle pagine le aveva scritte in un momento “in cui aveva lo spirito disperato, non sapeva ciò che stava facendo, che aveva lo spirito alienato trovandosi in un paese straniero, senza il soccorso dei parenti, ridotta a prendere in prestito uno scudo”.

La confessione è un misto di crimini eclatanti e puerilità in cui dice di aver dato fuoco a una casa; che prima di sette anni aveva peccato (in latino: peccavisse cum fratre) con il proprio fratello; che a sette anni era stata stuprata (stupravit) da un ragazzo; che aveva, inoltre, utilizzato un ramoscello sul proprio corpo ... e qui la frase rimane interrotta: si può sospettare delle sue prime pulsioni erotiche che col tempo, da ciò che lei stessa racconta, risulteranno ingigantite!; che aveva avvelenato il padre per l’offesa da lui ricevuta per aver fatto arrestare il marito; che si era molte volte augurata la morte dei fratelli e della sorella; che aveva avuto rapporti con un cugino (duecento volte!) e con un cugino di suo marito (trecento volte!) e così via!

Al processo (che si svolse dal 29 aprile al 16 luglio 1676) la marchesa negò e respinse, con ostinazione, tutte le accuse che le vennero rivolte, dando prova di una forza di volontà e di una energia che non mancarono di sorprendere gli stessi giudici: per tutta la durata del processo il suo viso rimase impassibile!

 

 

LA PERSONALITA’

DELLA BRINVILLIERS

 

 

Il 15 luglio all’ultima udienza la marchesa apparve per l’ultima volta davanti ai giudici e il presidente de Lamoignon, nel corso di tre ore passò in rassegna tutta la sua vita criminale e lei non si smentì, negò tutto fino a non sapere cosa fosse il veleno o cosa fosse l’antidoto.

Il Presidente de Loignon aveva cercato di stimolarla dal punto di vista umano, per cercare di smuoverla dalla sua indifferenza; parlandole della sofferenza della malattia del padre, l’aveva invitata a fare una riflessione sulla sua cattiva condotta che le aveva attirato i rimproveri della sua famiglia e di coloro che avevano condiviso con lei la vita corrotta; e, aveva  aggiunto che il peggiore di tutti i crimini non era quello di aver avvelenato suo padre e i suoi fratelli, ma di aver cercato di avvelenare se stessa; e de Loignon l’aveva trattenuta ancora mezz’ora su questi argomenti: lei era rimasta impassibile con lo sguardo duro dei suoi occhi azzurri, e l’unica cosa che aveva detto era “di avere una pena nel suo cuore”!.

Il Presidente, per senso di umanità e pensando di alleviare il suo spirito prima della esecuzione, aveva nominato un teologo della Sorbona per assisterla; era il gesuita Edmuond Pirot, che aveva acquistato fama discutendo le teorie di Leibniz; Pirot riporterà le conversazioni con la Brinvilliers in due volumi (scritti alla maniera di una relazione con ripetizioni e lungaggini) e se scritti in maniera più appropriata, era stato detto, avrebbero potuto essere considerati un monumento di letteratura tragica, paragonati al “Fedra” il capolavoro di Racine, scritto nello stesso periodo.

Pirot, a dire di Michelet, era nuovo a questa esperienza ed era un uomo di spirito mediocre ma di cuore sensibile che si scioglieva in lacrime e si lasciava contagiare dalla emozione; Pirot che spaventato dalla reputazione della Brinvilliers trovò che il mostro era una donna piccola, dagli occhi blu, dolce e bella, senza alcun segno di cattiveria: adorata da chi la guardava, che non faceva che piangere.

A Pirot confessa di aver ucciso il padre e i fratelli, afflitta anche per suo marito, al quale scrisse una lettera piena di affetto.

A questo punto viene da chiedersi come una donna così fragile, che ispirava tenerezza e commozione (oltre ai pianti di Pirot, si era commosso lo stesso boia nel prepararla per la decapitazione!), avesse potuto commettere delitti così raccapriccianti.

Nessuno di tutti coloro che si erano occupati della marchesa si era preoccupato di esaminare questo duplice aspetto della personalità della marchesa, neanche Lombroso (*), che pur aveva citato il caso degli avvelenamenti  (nel suo libro La femme criminelle Paris, 1896): l’unico a metterci sulla buona strada era stato J. Michelet, sulla base di una risposta data dalla marchesa a Pirot, “della sua predestinazione al suo arresto” e, senza dubbio, aggiunge M., anche dei suoi crimini.

Michelet ritiene Pirot uno scolastico privo di spirito, senza alcuna penetrazione (di pensiero), perché altrimenti il teologo, avrebbe approfondito questo aspetto (della predestinazione).  

M. scrive che a questo punto occorre sapere quale ascendente avesse avuto Sainte-Croix sulla marchesa e quale fu il misticismo di cui egli scrivesse, e ritiene che: “Per indurla a commettere tali atti una giovane donna dolce e devota, egli dovette trasmettere, oltre alla passione, una perversione della ragione”.

“I precursori di Molinos (**), prosegue M., che da lungo tempo propagavano le loro idee a Parigi, insegnavano che il peccato è la scala per salire al cielo; poi i suoi successori divinizzarono la morte; la beata Maria d’Aguada credeva di santificarsi uccidendo  dei bambini e riteneva di farne degli angeli”.

“La morte morale era la loro perfezione, la morte fisica era una perfezione superiore, un sollievo di questa vita di miseria, un dolce riposo dell’anima in Dio. Questo misticismo di Sainte-Croi0x - conclude Michelet -  insegnava troppa indifferenza alla morte, alla vita, alla distinzione delle due vite, mortale e immortale per fornire alle tentazioni del crimine dei sofismi assassini: non è senza pericolo esagerare così il niente,  quaggiù”,

 

*) Sembra che le tanto criticate teorie lombrosiane sulla predisposizione dell’individuo a commettere reati stanno cominciando ad essere affermate dalle “neuroscienze” che nello studio del cervello umano hanno riscontrato delle diversità tra le persone normali e le persone dedite alla criminalità.

**) Miguel de Molinos, presbitero (1628-1696) autore della Guida Spirituale che ebbe grande diffusione.

 

 

 

FINE

 

PRIMA PARTE