Luigi
XIV rappresentato in tutta la sua Maestà
VELENI
FILTRI
D’AMORE
E MESSE
NERE
ALLA
CORTE LUIGI XIV
LA
CAMERA ARDENTE
Michele
E. Puglia
PARTE PRIMA
Per gli approfondimenti sulle amanti di Luigi XIV
indicate
nell’articolo, si veda “Amanti e favorite del re
Sole e di Luigi XV”
SOMMARIO:
L’INIZIO DELLO SCANDALO; LA GRAN FESTA AL CASTELLO DI VAUX; LA RICCHEZZA DI FOUQUET;
L’ARRESTO DI FOUQUET; IL PROCESSO A FOUQUET GLI ABUSI E LA POVERTA’ DEL PAESE; IL
MECCANISMO DELLE OPERAZIONI FINANZIARIE DELL’EPOCA; FRANCOIS VATEL: LA FESTA A CHANTILLY E LE
LEIIERE DI M.ME DE SÉVIGNÉ; GAUDIN DE
SAINTE-CROIX; LA MARCHESA DI BRINVILLIERS; SAINTE-CROIX ALLA BASTIGLIA; LA
BRINVILLIERS AVVELENA IL PADRE; LA BRINVILLIERS AVVELENA I FRATELLI; LA
MARCHESA TENTA DI AVVELENARSI; LA MARCHESA MITOMANE PENSA DI AVVELENARE LA
SORELLA E LA COGNATA; LA MISTERIOSA CASSETTA; IL CONTENUTIO DELLA CASSETTA; LOUIS
REICH DE PENNAUTIER; LA FUGA DELLA BRINVILLIERS E L’ARRESTO; IL PROCESSO E LA
CONDANNA ALLA DECAPITAZIONE; LA PERSONALITA’ DELLA BRINVILLIERS.
L’INIZIO
DELLO
SCANDALO
N |
el
periodo più brillante del regno di Luigi XIV, in Francia scoppiava lo scandalo dei veleni in
cui si era trovato coinvolto tutto il gran mondo che girava intorno a Versailles
e al grande monarca, non solo, ma verrà coinvolta
la stessa sacra persona del re, ignaro, in quanto le polveri, che nelle
intenzioni di chi le usava sarebbero servite come filtri d’amore, avrebbero finito
per attentare alla sua stessa vita, avvelenandolo.
All'epoca
l'intera faccenda era rimasta avvolta nel mistero, tra i processi che si erano
svolti a porte chiuse e la mancata pubblicazione di ciò che si vociferava in
quanto, i principali giornali, Gazette de
France e Mercure Francais, avevano
osservato il più assoluto silenzio.
La
stessa M.me de Sevigné (1626-1696) al corrente di tutto ciò che succedeva
presso la Corte, all’inizio ignorava la
storia sollevata attorno agli avvelenamenti.
Peraltro,
i verbali originali erano stati bruciati dal re in persona, e soltanto per la
meticolosità del capo della polizia Nicolas La Reynie, che aveva annotato tutto
in documenti personali, scoperti all'inizio del '900, si erano potuti
ricostruire tutti i particolari.
Lo
storico che aveva scoperchiato il calderone, era stato Jules Michelet (1798-1874)
che aveva gioito nell’aver trovato le tracce dei processi della marchesa Brinvilliers e della Camera Ardente, che gli davano le prove di descrivere i vizi dell’animo umano e la
decadenza della società del gran secolo.
Michelet
oltre ad aver riportato l’argomento nella sua Storia di Francia, aveva scritto un articolo sulla “Decadenza morale del XVII sec.” (in
Revue des deux Monde), in cui lamentava che il paese languiva nella miseria e
nella desolazione [a
parte Versailles che brillava intorno al re]: le terre erano abbandonate (*); l’energia umana si era indebolita, non si
facevano figli per il prevalere dei “quattro ministri del diavolo (vino, caffè,
tabacco e oppio), offerti al mondo dalla Turchia, da dove il caffè era arrivato
in Inghilterra e poi in Francia (1669) e
prima della fine del secolo il tabacco era penetrato dappertutto, e avevano portato
il gusto dei piaceri solitari e della ebbrezza non condivisa”.
Michelet
nei due processi della marchesa Brinvilliers (sulla quale A. Dumas e V. Hugo
avevano scritto rispettivamente un saggio e un breve romanzo) e della Voisin,
aveva visto, nel secolo tanto decantato da Voltaire, l’inesplicabile mostruosità che nella società aveva portato
all’aberrazione individuale del senso morale; ma purtroppo, sappiamo che
ogni secolo ha le mostruosità e le aberrazioni del senso morale, che gli
scrittori hanno il dovere di portare a conoscenza dell’opinione pubblica (come
aveva fatto Michelet), per essere d’insegnamento alle generazioni successive,
che, purtroppo, per una sorta di malvagia evoluzione, se non commetteranno le
stesse aberrazioni e mostruosità ... ne commetteranno altre ... semplicemente diverse!
In
questo contesto si inseriva un altro processo (**), questa volta politico,
contro il ministro Nicolas Fouquet dovuto da una parte alla ostentazione delle
sue ricchezze che avevano suscitato velenose invidie di tutta la nobiltà che le
aveva trasmesse al re, e dall’altra alle perfide manovre di Colbert che
intendeva prendere il suo posto.
*)
Da ciò Michelet aveva
dedotto l’originale idea che nei campi si erano propagate le erbe
velenose che avevano dato luogo all’espandersi dell’uso dei veleni; ma sappiamo
che in effetti i veleni usati dagli avvelenatori non erano costituiti da erbe
ma da prodotti chimici.
**)
Tralasciamo il quarto processo contro il cavaliere de Rohan della storica
famiglia.
LA
GRAN FESTA
AL
CASTELLO DI VAUX
I |
l
mattino del 17 agosto, giorno in cui il re era stato invitato dal suo ministro
Fouquet. per inaugurare il bellissimo castello di Vaux, Luigi era risentito per l’offesa (ingigantita
nella sua mente), fatta da Fouquet alla La Valliére, con l’idea di fare arrestare
Fouquet nella sua stessa casa, ma, con gli insegnamenti avuti da Mazzarino
sulla dissimulazione, il re decise di aspettare.
Parti
da Fontainbleu come se dovesse andare alla guerra, scortato dal corpo di
guardia che procedeva il corteo al suono dei tamburi; accompagnavano il re, la
regina madre in carrozza, con le sue
dame, Madame in lettiera, con le sue dame e un numeroso seguito di cortigiani.
Sebbene
Fouquet fosse uomo di gusto, il fasto appariva grossolano e ostentato; per
ospitare i seimila invitati (non solo francesi ma da ogni parte d’Europa) erano
stati abbattuti tre villaggi per preparare tutti i dintorni del castello.
La
lunga fila di ospiti giunse sul tardi, passato mezzogiorno; attraversata la
corte d’onore e il castello ebbe inizio la passeggiata negli stupendi giardini
ricchi di statue, figure allegoriche, fontane con giochi d’acqua (ve n’erano
più di ottocento!) e la cascata; tutti i condotti erano fatti con tubi di
piombo fatto venire dall’Inghilterra e, sotterrati per la prima volta in
Francia; poiché il tempo incominciava a scurirsi si ritenne prudente entrare per la cena:
un’altra magnificenza!
Erano
state preparate tovaglie per apparecchiare ottanta tavolate e una trentina di
buffet, centoventi dozzine di tovaglioli (di varia manifattura tra le quali le
manifatture di Venezia); cinquecento dozzine di piatti fondi d’argento e
trentasei dozzine di piatti piani; un servizio in oro massiccio e per di più
una zuccheriera in oro massiccio, di un lusso inaudito, che non aveva neanche il
re (costo, a detta di tutti,era stato di quarantamila scudi!).
Finito
il pranzo si passò alla rappresentazione della commedia di Moliére presente in
persona (era nel periodo in cui stava
riscuotendo maggior successo), che presentava lo spettacolo: una conchiglia si
aprì e ne uscì una bellissima naiade che recitò un prologo in versi in onore
del re; dopodiché fu rappresentata la commedia
“les Fcheaux” (gli Importuni):
tutto
era stato perfettamente organizzato da Francois Vatel.
LA
RICCHEZZA
DI FOUQUET
N |
icolas
Fouquet (1615-1680), il nome esatto era Foucquet - convenzionalmente Fouquet
(ma per il fratello abate, che faceva il farfallone
amoroso con le dame di corte, di cui parleremo in altro articolo, era
rimasto il nome originario).
Figlio di un
ricco armatore che commerciava con le colonie, per le sue speciali conoscenze
nell’attività paterna, era entrato in contatto con il cardinale Richelieu il
quale, viste le sue capacità, lo fece entrare nel consiglio della marina e del
commercio.
A vent’anni
il padre gli fece ottenere la carica di “addetto
delle richieste al Parlamento”; quindici anni dopo, il fratello abate,
nelle buone grazie di Mazzarino, gli fece avere la carica di procuratore
generale, rimasta nel frattempo vacante; nel Parlamento Fouquet rese buoni
servizi al cardinale Mazzarino; essendo morto (1653) il duca di Vieuville, sovrintendente delle finanze, questo
incarico fu affidato a Fouquet e Servien; nel frattempo quest’ultimo moriva (1659) e Fouquet rimaneva il solo
titolare della carica.
Il decreto di
nomina del re riportava una premessa elogiativa che non faceva prevedere la
burrasca che si verificherà dopo otto anni di servizio: «nei sei anni
precedenti aveva dato prova di prudenza e zelo, la vigilanza che aveva
esercitato, l’esperienza acquisita nel lavoro e in altre molteplici occasioni
al nostro servizio, assicurano che la carica, per lo svolgimento degli affari e
la loro speditezza, non debba essere divisa e possa essere affidata a voi solo:
Noi ne saremo ben serviti e il pubblico con Noi».
Nell’anno
di nomina (1653) alla sovrintendenza delle finanze, la sua fortuna personale,
per sua propria stima, ammontava a un milione seicentomila lire, compreso il
valore della sua carica di procuratore
generale per la quale doveva ancora pagare (ricordiamo che le cariche erano
pagate dai nuovi titolari) più di quattrocentomila lire.
Al
momento della sua disgrazia egli diceva di avere preso a prestito intorno a 12
milioni di lire "Che i miei nemici
si fanno carico di prendersi tutti i miei beni a condizione che paghino i miei
debiti e lascio loro il resto".
I
suoi beni erano costituiti dal castello di Vaux che gli era costato nove
milioni (ma il fratello abate gli rimproverava che ne aveva spesi quindici!),
tra acquisto terreni, lavori, abbellimenti
e arredamento; anche per la casa di
piacere Saint-Mandé aveva fatto spese considerevoli come per la casa di città
in via Petit-Champs e per le fortificazioni a Belle-Isle-sur-mér, di cui aveva
avuto il governatorato dalla duchessa de Retz; per di più aveva terreni anche
se di medio valore; le spese per la sua casa erano assolutamente esagerate e
ammontavano a quattro milioni l'anno!
I
suoi nemici dicevano che egli avesse emissari (ambasciatori particolari), nelle
principali città d’Europa: per il loro pagamento non sarebbero bastati né i le
entrate delle sue cariche, né i suoi beni, né quelli della moglie: E allora, ci
si chiedeva, i pagamenti per tutte queste spese, da dove venivano?
L’ARRESTO
DI
FOUQUET
I |
due processi dei veleni erano stati preceduti
da un altro processo che aveva scosso la società francese, quello contro il
ministro Fouquet; questo processo più che giudiziario, era un processo
politico, dovuto, come abbiamo detto, alla invidia della nobiltà (suscitata
dalla ostentazione della ricchezza e delle spese sostenute da Fouquet), che
l’avevano trasmessa al re, e alla lotta feroce condotta nei suoi confronti dal perfido
Colbert, che intendeva occupare il suo posto.
La
rovina di Fouquet era già stata segnata dal momento in cui Colbert aveva
cominciato a lavorare segretamente per il re; il motivo scatenante era stata la
grande festa, dalla quale il re era andato via con l’intenzione di vendicarsi
di Fouquet.
Questa
dell’invidia del re, considerata una leggenda, era reale; il giovane Luigi infatti,
che aveva passato cinque anni tra paure e fughe causate dalla Fronda
(cogliendolo dai dieci fino ai quindici anni),
per la prima volta si trovava di fronte a tanto sfarzo di giardini
abbelliti da statue e fontane all’esterno, mobili, quadri e arazzi (di cui
Fouquet aveva messo su una fabbrica!) e arredamento, che non avevano riscontri
nei suoi palazzi di Parigi e in quello di Fontainbleu (sebbene fosse stato
notevolmente arricchito da Francesco I); Luigi si ricorderà di tutto questo
sfarzo quando farà costruire Versailles.
Alla
irritazione del re per la magnifica festa era da aggiungere l’opera dei
cortigiani che accompagnavano il re, che gli avevano fatto perfidamente notare
che l’innocente figura rappresentata nello stemma di Fouquet da uno scoiattolo
inseguito da una biscia, rappresentasse l’avido ministro, e il motto: “Quo non ascendum? Ou ne monterai-je point?”
(Perché non sali? Dove mai non salirò?), aggravava la situazione sulla sua
ambizione senza limiti; per di più Luigi covava l’offeso dei corteggiamenti fatti
dal ministro a M.lle La Valliére, alla quale l’ingenuo ministro (che aveva
costosi capricci con le dame di corte e con le giovanissime dame d’onore della
regina), pensando di riuscire, come in altri casi, a ottenere con il danaro i
suoi favori , aveva offerto in dono centomila lire (*) che La Valliére aveva rifiutato
con indignazione; non solo, ma quando Fouquet si era reso conto di non poter
avere il suo amore, aveva peggiorato la situazione, proponendosi come suo
confidente! La Valliére indispettita era andata a riferire tutto al re, il
quale, sentitosi offeso nella sua persona, aveva concepito per il ministro un
odio mortale!
Tutti
questi particolari avevano determinato il re a fare arrestare il ministro, mentre
si recava a Nantes (5 settembre 1661) dove si trovava la Corte.
Fouquet
era procuratore generale del Parlamento e questa carica gli dava la possibilità
di essere giudicato dall’assemblea della Camera; Colbert astutamente gli
suggerì di vendere la carica e Fouquet accolse il consiglio e la mise in
vendita per centoquarantamila franchi, ma tutto questo danaro non servì a
salvarlo: il re dissimulava continuando
a fargli favori, e Fouquet fu arrestato durante il viaggmentre si recava a
Nantes e portato alla Bastiglia.
*)
Era il doppio di quanto offriva ad altre damigelle: a m.lle de Menneville aveva
offerto cinquantamila scudi, costei doveva sposare il duca di Danville il quale
approfittò prendendo da Fouquet tutto il
denaro che aveva potuto, e quando Fouquet era stato arrestato il duca ebbe un
pretesto onesto per non sposarla e la de Menneville finì in un convento; a
un’altra damigella d’onore, Benigne du Fouilloux, sua amante, che aveva sposato
il marchese d’Alluye, le aveva assegnato una
dote (secondo Sevigné) da far bella
figura fino al resto dei suoi giorni!).
IL
PROCESSO A
FOUQUET
GLI
ABUSI
E LA POVERTA’
DEL
PAESE
P |
er
lo svolgimento del giudizio, su suggerimento di Colbert fu istituita una Camera di Giustizia, composta dal
cancelliere (vice presidente) Pierre Seguier, dal primo presidente de Lamoignon
e da ventisei membri scelti tra i
funzionati del Consiglio di Stato.
De
Lamoignon nel discorso di apertura constatava la deplorevole situazione nella
quale appaltatori e sostenitori avevano ridotto il reame: due giorni prima
dell’arresto di Fouquet, Guy Patin scriveva: “In tutta la Francia i poveracci muoiono di miseria, di oppressione, di
povertà e di disperazione”.
Questo
quadro rappresentava esattamente le condizioni del paese; nella maggior parte delle
province in effetti i contadini morivano letteralmente di fame e nella maggior
parte dei casi i campi rimanevano incolti, i lavori erano interrotti a causa
delle pesanti imposizioni aggravate dalla carestia.
De
Lamoignon non esagerava quando diceva che: “Il
popolo si lamenta in tutte le province sotto le mani degli esattori e sembra
che tutte le loro sostanze e il loro sangue non fosse sufficiente a soddisfare
la sete degli appaltatori. La miseria di questa povera gente è allo stremo,
tanto per la continuazione dei mali che
hanno sofferto così per lungo tempo che per l’aumento dei prezzi e la
carestia degli ultimi due anni”.
In
questo stesso tempo, era stato emanato un editto (opera di Colbert) nel cui
preambolo era detto: Gli abusi
nell’amministrazione delle finanze si erano spinti così lontano che “il re aveva deciso di prendere personalmente
conoscenza dei particolari di tutte le ricevute e spese del reame al fine di
impedire che qualcuno, per vie illegittime, potesse raggiungere prodigiose fortune
dando lo scandaloso esempio di un lusso capace di corrompere i costumi e tutti
i principi della pubblica onestà”.
Qualche
giorno dopo una monitoria fu affissa
in tutte le chiese del reame per provocare delle denunce contro i finanzieri, e
un decreto della Camera vietava a tutti i tesorieri, ricevitori, appaltatori e loro
emissari o funzionari delle finanze del re, di uscire, senza autorizzazione,
dalla città dove essi si trovavano, sotto pena di essere accusati del crimine
di peculato [appropriazione di denaro pubblico], che successivamente con una legge venne punito
con la morte; tra l’altro, Fouquet, aveva dato all’avido cardinale Mazzarino,
che glieli aveva chiesti in tutti i modi, due anni prima che morisse (1661), cinquantamilioni
(una cifra enorme pari a più della metà delle entrate che nel 1659 erano state
di 90milioni) (*)!
I
capi d’accusa erano: Crimini di Stato e Malversazione
(dilapidazione del denaro pubblico); i Capi si sviluppava in altri più
specifici; ciascuno dei capi di malversazione era provato da prove particolari
che nell’insieme erano giustificate da tutti i beni, acquisizioni e spese che Fouquet
non avrebbe potuto fare senza far
ricorso ai denari del re.
Il
processo, ebbe una durata di tre anni, superiore alla normale durata dei processi,
a causa di alcune irregolarità emerse contro Fouquet; l’accanimento
nei suoi confronti del presidente Séguier, che si era comportato con estrema
durezza nei suoi confronti e il suo malore, avevano suscitato compassione nella
opinione pubblica.
Il
verdetto finale di condanna al bando perpetuo, rispetto ai reati commessi da
Fouquet (che aveva dilapidato denaro pubblico anche per fini personali e il cui
lusso sfrenato era in aperto contrasto con le condizioni in cui versava il
paese,), in effetti, non era stato un
verdetto severo: M.me de Motteville lo
aveva qualificato “un gran ladro-un grand
voleur”!; il re - giustamente - lo aveva mutato con la pena più grave della
prigione a vita; essa doveva essere scontata nella cittadina di Pignerol dove
Fouquet fu portato accompagnato da cinquanta moschettieri al comando di D’Artagnan (il capitano che sarà celebrato da
A. Dumas).
La
salute di Fouquet era in pessime condizioni: egli lamentava di avere le gambe
gonfie, la sciatica, le coliche, le emorroidi, i calcoli, la renella, senza
contare i raffreddori, il mal di testa, i flussi, i ronzii alle orecchie, gli
occhi deboli, i denti minati.
La
cosa più giusta da fare, aggiungeva, sarebbe quella di lasciare interamente la
cura del corpo e di pensare all'anima; non sappiamo se si fosse preparato per
l’anima (aveva nel frattempo scritto libri di pietà), ma la morte (vera)
sopraggiunse all’età di sessantacinque anni (6.IV.1680), per apoplessia, ossia
infarto (con i sintomi del vomito, senza vomitare, come aveva scritto la
Sévigné).
*)
Oltre a distribuire pensioni segrete a
nobili, faceva doni in danaro ai personaggi più potenti della Corte come al
duca di Brancas 600mila lire, al duca di Richelieu 200mila lire, al marchese di
Crequy, 100mila lire.
IL
MECCANISMO
DELLE
OPERAZIONI
FINANZIARIE
DELL’EPOCA
M |
a
da dove veniva tutto questo danaro, era la domanda sulle esorbitanti spese di
Fouquet?
Per
avere una risposta (scrive P. Clement in “Colbert”,
Paris 1846), bisogna risalire al curioso meccanismo delle operazioni
finanziarie dell’epoca, meccanismo pieno di complicazioni, che, a prima vista,
dovevano prevenire le malversazioni,
tanto dalla parte del sovrintendente, quanto dei tesorieri e finanzieri.
Il citato Clement dice che questo meccanismo delle
operazioni finanziare era stato analizzato
con chiarezza dal barone Walkenaer, e lui le riassumeva nel modo seguente:
Innanzitutto
è da considerare che il Sovrintendente
delle finanze non era, come si potrebbe credere, un funzionario contabile
che riceveva e dispensava i denari dello
Stato: egli era solo un agente ordinatore;
quanto al ricevere e al dare [entrate
e uscite],
esse si facevano presso il tesoriere del risparmio, solo agente
contabile, giudicabile unicamente da
parte della Corte dei Conti.
Il
Sovrintendente invece era giudicabile solo dal re, e ciò significa che egli
era esente da qualsiasi controllo come lo era l’amministrazione delle finanze del regno e la
gestione del sovrintendente.
I
conti del tesoriere del risparmio e
il registro dei fondi spese
permettevano di seguire l’insieme e i dettagli
delle operazioni; quindi, il tesoriere
del risparmio (ne erano nominati tre che si alternavano a turno di un anno ciascuno), gestiva durante l’anno
e rendeva i conti separatamente per esercizio.
Alcune
somme non potevano essere ricevute o pagate per lo Stato, senza che ciò fosse ordinato dal Sovrintendente e riportate nel
registro del risparmio, che non menzionavano che la data dell’ordinanza e i
fondi su cui esse erano assegnate.
Ma,
nello stesso tempo, e presso il
tesoriere in esercizio, era tenuto un altro registro, chiamato registro dei fondi, in cui erano iscritte, giorno per giorno, tutte le somme
versate al risparmio o pagate per esse, con l’origine e i motivi del
ricevimento o della spesa e i nomi delle partite.
Il
registro dei fondi non era
controllato dalla Corte dei Conti, esso rimaneva segreto tra il re e sovrintendente. Inoltre,
l’agente incaricato di questo registro
e i tesorieri del risparmio, essendo
nominati direttamente dal re, erano completamente indipendenti dal Sovrintendente.
I
tesorieri del risparmio si limitavano
ad allegare le ordinanze del sovrintendente come pezze giustificative dei loro
conti.
Quanto
al registro dei conti esso serviva
nello stesso tempo a controllare la loro gestione e quella del sovrintendente.
Ecco
quali erano i principi e le regole, scrive Clement: sembrerebbe di primo
acchito che dovessero prevenire tutte le
malversazioni, tanto dalla parte del sovrintendente quanto dei tesorieri e dei
finanzieri.
Ma
vediamo, scrive lo storico, come questo ordine così ben esposto, in apparenza
così rigoroso, potesse comportare degli abusi.
Perché
un’ordinanza fosse pagabile dal risparmio,
non era sufficiente che fosse firmata dal
sovrintendente; essa doveva portare alla base dell’ordinanza un ordine
particolare dello stesso sovrintendente, indicante il fondo speciale su cui
essa doveva essere pagata.
Il
tesoriere del risparmio non poteva,
né doveva pagare, fintanto egli non avesse dei valori appartenenti al fondo su
cui l’ordinanza fosse assegnata; ma siccome non ne aveva quasi mai, atteso che
le entrate erano, in quest’epoca, spesso spese due o tre anni in anticipo, egli
consegnava in cambio dell’ordinanza, un
biglietto di risparmio, ossia un mandato sull’appaltatore dell’imposta sul
quale essa era assegnata; inoltre, per la facilità degli affari e dei
pagamenti, l’ammontare di una stessa ordinanza si suddivideva in diversi biglietti di risparmio.
Vi
erano inoltre dei fondi intatti o dove le entrate erano assicurate e prossime
all’emissione dei biglietti che le riguardavano, mentre le entrate di altri fondi erano posticipate o mandate a
scadenze ipotetiche.
Da
ciò risultavano spesso delle differenze considerevoli nei valori dei biglietti di risparmio; gli uni erano
alla pari, altri, più o meno al di sopra del pari, altri, assolutamente senza
valore.
Ciononostante
essi provenivano tutti dalla stessa
fonte e portavano tutti le stesse firme; ma ciò che appariva più straordinario
e incredibile, era che spesso i
biglietti, completamente deprezzati - tanto da finire nelle mani di qualche povero diavolo -
acquistavano più alto valore, passando dal portafoglio di un appaltatore o di un
cortigiano in favore, ed era qui che si faceva il più odioso e abominevole
traffico.
In
effetti, Fouquet e Pelisson, molto spesso deliberavano, per errore o scientemente, delle ordinanze tre o quattro volte
superiori ai fondi che dovevano acquistare; facevano allora ciò che si definiva
una riassegnazione, vale a dire un
nuovo ordine di pagamento su un altro fondo e qualche volta su un altro
esercizio.
La
stessa operazione si praticava per tutti i
biglietti di una data un pò vecchia che non aveva potuto essere pagata sui
fondi primieramente designati; perché, più un biglietto era vecchio più era
difficile ottenere il pagamento e vi erano quelli che erano così riassegnati
cinque o sei volte, spesso su nuovi fondi che finivano nelle mani di persone da
niente, o che vivevano di rendita o modesti fornitori; gli altri, appaltatori,
curatori e sostenitori, che erano in
grado di fare grandi anticipazioni, concordavano la riassegnazione dei loro biglietti (che si erano procurati in grandi
quantità a vil prezzo!) su fondi sicuri ... e di altri esempi, che omettiamo,
ve n’erano ancora tanti!
La
prodigalità e il disordine amministrativo di Fouquet, valsero alla Francia
l’ordine e la probità che Jean-Baptist Colbert (1619- cercò di ricostituire
durante il periodo in cui ricoprirà l’incarico di Sovrintendente.
FRANCOIS
VATEL:
LA FESTA
A
CHANTILLY E
LE LETTERE DI
M.ME
DE SÉVIGNÉ
D |
i
questo personaggio sappiamo ben poco e si conoscono solo le due grandi feste, organizzate,
la prima del ministro Fouquet a Vaux, la seconda del Gran Condé a Chantilly (con
la sua crema rielaborata in questa occasione, da cui aveva preso il nome),
ambedue in onore di Luigi XIV.
Questa
di Chantilly era stata anche l’ultima (ricordata
nel film del 2000 con Gerard Depardieu, regia di Roland Joffré), durante la
quale Vatel per il ritardo nell’arrivo della fornitura di pesce, credendosi
disonorato perché del pesce erano arrivati solo due carri e la cena era importante,
perché capitava nel giorno di magro (venerdì) e per la presenza del re.
Vatel
era già caduto in depressione perché a una tavola era mancato l’arrosto ... e il giorno dopo a causa del poco pesce
arrivato, ritenendosi disonorato, si suicidò:
ironia della sorte, gli altri carri che portavano pesce in abbondanza arrivarono
subito dopo la sua morte!
Vatel,
era nato in Francia, la suiua famiglia era di origine alemanna o fiamminga, e
il suo cognome era Wattel, come d’altronde si firmava, ma per i francesi che
hanno avuto sempre il vezzo di francesizzare tutto ciò che è straniero, era Francois
Vatel (1622/27-1671).
Era stato portato alla notorietà per merito di M.me
de Sévigné che ne parlava in due lettere inviate alla figlia, una del 24, l’altra del 26 aprile 1671; nella
prima riferiva che: “Il re era giunto a
Chantilly la sera precedente e aveva inseguito un cervo al chiaro di luna;
aggiungeva che, la luce delle lanterne avevano fatto meraviglie: i fuochi erano stati un pò attenuati dal forte chiarore
della luna, ma nel complesso la serata, la cena, i giochi, tutto era andato a
meraviglia”.
“Il tempo di oggi”, proseguiva M.me de Sévigné, “ ci ha fatto sperare in un
seguito degno di un così gradevole inizio, ma ecco che apprendo una notizia
dalla quale non riesco a riprendermi e per la quale non so neanche io cosa vi
mando: è che Vatel, il grande Vatel, maitre d’hotel di M. Fouquet, che
attualmente lo è del principe [Condé]; quest’uomo
di una capacità distinta da tutte le
altre, donde la testa è capace di provvedere alle cure di uno Stato; quest’uomo che io conoscevo, vedendo che
alle otto il pesce non è arrivato, non ha potuto sostenere l’affronto dal quale
è stato sopraffatto ed è morto per essersi pugnalato. Potete pensare l’orribile
accidente che ha causato durante questa festa. Pensate, che il pesce è arrivato
quando lui è spirato;. Non dubito che la confusione sia stata grande; è una
cosa spiacevole in una festa da cinquantamila scudi”.
La
seconda lettera del 26 aprile era più dettagliata [Berhoux aveva messo in rima il suo contenuto, pubblicato
in “Gastronomie”], e la marchesa riferiva che: “Il re è arrivato giovedì sera; la
passeggiata, la merenda fu fatta in posto tappezzato di giunchiglia in cui
tutto fu servito a piacere; a cena a qualche tavola era mancato l’arrosto a
causa dei molti invitati che non erano stati previsti”.
“Vatel”, proseguiva la scrittrice, “aveva detto a Gourville (*):
La testa mi gira; sono dodici notti che
non dormo; aiutatemi a dare gli ordini; Gourville lo aiutò come poté. L’arrosto
che era mancato, non alla tavola del re, ma alla venticinquesima tavola, gli veniva sempre in mente e turbava
il suo spirito”.
Gourville
lo riferì al principe e il principe si recò nella sua camera e gli disse: “Vatel, tutto va bene, nulla è andato meglio
della cena del re”, e lui rispose: “Monsignore, la vostra bontà mi consola ma
l’arrosto è mancato a due tavole”; “Non importa, rispose il principe, non fateci caso, tutto è andato bene”.
“A mezzanotte i fuochi”, riprendeva la marchesa, “non erano ben riusciti a causa
delle nuvole, erano costati sedicimila franchi. Alle quattro del mattino Vatel
fa un giro e trova che tutti dormono , incontra un portatore che porta solo due
carichi di pesce e gli chiede, è tutto qui? Si signore, rispose l’altro, non
sapendo che Vatel aveva mandato le sue richieste a diversi porti di mare. Vatel
attende qualche tempo gli altri portatori che non arrivavano; la sua testa andò
in fumo, egli credette che gli altri non sarebbero arrivati. Vatel incontrò Gourville e riferendosi al ritardo, gli aveva detto: “Signore,
io non sopravviverò a questo affronto”;
Gourville si fece beffe di lui, ma Vatel salì in camera e si pugnalò”
A
Chantilly la festa durò due giorni e come tutte le feste di Chantilly
consisteva nel divertimento di caccia, pesca, luminarie e pranzi nel bosco, che
era migliore di quello di Fontainbleu, di Compiégne e di Versailles e “si prestava alla fortunata alleanza della
bellezza della natura, con le sorprese e le magnificenze dell’arte”.
Gourville
scrive: “Il re giunse il 23 aprile, soggiornò
il
24 e partì il 25. Il duca, che aveva più spirito e più immaginazione di ogni
altro uomo che io abbia conosciuto, mi aveva incaricato della organizzazione a
Chantilly dove il re e la corte dovevano essere nutriti e gli equipaggi erano da
mantenere. Per questo avevo inviato presso diversi villaggi più vicini
provviste per uomini e cavalli, e, man mano che essi arrivavano a Chantilly
veniva loro dato un biglietto con indicato il villaggio dove dovevano andare ad
alloggiare”.
“Vatel”, scrive Gourville “uomo sperimentato, era
controllore presso il principe e l'indomani mattina, che era giorno di magro,
quando vide che la provvista di pesce non era arrivata, salì nella sua camera,
chiuse la porta dal di dietro e mettendo la spada contro il muro si uccise.
Dopo che la porta era stata forzata, vennero ad avvertirmi e la prima cosa che
dissi fu di metterlo su un carretto e portarlo alla parrocchia, a mezza lega di
distanza, per farlo interrare, e nel frattempo vidi che la fornitura di pesce
stava arrivando.
Il principe, avendo saputo della
morte di Vatel, fece venire i “maitres d'hotel”, controllori e ufficiali al
seguito del re per il servizio non solo della tavola del re ma per le altre
tavole e dette tutte le necessarie disposizioni in modo che l'assenza di Vatel
non si avvertì minimamente.
Si fece venire da Parigi tutto ciò
che riguardava la musica e i musicisti e le carrozze che li avevano portati li
accompagnarono nei loro alloggiamenti dove furono serviti a dovere”.
La
corte, durante la sua permanenza aveva consumato quattro pasti e quando partì
andò a dormire a Compiégne; la festa era costata quasi centottanta e passa
mila lire (tre volte quella indicata dalla Sévigné che aveva fatto comunque
riferimento a scudi (**) e non a lire).
Qualcuno
aveva pensato che Vatel si fosse ucciso per essersi innamorato di una dama
della corte, dalla quale aveva avuto un rifiuto; ma questa ipotesi era stata esclusa;
come poteva, era stato detto, un uomo occupato
dalla venuta della corte a Chatilly, tra i fuochi d’artificio, le
sorprese, gli spettacoli, la presenza del re e i pasti per seimila persone,
dichiarare la sua passione a una dama, certamente troppo occupata nella sua
toeletta, da non aver avuto il tempo per dare udienza a un sospirante? Come
mai, era stato detto, M.me de Sévigné, sempre ben informata, non aveva fatto
cenno a una simile ipotesi? Essa quindi era da escludersi.
Sulle
modalità del suicidio è da dire che Vatel quando aveva messo la spada contro il
muro, alla prima spinta la spada non era penetrata completamente nel suo corpo e
aveva dovuto spingere una seconda e terza volta.
Quando
la notizia fu riferita a Monsieur e questo
la riferì tristemente al re, si disse che era stato il suo modo di salvare
l’onore alla sua maniera e il suo coraggio fu nello stesso tempo lodato e
biasimato.
*Jean Herauld de Gourville (1625-1703) autore
delle Memoires, da non confondere con
Francois de Gourville (1655-1718), autore
di “Histoire des hommes illustres de la France”;ù.
Aveva iniziato la sua carriera come valletto
dell’abate de la Rochefoucault (1643); successivamente segretario del principe
di Marillac, al momento dell’arresto dei principi (per la Fronda), aveva avuto
modo di mostrare la sua abilità negli intrighi segreti, nel tentativo di
evasione dei principi (che egli racconta con dovizia di particolari nelle
Memorie), in cui egli aveva agito come intermediario presso i frondisti del Parlamento.
Dopo aver ricoperto la carica di consigliere nel
Consiglio del re, era entrato al servizio
del principe di Condé come sovrintendente della casa di Monsignore, dove
lo troviamo durante la festa di cui parliamo.
*) All’epoca
la differenza tra lire e scudi era di cinque-sei lire per uno scudo per cui le
due cifre più o meno si equivalevano.
Saint-Croix e Glazer
GAUDIN
DE
SAINTE-CROIX
T |
utto
aveva avuto inizio con la morte (30 luglio 1672) di un gentiluomo di nome
Gaudin de Sainte-Croix: si raccontava che era morto nel corso di una operazione
chimica in quanto la maschera di vetro che aveva sul viso per ripararsi dai
vapori di veleno (mercurio ndr.) si sarebbe rotta; in effetti il
decesso era giunto dopo cinque mesi di malattia, probabilmente per le
esalazioni dovute alla lavorazione di veleni.
Viveva
separato dalla moglie e aveva molti creditori, per questo la moglie aveva
chiesto la apposizione dei sigilli: nel suo misterioso domicilio, che si trovava nel cul-de-sac di Place Maubert, fu mandato il commissario, Picard e il
sergente Creuillebois che trovarono: un forno
di digestione (l’athanor il forno
degli alchimisti per la lavorazione dei metalli, intendendosi per digestione la cottura alchemica; questo forno, secondo Dumas, era di Glazer che, da quanto egli dice, era
morto durante il lavoro, come era morto Sainte-Crroix, perché gli si era rotta
la maschera di vetro (*) e la moglie aveva nascosto questi particolari), su
un tavolo una carta arrotolata con la scritta “mia confessione” che per scrupolo religioso si decise di bruciare
immediatamente, e altro e furono apposti i sigilli alla presenza del
commissario Picard, del sergente Creuillebois, di due notai del procuratore
della vedova e un procuratore dei creditori
Sainte-Croix
si era dato per proprio conto questo predicato, il suo nome era Gaudin, con
l’aggiunta di Sainte-Croix, mentre aveva un fratello si chiamava semplicemente
Gaudin.
Nel
suo quartiere era ritenuto bastardo di un grande casato, onesto, pio, con
accesso alla migliore società; aveva un buon tenore di vita con due servitori, dei portatori, una
carrozza, ma non si sapeva gestire.
Aveva
esercitato la professione delle armi come capitano di cavalleria prestando
servizio nel reggimento de Tracy cavalleria, di cui era comandante
il marchese di Brinivilliers ; con il comandante e la moglie, Sainte-Croix
era entrato in amicizia e al ritorno dalla guerra era andato come ospite a vivere presso
di loro.
*) A. Dumas, a proposito di questa versione
della morte di Sainte-Croix, è consapevole dell’altra versione che indichiamo, riportata in nota.
LA MARCHESA
DI
BRINVILLIERS
I |
l marchese Antoine Gobelin di Brinvilliers,
era figlio di un Presidente della Corte dei Conti, diretto discendente di
Gobelin, il fondatore delle celebri manifatture; era divenuto militare (il
titolo era recente, ma era imparentato con la migliore nobiltà di Parigi) e
amava la mondanità e i piaceri e non
curava molto la sua piccola moglie che aveva sposato (1651) per amore; lei, nata nel 1630, aveva ventun anni e aveva
portato una dote di centomila lire, ma il marito era ricco per suo conto e i
due, per l’epoca, godevano di un’ottima posizione economica: avevano avuto
cinque figli di cui tre maschi e due femmine.
Figlia di un magistrato, Antoine Dreux d'Aubray,
Maria-Maddalena era la figlia maggiore di cinque figli, di cui due fratelli, uno consigliere e l’altro luogotenente e due sorelle di cui una sposata senza figli e l’altra
religiosa carmelitana.
Di piccola corporatura, aveva bei capelli
castani, il viso rotondo e bello, gli occhi dolci e color blu, la pelle
straordinariamente bianca, il naso ben fatto, e nei tratti non aveva niente di
sgradevole.
Lei era una ragazza poco fortunata, ma aveva molta grazia e
godeva dell'amicizia di Sainte-Croix con cui chiacchierava: «egli non l'ascoltava, esigeva che lo tenesse
occupato, lui la consolava...e alla fine lei si rassegnò» ;
Sainte-Croix che studiava alchimia e scriveva di misticismo, le trasmetteva le
sue conoscenze.
Tutti tre vivevano in perfetta armonia, il
marchese aveva già da diverso tempo un’amante coastosa, Dufay, alla quale la
marchesa si era rassegnata, e più del
senso dell’onore amava i piaceri e la sua libertà, al di fuori dell’ambito
domestico, per questo non vedeva o non voleva vedere.
SAINTE CROIX
ALLA
BASTIGLIA
S |
e i tre vivevano in perfetta armonia (il
legame tra i due amanti era niziato nel 1659), ciò non piaceva al padre della
Brinvilliers che aveva un proprio senso morale e aveva ottenuto una lettera di cachet con la quale Sainte-Croix
fu arrestato e finì alla Bastiglia (1665), i cui
registri, nei diversi tempi, rigurgitano di nomi di avvelenatori italiani.
Qui,
durante il suo soggiorno, aveva conosciuto un italiano di nome Exili (il vero
nome era Egidi), famoso produttore di veleni; si raccontava fosse stato
l’esperto di veleni di donna Olympia Maldachini, amante del papa Innocenzo X,
che a dire di Michelet aveva fatto avvelenare centocinquanta persone da cui lei
aveva ereditato! (qualche storico indica invece la poco
probabile regina Cristina di Svezia (1626-1689)) ; costui aveva istruito Sainte-Croix sui veleni, per
averli appresi da Christophe Glaser presso il quale aveva soggiornato sei mesi.
Glaser (Cristophe
Glazer), tedesco di origine, era chimico e farmacista del re e di Monsieur
(fratello minore di Luigi); scopritore del solfato di potassio, autore
di un Trattato di Chimica
(1665); aveva trovato un tipo di veleno
semplice, che non lasciava tracce e non
si scopriva nel corpo del defunto quando era eseguita l’autopsia.
L’Italia
era nota per i veleni i cui terribili segreti erano stati ereditati dall’Oriente;
i francesi venendo in Italia per fare le guerre si erano appassionati anche al
modo usato nelle varie corti per disfarsi dei nemici: il veleno.
L’attrazione
di strani personaggi intriganti, affaristi, sedicenti profumieri esperti di
veleni, in Francia era iniziata al seguito di Leonardo, Andrea del Sarto e
Primaticcio, chiamati alla sua corte da Francesco I.
Poi
era giunta Caterina de’ Medici che aveva portato con sé il patrimonio di arte, moda,
cibi e astrologia e sulla sua scia erano arrivati maghi, astrologi, preparatori di filtri e
profumieri i quali divennero maestri nell’arte delle polveri (denominate polveri di successione); l’avvelenamento
era divenuta un’arte: “venins foudroyants
insasissable”, veleni fulminanti inafferrabili ... che non lasciavano
nessun segno su chi era stato avvelenato, e chi lo aveva assunto, lo aveva
fatto senza accorgersene .
A.
Dumas che aveva avuto modo di accedere a documenti originali, a proposito di
Exili scrive con la sua penna dorata, “che
non era un avvelenatore volgare ma un grande artista in fatto di veleni come
avevano fatto i Medici e i Borgia; per lui la morte era divenuta un’arte e
l’aveva sottoposta a regole fisse e positive. Sainte-Croix scrive ancora Dumas,
poco a poco aveva preso interesse a questo terribile gioco che mette la vita
nelle mani di un solo individuo ed era
stato tanto acuto da uscire dalla Bastiglia come l’allievo che uguaglia il
maestro; ciò che egli cercava, scrive Dumas, era un veleno così sottile che i
suoi soli effluvi potessero uccidere, come si era verificato con il fazzoletto
che uccise il fratello di Carlo VII che si era asciugato il sudore mentre
giocava a pallacorda ed era morto, oppure, come si racconta dei guanti di
Giovanna d’Albret; questi segreti si erano perduti e Sainte-Croix sperava di
ritrovare la formule”.
Alla
corte di Caterina giunsero Renato Bianchini detto il Fiorentino (con boutique di
“polveri” in pont Saint-Michel) e
Cosme Ruggeri (astrologo della regina) e sotto la sua reggenza aumentò molto
l’uso dei veleni, sebbene la regina,
ingiustamente accusata, non vi avesse mai fatto ricorso, cosa che non si può
affermare per gli appartenenti al suo seguito!
Nel XVII sec.
era divenuta famosa “l’acqua
tofana” o “acqua di Napoli”; il nome derivava da Giulia Tofana (†1569), famosa cortigiana, fattucchiera e avvelenatrice, alla corte napoletana
di Filippo IV di Spagna, alla quale era attribuito
un carico di seicento
avvelenamenti, tra i quali due papi!
Pare
che a Sainte-Croix la Bastiglia avesse portato fortuna, perché era entrato
povero e ne era uscito ricco: infatti quando uscì si sposò, prese
casa, lacché, portatori, carrozze; aveva
un intendente oltre a due vecchi servitori Giorgio e La Chausée che
cedette il primo a Hannyvel, il secondo a madame Brinvillers che a sua volta lo
assegnò ai suoi fratelli d’Aubry.
Sainte-Croix riprese la relazione con la Brinvilliers, che si
sentiva ferita nell’orgoglio per il suo arresto e un odio violento contro il
padre che lo aveva denunciato; la sua morte non solo l’avrebbe vendicata ma le
avrebbe portato una cospicua eredità di cui aveva bisogno in quanto, la vita
che conduceva, il gioco, le spese con il suo amante, avevano prosciugato la sua
fortuna.
I
due amanti si recavano in carrozza a Saint-Germaine dove scesi dalla carrozza, andavano a piedi
in rue Petit-Lion alla farmacia di
Glaser ... e presto si vide la giovane signora che si recava all’ospedale Hotel
de Dieu, e sotto l’aspetto della pietà e della religione, fermandosi davanti al
letto dei malati, offriva loro dei dolciumi, vino, biscotti ... ed essi non
tardavano a morire tra dolori atroci.
LA
BRINVILLIERS
AVVELENA IL PADRE
D |
opo aver
sperimentato gli effetti del veleno con biscotti, dolciumi e vino sui malati
degli ospedali, la Brinvilliers si decise ad avvelenare il padre.
Costui già
soffriva di parecchi mali e si era trasferito (1666) nelle sue terre a Offémont
(nell’Oïse, comune di Saint-Craipine-aux-Bois, ma il
castello esistente apparteneva al conte Pillet-Will), dove invitò la figlia ad
andare a passare due o tre settimane.
Dal
momento dell’arrivo della figlia, i mali
del poveretto raddoppiarono, ogni giorno
erano più violenti, fino a quando egli morì a Parigi (1666), dove si era fatto
trasportare, per ricevere cure migliori dai medici parigini ... assistito dalla
figlia che lo aveva accompagnato.
La
Brinvilliers confesserà che lei stessa lo aveva avvelenato per ventotto o trenta giorni con le sue stesse mani, servendosi del suo
servo di nome Gascon che le aveva dato Sainte-Croix, e che l’avvelenamento era
durato otto mesi e non sapeva
spiegarsene la ragione, sebbene lei avesse ogni volta raddoppiato la dose; la polvere usata era normale
arsenico e il padre soffriva di vomito continuo e violento che lo condusse alla morte.
Da
questo momento la Brinvilliers non ebbe più freni morali anche per la sua
sessualità e, oltre a Sainte-Croix, aveva avuto numerosi amanti per volta!
Da
Sainte-Croix aveva avuto due bambini che andavano ad aggiungersi a quelli avuti dal marito; nel frattempo era
divenuta amante del marchese Pouget de Navaillac, cugino di suo marito; prese
per amante un suo cugino germano, dal quale ebbe un figlio e infine accordò i
suoi favori al precettore dei suoi bambini, Briancourt.
Le
spese e le prodigalità non tardarono a ridurre l’eredità paterna anche se la
parte più considerevole di questa nuova successione era andata ai due fratelli
di cui uno era intendente a Orleans e l’altro consigliere della Corte: per questo
la Brinvilliers aveva pensato di farli assassinare; Sainte-Croix si era
mostrato d’accordo dietro promessa di venticinquemila lire per il primo e
trentamila per il secondo fratello.
LA
BRINVILLIERS
AVVELENA
I
FRATELLI
N |
el 1669 la
Brinvilliers aveva assunto, in qualità
di servo, un miserabile di nome Jean Hamelin, detto La Chaussée, che aveva
mandato presso il secondo fratello; i due fratelli, il consigliere e il
luogotenente abitavano nella stessa casa e La Chaussée poteva facilmente distribuire il veleno ad
ambedue somministrandolo nell’acqua o nella minestra o nelle torte.
Un
giorno che egli serviva il luogotenente, la dose che aveva messo nel bicchiere
era così forte che il luogotenente alzatosi, gridò: “Miserabile cosa mi hai dato? Credo che tu voglia avvelenarmi” E
ordinò al suo segretario di annusarlo; il segretario prese un cucchiaio e annusando sentì un vivo odore di vetriolo. La
Chaussée non si perdette d’animo e disse “E’
senza dubbio il bicchiere di cui si è servito Lacroix, il valletto di camera,
che al mattino ha preso la medicina”, e si precipitò a versare il contenuto
nel camino.
Il
luogotenente si era recato in una sua campagna a Villequoy (in Beauce) per
passare con la famiglia le feste di Pasqua (1670) e il fratello consigliere era
della partita. Il luogotenente portò con sé un solo domestico che era La
Chaussée, il quale durante il soggiorno aiutava il cuoco e serviva a tavola una
torta di rigaglie; tutti quelli che la mangiarono l’indomani stettero male,
quelli che non la mangiarono stavano bene; tornando a Parigi il luogotenente
aveva il viso di chi aveva estremamente sofferto.
Anche
questo avvelenamento era stato orribile in quanto l’avvelenamento non aveva
fatto subito il suo effetto e La Caussée glielo somministrava in ogni momento;
il corpo del luogotenente era divenuto puzzolente da non poter entrare nella
camera, il malato era di cattivo umore e non si poteva avvicinarlo; la
Brinvilliers evitava le visite e mandava la sorella. La Chaussée era l’unico
che serviva il suo padrone e lo spostava dal letto sul materasso e dal
materasso al letto.
Lo
sfortunato soffriva un male incredibile e La Chaussée arrivava a escalamare tra
sé e sé : “Questo individuo langue bene! fa proprio pena! non
so quando creperà”!
La
Brinvilliers era a Sains in Piccardia e raccontava a Briancourt il precettore
dei suoi figli divenuto suo amante, che era occupata ad avvelenare suo fratello
il consigliere; spiegava che aveva in animo di metter su una “buona
casata” con il figlio maggiore che già chiamava Presidente che un
giorno avrebbe occupato la carica di luogotenente civile di d’Aubry,
aggiungendo che aveva ancora qualcosa da fare; essa cercava dio elevare i suoi
figli, “che erano la sua carne”, diceva,
conformemente ai sogni brillanti che nutriva per l’avvenire della sua casata
... e incominciò ad avvelenare la propria figlia, che trovava “sciocca”, ma poi ebbe un pentimento e le
dette da bere del latte.
Per
lei vivere con onore significava un
brillante seguito, dei begli ornamenti, un gran tenore per la casa e
intrattenere i suoi amnti in maniera magnifica: doveva essere “la gloria del mondo”, l’espressione le
veniva spesso sulle labbra: era stato per l’onore
che aveva avvelenato tante persone!
Le
sofferenze del fratello luogotenente, durarono tre mesi; egli dimagriva,
diveniva secco - dichiarava il medico - aveva perso l’appetito, vomitava
continuamente, gli bruciava lo stomaco”; morì nel mese di giugno (1670), mentre
il fratello consigliere morì nel settembre successivo: Questa volta i chirurghi,
Duvaux e Dupré, e il farmacista Gavart, dopo l’autopsia dichiararono che il
luogotenente era morto avvelenato ma non trovarono testimoni in quanto il
silenzio di La Chaussée era costato cento scudi; per questi
avvelenamento, poiché il delitto era ritenuto
inconcepibile, la polizia non svolse indagini.
Dopo
la morte del padre e dei suoi due fratelli l’onore e la vita della Brinvilliers
erano nelle miserabili mani di La Chaussée che lei riceveva nella sua saletta
privata dove gli dava delle monete, dicendo: “E’ un buon ragazzo, mi ha reso buoni servizi”; i visitatori che
arrivavano all’improvviso la trovavano con lui in grande familiarità; un giorno
che era giunto
il signor Consté per farle visita, lei lo fece nascondere tra il letto e il
muro.
LA MARCHESA
TENTA DI
AVVELENARSI
S |
ainte-Croix
era un complice più temibile di La Chaussée, e quale non fu il suo dolore
quando poco a poco la marchesa si rese conto che quest’uomo, al quale aveva
tutto sacrificato, aveva visto in lei uno strumento di piacere e di fortuna e approfittava per spillarle danaro con i più
volgari mezzi di intimidazione?
Sainte-Croix
aveva conservato in una cassetta che doveva diventare famosa, trentaquattro
lettere che la marchesa gli aveva scritto, le
obbligazioni di danaro per l’avvelenamento dei due fratelli e diverse piccole
fiale che contenevano diversi tipi di veleno.
La
marchesa insisteva con Sainte-Croix per avere la sua cassetta e voleva che
costui le restituisse un biglietto contenente una sua promessa di pagamento di
tremila pistole, altrimenti lo avrebbe fatto pugnalare.
La
marchesa, poco prima che andassero a porre i sigilli all’appartamento di
Sainte-Croix, disperata e presa da terrore, aveva pensato di avvelenarsi e gli
aveva scritto un biglietto in cui gli riferiva di questo proposito e che
avrebbe preso il veleno che lui le aveva
donato e che proveniva da una ricetta di Glaser, dicendogli che gli sacrificava
la sua vita e che prima di morire voleva avere la possibilità di vederlo in
qualche luogo per un ultimo saluto.
Il
veleno che Sainte-Croix le aveva mandato era arsenico che lei assunse per
suicidarsi, ma dopo averlo bevuto, pentitasi, bevve una gran quantità di latte
caldo che la salvò, ma per qualche mese non stette molto bene.
LA
MARCHESA
MITOMANE
PENSA
DI AVVELENARE
LA
SORELLA
E
LA COGNATA
L |
a
marchesa, da buona mitomane, come si direbbe oggi,
andava raccontando in giro le sue
faccende e prima della morte di Sainte-Croix andava raccontando che aveva fatto
di tutto per impadronirsi della cassetta e se fosse riuscita in questo intento,
l’avrebbe fatto sgozzare; quando parlava
con qualcuno portava la conversazione sui suoi misfatti, arrivando a parlare di
veleni al primo venuto, mentre in casa i domestici trovavano flaconi di
arsenico sparse nel suo bagno.
Un
giorno in cui aveva bevuto un pò troppo, nella sua camera aveva tra le mani una
specie di cassetta e diceva alle domestiche “che aveva di che vendicarsi dei suoi nemici e che aveva in quel
recipiente diverse eredità”
termine
che ebbe fortuna nel processo dove il veleno fu chiamato “polvere delle eredità o polvere delle successioni”.
La
marchesa non mostrava alcun rimpianto per l’uccisione dei
suoi due fratelli mentre piangeva solo quando parlava di suo padre.
Aveva
come discepola la signorina Villeray (1673), e probabilmente per assicurarsi il
suo silenzio la avvelenò; poiché raccontava tutto a Briancourt, che
testimonierà nel processo, costui riferiva che la marchesa un giorno entrò
nella sua camera come una furia dicendogli che non si fidava di lui in quanto
gli aveva raccontato cose che avrebbero
potuto rovinarla; egli le rispose con le lacrime agli occhi che poteva fidarsi
e se lei ne avesse dubitato, lui se ne sarebbe andato; lei si rabbonì
dicendogli “so che sarete discreto, io farò
la vostra fortuna, ne sono convinta”, poi chiamò Sainte-Croix col quale si
trattenne molto: la Brinvilliers confesserà al processo che questo Briancourt
era figlio di Sainte-Croix.
Dopo
aver avvelenato il padre e i due fratelli, la Brinvilliers aveva pensato di
sbarazzarsi anche della sorella Marie-Therése d’Aubray, vedova del luogotenente
civile Mangot, e di sua cognata Marie-Therese Mangot.
Briancourt
le chiese di riflettere in quanto già aveva assassinato crudelmente il padre e
due fratelli e ora voleva assassinare anche la sorella e nella storia
dell’antichità non si era mai visto un esempio di tanta crudeltà e perversità,
alle quali l’aveva portata Sainte-Croix; e
lui aveva cercato di far avvertire la signora d’Aubry per mezzo di m.lle Villeray che sarà successivamente
avvelenata.
La
Brinvilliers aveva pensato di avvelenare lo stesso Briancourt che censurava le
sue azioni, e costui raccontava che Sainte-Croix aveva messo nella casa della
Brinvilliers un portiere, parente di La Chausseée, e un servo di nome Bazile,
che aveva il compito di servirgli da mangiare e da bere, ma con le sue furbizie
lo maltrattava a tal punto che la marchesa dovette licenziarlo.
LA
MISTERIOSA
CASSETTA
L |
a Brinvilliers
che inutilmente aveva cercato di riavere anche col denaro la cassetta, non
essendo riuscita ad averla, partì, facendosi rappresentare dal suo procuratore Delamarre, che dichiarò che nella cassetta vi era una
promessa di pagamento per trentamila
lire (ovvero tremila pistole sopra indicate) che la marchesa avrebbe fatto
annullare.
La
marchesa si era recata a Picpus dov’era il commissariato e dopo aver fatto
chiamare il sergente Cluet col quale parlò nella sua carrozza, gli disse che
aveva una gran pena per la cassetta e che avrebbe donato cinquanta luigi d’oro
per riaverla; essa aggiunse che ciò che la cassetta conteneva era del sig.
Pennautier e che non avevano concertato nulla insieme.
Sapendo
che alcuni documenti riguardavano costui, la marchesa aveva pensato di
coinvolgerlo per approfittare della sua posizione e della sua influenza. Cluet
rispose che non poteva far niente senza il commissario Picard e la marchesa si
recò da lui che le fece dire di non poterla ricevere se non l’indomani mattina.
La
mattina seguente Picard ricevette la visita del procuratore Delamarre che curava gli interessi della marchesa, il
quale gli disse che la cassetta era di estremo interesse per la marchesa, “che avrebbe donato tutto quello che egli
potesse desiderare al mondo”; dal commissario si era recato anche un uomo
vestito di nero (era Briancourt) dicendogli che la marchesa gli avrebbe dato
tutto ciò che avrebbe desiderato, ma i due emissari non ottennero alcuna
soddisfazione.
Uno
scritto di Sainte-Croix, chiedeva umilmente che la cassetta fosse consegnata alla Brinvilliers, che abitava in
rue Neuve-Saint-Paul, il cui contenuto apparteneva solo a lei.
IL
CONTENUTO
DELLA
CASSETTA
A |
ll’apertura
dei sigilli erano presenti il commissario Picard, assistito dal sergente
Creuillebois e Delamarre in rappresentanza della marchesa e i sigilli furono tolti (11 agosto 1672).
Nella
cassetta furono trovate le trentaquattro lettere della marchesa, le due
obbligazioni per l’assassinio dei fratelli e del padre; infine, una ricevuta e una
dichiarazione di restituzione di un prestito al marchese e marchesa
Brinvilliers di diecimila lire, prestate da Pennautier, ricevitore generale del clero.
Queste
due dichiarazioni erano in una busta su cui era scritto “Carta da restituire al sig. Pennautier, come a lui appartenente di cui
prego umilmente la consegna”; vi erano inoltre due
pacchetti, uno contenete sublimato corrosivo,
e l’altro mezza libbra di sublimato, un altro sei once, in due dosi di
vetriolo romano, un altro ancora mezza oncia di sublimato, un altro del
vetriolo calcinato; in un pacchetto piegato due dracme di sublimato corrosivo
in polvere; in un altro pacchetto piegato, un’oncia di oppio, un pezzo di
regolo d’antimonio del peso di tre once, infine un pacchetto contenente sei
confezioni per quindici libbre di sublimato; vi era inoltre un piccolo barattolo
contenente pietra infernale (o caustico lunare: nitrato d’argento); su
una busta era scritto: Per arrestare la perdita di sangue femminile; e infine
un pacchetto su cui vi era la scritta “Diversi
segreti curiosi” (un insieme di veleni e prodotti alchemici con ventisette
pezzi di carta ciascuno contenente una ricetta per la sordità, ricetta per
ottenere la pietra filosofale (*).
A
Parigi sia Pennautier sia la Brinvilliers ne fecero oggetto di conversazione! La
Brinvilliers diceva di Pennautier: “Se io
lo disgusto pioverà su Pennautier”.
Vi
era un altro personaggio che si era opposto ai sigilli: era La Chuassée il
quale sosteneva di aver lasciato i suoi guadagni, frutto di sette anni di
servizio presso Sainte-Croix, dietro la finestra del gabinetto, con un
biglietto che indicava che il danaro era suo; ma quando il commissario gli
aveva detto che sarebbe stata aperta la cassetta, La Chausser se ne fuggì; fu arrestato da un ufficiale di
polizia, Thomas Regnier (4.sett.1672), e accusato di avvelenamento.
Processato
allo Chatelet (antica fortezza adattata a Palazzo di Giustizia), resistette
alla tortura dei legni alle gambe, ma poi spontaneamente confessò i suoi
crimini, fu condannato a morte (23,febbr.1673) e arrotato vivo mediante smembramento
sulla ruota; la Brinvilliers fu condannata in contumacia alla decapitazione.
La
Brinvilliers pensò di andare a far visita a Pennautier ma non lo trovò e lui
saputo ciò, andò a cercarla presso il Commissariato di Picpus (Pique-Puce in
faubourg Saint-Antoine)); nell’interrogatorio dopo l’arresto, gliene fu chiesto
il motivo ed egli rispose che non
ritenendola colpevole aveva pensato di farle i complimenti, come aveva fatto in
altre occasioni; egli aggiungeva che i due signori Brinvilliers gli avevano
prestato trentamila lire ed egli ne era estremamente grato.
*)
La formula della pietra filosofale di Sainte-Croix, ci sembra piuttosto
semplice, in quanto non indica l’elemento fondamentale quale lo zolfo, e
neanche parla del mercurio sofico che era il preparato di mercurio e zolfo: Prendete
dello spirito e versatelo su otto oncc di mercurio nel matraccio (recipiente a
forma di pallone con collo lungo e fondo piatto), mettetelo sul fuoco di sabbia
del forno di digesione e per evitare
che il matraccio rischi di rompersi, spalmate il tutto; mettete...mancano
alcune parole e lasciatelo per otto giorni al loro scadere la pietra sarà
pronta; nel caso la pietra non sia dura, date ancora dodici ore di cottura
aggiungendo due grossi (due ottavi di oncia) di spirito! Per fare lo spirito o per aumentare quello
che avete, prendete quattro porzioni di argento e granaglia con una di spirito
e li mischiate, mettendo per mezz’ora sul fuoco di sabbia!
LOUIS REICH DE
PENNAUTIER
L |
ouis
Reich Pennautier da semplice cassiere, per suoi meriti, aveva raggiunto gli
alti gradi della carriera burocratica come tesoriere del clero e tesoriere di
Stato (equivalente a ministro) e infine era divenuto collaboratore di Colbert.
Era
un bell’uomo, galante, e aveva molto spirito, e si era fatto strada anche nel
gran mondo; ma un bel giorno, accomunato alla Brinvilliers, con questa, era
stato citato dal luogotenente civile (22 agosto 1672) per l’esame delle
scritture trovate nella cassetta di Sainte-Croix.
L’arresto
aveva suscitato la meraviglia, anche dei suoi avversari, che avevano scritto
con veritiera ironia, che “toccato
da un sentimento di civiltà egli esponeva gli interessi e la fortuna; l’eccesso
del suo senso di civiltà gli aveva fatto dimenticare i propri interessi; il
carattere di quest’uomo era raro e meraviglioso e egli stesso era stato la
causa del suo ’arresto”.
I
suoi rapporti con il marchese e la marchesa si fondavano su un prestito che
essi avevano fatto a Pennautier, di trentamila lire e lui aveva cercato di
dimostrar loro tutta la sua riconoscenza; ma la Brinvilliers lo aveva coinvolto
perfidamente nelle sue trame.
Infatti,
Pennautier verrà arrestato (15 giugno 1676) a causa dei biglietti della Brinvilliers, che non dicevano nulla di
particolare, ma avevano messo la polizia in condizione di sospettare che vi
fossero dei rapporti di intelligenza tra lui e Sainte-Croix
Se
i biglietti della Brinvilliers facevano nascere dubbi a carico di Pennautier, era
sopraggiunta come un macigno l’accusa di Marie Vosser vedova di Hannyvel de
Saint-Laurent, predecessore di Pennautier nella carica di ricevitore del clero,
che, come una furia, aveva eccitato l’opinione pubblica.
La
Vosser accusava Pennautier di aver avvelenato il marito (morto il 2 maggio
1669), per succedergli nella considerevole carica occupata da Hannyvel: essa
con l’aiuto di un buon avvocato aveva raccolto la documentazione - che poteva
servire al caso - costituita da libelli che correvano per le strade!
La
rapida fortuna di Pennautier, lungi dall’agevolarlo, gli aveva procurato molti
nemici; la gente guardava con stupore la sua influenza e la sua ricchezza da
cui nasceva l’invidia (come si era verificato per Fouquet); la nobiltà lo
invidiava apertamente.
Egli
durante il suo interrogatorio aveva risposto con netta chiarezza, presentando
una memoria in cui sosteneva la falsità dell’accusa fattagli dalla vedova di
Saint-Laurent e su cui i suoi avversari fondavano l’accusa contro di lui.
“Mi accusano di aver avvelenato Saint-Laurent”,
sosteneva Pennautier, “ma hanno provato
che egli fosse morto avvelenato? E’ singolare che mi incolpino di un crimine
che non ho commesso, dal memento che i medici avevano accertato che egli era
morto di morte naturale; é ben strano, - aveva poi aggiunto - che la vedova mi abbia accusato dopo sei anni dalla morte”.
Pennautier
fu quindi prosciolto e, uscito di prigione (27 luglio), fu reintegrato nelle sue alte funzioni; egli giocò
un ruolo importante nello sviluppo del commercio e dell’industria francesi sotto
la direzione di Colbert, del quale era stato uno dei più attivi e intelligenti
collaboratori.
LA
FUGA DELLA
BRINVILLIERS
E
L’ARRESTO
L |
a Brinvilliers nel
frattempo era fuggita a Londra dove conduceva una vita miserabile in preda alla
paura, e per il processo era intervenuto personalmente Luigi XIV chiedendo
che esso fosse istruito e si facesse luce in maniera completa.
All’Inghilterra
era stata chiesta l’estradizione della Brinvilliers (novembre-dicembre 1672),
l’ambasciatore presso il re d’Inghilterra marchese Colbert de Croissy, fratello del ministro; il re fece sapere che
non si poteva far procedere all’arresto da parte di ufficiali inglesi, ma a
seguito dell’intervento del ministro Colbert, il re inglese si convinse per
l’arresto, nel momento in cui la Brinvilliers lasciava l’Inghilterra partendo
pei i Paesi Bassi.
Per
mezzo del marchese di Brinvilliers, la marchesa con i propri figli e la servitù
si era installata nel castello di Offémont, appartenente, con i circostanti
terreni, alla successione del suocero e dei suoi due cognati assassinati dalla
moglie; il re con due letteres de cachet
le ingiungeva di lasciare il castello e fermarsi a tre leghe di distanza per
permettere a M.me Antoine d’Aubray, vedova del luogotenente, di entrare nel
possesso dei beni.
La
marchesa sarà arrestata a Liegi (marzo 1676) dove si era rifugiata in un
convento, dopo aver peregrinato in diverse città tra Londra a Liegi; era stata prima a Cambrai, poi a
Valenciennes in un convento e da qui a Liegi; quando era a Valenciennes aveva
chiesto al marito di raggiungerla ma il marito aveva rifiutato “per timore di essere avvelenato come gli
altri” (la Brinvilliers aveva già tentato di avvelenare il marito che era
stato salvato da Sainte-Croix), Michelet scrive: !avvelenava per piacere, per amicizia,per carità, che so io! In un
convento avendo visto una novizia chwe piangeva perché i suoi parenti la
costringevano al chiostro, lei disse: Calmatevi essi non vivranno, me ne
incarico io”!
Durante
il viaggio da Liegi a Parigi aveva tentato il suicidio, una prima volta con un pezzetto
di vetro che aveva nascosto tra i denti, ingoiandolo dopo averlo masticato, ma
non fece alcun effetto; l’arciere che le faceva da guardia, l’aveva ripresa
dicendole “siete una donna malvagia, dopo
aver messo le mani nel sangue della vostra famiglia, volete fare altrettanto su
di vo”i; lei rispose: “se l’ho fatto
è stato per i malvagi consigli” (!).
Una
seconda volta, in cui aveva fatto un altro tentativo,in una maniera peggiore, le
fu rimproverato: “Ah, miserabile, vedo
che vi volete annientare voi che avete avvelenato i vostri fratelli”; e lei
rispose: “Si ho avuto un buon consiglio.
Vi sono spesso dei cattivi momenti” (!).
Il
terzo tentativo era stato ritenuto troppo spinto per parlarne, sebbene gli
arcieri ne avessero dato una esatta descrizione, ritenuta non riferibile e si era fatto
ricorso a una perifrasi, per dire dove la marchesa aveva infilato un bastone: “indovinate dove?”, era scritto in un
biglietto di Emanuel de Colange, mandato
da M.me de Sevigné a M.me de Grignon: “non
nell’occhio, non nell’orecchio, non nel naso e neanche alla turca” (sedere)!
... senza riuscire nel suo intento!
Il
re aveva richiesto fosse interrogata prima di arrivare a Parigi, e fu
interrogata a Méziéres, ma l’interrogatorio non aveva avuto nessun risultato in
quanto a ogni domanda la marchesa aveva risposto o di non sapere o di non
ricordare.
IL
PROCESSO E
LA
CONDANNA ALLA
DECAPITAZIONE
Q |
uando
la Brinvilliers era stata arrestata a Liegi, nella sua camera erano stati
trovati dei fogli che costituivano appunti di una sua confessione: C’era di
tutto! Le parti più scabrose erano scritte in latino! Quei fogli avrebbero
fatto la felicità di uno psichiatra; a leggerli si capisce subito che la
Brinvilliers, al minimo non aveva
equilibrio psichico ... e, come era naturale, al processo dirà che quelle
pagine le aveva scritte in un momento “in
cui aveva lo spirito disperato, non
sapeva ciò che stava facendo, che aveva lo spirito alienato trovandosi in un
paese straniero, senza il soccorso dei parenti, ridotta a prendere in prestito
uno scudo”.
La
confessione è un misto di crimini eclatanti e puerilità in cui dice di aver dato
fuoco a una casa; che prima di sette anni aveva peccato (in latino: peccavisse cum fratre) con il proprio fratello; che a sette anni era stata stuprata
(stupravit) da un ragazzo; che aveva,
inoltre, utilizzato un ramoscello sul proprio corpo ... e qui la frase rimane
interrotta: si può sospettare delle sue prime pulsioni erotiche che col tempo, da
ciò che lei stessa racconta, risulteranno ingigantite!; che aveva avvelenato il
padre per l’offesa da lui ricevuta per aver fatto arrestare il marito; che si
era molte volte augurata la morte dei fratelli e della sorella; che aveva avuto
rapporti con un cugino (duecento volte!) e con un cugino di suo marito
(trecento volte!) e così via!
Al
processo (che si svolse dal 29 aprile al 16 luglio 1676) la marchesa negò e
respinse, con ostinazione, tutte le accuse che le vennero rivolte, dando prova
di una forza di volontà e di una energia che non mancarono di sorprendere gli
stessi giudici: per tutta la durata del
processo il suo viso rimase impassibile!
LA
PERSONALITA’
DELLA
BRINVILLIERS
Il
15 luglio all’ultima udienza la marchesa apparve per l’ultima volta davanti ai
giudici e il presidente de Lamoignon, nel corso di tre ore passò in rassegna
tutta la sua vita criminale e lei non si smentì, negò tutto fino a non sapere
cosa fosse il veleno o cosa fosse l’antidoto.
Il
Presidente de Loignon aveva cercato di stimolarla dal punto di vista umano, per
cercare di smuoverla dalla sua indifferenza; parlandole della sofferenza della
malattia del padre, l’aveva invitata a fare una riflessione sulla sua cattiva
condotta che le aveva attirato i rimproveri della sua famiglia e di coloro che avevano
condiviso con lei la vita corrotta; e, aveva aggiunto che il peggiore di tutti i crimini
non era quello di aver avvelenato suo padre e i suoi fratelli, ma di aver
cercato di avvelenare se stessa; e de Loignon l’aveva trattenuta ancora
mezz’ora su questi argomenti: lei era rimasta impassibile con lo sguardo duro
dei suoi occhi azzurri, e l’unica cosa che aveva detto era “di avere una pena nel suo cuore”!.
Il
Presidente, per senso di umanità e pensando di alleviare il suo spirito prima
della esecuzione, aveva nominato un teologo della Sorbona per assisterla; era il
gesuita Edmuond Pirot, che aveva acquistato fama discutendo le teorie di
Leibniz; Pirot riporterà le conversazioni con la Brinvilliers in due volumi
(scritti alla maniera di una relazione con ripetizioni e lungaggini) e se
scritti in maniera più appropriata, era stato detto, avrebbero potuto essere considerati
un monumento di letteratura tragica,
paragonati al “Fedra” il capolavoro di Racine, scritto nello stesso periodo.
Pirot,
a dire di Michelet, era nuovo a questa esperienza ed era un uomo di spirito
mediocre ma di cuore sensibile che si scioglieva in lacrime e si lasciava
contagiare dalla emozione; Pirot che spaventato dalla reputazione della
Brinvilliers trovò che il mostro era una donna piccola, dagli occhi blu, dolce
e bella, senza alcun segno di cattiveria: adorata da chi la guardava, che non
faceva che piangere.
A
Pirot confessa di aver ucciso il padre e i fratelli, afflitta anche per suo
marito, al quale scrisse una lettera piena di affetto.
A
questo punto viene da chiedersi come una donna così fragile, che ispirava
tenerezza e commozione (oltre ai pianti di Pirot, si era commosso lo stesso
boia nel prepararla per la decapitazione!), avesse potuto commettere delitti
così raccapriccianti.
Nessuno
di tutti coloro che si erano occupati della marchesa si era preoccupato di
esaminare questo duplice aspetto della personalità della marchesa, neanche
Lombroso (*), che pur aveva citato il caso degli avvelenamenti (nel suo libro La femme criminelle Paris, 1896): l’unico a metterci sulla buona
strada era stato J. Michelet, sulla base di una risposta data dalla marchesa a
Pirot, “della sua predestinazione al suo
arresto” e, senza dubbio, aggiunge M., anche dei suoi crimini.
Michelet
ritiene Pirot uno scolastico privo di
spirito, senza alcuna penetrazione (di pensiero), perché altrimenti il teologo,
avrebbe approfondito questo aspetto (della predestinazione).
M.
scrive che a questo punto occorre sapere quale ascendente avesse avuto
Sainte-Croix sulla marchesa e quale fu il misticismo di cui egli scrivesse, e
ritiene che: “Per indurla a commettere
tali atti una giovane donna dolce e devota, egli dovette trasmettere, oltre
alla passione, una perversione della ragione”.
“I
precursori di Molinos (**), prosegue M., che
da lungo tempo propagavano le loro idee a Parigi, insegnavano che il peccato è
la scala per salire al cielo; poi i suoi successori divinizzarono la morte; la
beata Maria d’Aguada credeva di santificarsi uccidendo dei bambini e riteneva di farne degli angeli”.
“La morte morale era la loro
perfezione, la morte fisica era una perfezione superiore, un sollievo di questa
vita di miseria, un dolce riposo dell’anima in Dio. Questo
misticismo di Sainte-Croi0x - conclude Michelet - insegnava
troppa indifferenza alla morte, alla vita, alla distinzione delle due vite,
mortale e immortale per fornire alle tentazioni del crimine dei sofismi assassini:
non è senza pericolo esagerare così il niente,
quaggiù”,
*)
Sembra che le tanto criticate teorie lombrosiane sulla predisposizione
dell’individuo a commettere reati stanno cominciando ad essere affermate dalle
“neuroscienze” che nello studio del cervello umano hanno riscontrato delle
diversità tra le persone normali e le persone dedite alla criminalità.
**)
Miguel de Molinos, presbitero
(1628-1696) autore della Guida Spirituale che ebbe grande diffusione.
FINE
PRIMA PARTE