VELENI

FILTRI D’AMORE

E MESSE NERE

ALLA CORTE LUIGI XIV

 

Michele E. Puglia

                                                                                                                             

Caro Lettore,

mi auguro che nel leggere l’articolo possa provare lo stesso gusto

 che io ho provato a sciverlo.

Questa volta è stata Maria Colonna a prendermi la mano

e a portarmi via un pezzo della mia anima che si trova

in questo lavoro (scritto in sei anni e finito a ferragosto 2023).

Con lei ho condiviso  la stessa passione per la libertà (senza

la componente isterica che la  accompagnava,

 dovuta al suo carattere e al  marito che la perseguitava),

 Ma avevo risolto il problema rinunciando a sposare Ione

la ragazza che amavo

(rompendo i ponti mi ero trasferitoi altrove,

 vivendo da singolo, seppur avessi parentesi di compagnia).

Il suo ricordo

è rimasto indelebile nella mia mente.

Sono passati cinquant’anni e continua ad  apparirmi nei

 sogni notturni, bella com’era a vent’ann, mentre io ne avevo trenta

e alla sua memoria, per il bel ricordo che mi ha lasciato,

dedico questo lavoro, che ho anche materialmente  sofferto

per gli acciacchi riservati dalla tarda età.

 

 

PARTE SECONDA

 

 

SOMMARIO: E’ ISTITUITA LA CAMERA ARDENTE; LE MESSE NERE CELEBRATE PER LA MONTESPAN; I SOSPETTI SUGLI AVVELENAMENTI CADONO SULLA CONTESSA DI SOISSONS; CESSA L’ATTIVITA’ DELLA LA CAMERA ARDENTE; LUIGI XIV SI DEDICA AD ALTRI AMORI; A CORTE BRILLANO LE NIPOTI DI MAZZARINO; MARIA SPOSA IL CONNESTABILE PRINCIPE COLONNA; OLYMPIA SPOSA IL PRINCIPE DI CARIGNANO CONTE DI SOISSONS; MARIA-ANNA MANCINI DIVENTA DUCHESSA DI BUGLIONE; MARIA ESTASIATA DAL PALAZZO COLONNA E DALLE LUMINARIE DI PIAZZA NAVONA; LA CRISI DEI MATRIMONI DI MARIA E ORTENSIA;  I SOSPETTI DEL BOCCON E LA FUGA DA ROMA; L’AVVENTUROSO VIAGGIO PER MARSIGLIA; MARIA PARTE PER LA  FRANCIA;  LA LETTERA DI MARIA E’ RECAPITATA AL RE CHE NON VOLEVA SI AVVICINASSE A PARIGI; MARIA SI RECA IN SAVOIA DAL DUCA CARLO EMANUELE II; MARIA DOPO ESSERE STATA A COLONIA SI RECA IN SPAGNA; CARLO II DI SPAGNA L’ECISADO.

 

 

 

E’ ISTITUITA

LA

CAMERA ARDENTE

 

 

E

ra appena trascorso un anno dalla esecuzione della Brinvilliers (1676, v. P. I) che il 21 settembre 1677 un biglietto anonimo trovato in un confessionale della chiesa dei gesuiti in rue Saint-Antoine, riferiva che che vi era un progetto di avvelenamento del re e del delfino, eccitando al più alto grado le inquietudini del luogotenente generale di polizia Nicolas de La Reynie.

Dopo qualche mese di ricerche fu scoperta un’associazione di alchinisti, falsi monetari e maghi, di cui facevano parte due individui, Louis Vanens, con la sua amante Finette e Robert de la Mirée, signore di Bachimont nell’Artois, la cui condotta era parsa più che sospetta, senza giustificare tuttavia, con dei fatti precisi, l’accusa che pesava su di loro.

Il primo fabbricava dei filtri che vendeva a mediatrici e fattucchiere e si supponeva che qualche anno prima avesse avvelenato il duca di Savoia; Bachimont era uno dei suoi agenti e viveva dello stesso mestiere.

Seguendo questo filo conduttore, La Reynie risalì a un certo numero di persone più o meno compromesse che fece arrestare; erano una donna, La Bosse, vedova di un mercante di cavalli; la Vigoreux, sposata a un sarto di abiti femminili, un certo Nail e una Lagrange. Riconosciute colpevoli di aver preparato dei veleni, queste due furono condannate a morte con sentenza del Parlamento eseguita il 6 febbraio 1679.

Il 12 marzo, un arresto che doveva esercitare un’influenza considerevole sul processo, quello di Catherine Deshayes, moglie del gioielliere Antoine Monvoisin o Voisin, aveva luogo  all’uscita dalla messa della chiesa di Notre Dame de Bonne Nouvelle; era levatrice e sopratutto praticava aborti; aveva il talento di intuire il carattere di una persona, non dalle linee della mano ma osservando il volto; era entrata in stretti rapporti con la Montespan alla quale procurava le polveri magiche; un giorno in un momento di debolezza, aveva confessato (probabilmente esagerando!) di averne interrati nel suo giardino più di 2500 bambini.

La Fontaine l’aveva definita la “pitonessa”; era una levatrice che procurava veleni per coloro che desideravano avvelenare i propri mariti e sposarne altr; oltre a polveri amorose, bambini da sacrificare in messe nere; era ricercata da una infinità di persone di tutti i ceti sociali e guadagnava da cinquanta a centomila franchi, ma erano tutti spesi in gozzoviglie; manteneva i suoi amanti ed erano numerosi; uno di loro era il boia di Parigi André Guillome che aveva tagliato la testa alla Brinvilliers e per orribile fatalità era stato il suo esecutore; tra gli altri amanti, vi era stato il visconte di Couserans, il conte di Labalie, l’architetto Fauchet, un mercante di vini del quartiere, il mago Lesage, l’alchimista Blessie, ed altri. Blessis, Lesage e poi Latour, le fecero spendere molto danaro in quanto la Voisin aveva una vera passione per l’alchimia.

Compagna della Voisin era Francoises Filastre, nel senso che era la più temibile fattucchiera di Parigi, di quelle che avevano offerto, sgozzandolo, un suo bambino a Satana e si era recata in Auvergne per conoscere i segreti per avvelenare, senza che il veleno si vedesse.

Con l'arresto della Filastre i commissari della Camera ardente ebbero conferma delle rivelazioni fatte dagli altri prigionieri della Bastiglia e di Vencennes;

 Il re, informato ne rimase terrificato, tanto da sospendere le sessioni della Camera ardente (primo ottobre 1680), che furono riprese il 19 maggio successivo, con divieto ai magistrati di prendere iniziative per quanto dichiarato dalla Filastre e contenuto nei processi verbali. Da questo momento il re non ebbe più alcun dubbio sui nefasti progetti della Montespan, ma nonostante ciò, vedremo che con la Montespan si comporterà graziosamente.

Un altro elemento venne ad aggiungersi alle prove contro la Montespan, il nome della Desœillets, dama di compagnia  della Montespan e appariva in tutti i verbali, in quanto essa svolgeva pratiche e commissioni per conto della signora.

Un giorno (il 23 gennaio 1680) si apprese che un principe della casa di Borbone, il conte di Clermont, le nipoti del cardinale Mazzarino, come la contessa di Soissons, sovrintendente della casa della regina e la duchessa di Buglione, una Lussemburgo, dame del seguito della regina, la principessa di Tinguy, la marchesa d’Alluye, la contessa di Roure, la marchesa di Feuquiéres, il marchese di Thermes, infine il maresciallo di Francia Boutteville Montmorency, duca di Lussemburgo, ai quali si aggiunsero famiglie di parlamentari, come la vedova del presidente Le Féron e la moglie del signor de Dreux, maitre des requétes, tutti questi i grandi nomi, risultarono accusati (ma i loro nomi erano stati fatti dai fattucchieri, sotto tortura, nella speranza di salvare la loro vita). 

Alla vigilia del giorno in cui furono emessi i decreti, la contessa di Soissons, altera nipote del cardinale  Mazzarino, una delle prime amanti del giovane Luigi XIV, divenuta sovrintendente della regina, per indulgenza del re, era fuggita precipitosamente e si diceva fosse già lontana da Parigi sulla strada per Bruxelles, mentre sua sorella, la duchessa de Buglione, era in attesa di essere interrogata, mentre ad essere arrestato con altri accusati era stato il duca di Lussemburgo,  condotto alla Bastiglia, vittima di un intendente, il quale dopo un processo sarà condannato alla prigione perpetua e il duca assolto.

L’affare dei veleni prese delle proporzioni inattese; per sottrarlo alla pubblicità, il governo istituì il 7 aprile (1680)  una Camera Reale presso l’Arsenale alla quale il popolo aveva dato il nome di Camera ardeme o Camera dei veleni.

La Reynie e un altro consigliere di Stato, Luois Bazin, signore di Bezons, come lui, che aveva  preso parte attiva al famoso processo (per lesa maestà) del cavaliere di Rohan, furono nominati relatori. Ma presto, malgrado la discrezione raccomandata ai giudici, la voce che i nomi più elevati e più vicini al trono  ed erano compromessi con la Voisin, si sparse per tutta Parigi. 

“Sua maestà”, aveva scritto La Reynie, “ci ha raccomandato la giustizia e nostro dovere, in termini estremamente chiari e precisi, è quello di penetrare quanto più sia possibile nello sventurato commercio dei veleni, al fine di estirparne la radice, se possibile, e ciò senza distinzione di persone, condizione e sesso”.  

Essendo emerse delle indiscrezioni, Luigi XIV, indignato, aveva autorizzato l’arresto dei personaggi indicati. Ma ciò aveva messo in pericolo la sua stessa vita, quella del delfino, di Colbert, di mademoiselle la Valliére, della duchessa di Fontange e i giudici istruttori furono persuasi a desistere dall’arresto della duchessa di Vivonne e di madame de Montespan che, anch’esse stavano per essere arrestate.

La Reynie, che aveva l’ordine di inviare tutti i giorni a Colbert e Louvois un estratto degli interrogatori, racconta che il 6 febbraio 1680, si recò su ordine di Louvois a Saint-Germaine, al lever du roi, che gli disse “parecchie cose di conseguenza”, aggiungendo che egli voleva combattere un altro crimine che sua Maestà non ha altrimenti spiegato. Cosa fosse questo nuovo mistero, La Reynie non lo spiegava, ma sappiamo attraverso le sue carte che tutti gli interrogatori non dovevano essere indistintamente mostrati ai giudici, per non divulgare dei fatti la cui conoscenza era riservata solo al re, a Louvois e a Colbert.

Scritti eccezionalmente su fogli volanti, questi interrogatori potevano essere eliminati senza difficoltà. Era inteso che le carte della procedura sarebbero state bruciate. Ora, queste carte, di cui Luigi XIV desiderava tanto far sparire le tracce (ci dice Funk-Brentano), esistono ancora sia in originale, sia in copia, permettendo di compensare in qualche modo il processo di cui il pubblico non supponeva la gravità e ancor meno i dettagli .... ciò che aveva fatto pronunziare a un imbarazzato Colbert “sacrilegio, profanazione, abominio”; “cose veramente esacrabili per eesere scritte in documenti”, aveva detto un’altra volta.

Ben duecentoquarantasei persone erano state coinvolte nell’accusa e trentasei erano state condannate a morte per avvelenamento, messe sacrileghe e uccisione di bambini; di coloro che ebbero salva la vita. alcuni furono condannati alla prigione perpetua,altre  alle galere e altre all’esilio; gli altri, detenuti fino alla fine dei loro giorni.

 

 

LE MESSE NERE

CELEBRATE PER LA

MONTESPAN

 

 

D

all’interrogatorio dell’abate Guibourg (ottobre 1680), sappiamo che il ricorso della Montespan alle messe nere risaliva al 1673, quando lei vi aveva partecipato personalmente (come riferisce Franz Funck-Brentano in “Le drame des poisons”, Paris. 1900) a tre di esse.

Ma il coinvolgimeno della Montespan in queste pratiche, aveva avuto inizio nel 1668 con due preti, Mariette e Lesage, quando, introdotti nell’appartamento di madame de Thiange nel catello di Saint-Geramaine, Mariette, avendo la cotta e la stola, aveva fatto delle aspersioni di acqua benedetta e recitato il vangelo dei re sulla testa di madame de Montespan, mentre  lei esprimeva i suoi desideri nei quali ricorreva il nome del re e quello de la Valliére; di questa, madame de Montespan, chiedeva la morte, mentre Lesage bruciava l’incenso;  altre funzioni fatte in circostanze analoghe, avevano avuto le stesse finalità.

Le tre messe erano state fatte a distanza di quindici giorni o tre settimane l’una dall’altra.

La prima aveva avuto luogo nel castello di Villedousin, frazione di Mesnil, presso Monthlery; presenti, m.lle Desœilletts, al seguito della Montespan, l’abate Guibourg, Leroy, governatore dei paggi della Picccola Scuderia e un personaggio  che si diceva legato all’arcivescovo di Sens; Leroy possedeva una casa a Mesnil e aveva promesso a Guibourg, per la messa, cinquanta pistole e un beneficio di duemila lire.

La dama (la Montespan) era tutta nuda distesa sull’altare, un tovagliolo sul ventre e sul tovagliolo una croce nel verso dritto dello stomaco e il calice sul ventre; le candele accese erano nere; l’officiante, faceva passare sul calice il patto scritto su carta di pergamena vergine che diceva:

Astarotte, Asmodeo, principi dell’amicizia, vi scongiuro di accettare il sacrificio che vi presento di questo fanciullo per ciò che vi chiedo, che sono di continuare l’amicizia che mi concedono il re e monsignore il Delfino; che la regina sia sterile; di essere onorata dai principi e dalle principesse della corte; che niente mi sia negato di tutto ciò che chiederò al re, tanto per me, quanto per i miei parenti e servitori”.

Il bambino sacrificato, aveva scritto Le Reynie, era stato portato da una donna (che aveva ricevuto da Guibourg uno scudo) e il sangue gli era stato estratto dalla gola con un temperino (altri indicano uno spillone) e versato nel calice; il corpo del bambino era stato poi portato in altro posto, dove gli erno stati presi il cuore e le interiora per le polveri da dare alla Montespan, che le avrebbe fatte prendere al re e al delfino.

La seconda messa, recitata sul corpo della Montespan, ebbe luogo in una casupola squallida; lei era distesa nuda su un matarasso, con la testa sostenuta da un guanciale posto su una sedia rivoltata, le gambe pendenti.

La terza ebbe luoo in una casa di Parigi, dove Guibourg fu condotto con gli occhi bendati e dopo la cerimonia fu riportato via alla stessa maniera.

Probabilmente impressionata dal veder sgozzati tre bambini, la Montespan non volle più partecipare a messe nere che furono dette secondo le sue intenzioni, vale a dire sostituendola.

Guibourg le celebrava sul corpo di una ragazza nuda (di otto-nove anni), che sostituva la Montespan; durante la celebrazione non mancavano baci impudichi del celebrante ... che terminava la messa con un rapporto completo; l’abate aveva detto che celebrava queste messe con la stessa ragazza da cinque anni e aveva sacrificato tre ragazzi.

Per questi massacri di bambini a Parigi vi erano stati dei disordini (1676), che si diceva fossero allevati per essere sgozzati; ma come si vede, si continuava a sgozzarli; si trattava di bambini abbandonati da ragazze madri o da donne povere che non potevano allevarli: molte indovine furono accusate di aver sgozzato in queste pratiche mostruose propri bambini; la stessa figlia della Voisin, sul punto di partorire, non fidandosi della madre, si era allontanata dalla casa e vi era tornata solo dopo aver messo al sicuro il suo bambino.

In questo periodo il giornale della salute di Luigi XIV riportava che il re soffriva di forti mal di testa e verso la fine del 1673 era stato colpito da tale stordimento, da temere per la sua vita (per sua fortuna il re aveva una salute di ferro ndr.!).

C’è da chiedersi come la Montespan facesse arrivare le polveri al re, che era circondato da (officier du gobelet), guardie addette al controllo dei suoi piatti che non permettevano alla Montespan che si avvicinasse; ma lei vi riusciva ugualmente.

Davvero raccapricciante se a queste mostrosità vi ricorrevano persone colte, come la Montespan che doveva aver perso la testa se, come vedremo, oltre alla Fontange voleva avvelenare lo stesso re.

La duchessa di Vivonne, sua cognata, che mirava a sua volta a sostituirla, aveva firmato un patto con la duchessa d’Angouléme e madame de Vitry, per la morte della Montespan. Eppure costei, con tutto questo suo gran daffare, tra messe nere e polveri, non aveva ottenuto altro ... all’infuori della morte naturale della Fontanges (v. sotto).    

Il rapporto del re con la Montespan era durato tredici anni (1667 al 1680), e il re le aveva graziosamente consentito di continuare a vivere a Versailles (a parte la sostituzione del suo appartamento di venti vani al primo piano che era più grande di quello della regina, con uno di undici vani al secondo piano), quando i rapporti erano cessati e il re si era dedicato al nuovo rapporto con la Fontanges, durato quanto l’apparizione di una meteora e poi della Maintenon;  ma leicontinuava a vedere il re e a uscire al seguito della  carrozza della regina e della Maintenon e il popolo, quando le vedeva passare le chiamava le tre regine; rimase a Versailles fino al 1691, quando decise di andare presso la comunità di san Giuseppe, da lei fondata.

Le gelose rivali della Montespan, avevano fatto ciò che lei aveva fatto per eliminare La Valliére: si erano rivolte ai maghi; queste erano la duchessa d'Angouléme, m.me de Vitry e la cognata Antoinette de Mesme, duchessa de Vivonnne, contro la quale il re non permise che fosse perseguita (per i veleni), in quanto legata da parentela alla Montespan; probabilmente vi era stata la opposizione anche di  Colbert che aveva  una delle sue figlie sposata al duca di Mortemart, figlio della duchessa.

 

 

I SOSPETTI SUGLI

AVVELENAMENTI

CADONO SULLA

CONTESSA DI SOISSONS

 

 

U

n incidente verificatosi nel 1680 aveva preoccupato La Reynie e Luigi XIV; riguardava de Lamoignon che aveva diretto il processo della Brinvilliers, morto all’improvviso e come si verificava in questi casi, si riteneva fosse stato avvelenato.

La Reynie aveva interrogato il figlio del magistrato il quale gli aveva detto che il padre si era impegnato molto in quell’affare (dei veleni) e aveva trovato qualcosa in madame de Soissons (Olympia Mancini, nipote del cardinale Mazzarino v. sotto) che nella sua testimonianza aveva mostrato un profondo risentimento; ma questo incidente non aveva avuto seguito e i sospetti erano caduti in quanto  madame de Soissons, lascerà la Francia.

Anche Nicolas Fouquet (v. P. I), il celebre ministro di Luigi XIV che con Colbert aveva reso un grande servigio al suo re e al suo paese, moriva all'improvviso  nello stesso periodo. I suoi nemici lo accusavano di voler avvelenare Colbert e il re, e lo considerevano come sospetto di avere dimestichezza con i veleni e anche di aver avvelenato il defunto cardinale Mazzarino (che invece era morto di malattia venerea ex immodica venere), ma ciò era entrato a far parte delle facezie raccontate per divertimento nelle Mazarinade.

Fouquet aveva dato adito a queste voci in quanto durante il processo della Brinvillieres era emerso che conosceva un farmacista esperto in veleni, che si recava annualmente in Italia per suo conto  ... e anche i complici della Voisin durante gli interrogatori tirarono fuori il suo nome!

Anche un prete di nome Davot che era stato impiccato e bruciato, aveva dichiarato che un parente di Fouquet, consigliere al parlamento, morto nel 1679, gli aveva chiesto del veleno per vendicarsi.

Sulla base di  queste dichiarazioni inattendibili per esser fatte sotto tortura, si istruivano i processi e proprio nei confronti di un uomo e una donna noti (dell'uomo non fu rivelata l’identità, la dama era la duchessa di Vivonne), furono accusati di voler far morire il re e Colbert far prendere il potere da Fouquet: era stata proprio la Filastre che sotto tortura aveva accusato la duchessa di Vivonne ... che aveva avanzato una simile richiesta al diavolo!  

Fouquet era  in pessime condizioni di salute: egli lamentava di avere le gambe gonfie, la sciatica, le coliche, le emorroidi, i calcoli, la renella, senza contare i raffreddori, il mal di testa, i flussi, i ronzii alle orcchie, gli occhi perduti e deboli, i denti minati. La cosa più giusta da fare, aggiungeva, sarebbe quella di lasciare interamente la cura del corpo e di pensare all'anima.

Fouquet moriva il 6 Aprile 1680 e la sua morte ufficiale (e vera) era per apoplessia, ossia infarto (con i sintomi del vomito, senza vomitare come aveva riferito la Sévigné).

Nel frattempo i mesi scorrevano e le prove che giustificavano i primi sospetti nei confronti di madame de Montespan si andavano perdendo e La Reynie dichiarava di non poter percepire lo spesssore delle tenebre da cui era avvolto, e chiedeva tempo per venire a capo di questo maledetto affare, perso nel labirinto delle denunce alle quali aveva il torto di dare una importanza esagerata.

La stampa, di questi fatti, non dava notizie: le gazzette straniere, annunciavano a intervalli, la condanna o il supplizio di qualche volgare accusato; ma era tutto e non traspariva alcun dettaglio; La Gazette de France, l’organo ufficiale della Corte, osservava il silenzio più assoluto; per essa la Camera ardente non esisteva; parlava lungamente delle piccole feste reali, delle passeggiate della regina, delle  visite del delfino, delle cerimonie religiose, di tutto ciò che avveniva nel regno del Siam, in Cina, in Turchia e a Mosca e non si asteneva che su un punto: quello che interessava maggiormente l’opinione pubblica.

Dovette intervenire Colbert per smuovere questa situazione che non poteva essere prolungata senza compromettere le signore Montespan, de Vivonne e la stessa regalità; egli scrisse una lettera all’avvocato Claude Duplessis (febbraio 1681), l'avvocato consulente di Colbert, al quale comunicava tramite La Reynie i verbali degli interrogatori che costiuivano un dedalo da cui era difficile uscirne.

Colbert (genericamente) riferiva di aver esaminato la memoria (mandatagli dall’avvocato) che mi avete inviato; mentre l’avvocato gli faceva, tra l’altro, notare, che la lunga durata della detenzione, il gran numero degli accusati (ricordiamo che i testimoni sotto tortura accusavano un gran numero di persone), avevano dato loro la possibilità di comunicare tra di loro e suggerire idee e compromettere personaggi di rango elevato.  

Secondo Colbert, vi erano tre modi per uscirne: giudicare qualche accusato dei più compromessi come Lesage, Guibourg e la figlia della Voisin (la madre era già finita sul patibolo); e infine mandare tutte le altre canaglie in Canada, a Cayenne, nelle isole d’America e a Saint-Dominique. Ma egli avrebbe personalmente preferito mandare una ventina di monaci colpevoli in qualche prigione vicino Parigi e mettere il resto nelle segrete pù rigorose.

Scrive Pierre Clement (in La Police del Louis XIV, Paris, 1880): le memorie di Duplessis a Colbert, esistono ancora e sono curiose da interrogare; dopo aver riassunto le deposizioni principali contro madame Montespan, deposizioni che egli qualifica esecrabili calunnie (si era ritenuto che con le polveri madame de Montespan intendesse attentare alla vita del re), deposizioni che non avevano altro scopo di sviare la giustizia; che, se madame de Montespan si fosse realmente compromessa con pratiche infami con la Voisin, costei non le aveva revocate quando era sul punto di comparire innanzi a Dio  e non aveva più motivo di pensare alla sua salvezza.

Le denunce fatte dalla figlia, dopo la morte di sua madre (che la Montespan voleva attentare alla vita del re), erano state smentite da diversi testimoni; che, ammettendo che ciò che aveva detto fosse vero, i rapporti tra la Montespan e Voisin erano durati da cinque a sei anni, durante i quali la Voisin aveva ricevuto numerose visite della signorina Desœillets, damigella di compagnia della Montespan, che riceveva dalla Voisin le polveri magiche tutte le volte che la Montespan sentiva di cadere dalle buone grazie del re. 

Come concepire il disegno di avvelenare una persona che l’amava più della sua vita? E Sua Maestà che conosceva madame de Montespan fino al fondo dell’anima, non si sarebbe mai persuaso che lei fosse capace di questo abominio.

Ma si era ritenuto che facendo prendere al re le polveri d’amore, preparate con la velenosissima cantaride, l’impalpabile veleno dei Borgia, polvere essiccata di talpa, sangue essiccato di pipistrello, con altri ignobili ingredienti, come aveva testimoniato Margherita Monvoisin, figlia della Voisin, che la madre aveva dato alla Montespan (da far prendere al re durante i pasti) in dosi troppo forti, a dire dei medici, avrebbero avuto l’effetto di un vero veleno.   

 

 

 

*) Vi era anche un metodo con un modo di  procedere diverso. meno cruento, eseguito a distanza con sostituzione della persona che si intendeva colpire, ricorrendo al sortilegio con una figura di cera dell’interessato. Il mago Lesage aveva una figura di cera del re che diceva che intendeva far morire: La moglie del presidente Leféron trovava il marito noioso, avaro ... e insufficiente; giunta a cinquant’anni si innamorò follemente del sig. de Prade e questo dei suoi danari. La Voisin con la somma di ventimila lire pagate dal de Prade, diede alla signora delle fiale e una figura di cera vergine in una scatola di ferro, che ogni tanto doveva far  riscaldare, per riscaldare il cuore della Leféron; le fiale produssero il loro effetto ... il presidente spirò l’8 settembre 1669 e la Leféron sposò de Prade! 

 

 

 

 

 

CESSA L’ATTIVITA’

DELLA

 CAMERA ARDENTE

 

 

L

a Camera dell'Arsenale detta Camera Ardente o dei veleni,  istituita nell'aprile 1679  è sciolta a luglio 1682. Prima che fosse sciolta (nel mese di gugno) era stata emanata una ordinanza che nel preambolo, riconosceva che “un gran numero di maghi e  incantatori  venuti in Francia da paesi stranieri avevano creato molti inganni e vittime suscitando vane curiosità e superstizioni mescolando alla empietà e ai sacrilegi i malefici e i veleni”.

Per rimediare al male, il re ingiungeva agli indovini e indovine di lasciare immediatamente il regno e comminnava la pena di morte contro chiuunque celebrasse messe sacrileghe e abominevoli che avevano procurato uno dei maggiori scandali del preocesso che si era venuto a giudicare.

Un articolo dell'ordinanza (art.6) dava atto delle incertezze della giustizia sull'azione di certi misteriosi veleni e precisava: “Saranno annoverati tra i veleni non solo quelli che possono causare la morte immediata e violenta, ma anche quelli che alterando poco a poco la salute, causano malattie, sia che i detti veleni siano semplici o naturali, sia che siano composti e fatti da mani esperte”. Un altro articolo regolava la vendita dell'arsenico, del realgar, orpimeto e  del sublimato. Infine veniva vietato l'impiego, come medicamento, di animali velenosi come serpenti, rane, vipere e altro, a meno di speciale autorizzazione.

Queste disposizioni confermavano la preoccupazione delle autorità, spesso ripetute, relativamente alle polveri amorose, che potevano procurare la morte.

E’ così che in queste circostanze la gente più vile appoggiava la favorita e a Corte ministri e cortigiani che le erano più favorevoli non la passarono impunemente e molti nomi di grandi dame vennero accostati  ad accuse infamanti: All'epoca però  l'intera faccenda era rimasta avvolta nel  mistero in quanto i verbali erano stati bruciati dal re in persona, e soltanto per la meticolosità del capo della polizia La Reynie che aveva annotato tutto in documenti personali, scoperti all'inizio del '900, si sono potuti ricostruire tutti i particolari. La stessa m.me de Sevigné al corrente di tutto ciò che succedeva presso la Corte, ignorava in maniera assoluta la questione che si era sollevata attorno agli avvelenamenti.     

Quando la Camera dell'Arsenale aveva terminato la sua opera, su duecentoventisei arrestati (alcuni arbitrariamente senza mandato), trentasei erano morti o sotto tortura o giustiziati, gli altri erano rimasti nelle prigioni di Stato, un piccolo numero come la duchessa di Buglione e il duca del Lussemburgo, erano stati esiliati.

Per tutto questo, La Reynie si era attirato mille inimicizie; la famiglia di Buglione era tra le più irritate; la duchessa era accusata di essersi recata dalla Voisin per chiederle di sbarazzarsi del marito.

Maria-Anna Mancini duchessa di Buglione voleva effettivamente disfarsi del vecchio  marito che l'annoiava, per sposare il giovane duca di Vendôme e il duca era stato personalmente avvertito dal re.

Ma il giorno dell'interrogatorio (cit. Funck-Brentano) la duchessa si era recata all'Arsenale accompagnata dal marito, seguita da un corteo di venti carrozze, ricevuta da parenti, amici e amiche con adorazione, tanto era graziosa, candida, spontanea, audace, di buon'aria e di spirito tranquillo. 

Convocata, era entrata nella Camera, riferiva m.me de Sevigné, come una piccola regina; dopo essersi seduta chiese che fosse scritto ciò che diceva: “Che era venuta per rispetto del re e non della Camera che lei non riconosceva, attenendosi al privilegio dei duchi (che consisteva nell’essere giudicati dal Parlamento a Camere riunite): E non pronunziò parola fino a quando il cancelliere non aveva finito di scrivere.

Alla prima domanda: Conoscete la Vigoreaux?; lei iniziò a togliersi il guanto, mostrando una bella mano e rispose: No. Conoscete la Voisin? Sì. Perché volete disfarvi di vostro marito? Non avete che da chiedere a lui, se ne sia persuaso. Perché andate così spesso dalla Voisin? Per vedere le Sibille, come lei mi ha promesso; questa compagnia merita bene qualsiasi passo. Lei ha mostrato a questa donna un sacco d’argento. Rispose di no, e per più di una ragione, con un gran sorriso e gran disprezzo. E aggiunse. Veramente non avrei mai creduto che degli uomini colti potessero chiedere tante stupidggini.

Poi giunse La Reynie, il quale, tra le altre domande, le chiese se dalle fattucchiere avesse mai visto il diavolo. Sì, rispose la duchessa; “lo vedo in questo momento, brutto, vecchio e camuffato da consigliere di Stato”; la risposta si diffuse fuori della Camera e divertì la Corte e tutta Parigi.

 

 

LUIGI XIV

 SI DEDICA

AD ALTRI AMORI

 

 

I

n questo periodo erano tre le donne che si disputavano il cuore del re, m.me de Montespan, m.lle de Fontange e, in riserva,  l'astro nascente, madame de Maintenon.

Quanto a m.me de Montespan, divorata dalla gelosia, dalla ambizaione, dalla vanità, (Saint-Simon  la considerava molto devota e giocatrice sfrenata: bruciava somme di danaro inconcepibili: in una serata aveva perso 100mila écus (un milione e mezzo 1859) e durante un Natale ne perdette settecentomila (dieci milioni del 1850); su tre carte aveva puntato 150 pistole (sette milioni di franchi del 1850) e li aveva vinti: si stordiva con i suoi trionfi che dovevano essere effimeri e sarebbero stati seguiti da giorni trissti e crudeli.

Essi giunsero nel 1679 quando aveva chiesto all'abate Gobelin di pregare per lei (che aveva quarant’anni) e per il re che si trovava sull'orlo di un grande precipizio e il precipizio era rappresentato dall'arrivo a Corte della  (diciottenne) Fontanges.

Ebbe il mortale dispiacere, dopo essere stata per dodici anni la più imperiosa e arrogante delle regine dei capricci, di vedere tutti gli omaggi rivolgersi verso la rivale da lei introdotta nel tempio, che aveva quelle qualità che a lei mancavano: la moderazione, la dolcezza, la saggezza.

Bella, limpida, radiosa, di una eleganza regale, squisita nei modi e raffinata nella conversazione, spensierata e gioiosa, raggiante e gloriosa,  affascinante, la Montespan aveva dominato la Corte di Francia ed era stata l'orribile cliente dell'abate Guibourg,  della Voisin e della Filastre.

Nella situazione in cui era caduta, la dignità avrebbe voluto che lasciasse immediatamente la corte, ma come lasciare un luogo dove era stata sovrana assoluta e dopo essere stata tutto, abituarsi a non essere più niente?

Luigi continuò a riceverla in pubblice, le rendeva delle visite che potevano colpire certamente lo spettatore superficiale ma occhi esercitati potevano notare i profondi cambiamenti  che si erano operati sotto le apparenze esteriori: vi era chi aveva notato che la trattava con rudezza, chi con disprezzo. Ma ebbe la forza di resistere per dieci anni, quando nel 1691 si trasferì nella comunità di s. Giuseppe da lei fondata a Parigi, con una pensione reale di dieci mila pistole (cinquecentomila franchi del 1850) al mese (la morale comune per queste amanti che offrivano la disponibilità del proprio corpo, secondo gli insegnamenti cristiani, riteneva di ottenere la redenzione ... dedicadosi a opere  religiose o fondando monasteri! ndr.).

 La Fontange era la favorita del momento e la preferita ed era quindi nel periodo del suo maggior splendore e otteneva dal re tutti i favori, al di sopra di ogni immaginazione.

La sua bellezza era fuori dall’ordinario; la principessa Palatina della quale la Fontanges era damigella d'onore, aveva detto "che era  decisamente rossa ma bella dalla testa ai piedi" (altre descrizioni la indicavano bionda).

La sua apparizione era stata quella di una meteora: aveva diciannove anni quando  nel mese di giugno 1680 lasciò la Corte per recarsi prima nell'abbazia di Chelles e successivamente nell'abbazia di Port Royal, dove l'anno successivo fu stroncata dal male che si era impossessato di lei, probabilmente aggravato dalla polvere di veleno che nadame de Vivonne non si era fatto scrupolo di propinarle, per sbarazzarsi di una rivale.

La duchessa di Fontanges aveva avuto un istante di splendore senza pari, ottenendo per qualche mese ciò che era al di sopra della più fervida immaginazione si potesse desiderare. Funck-Brentano aveva scritto che: “Nessuno dei capricci del re aveva avuto uno scoppio così imprevisto, così abbagliante, così fuggitivo e sembrava di leggere un rascconto delle Mille e una notte”.

Dopo appena un mese dal ballo mascherato a Villers-Cutterets dato da Monsieur, dove il re aveva incontrato m.lle de Fontanges, era stata creata duchessa con un appannaggio di ventimila ecus; aveva ricevuto i complimenti  nel suo letto..."come era più che naturale", aveva scritto M.me de Sévigné; madame de Montespan era furiosa; si può immaginare la sofferenza per l'orgoglio ferito e ancor più oltraggiato per i favori concessi alla Fontanges.

Tutti i favori della giovane duchessa caddero altrettanto rapidamente; la grande impalcatura fatta di pensioni, diamanti, titolo di duchessa, non potevano altrimenti consolarla. Rimase bella come il giorno fino alla fine, aveva scritto Saint Simon, la sua tavola che era imbandita fino all'eccesso, era divenuta frugale, poco per volta si era disfatta di tutti i suoi averi con atti di liberalità e fondazioni di pietà per i poveri.

Nel mese di luglio 1680 partì per l'abbazia di Chelles accompagnata da  quattro carrozze da sei cavalli, la sua era da otto cavalli, in cui erano le sue sorelle ammantate di tristezza.  

Qualche tempo dopo la povera duchessa  moriva il 28 giugno 1681 dopo aver languito per un anno, convinta di essere stata avvelenata, ma moriva per una pleuro-polmomìnite di origine tubercolare, all'età di ventidue anni; dieci anni prima aveva fatto lo stesso scalpore la morte di Enrichetta d’Orleans (1644-1670) moglie di Monsieur, il fratello di Luigi XIV, Filippo d’Orleans.

Figlia di Carlo I d’Inghilterra e sorella di Carlo II (da non confondere con Carlo II di Spagna, v. sotto) e Giacomo II, lei stessa riteneva di essere stata avvelenata dal cavaliere di Lorena, per motivi politici, in quanto nel 1670 era riuscita a far firmare dal fratello Carlo II, il Trattato di Douvres, che assicurava a Luigi XIV l’alleanza dell’Inghilterra contro l’Olanda, permettendo la conquista da parte della Francia, delle Fiandre e della Franca Contea; ma vi erano stati sospetti di avvelenamento anche da parte di Monsieur; invece soffriva di stomaco e gli ultimi tempi non riusciva a mangiare se non bevendo latte di asina e fisicamente si era ridotta a uno spettro. Luigi XIV, convinto della stessa idea dei medici, volle evitare che fosse eseguita un’autopsia; comunque secondo i medici la morte era stata naturale.

L’interesse del re nei confronti della Maintenon era determinato da un approccio completamente diverso da tutte le altre che l'avevano preceduto, quello dell'amicizia e della conversazione (v. Amanti e favorite del re Sole ecc.).                     

Ecco l'opinione di m.me Du Deffande sulla Maintenon:

Non è per niente falsa, ma è secca, austera, insensibile, senza passioni; essa racconta tutti gli avvenimenti del tempo, spaventosi per la Francia e la Spagna, come se non avesse un interesse particolare: essa ha più l'aria della noia che dell'interesse.

Le sue lettere sono riflessive, di uno stile vigoroso  e semplice, ma non sono per nulla animate (direi: non hanno anima o  sono senz'anima) e certamente non sono piacevoli come quelle della Sévigné in cui tutto è passione, tutto è azione; essa prende parte a tutto, tutto la coinvolge, tutto la interessa.

M.me de Maintenon, al contrario, racconta i più grandi avvenimenti in cui aveva giocato un ruolo, con il più perfetto sangue freddo; con questo suo carattere, non animava né il re (divenuto malinconico e religioso! ndr.), né i suoi amici, nè i suoi parenti e neanche se stessa; senza sentimenti, senza immaginazione non si faceva illusioni, conosceva il valore intrinseco di tutte le cose, essa si annoia della vita e dice: Non vi è che la morte che pone nettamente termine alla tristezza e alle sventure. Un tratto che mi piace di lei  è che è dotata di tanta rettitudine e di virtù, e non ha molta opinione del suo spirito, poca stima del suo cuore e nessun gusto per la sua persona”.

 

 

 

A  CORTE

BRILLANO LE NIPOTI

 DEL CARDINALE

 MAZZARINO

 

«Non brillavano in virtù ma erano tutte di spirito, di gusto, di bellezza,

e offrivano  a una penna delicata e sognante, fisionomie originali»

(Hyppolite Lucas, Siècle 5 août 1857)

 

I

l cardinale Giulio Mazzarino, dal fisico prestante, con una memoria sorprendente e uno spirito pronto e penetrante, dopo gli studi, che non potevano essere stati che brillanti e avevano fatto onore ai suoi maestri, seguiti presso i gesuiti a Roma.

A diciassette anni aveva seguito l’abate Girolamo Colonna (poi cardinale) figlio del Connestabile in carica, in Spagna, per approfondire gli studi presso l’Università di Alcalà. Tornato all’età di venti anni (intorno al 1622). aveva servito come capitano nell’esercito pontificio in Valtellina, dove era entrato in rapporti con i francesi e con il cardinale Richelieu; al suo ritorno il papa, soddisfatto del lavoro reso, lo nominò vice legato di Avignone e nunzio stratordinario alla Corte di Francia.

Il padre Pietro Mazzarino, proveniente da Mazzara, era stato assunto dai Colonna, e  dando prova di buona amministrazione era divenuto loro fattore; rimasto vedovo di Ortensia Bufalini, aveva sposato Ortensia Orsini, del nobile casato.

Verso il 1634, prima di lasciare Roma, Giulio aveva pensato di sistemare le sue due sorelle. La prima, Margherita, sposava Girolamo Martinozzi, la seconda Girolama, sposava Lorenzo Mancini, barone romano  (Amedée Renée, Les néces de Mazarin, 1857).

Dopo essere stato due anni ad Avignone tornò a Roma e grazie al cardinale Antonio Barberini e forse a Richelieu, fu nominato nunzio straordinario in Francia.

Giunse a Parigi (1639) nella carrozzza che gli aveva mandato il re, preceduto dai suoi gentiluomini e laquais, riccamente vestiti con le sue livree ... seguito da centoventi carrozze!

Seppur disprezzato come “gredin de Sicile” (mascalzone di Sicilia) dal Condé,  incoronato come Luigi XIII,  la regina se ne era invaghita; alla morte del re, Richelieu lo faceva nominare cardinale (1641) e alla sua morte lo designava come suo successore; la regina era stata nominata reggente  del futuro Luig XIV e Mazzarino prendeva nelle sue mani le redini del potere.

Passsati alcuni anni, la sorella Mancini aveva avuto dieci figli e il cardinale le chiedeva due femmine e un maschio e alla Martinozzi chiedeva  la figlia maggiore.

Arrivarono due piccole Mancini; Laura, di dodici-tredici anni, gradevole bruna  dal bel viso e Olympia, bruna, con il viso lungo e il mento appuntito; i suoi occhi erano piccoli ma vivi; era da sperare che l’età li avrebbe resi più gradevoli; e una Martinozzi, Anna-Maria, bionda; tutte e tre furono affidate alla governante del re e di suo fratello come principesse reali; le altre sorelle le raggiungeranno dopo cinque anni.

A Corte non solo la regina, ma tutti, erano curiosi di vederle; il commento più acido era stato del maresciallo Villeroy che aveva detto: “Ecco delle signorine che attualmente non sono ricche ma che avranno bei castelli, buone rendite. belle pietre preziose, vasellame d’argento e può darsi, grandi dignità”. In effetti giunsero richieste di matrimonio dalle maggiori case aristocratiche di Francia.

Il cardinale per stare vicino alla regina si era trasferito a Corte (al Louvre) con i nipoti (dai cognomi sconosciuti: Mancini e Martinozzi) educati a palazzo reale con i principi del sangue; l’incarico di governante era stato assegnato a una Rochefoucault.

Era il periodo della Fronda, le Mazarinate fecero scempio, in versi, di tutto il peggio di ciò che si poteva dire sul cardinale e sulle sue nipoti: come caratteristica familiare, erano tutti privi  del senso morale, lo si vide dalla rapacità del cardinale, che in venti anni, aveva accumulato una enorme ricchezza.

Il re aveva vent’anni e eveva avuto il suo battesimo erotico con madame de Beauvais, donna di camera di sua madre, detta Cateau la Borgnesse (per avere un difetto oculare); poi con una figlia del giardiniere, con una duchessa di grande e lunga esperienza, m.me de Chatillon, ma non aveva mai amato nessuna, forse per timidezza; spesso era preso dalle lacrime che non riusciva a dominare, dirà poi la Maintenon.

Col trattato dei Pirenei (1659) si stabiliva il matrimonio di Luigi XIV con l’infanta Maria Teresa (1638-1683), figlia di Filippo IV e il matrimonio ebbe luogo nel 1660.

Sebbene avesse ereditato i caratteri somatici dei Borbone (non era affetta da prognatismo e aveva il viso rotondo) Maria-Teresa non aveva la bellezza prorompente di Maria; era infatti una bionda scialba, con i denti malandati che contrastavano con quelli abbaglianti di Maria e con i suoi occhi di fuoco. Quando si accorse dei sentimenti del re, presa da gelosia, spinse il re a prendere la decisione di farla sposare.

Delle prime due sorelle, Anna-Maria Martinozzi sposava (1564) il principe Armando di Contì, fratello del Condé, con un matrimonio da favola;  la sposa aveva avuto dallo zio una dote di duecentomila scudi e cinquantamila avuti dalla generosità del re; il principe aveva una bella figura ornata di bei capelli, ma era piccolo e gobbo; al matrimonio erano presenti il re e la regina, il duca d’Anjou e tutti gli altri principi e gran signori della corte; la regina volle concedere alla sposa di metterla a letto; Laura Martinozzi, duchessa di Mercoeur, diveniva reggente di Modena.

Olympia, la terza, aveva la stessa età del re, era bruna con il viso lungo e il mento a punta, gli occhi piccoli ma vivi, ritenuta nella pubblica opinione, facesse ricorso ai veleni.

Maria-Anna (1639-1715), la quarta delle sorelle, dagli occhi grandi, neri e lucenti come diamanti, si fece amare da Luigi ancora ragazzo e fu il primo amore che infranse il suo cuore precoce. Sembra, diceva m.me de Motteville, che lei stessa fosse innamorata sinceramente e appassionatamente del giovane re, più di quello che avesse voluto suo zio cardinale, che aveva altri progetti e gli resistette fino al matrimonio del re con Maria-Teresa Infanta di Spagna .

Il re volle che Maria andasse a Milano a sposare il Connestabile di Napoli, Lorenzo Colonna.  Lei obbedì,  ma dopo aver dato al connestabile tre figli maschi, tornò in  in Francia in abiti maschili ma il re le fece interdire il soggiorno a Parigi e fuggendo dal marito che cercava di riacciuffarla per segregarla a Roma, andò a rinchiudersi in un monastero di Spagna,.

La quinta, Ortensia, duchessa di Mazzarino  la più bella delle cinque, amata anche dal re, sposò (1661) il duca de la Meillérie, che prese il nome  e le armi di Mazzarino, quindi duc de Mazarin.

Questa affascinante duchessa che era andata ad abitare nel castello di Chambery, ospitata dal duca di Savoia e alla sua morte, partì per l’Inghilterra (1699), e morì a Londra, dove aveva continuato nella sua vita sregolata con i vari amanti e aveva riunito i più begli spiriti del tempo, tra i quali brillavano Saint-Real, Saint-Evremont, Gragorio Leti, Vessio; il re Carlo II fu in questa piccola corte di Chelsea, il più appassionato degli adoratori.

La sesta, Laura Mancini (considerata la più insignificante), sposava il duca di  Vendôme. Dei maschi, il nipote Paolo Mancini, giunto da Roma fu messo presso i gesuiti; ma Mazzarino vide morire due nipoti Mancini; di maschi rimase Filippo, duca di Nevers che sposò m.lle Thianges, nipote della Montespan, il quale seguì la strada letteraria;  Voltaire, lo aveva inserito senza difficoltà tra gli autori del suo secolo e gli aveva riservato un posto nel Temple du Gout (Tempio del Gusto).  

 

 

 

MARIA SPOSA

IL CONNESTABILE

PRINCIPE COLONNA

 

 

 

M

aria per un certo periodo era stata corteggiata dal principe Carlo di Lorena, che era un uomo seducente e lei frequentandolo si era convinta a sposarlo, ma lo zio cardinale, prima di morire, aveva preso accordi matrimoniali con il connestabile Colonna e il re aveva voluto che questi accordi fossero rispettati; quando era statto proposto a Maria di sposare il connestabile, lei aveva risposto che non avrebbe sposato un italiano e scongiurò il re di farla rimanere in Francia, ma il re insistette che gli accordi presi dal cardinale dovessero essere rispettati; il re subiva anche le pressanti richieste dell’infanta Maria-Teresa, appena sposata, che si lamentava delle attenzioni che le riservava il re; Maria finì per accettare di sposare il connestabile.

Questa carica prestigiosa, nella famiglia Colonna si trasmetteva da padre a figlio ed ora la deteneva (era l’ottavo) Onofrio-Lorenzo Colonna (1637-1689), gran signore d’Italia e di Spagna, giovane, bello, ben fatto, il quale si faceva notare in tutti i giochi e tornei, con due magnifici palazzi a Roma.

Le nozze furono celebrate (1661) nella cappella reale del Louvre, per procura e  lo sposo era rappresentato dal marchese Angelelli, la cerimonia celebrata dall’arcivescovo d’Amasia. zio del connestabile alla presenza del re e della regina; il cardinale aveva assegnato a Maria una rendita di mille lire che servirono a rinfrescare il blasone dei Colonna che ne aveva gran bisogno e le donò un palazzo che agli aveva a Roma, quindicimila lire per il viaggio e alcune pietre preziose

Il connestabile l’attendeva a Milano con i suoi parenti e Maria con il suo numeroso seguito giunse a Milano dove il duca Gaetano, governatore di Milano la condusse dalla marchesa Spinola che aveva preparato una magnifica cena.

Il connestabile era desideroso di consumare il matrimonio la sera stessa; Maria invece oltre alla stamchezza del viaggio  era triste perché aveva dovuto lasciare la Francia con tutti i ricordi degli anni passati, ma il connestabile cercò di divertirla.

Egli era piuttosto scettico  sull’amore del re per Maria e, come tutti gli italiani aveva una cattiva opinione sulla libertà di cui godevano le donne in Francia, ma con sua somma soorpresa e soddisfazione, aveva scritto la sorella Ortensia, si dovette ricredere sulla inocenza dell’amore del re e volle che a Roma godesse della stessa libertà, dal momento che sapeva bene come usarla (Lucien Perey, Le roman du grand roi, Paris, 1894).

 

 

OLYMPIA SPOSA

IL PRINCIPE DI CARIGNANO

 CONTE DI SOISSONS

 

 

L

a terza, Olympia contessa di Soissons, aveva sposato il principe Eugenio-Maurizio di  Savoia del ramo di Carignano figlio di Maria di Borbone e di Tommaso di Carignano e aveva avuto tre figli maschi tra i quali il principe Eugenio di Savoia, che dall’ età  di vent’anni era andato a mettersi al servizio dell’imperatore Leopoldo I, alla Corte austriaca.

Se Maria aveva la vera passione, Ortensia la bellezza trionfante, Olympia faceva combattere a suo profitto la grazia insinuante e perfida dell'italiana. Ancora giovane  si fece amare dal re; non era bella, secondo la maggior parte dei contemporanei: bruna, aveva il colore olivastro; il suo aspetto era da Bohéme, con i capelli neri come le ali di un corvo, l’ardente pallore, gli occhi malinconici dallo sguardo profondo, brillanvano di bellezza violenta e fascinatrice; il suo spirito era ancora più affascinante della sua figura. "Il colore di un fumaiolo", aveva scritto M.me de Motteville, ma per chi sapeva vedere, quei tratti allungati, quella figura da Boheme, quei capelli neri come il carbone (che portavano a Corte una nota mediterranea ndr.), quell'ardente pallore, quegli occhi scuri  nello stesso tempo profondi, brillanvao di una bellezza  violenta e fascinatrice (cit. Renée).  

Olympia è stata la figura più strana e più discutibile delle sorelle, si può dire, elevata da Luigi XIV; era stata lei e non l’amata Maria a far credere per un momento che l’ambizioso Mazzarino  volesse portare una delle sue nipoti sul trono.

 M.me  de de la Fayette (riferiva cit. Rénée) aveva detto di lei: “E’ una persona che non può dirsi bella ma è fatta per piacere; il suo spirito non ha niente di straordinario né troppo levigato ma è naturale e gradevole”. Uno spirito di diavolo, oscuro, senza scrupoli, senza preparazione, che non deve niente alle gentilezze.

Una fatalità inseguiva la contessa di Soisson che ovunque apparisse, avvenissero morti impreviste e inesplicabili e si formavano sempre due partiti; da una parte vi era  chi la ritenueva colpevole e dall'altra chi  la riteneva estranea alle morti, come era nella realtà.

Ma quando era fuggita da Parigi, giunta alle porte di Anversa e Namur dove l'aveva preceduta la sua reputazione, era stata costretta a  lasciare diverse città delle Fiandre dov'era riconosciuta; aveva avuto la fortuna di incontrare il duca di Parma che l'amava - pur avendo quarantadue anni era ancora bella - che la protesse contro la popolazione indignata.

L'ambasciatore francese conte di Rebenac, che era intervenuto in suo favore, in effetti aveva deposto contro. Egli infatti, scriveva a Luigi XIV che “presa da risentimento per l’ordine che le era stato dato di ritirarsi nelle Fiandre, aveva deciso di sparlare della regina e mettersi nelle braccia del conte d’Oropesa e del conte di Mansfeld che erano i soli autori delle sue disgrazie. Questi due signori, sire – aggiungeva Rebenac - la ritenevano persona irritata contro la regina di Spagna e gli interessi di Vostra Maestà”.

Otto anni dopo la ritroviamo alla corte di Spagna, strettamente legata all'ambasciatore d'Austria e della regina, Louise d’Orleans, figlia altrettanto sfortunata di Enrichetta d'Orleans;  per volere di Luigi XVI, aveva dovuto sposare il repellente e disgustoso re di Spagna, Carlo II (*);  anche la sua morte improvvisa e precoce aveva seriamente spaventato la corte di Luigi XIV in quanto si era sospettato che anche lei fosse stata avvelenata.

Lo stesso Luigi XIV aveva riferito che era morta mangiando una torta di anguille; con lei, aveva detto il re,  erano morte la contessa di Pernitz, la camerista Zapata, e Nina che avevano mangiato la stessa torta.

Ma Voltaire che aveva sentito alcuni vecchi camerieri e costoro gli avevano assicurato che era tutto falso e le tre dame erano invece sopravvissute alla regina!  

La sua morte era apparsa improvvisa, ma il suo pessimo stato di salute escludeva l’avvelenamento in quanto, da quando era giunta in Spagna soffriva  di febbre quartana (una versione di malaria che compariva ogni quattro giorni), e aveva chiesto alle suore Carmelitane di darle un rimedio e le era stato dato un rimedio che la faceva vomitare.

Dopo la sua morte, il  medico della regina (Franchin), probabilmente limitato dalle conoscenze scientifiche del tempo, era stato piuttosto reticente e non aveva dato indicazioni plausibili, in quanto,  scrivendo a Luigi XIV, pur affermando che la regina  era morta in una maniera orribile ... egli aveva riscontrato che nel corso della malattia  (aveva anche aperto il corpo), dei "sintomi straordinari" che non poteva rivelare perché temeva per la sua vita!

 

 

*) V. sotto ultimo paragrafo.

 

MARIA-ANNA MANCINI

DIVENTA

DUCHESSA DI BUGLIONE

 

 

P

assiamo ora all’’ultima delle sorelle (la sesta), Maria-Anna Mancini de la Tour, duchessa de Bullion.

Quando la Camera dell'Arsenale aveva terminato la sua opera, come abbiamo detto, su duecentoventisei arrestati (alcuni arbitrariamente senza mandato), trentasei erano morti o sotto tortura o giustiziati, gli altri erano rimasti nelle prigioni di Stato, un piccolo numero come la duchessa di Buglione e il duca erano stati esiliati. Per tutto questo, La Reynie si era attirato mille inimicizie e la famiglia dei Buglione era tra le più irritate.

La duchessa, curiosa di novità, amava circondarsi di persone colte, artisti, poeti; era presa da passione per il rimedio alla moda, la quinquina e chiedeva al suo poeta favorito, un poema in lode della scorza salutare.

Era lei e non m.me de la Sablière, come si riteneva, che aveva dato a La Fontaine l’affascinante soprannome del “mio novelliere”. Come le altre sorelle. lei aveva più grazia seducente che virtù e nel suo feudo di Chateau-Thierry, si faceva leggere da lui qualcuno dei suoi racconti erotici.

Maria-Anna senza pari, Ortensia senza seconda; sono dappertutto al primo rango nei versi del poeta riconoscente;  travolte dalle turbolenze del 1680, Maia-Anna Mancini (nata nel 1649), aveva sposato (1662) il più fine e raffinato nipote di Turenne, Godefroy-Maurice de la Tour, duca di Buglione, gran ciambellano del re.

Mazarin, des Amours déesse tutelaire  (degli amori dea tutelare, aveva scritto La Fontaine). Il suo spirito era dei più fini e coltivati, tratto peraltro comune alle nipoti del cardinale. Maria Mancini, moglie di Colonna, faceva parte del battaglione delle preziose; Ortensia, aveva detto La Fontaine, faceva parte del cielo, la grazia, la bellezza, lo spirito: non è tutto, le qualità del cuore; non è tutto, ancora ...  (cit. Renée).  

 

 

MARIA ESTASIATA DAL

PALAZZO COLONNA

E DALLE LUMINARIE DI

PIAZZA NAVONA

 

 

I

l 30 giugno la connestabile giunse davanti al palazzo Colonna dove l’attendeva tutto il personale della Casa, Maria era rimasta sorpresa dalla poca appariscenza dell’esterno, che in effetti, non rispondeva ai canoni di magnificenza degli interni; ma entrata nel pianterreno, fu colpita dalle sale immense meravigliosamente decorate di quadri di Albani, Carracci, Guido Reni, Tiziano e dei più celebri pittori antichi. Vi era anche un gran numero di pittori contemporanei come Claudio Lorrain, Gasparo, Salvator Rosa ed altri.

Nel 1620 il palazzo era stato restaurato da Filippo Colonna, il quale, per la galleria aveva utilizzato i marmi di villa Colonna, provenienti dal tempio del Sole che si elevava su questo colplesso. La più gran parte delle sculture che ornanvano la galleria, erano provenienti dagli scavi  della proprietà dei Colonna, denominata le Frattocchie, presso Marino.

Nonostante la debolezza per la malattia che l’aveva colpita durante il viaggio, dalla quale si era ripresa, Maria non potette fare a meno di ammirare i mobili stupendi dell’appartamento che le era stato assegnato, in cui si trovavano riuniti mobili superbi  e i più preziosi oggetti d’arte, statue, tappezzerie e tutto ciò che poteva incantare gli occhi.

Delle fontane zampillanti messe nei quattro angoli delle grandi sale del pianoterra creavano una gradevole frescura in contrasto con il caldo soffocante dell’esterno.

La stanchezza la obbligò a rmettersi a letto e appena messa nel letto dalle donne che l’accompagnavano, le fu portato uno scrigno superbo, dipinto e scolpito in cui si trovavano due piccoli cassetti arricchiti di pietre preziose. La curiosità superò la stanchezza e fece aprire scrigno e cassetti; questi ultimi contenevano superbi gioielli e nel fondo del secondo , una borsa di duecento pistole.

Questi magnifici presenti erano stati inviati dal cardinale Girolamo Colonna (nominato dal papa Urbano XIII), zio del connestabile, che chiedeva quando potesse essere ricevuto e gli fu risposto che poteva venire quando gli piacesse; arrivò poco dopo; la connestabile lo accolse con tanta grazia e a seduzione, che sapeva sfoderare quando voleva, che il cardinale ne rimase così incatato da andarlo a riferire al connestabile.

Il principe si era discretamente ritirato nel suo appartamento e fece chiedere alla moglie se intendeva essere servita nel suo appartamento; Maria si scusò di non potersi alzare, ma fece chiedere al connestabile se volesse recarsi a dividere il pasto con lei. Dall’incontro a  Milano Maria non aveva mai trattato il marito a questo modo.

Sembrava che dall’ arrivo a Roma un vento di conciliazione e di tenerezza soffiasse su Casa Colonna; ripresasi in salute Maria incominciò a ricevere le prime principesse, seguendo l’ordine della severa etichetta seguita a Roma, che Maria, allevata in Francia non conosceva ed erano cinque; il giorno seguente seguirono le dame di secondo rango.

Maria era imbevuta delle idee francesi, della sua alta posizione a Corte e della vicinanza al re e alla regina; il connestabile aveva suggerito di andare a visitare le nipoti del papa, Alessandro VII Chigi, per il bacio del piede di Sua Santità; Maria, abituata a vedere tutti i giorni il re, si aspettava che fosse il papa a recarsi da lei per renderle la visita, facendo ridere tutti gli astanti che le dissero che il santo padre non faceva questo onore a nessuno. Il connestabile comunque vista la fermezza della sua sposa sul cerimoniale, le suggerì di mantenerla; e presto se ne presentò l’occasione, per una questione di precedenza.

Maria infatti, doveva recarsi con la principessa Chigi, nipote del papa, al monastero di Campo Marzo e i rispettivi maestri delle cerimonie avevano detto ad ambedue, che una dovesse andare dall’altra; e ciascuna era rimasta al suo posto in attesaa dell’altra. L’attesa era durata parecchio, fino all’ora della chiusura del monastero, con grande rincrescimento delle due dame. Il connestabile, al suo rientro era stato informato dell’incidente e si era omplimentato per la condotta di Maria, sebbene avesse creato delle difficoltà alle due magioni. Si interposero i rispettivi parenti e la questi0ne fu così decisa: la principessa Chigi con la propria carrozza e Maria con la sua, arrivassero insieme al monastero; la colpa fu data agli sciagurati maestri delle cerimonie e la pace fu ristabilita, ma, non mancheranno occasioni che faranno nascere delle rivalità tra le due dame.

Maria si sentiva toccata dai modi delicati usati dal connestabile che le lasciava la libertà di vivere alla francese, vale a dire di uscire e ricevere visite quando le pareva, con dispiacere dei mariti romani che trovavano ciò come cattivo esempio per le loro mogli rinchiuse nei loro palazzi.

Un giorno, verso la fine di una calda giornata di agosto la connestabile si stava preparando per uscire, ma il connestabile la impegnò a ritardare la passeggiata  e lei rimase in casa fino a cena; finita la cena il connestabile le disse che dovevano fare una passeggiata fino al lago, nelle vicinanze, che lei non conoasceva. Maria, sorpresa lo seguì fino a un brusco tornante della strada dove si offrì ai loro occhi,  uno spettacolo inatteso.

Era un affascinante piccolo lago coperto di barche ornate di bandierine con le loro cifre e tutte illuminate; su alcune vi erano musici e cantanti, sulle altre torce brillanti che illuminavavo tutti i palazzi che affacciavano sul lago.

Un battello più grande degli altri, coperto di rami e fiori e con musici, attendeva il connestabile; dopo esser salito con il suo seguito, i musici incominciarono a suonare la loro musica, e le piccole barche che li seguivano lanciaciano da ogni parte una pioggia di fuoco. Poi tutte le luci si spensero e si vide apparire nel cielo una luna così brillante da non potersi guardare, che rischiarava tutto il lago. Era tenuta da corde invisibili fissate ai tetti dei palazzi. Il lago non era che piazza Navona.

Da far dimenticare a Madame, le feste di Fontanbleu e le delizie della Francia; ma Fontainbleu era nel profondo del cuore di Maria che dopo un aborto aveva dato al marito tre figli maschi, Filippo (1663), Marcantonio (1664) e Carlo (1665).

 

 

LA CRISI DEI

 MATRIMONI DI

ORTENSIA E MARIA

 

 

S

e Ortensia aveva fatto un matrimonio all’apparenza brillante con il duca di Meilleray che disponeva di grandi ricchezze, nella intimità le cose andavano diversamente per il modo di comportarsi di Ortensia, con la sua civetteria, la frivolezza, la completa assenza di senso morale che non erano comportamenti fatti per piacere a un marito di per sé bigotto, estremamente geloso, di spirito ristretto e avaro  e per di più affetto da instabilità mentale.  

Nonostante navigassero in questo tipo di rapporti, avevano avuto quattro figli, tre femmine e un maschio, che Ortensia decise di lasciare per recarsi  a Roma da sua sorella.

Si era quindi recata dal re per chiedere il permesso, il quale a conoscenza dei rapporti tra marito e moglie, non potendo redimere le loro controversie, le accordò ventiquattro mila lire di pensione e dodicimila per spese di viaggio.

La duchessa se ne fuggì all’insaputa del marito il quale scoprendo la fuga, andò a lamentarsi con il re che non potette ricredersi.

Ortensia aveva tenuto informata la sorella Maria che chiese al connestabile di andare a incontrarla a Milano, ma il connestabile cercò in tutti i modi di dissuaderla, allegando il caldo eccessivo; ma alla fine partirono nel mese di luglio (1668), giungendo a Milano dopo sei giorni.

In questo peirodo, governatore ad interim di Milano, era il marchese Spinola di Balbasés che aveva per moglie la sorella del connestabile; quando Maria vide Ortensia , sebbene avesse una gamba fasciata per essere caduta da cavallo, la trovò più bella che mai e Ortensia le trasmise l’umore e l’atmosfera della Francia.

Si dovette attendere la sua guarigione per ripartire e i rapporti di Maria con la cognata non erano dei migliori per degli screzi che sorgevano tra di loro; nel frattempo giungeva a Milano anche il fratello duca di Nevers.

Ortensia aveva avuto in prestito dal cavaliere di Rohan uno scudiero per scortarla, di nome Courbeville, che lei aveva ribattezzato cavaliere, al quale si era dedicata fino al punto di vietare alla sorella e al fratello di entrare nella sua camera quado Courbeville era con lei; la sua presenza e i modi familiari con cui lo trattava, avevano dato luogo a giustificati sospetti, che avevano fatto circolare a Milano dei versetti sul loro conto; Maria era sorpresa e non poteva credere a un tale abbassamento della sorella.

Maria aveva scritto nel suo diario “di essere così triste che chiesi al connestabile di poter andare con mia sorella e mio fratello a Venezia, ma mi rispose di non poter partire così presto, non volendo consetire che andassi senza di lui. La risposta e il modo in cui la pronunziò, irritò il mio spirito che si predispose alla resistenza, sopratutto quando mi accorsi che prendeva gusto a contraddirmi”.

 La sorella del connestabile propendeva per la loro conciliazione, il marchese Spinola invece non la potreva soffrire in quanto non le perdonava che lei gli avesse girato le spalle al loro primo incontro e per un gesto di sì poca importanza, troverà il modo di vendicarsi in seguito.

Intanto il connestabile cedette alle richieste di Maria e aveva consentito che partisse,  quando giunse il cardinale Chigi che si recava a Siena per una partita di caccia alla quale invitò Maria e il connestabile, che partirono per Siena.

Il cardinale era nipote del papa e cognato della principessa Chigi, rivale della principessa Colonna di cui era grande ammiratore e lei era orgogliosa di avere ai suoi piedi uno degli uomini più influenti di Roma.

Giunti a Siena il cardinale offrì un magnifico pranzo e i due connestabili vi rimasero quindici giorni; nel frattempo furono rggiunti da Ortensia con Courbeville e dal fratello.

Il duca di Nevers aveva rimproverato la sorella per le libertà che permetteva a Courbeville, insolente nei modi e nelle maniere, minacciandola che se avesse continuato avrebbe fatto saltare il preteso cavaliere dalla finestra; Ortensia reagì in maniera così violenta contro il fratello, che questo se ne partì per Venezia con grande dispiacere di Maria.

Tutta l'alta società romana era al corrente dei cattivi rapporti che correvano tra il connestabile e la moglie; il cattivo rapporto che regna tra i due, raccontava la corrispondenza da Roma della Gazzetta  di Leyda (21 Dicembre 1670), non è un segreto per nessuno.

Le principesse romane non le perdonavano le sue libertà che ad esse erano negate e la gelosia che suscitava nel connestabile, gli davano facile motivo di ricambiare.

Maria aveva tempo di dedicarsi allo studio; aveva letto Seneca (in latino) e si interessava di astrologia, passione ereditata dal padre, dedito anch'egli a questa materia, il quale aveva previsto che Maria avrebbe creato grossi preoblemi.

La madre si occupava di scienze occulte sotto la direzione di un certo Tertii, celebre in quest'epoca nell'arte di leggere negli astri. Tertii aveva pubblicato tre volumi contenenti bizzarre predizioni, anagrammi e calcoli base sulla influenza degli astri che non era l’opera di un cervello malato, ma di un gusto particolare in cui emergevano i più distinti personaggi dell’epoca.

Le infedeltà del marito risvegliarono in Maria tutti i ricordi del passato, le tenerezze di Luigi XIV e la sua promessa che l’avrebbe protetta sempre e dappertutto.

Nella primavera del 1671 Ortensia, duchessa Mazzarino, giunse a Roma, fuggita dal marito; Maria trovò la sorella più bella che mai; ma Ortensia era giunta  in un giorno poco favorevole in quanto Maria si era purgata ed era stata presa da una terribile colica che riuscì a limitare con i rimedi; in questa occasione, mentre tutti gli amici di Maria avevano mostrato di preoccuparsi, il connestabile era rimasto insensibile o almeno aveva dato questa impressione.

 

 

I SOSPETTI DEL

BOCCON E LA

 FUGA DA ROMA

 

 

L

a malattia della principessa fece gran rumore a Roma e se ne parlò nelle gazzette; la convalescenza fu lunga e un incidente venne ad aumentare le sue preoccupazioni; la sua fedele Morena non l’aveva lasciata neanche un attimo durante tutta la malattia; lei detestava il connestabile e non se ne conosceva il motivo; in quel periodo era di moda un termine “dare il boccon”, essendo frequente che chi volesse sbarazzzarsi di qualcuno ricorresse al veleno e tutti si munivano di controveleno, ricorrendo a delle precauzioni al minimo sospetto.

Morena era convinta che il connestabile volesse sbarazzarsi della moglie, sebbene non vi fosse alcuna prova. Lei non vedeva che la sua padrona e sbirciando tra la corrispondenza del connestabile, aveva preso una lettera che, trionfante, aveva mostrato alla sua padrona;  Maria si rifiutava di leggerla, ma alle insistenze di Morena si decise ad aprirla; questa riferiva al connestabile che, essendo sua moglie malata, egli era fortunato ad aver avuto tre figli e gli suggeriva di prendere un’altra moglie; chi scriveva diceva di potergliela presentare, ma occorreva far  presto (cit. Perey).

Questa lettera l’aveva portata a credere (ma era solo una sua convinzione provocata dai suoi desideri di ibertà! ndr.) che il marito volesse avvelenarla e pensò di ricorrere alla  protezione del re di Francia; tramite un suo servo fedele che si trovava a Parigi, la connestabile scrisse a Monsieur (di tutta la faccenda ne erano a conoscenza il cavaliere di Lorena e suo fratello conte di Marsan), fratello del re, dicendogli come stavano le cose; il principe mostrò la lettera al re che gli suscitò una forte emozione e assicurò il fratello di far sapere alla principesssa che avrebbe trovato il modo di aiutarla.

Il re informò il suo ambasciatore a Roma cardinale d’Estrées che il cavaliere di Lorena e suo fratello erano convocati a Corte; giunti a Parigi il cavaliere fu subito ricevuto in udienza privata dal re il quale, emozionato chiese in che modo la principessa si potesse salvare dal pericolo che la minacciava: solo uno, rispose il cavaliere; favorire la sua fuga e assicurarle asilo in Francia, promettendole di proteggerla contro le imprese del marito.  

Il giorno seguente il cavaliere di Lorena ricevette da parte del re, un biglietto e una lettera da inviare alla connestabile con cui le era promesso il passaporto e la scorta quando avesse messo piede in Francia, indicandole il luogo in cui sbarcare; a questa lettera il cavaliere di Lorena aggiunse la sua e le lettere furono consegnate a un messaggero di fiducia che le portò a Roma;  e Maria preparò il suo piano di fuga.

Nel frattempo Maria veva stretto i rapporti con sua sorella e le manifestò le sue intenzioni di fuga. Ortensia distolse fortemente la sorella da questo progetto, facendole notare i motivi che l'avevano spinta a partire per l'Italia, ma vedendo che Maria non aveva alcuna intenzione di rimanere a Roma, acconsentì a organizzare la fuga.

Maria aveva scritto nel suo diario: “La violenza del connestabile, aggiunta all’avversione che avevo per i costumi italiani e per il modo di vivere a Roma, dove la dissimulazione e l’odio tra le prime famiglie regnano più che altrove, mi convinsero del disegno di ritirarmi in Francia, il paese in cui ero stata allevata, dov’era la più gran parte dei miei parenti e dove il mio genio era animato dalle novità”.

La connestabile, scrisse al re ringraziandolo per l’appoggio che le aveva dato e lo pregò di mandare all’intendente di Marsiglia il passaporto e le carte  necessarie per lei e la sorella; e gli chiese il permesso di abitare nel palazzo Mazzarino, presso il fratello che era allìoscuro di questo progetto.

Ortensia aveva un valletto di camera intelligente di nome Pellettier che l’accompagnava dal momento della sua fuga, il quale fu incaricato di organizzare il viaggio via mare  e prenotare una feluca; recatosi a Civitavecchia, prenotò il viaggio; la connestabile prese qualche gioiello e la nota collana di perle, lasciando tutti gli altri gioielli dei Colonna ai suoi figli, prese sette pistole del suo danaro personale e una piccola valigia contenente qualche abito.

 

 

L’AVVENTUROSO

VIAGGIO

PER MARSIGLIA

 

 

I

l 29 maggio, approfittando dell’assenza del connestabile, le due sorelle si recarono al palazzo Mazzarino, Maria con il suo servitore, Ortensia con il suo e la fedele Morena. Dopo poco salirono su una carrozza dicendo al cocchiere di andare a Frascati, per ingannare le persone che erano davanti al portone del palazzo, ma dopo aver fatto un pò di strada, Pellettier che aveva organizzato il viaggio, ordinò di andare a Civitavecchia, dove arrivarono a notte fonda. Recatesi nel posto convenuto, non trovarono nessun marinaio, per cui Pellettier andò alla ricerca dei marinai; loro due si fermarono nel bosco prospiciente il mare dove si addormentarono; furono svegliate all’alba da Pellettier il quale disse di non aver trovato la barca.

Risalite sulla carrozza questa percorse un sentiero che non si sapeva dove conducesse, i cavalli arrancavano e malapena riuscivano a sostenersi per la stanchezza; Maria disse al cocchiere di voler andare all’albergo, dove avrebbero cercato il modo di imbarcarsi; giunte all’albergo che si trovava di fronte a Civitavecchia, chiesero informazioni per imbaecarsi.  Seguendo le informazioni, dopo aver percorso una lunga strada battuta dal sole, si fermarono presso una macchia boschiva, mentre Pellettier andò a cercare la barca.

Maria era ancora debole per la malattia e cinque ore di viaggio sotto il sole e dodici senza mangiare la misero alla disperazione, da farle dire che voleva tornare a Roma, piuttosto che morire di fame; ma la sorella la rincuorò dicendole che entro mezz’ora avrebbero avuto una notizia favorevole e lei si rincuorò. Entro un quarto d’ora sentirono i passi di un cavallo, era il postiglione di ritorno che annunciava che erano attese a cinque miglia di distanza.

Caricate le valige sulla carrozza che non erano numerose nè pesanti, loro procedettero a piedi sotto il sole in mezzo a una campagna aperta dove vedevano saltare le vipere. Ortensia procedeva spedita e Maria la seguiva a grandi passi e nel seguirla ogni tanto si fermava per un pò di riposo; la fame, la sete, la stanchezza il caldo avevano fatto perdere le forze a Maria che pregò un uomo che stava lavorando la terra di portarla per un centinaio di passi, vicino al mare; con la sorella si erano cambiate d’abito in carrozza e aveva abiti maschili, e aveva detto di essere un cacciatore che aveva perso il contatto con i suoi amici; l’uomo si era rifiutato ma si persuase dopo aver ricevuto qualche pistola; la prese in  braccio e raggiunse la sorella.

Presto giunse Pellettier che annunciava di aver prenotato un’altra barca per la somma di mille scudi, ma che non era soddisfatto né del padrone della barca né dei marinai che gli erano parsi persone malvage.; ma le sorelle gli risposero che nel frattempo il postiglione Non ebbero altra soluzione di mandare Pellettier a cercare la barca mentre loro si fermarono in un casolare: quando tornò Pellettier disse che erano perduti, ma scherzava e Ortensia gli disse con collera, che non era il momento di scherare.

Si incamminarono dove era la barca e per caso incontrarono il secondo padrone con i marinai che gli dissero di imbarcarsi con loro; la due sorelle rifiutarono, ma esssi iniziarono a minacciarle e Maria ritenne opportuno offrire del danaro per evitare ogni ulteriore discusssione.

Quando raggiunsero la barca prenotata, il padrone incominciò ad alzare la posta del danaro concordato, giustificando la sua richiesta con il pericolo al quale si esponeva; inutile fu la reazione di Pellettier che il padrone della barca più forte, lo minacciò di gettarlo in mare; Maria tolse ogni discussione, dandogli cento pistole e assicurandosi finalmente il viaggio.

L’emozione a palazzo Colonna fu grande quando videro che Maria non era rientrata e Morena era scomparsa; a palazzo Mazzarino l’inquietudine non era da meno; passata la notte si mandò ad avvertire il connestabile che era alle Frattocchie; appena rientrato mandò corrieri in tutte le direzioni con l’ordine di arrestare la fuggitiva.

Quando rientrò, il postiglione disse che le due dame si erano imbarcate e il connestabile inviò un espresso al viceré di Napoli pregandolo di far partire delle galere per inseguire la moglie diretta a Marsiglia; furono mandate all’inseguimento quattordici galere; il connestabile si recò all’ambasciata francese cercando di nascondere la sua collera, dissimulando la sua apprensione per la complicità segreta tra il re e Maria, non osando parlarne apertamente.

L’ambasciatore, cardinale d’Estrées, stupefatto, promise di scrivere alla regina per impedire un incontro con il re (che in questo periodo era impegnato in una guerra con l’Olanda), ma il connestabile sapeva che niente avrebbe fermato Maria che sarebbe andata anche in Olanda, per cui affettò la più grande dolcezza, manifestando di perdonare la sua evasione e operare una riconciliazione completa e il cardinale scrisse in questi termini.

Nella società romana la fuga delle due sorelle fece molto rumore e ciascuno prese il proprio partito chi a favore del principe, chi a favore della moglie; ne parlò anche la Gazzetta d’Amsterdam (7 Giugno 1672); si diceva che il connestabile trattava troppo favorevolmente la moglie dandole più libertà di quanto dovesse averne; alcuni dicevano che un negromante le aveva detto che il marito aveva in mente di disfarsene e per questo motivo lei si ritirava in Francia, per evitare il boccon.

Le due fuggitive erano esposte a tutti i pericoli descritti dalla stessa principessa che diceva che le prime sei ore ebbero un vento favorevole, ma poi giunse una calma che li faceva avanzare lentamente.

Al levar del sole intravidero un brigantino che il padrone della barca temette fosse un vascello turco e ripararono ai bordi di alcuni scogli davanti alle coste della Toscana, ma poi ripresero la traversata fino a Monaco.

Ortensia aveva sofferto il mal di mare, agitato da un forte vento che aveva fatto temere un naufragio, evitato dall’abilità del padrone della barca; costui aveva seguito un insolito percorso e così avevano evitato le galere mandate dal viceré di Napoli.

Dopo nove giorni di navigazione giunsero a La Ciotat dove potettero riposare e con dei cavalli raggiunsero Marsiglia dove trovarono l’intendente moribondo, il quale diede a Maria un pacchetto contenente i documenti mandati dal re, con una sua lettera che le suggeriva di recarsi ad Aix, dove avrebbe avuto l’assistenza del governatore.

Maria stanca di fatica era andata a riposare ma dopo un’ora fu svegliata dalla visita del capitano Meneghini che veniva per conto del connestabile; Maria allarmata si fece mandare delle guardie, il capitano Meneghini la pregò, per amore dei figli a rientrare, ma Maria  fu irremovibile. La mattina seguente le fu mandata una carrozza con guardie di scorta e le sorelle la sera arrivarono ad Aix e furono condotte al palazzo del governatore che era il duca di Vendôme, suo nipote, figlio del duca di Mercoeur.

 

 

MARIA PARTE PER

LA FRANCIA

 

 

M

entre la connestabile era impaziente di andare a Parigi, Ortensia non vi si poteva recare perché il duca Mazzarino aveva ottenuto dal Parlamento della città, il divieto di accesso per Ortensia.

Maria, non fidandosi di nessuno, pensò di scrivere direttamente al re per seguire le sue disposizioni e per recapitarla affidò la lettera al fedele Pellettier, mentre le due sorelle ad Aix erano ospitate nel vicino castello dal cavaliere Mirabeau.

Ad Aix c’era lo storico Saint-Simon imparentato con il cardinale Altieri, nipote del papa Clemente X, che agiva per conto del connestabile, con l’ordine, che se la principessa non avesse voluto tornare a Roma,  di recarsi dalla regina per metterla contro la principessa; Saint-Simon aveva parlato con la principessa che gli aveva risposto che “fuggendo da Roma aveva fuggito la morte”.

Nel frattempo Maria riceveva una lettera  di Pellettier che diceva di essere stato assalito da banditi che gli avevano tolto tutto, lasciandolo mezzo morto sulla strada; questo assalto dei banditi era stato organizzato da Saint-Simon che aveva delle spie che gli avevano riferito della partenza di Pellettier, ma gli assalitori non trovarono la lettera mandata al re, nascosta nella fodera dell’abito.

In capo a sei giorni Maria disse di voler partire e le due sorelle si recano a Porto Santo Spirito dove si dividono; Ortensia accompagnata dal cavaliere Mirabeau e alcune sue guardie prende la strada per Nizza per recarsi a Torino dal duca Carlo Emanuele II (fratello del conte di Soissons) per chiedergli di stabilirsi a Chambery, dove, dopo essere stata ben accolta dal duca, è ospitata in quel castello.

La connestabile è accompagnata dall’altra l’altra metà delle guardie, a Grenoble, accolta dal duca di Lesdiguières, governatore della provincia.

Il papa aveva scritto al re supplicandolo a non lasciare che la connestabile giungesse a Corte; la regina, guidata da Colbert era convinta che le lamentele della connestabile fossero immaginarie, in quanto il suo scopo era quello di ricominciare la vita come la sorella Ortensia, lasciando intendere chiaramente l’inquietudine e la pena che avrebbe causato la sua presenza a Parigi.

Era il mese di luglio 1672 e Luigi XIV aveva appena conquistato l’Olanda ed era rientrato a Parigi, dove tutti avevano pensato che il suo improvviso rientro fosse dovuto alla Montespan.

 

 

LA LETTERA DI MARIA

E’ RECAPITATA AL RE

CHE NON VOLEVA

SI AVVICINASSE A PARIGI

 

 

 

P

ellettier con la lettera per il re aveva ripreso il viaggio; ricevuta la lettera, il re  suggeriva alla connestabile di andare in un convento per fermare la bocca a tutte le maldicenze che erano sorte dalla sua partenza da Roma; il tenore di questa lettera era diverso dalla precedente, ma Maria decise di partire ugualmente.

Si fece accompagnare da un corriere fidato di Roma, di nome Marguin; giunta a Montargis, Morena fu presa da una colica e Marguin rifletteva sulla sua posizione e riferiva di essere di essere preccupato per gli inconvenienti che potevano derivare ai suoi familiari per l’aiuto che stava prestando alla connestabile, aggiungendo che Morena non era in condizioni di seguirli e le suggeriva di fermarsi e non proseguire.

Presa dalla stanchezza Maria decise di recarsi a Fontainbleu e mandare, con Marguin, una lettera al re; con Morena giunsero a Fontainbleu alle sette di sera dove presero una camera d’albergo e dopo due ore furono raggiunte dall’inviato del re.  

Questo inviato era monsieur de la Gibeltière, che le suggeriva di tornare dal connestabile in quanto le cose in Francia erano cambiate e non le erano più favorevoli; aggiunse che il re era molto irritato per averle accordato la sua protezione su dei pretesti frivoli e per delle ragioni che non avevano altro fondamento che dei capricci; concluse che se non avesse voluto rientrare a Roma, poteva andare a Grenoble ed entrare nell’abbazia di Monfleury.

Ma la connestabile rispose che le ragioni della sua partenza non erano frivole e le avrebbe riferite solo al re; ciò che chiedeva era che fosse lasciata vivere presso i suoi parenti; che al momento era stanca e non se la sentiva di tornare a Grenoble e che avrebbe atteso una risposta da parte del re, sulla quale avrebbe preso una decisione.

Maria, riflettendo, sospettava che ciò che le aveva riferito de la Gibeltière, dovesse essere opera della regina, piuttosto che del re; nel frattempo giunse un valletto che le riferiva di recarsi al palazzo, che il duca di Modena, suo nipote, aveva a Fontainbleu, dove sarebbe stata ospitata, ma lei rispose che preferiva rimanere in albergo.

Dopo poco giunse il duca di Crequi, che veniva da parte del re dicendole che il re non desiderava che si recasse a Parigi e le suggeriva di tornare a Grenoble che sarebbe stato il partito migliore da prendere; mentre lei pregava il re di permetterle di recarsi all’abbazia di Lys  che si trovava a dieci leghe da Parigi; il duca le fece scrivere la richiesta su un biglietto e se ne tornò a Parigi.

Il giorno dopo giunse un paggio che portava il permesso richiesto e l’ordine per la badessa di Lys, di riceverla e a de la Gilbetière di accompagnarla; poco dopo giunse un gentiluomo, da parte di Colbert, con due borse di cinquecento pistole (lire) ciascuna.

Il malcontento del re per l’improvviso arrivo della connestabile a Fontainbleu, a poco a poco si era nel frattempo dissipato. Egli chiedeva sue notizie alla contessa di Soissons e voleva sapere come si trovasse nell’abbazia; si fece mostrare le lettere della badessa che parlava della dolcezza e sottomissione di Maria; il re fece dare l’ordine di lasciarla passeggiare nel bosco, facendola accompagnare.

La connestabile ignorava le migliori disposizioni del re  ed era felice per le visite delle sorelle e per la possibilità di passeggiare nel bosco, ma la pazienza non eraa il suo forte e  le giornate nell’abbazia le sembravano troppo lunghe e non aveva ancora avuto il permesso per ricevere le visite degli amici.

A questo punto incominciò a chiedersi che diritto avesse il re che aveva promesso di proteggerla e di averla incoraggiata nella fuga, di trattarla  come una criminale di Stato; per quale abuso di potere l’asilo promessso era stato cambiato in prigione; tutte queste considerazioni fermentavano nel cervello esaltato di Maria; ma un incidente di poca importanza fece scoppiare il caso.

Il fedele Marguin che l’aveva accompagnata da Grenoble a Fontainbleu, aveva pagato per ordine della sua padrona, tutte le spese di postiglioni, battelli e altro del viaggio e per andare più veloci aveva pagato il doppio o il triplo; la prima cosa che fece la connestabile con il danaro ricevuto da Colbert, fu di pagare Marguin e un’altra rilevante spesa era stata per il guardaroba che aveva rinnovato e queste spese avevano lasciato una gossa breccia alle diecimila lire ricevute.

Una mattina le si presentò la badessa e le disse che Colberta aveva disposto che le spese dell’abbazia le dovesse pagare lei. Maria capì che il colpo basso era di Colbert, gli scrisse subito una lettera violenta in cui diceva che lei non aveva chiesto di essere tenuta in una prigione e non aveva mai sentito dire che i criminali arrestati per ordine del re, pagassero per il loro nutrimento e mantenimento; aggiunse che il re aveva mancato alla sua parola e lei chiedeva di essere libera e vivere nella sua famiglia dove avrebbe trovato i mezzi per far fronte alle spese, senza ricorrere a chicchesia.

Era seguita una corrispondenza con richiesta di scuse da parte di Maria che era stata invitata a recarsi in una località a sessanta leghe da Parigi; ora, ciò che lei chiedeva prima di partire era di avere un colloquio con il re; la risposta del re (29 Settembre 1672) fu di recarsi al convento di San Pietro ad Avenay (in prossimità di Reims a trenta leghe da Parigi) dove l’avrebbe accompagnata il signor Goberti; ma dopo quattro o cinque giorni giuse de la Gibeltère con l’ordine per la badessa di farla uscire; lei partì con la morte nel cuore.

Giunta alla nuova abbazia, fu ricevuta dalla badessa Brulart de Sellery che con le suore le davano continue testimonianze di generosità e compiacenza; ma la lontananza da Parigi, non permetteva ai parenti di andarla a visitare; ma dopo tre mesi ricevette la visita del fraello duca di Nevers, il quale, d’accordo con il re, volle tentare una riconciliazione con il marito, ma senza entrare subito nel merito; le riferiva infatti della animosità delle dame di Corte di essere stata mandata a Avenay (qualcuno aveva detto che la regina aveva avuto la febbre!); e la Montespan e la regina, sarebbero state ben liete che la connestabile fosse tornata in Italia.

Ma lei dette libero sfogo al suo rammarico, per il rigore del re il quale voleva che si riconciliasse col marito; ma il re si sbagliava perché lei era disposta a lasciare la Francia, piuttosto che tornare in Italia.

Il duca, vista l’esaasperazione della sorella che riteneva capace di una decisione anche stravagante, le disse che avrebbe chiesto al re il permesso di condurla a Nevers e lei consentì con gioia  e otto giorni dopo il fratello tornò con il permesso del re; ma il loro intento era quello di fare uscire Maria dalla Francia e forzarla a rientrare in Italia; lei invece partì contenta di aver ritrovato la libertà con la speranza di poter rivedere Parigi.

Giunta a Nevers, lei aveva dato al fratello la sua parola che sarebbe entrata in convento; dopo otto giorni il fratello le disse che doveva partire per recarsi a Venezia e sperava che lei non sarebbe venuta meno alla sua promessa; visitarono tutti i conventi di Nevers, cercandone uno a lei più gradito, ma lei non ne trovava, abituata com’era alle grandi e belle abazie.     

A questo punto lei pensò di fare il viaggio col fratello e recarsi a Lione dove si recò al convento di Santa Maria della Visitazione, che si trovava su una collina e dominava tutta la città.

Il desiderio del connestabile era quello che Maria si recasse dal duca di Savoia con il quale egli era in buoni rapporti e con una lettera lo aveva preavvertito di questa possibilità e gli aveva fatto scrirvere anche dal cardinale d’Estrèe.

Maria, senza volerlo, stava assecondando il gioco del connestabile; quando il fratello le suggerì di tornare il Italia, lei, ricordando la bella accoglienza fatta dal duca di Savoia alla sorella e l’eleganza di quella Corte, decise di andare in Piemonte, senza dirlo al fratello.

 

 

MARIA SI RECA

IN SAVOIA DAL DUCA

CARLO EMANUELE II

 

 

 

L

a Corte di Savoia all’epoca era una delle più brillanti d’Europa; il duca e la duchessa, ambedue giovani amavano le feste e i piaceri e facevano di tutto per attrarre stranieri distinti e circondarsi di numerosa ed elegante nobiltà; balletti, tornei, corse di cavalli e di slitte si succedevano senza tregua.

La connestabile era giunta a Novalesa dove il duca le aveva mandato la carrozza per condurla a Rivoli (23 Gennaio 1673); quivi egli giunse personalmente, rivedendola dopo quattordici anni dal loro primo incontro a Lione e fu accompagnata al convento della Visitazione, dove le era stato assegnato un appartamento.

Maria, che amava la libertà, insofferente com’era, aveva incominciato a desiderare di uscire e rientrare a sua volontà, ciò che a Torino non era possibile; il ministro Gomont che le rendeva delle visite, lo aveva percepito e riferito al duca che andava a visitarla tutti i giorni; ciò aveva destato delle malignità e madame royale, principessa Marie-Jeanne de Nemours, moglie del duca, se  ne lamentava scrivendo al cardinale d’Estrée, suo veccchio amico.

Carlo Emanueele si sentiva ogni giorno sempre più attratto da questa donna mobile, fantastica, che passava dalle lacrime alla gaiezza e alla follia della disperazione e questa varietà di sentimenti la rendeva più seducente; vi era stata una gran nevicata e il duca per farla divertire aveva organizzato una gara di slitte, che Maria potè guardare dalla finestra.

Il duca teneva informato il connestabile, il cui scopo principale era di rendere la vita alla moglie, dura e triste  tra le mura di un convento, per costringerla a tornare a Roma e in questo senso, scriveva al duca che desiderava si comportasse da carceriere; quando apprese del divertimento delle slitte, fu preso da violenta collera.  

Ma Carlo Emanuele era un cavaliere galante e neanche si sognava di comportarsi come desiderava il connestabile e cercò in ogni modo di barcamenarsi tra il connestabile e il papa.

Clemente X gli aveva scritto di aver saputo che la connestabile era nel suo ducato e gli chiedeva di contribuire alla pace della famiglia, annunziandogli l’invio del nunzio apostolico, arcivescovo di Patrasso, che gli avrebbe esposto i suoi desideri.

Il duca scrisse subito all’arcivescovo dicendogli di aver parlato severamente alla connestabile, che era scoppiata in lacrime e aveva detto che era venuta nel suo ducato come primo passo per una riconciliazione; che egli era disposto a comportarsi come il re di Francia, che le aveva interdetto il soggiorno nei suoi Stati.

Ma il nunzio ritenne che tanto rigore avrebbe portato madame Colonna alla esasperazione e suggerì di non prendere una soluzione così estrema; avuta questa risposta, il duca, avendola vista scoppiare in lacrime e avendola intesa supplicare che la metteva nelle mani di un marito geloso, di cui si conosceva la violenza, quando gli dipinse i pericoli che l’attendevano, egli subì come il fascino della sirena e scrisse al connestabile, al quale era legato da lunga amicizia, dicendogli che non poteva rifiutare le sue istanze e che avrebbe cercato di convincerla a tornare da lui.

Le visite girnaliere del duca e della duchessa non tardarono a diventar pericolose per ambedue, ma più ancora per il duca che aveva incontrato molte donne dalla cui bellezza era stato sedotto, ma questa volta lo spirito, la stringente eloquenza, le qualità dell’intelligenza fuori del comune, si aggiungevano al fascino delle sue parole, dei suoi grandi occhi neri e i suoi denti bianchi, per soggiogarlo; poco a poco le sue visite furono oggetto di pettegolezzi pressso la Corte e la città e giunsero fino a Roma.   

Il risultato fu l’invio di un personaggio, don Maurizio di Bologna, che sembrava fosse un atto di cortesia per la connestabile, ma si trattava di uno spione che doveva controllarla  notte e giorno e riferire al connestabile; per di più era giunta a Torino una banda di bravi che per don Maurizio erano stati mandati dal governatore di Milano, i quali andavano alla falsa ricerca di un assassino e Maria era seriamente preccupata che volessero rapirla.

Ma quando i bravi ripartirono, Maria si tranquillizzò e per quanto monotona fosse la vita in convento, non sembrva dispiacersene per le numerose visite che riceveva; il cardinale Altieri riteneva, come il duca, che con la violenza non si sarebbe ottenuto alcun risultato e occorreva ricorrere a dolci preghiere e buon trattamento, senza impiegare la forza.

Durante la  primavera, il duca le mostrò tutte le lettere che il connestabile gli aveva inviato; era anche intervenuto il re Luigi XIV che diceva al duca che stava prolungando troppo l’ospitalità alla connestabile e quando il duca le disse che doveva tornare dal marito, Maria, piena di collera se ne andò senza rispondere e partì (3 Giugno 1673) per la Veneria, dove madame royale le aveva offerto  ospitalità e si installò in uno dei più begli appartamenti della Veneria.

I giorni passati alla Veneria furono giorni deliziosi goduti in piena libertà con la Corte ai suoi piedi, non desiderando altro che la libertà e i piaceri del presente; lei trovava il tempo, nelle ore libere, di dedicarsi alla musica, alla lettura, all'astrologia; ogni giorno, per due ore, riceveva ministri stranieri e grandi personaggi della Corte.

Nutrita alla scuola degli uomini di Stato, amici o nemici di suo zio, lei aveva dato ad alcuni ambasciatore dei suggerimenti che essi avevano riportato nei loro dispacci, nei quali si trovava il sangue dei Mazzarino (cit. Perey).

Lei non provava alcun sentimento amoroso per il duca e non aveva amato che il re ed era fedele a suo marito; ma una inquietudine turbava lei e il duca ed era la preoccupazione di risvegliare la gelosia di madame royale; per metterla tranquilla il duca suggerì la finzione di una riconciliazione col marito o il suo ingresso in un convento, che lei accettò di buon grado.

Maria era al sommo della felicità per la libertà goduta ma un giorno il duca le disse seriamente che sarebbe stato meglio rientrare in sé e tornare a Roma, piuttosto che andare in un concento; lei ebbe uno scatto d'ira e rinunciando alle scuse, decise di tornare al  convento della Visitazione.

In convento ricevette la visita del marchese di San Tommaso, col compito di consolarla e farle sapere che avrebbe fatto tutto per lei.

Maria decise di lasciare il Piemonte e poiché aveva rotto i rapporti col duca, il marchese di Borgomainero la invitò a ricevere il duca per salutarlo; nel loro incontro egli le disse di essere toccato dalla sua decisione di partire, scongiurandola di dirgli dove si recava, assicurandole che in nessun paese avrebbe trovato un principe disponibile e disposto a proteggerla come lui. Lei ascoltò i suoi rimproveri e le sue proposte con freddezza e si congedò ringraziandolo per l’ospitalità concessa; il duca le porse la mano e l’accompagnò alla carrozza e Maria partì: ecco come la connestabile si separava da colui che le aveva mostrato affetto e devozione.

 

 

MARIA DOPO ESSERE

 STATA  A COLONIA

PARTE PER LA SPAGNA

 

 

M

aria si reca a Colonia dove trova  un reggimento spagnolo che vi si era recato per riscuotere lo stipendio e non aveva trovato di meglio che unirsi agli ufficiali che l’accompagnarono a Malines; quivi giunta, il governatore le disse di avere l'ordine di arrestarla per non farla andare a Bruxelles; qui trovò anche  il marchese di Borgomainero e il conte di Monterey che la seguivano per ordine del connestabile; lei disse che si recava a Bruxelles per andare nel convento di Barlemont, ma Borgomainero e Monterey le suggerirono di recarsi ad Anversa.

Giunta ad Anversa trovò una carrozza con il governatore che accompagnò lei e Borgomainero al castello; durante il viaggio Maria incnominciò a pensare a qualcosa di sinistro.

Infatti giunta al castello, dopo che le era stato assegnato un appartamento, Borgomainero faceva mettere due guardie davanti  alla porta; da questo momento la connestabile fu trattata come una  criminale di Stato; le lettere che spediva e riceveva erano intercettate; tra le lettere ricevute, vi era una lettera del connestabile che la autorizzava ad andare in convento e Borgomainero, recatosi a visitarla, toccato dai suoi pianti le accordò il permesso di recarsi a Bruxelles, dove le fu dato un appartamento prospiciente il convento.

Qui ricevette una lettera del duca di Savoia, che riìtenendola libera nel castello di Anversa e pensando che volesse recarsi in Spagna, le offriva i suoi servigi quando fosse andata in Spagna.

Lei, considerata questa possibilità chiese, tramite Monterey, l'autorizzazione al connestabile di stabilirsi in un convento della Spagna e senza attendere la risposta del marito, Maria si preparava a recarsi a Madrid scrivendo all'Almirante di Castiglia, amico di suo marito, che lei non conosceva.

Quando Maria giunse a Madrid (1974) reggente del giovane re Carlo II, era la madre Maria-Anna d'Austria (n. 1634) figlia dell'imperatore Ferdinando III e sposata a Filippo IV (1649), interamente dominata dal suo favorito don Fernando de la Valenzuela.

Figlio di un gentiluomo andaluso (ma era fratellasstro del connestabile), era nato a Napoli (1636-1692), divenuto paggio del duca de l'Infantado; giunto a Madrid sposava una dama di compagnia della regina, ottenendo l'incarico di grande scudiero e, entrato nelle buone grazie della regina, divenne grande di Spagna e primo ministro; con l'arrivo di don Giovanni, fratellastro del re, fu esiliato nelle Filippine, ma ottenne di andare in Messico dove morì.

La prima volta che Maria fu ricevuta dalla regina, rimase tanto stupefatta dalla etichetta spagnola cupa e soffocante, che a malapena le riuscì di parlare e neanche riuscì a usare gli abiti spagnoli estremamente complessi d'inverno, con dieci o dodici sottovesti; per una dama il massimo della compiacenza nei confronti di un cavaliere, era quello di mostrargli il piede!

Se i costumi italiani avevano sorpreso Maria, quelli spagnoli l'avevano più ancora stordita perché le donne spagnole vivevano in una vera e propria schiavitù.

Quando Maria giunse a Madrid, fu ricevuta dall'Almirante di Castiglia che era il più gran signore di Spagna, il quale la ospitò nella sua Casa del Giardino, una delle curiosità di Madrid, costruita dall'Almirante e arredata di quadri fatti venire dall'Italia.

L'Almirante era alto e ben fatto. di aspetto nobile e pieno di dignità; era uomo di spirito e di bei modi e le sue maniere lo distinguevano dappertutto.

Grande ammiratore delle donne per le quali si rovinava, era sconsolato per avere cinquant'anni; proteggeva le arti e le lettere e aveva facilità nello scrivere versi; la sua casa era la più gradevole di Madrid.

Il suo palazzo era immenso e lui, libertino, aveva abituato la moglie a vedere come ospiti quindici o sedici delle sue amanti; la società più scelta  si riuniva presso di lui e Maria gioiva del delizioso soggiorno nel Giardino dell'Almirante, per la libertà ritrovata e la dolcezza di una conversazione intelligente e letterata.

Dopo essere stata trattata male ad Anversa e Bruxelles, durante i tre mesi di permanenza,  si vedeva finaalmente adorata dai più gran signori di Spagna.

Maria aveva fatto domanda di ospitalità ai principali monasteri di Madrid,  i quali erano restii ad aprire le porte a dame secolari che avrebbero incrinato i loro privilegi e un intervento della regina, avrebbe offeso i loro sentimenti.

Maria non ancora era uscita dalla Casa del Giardino e ignorava la severità dei costumi spagnoli riguardo alle dame e tutti i preliminari e le procedure per una semplice passeggiata.

Come suo guardiano le era stato affidato don Fernando de la Valenzuela la cui sola vista era odiosa e quando lei gli chiedeva di uscire per fare una semplice passeggiata, lui ogni volta le rispondeva che a Madrid le donne non passeggiavano mai.

Questo personaggio, come abbiamo accennato, era fratello naturale del connestabile ed era trattato con tutti i riguardi con cui questi soggetti erano trattati in Italia e in Spagna; molto poco intelligente. credulo e supponente, era preoccupato di un'unica cosa: che la sua prigioniera potesse fuggire.

Aveva ricevuto disposizioni dal conte di Monterey, di eseguire l'ordine del connestabile e di mandar via tutto il seguito di Maria, comprese le damigelle di compagnia e la sua turca; ma il governatore si era limitato a mandar via solo Pellettier.

Morena, la ragazza turca che accompagnava Maria, era oggetto di orrore e di  tormento  per don Ferdinando che la sorvegliava con particolare attenzione, ma lei era più fine di lui e organizzò una spedizione segreta con la sua padrona, ma solo per far passare qualche cattivo momento a don Ferdinando.

Erano infatti uscite tutte e due sole in una carrozza, non si sa di chi, recandosi alla passeggiata del fiume; la città ne fu sconvolta e ne fu irritato anche l'Almirante.

Don Ferdinando aveva subito scritto al connestabile della malaugurata avventura, aggiungendo che ciò significava che il desiderio della principessa era certamente quello di fuggire per l'Inghilterra o per la Francia.

L'emozione suscitata da Maria e dalla turca in città, si era subito spenta, in quanto era giustificata dalla mancanza di conoscenza delle usanze spagnole; l'Almirante non mostrò nessun risentimento e lei rimase sua ospite fino ai primi di settembre.

La richiesta alle religiose di San Domenico aveva avuto buon esito e Maria lasciava il palazzo dell'Almirante a fine agosto (1674).

Con ordine della regina, le fu concessa ospitalità nel monastero di Nostra Signora degli Angeli,  dove le fu assegnato un appartamento in una casa contigua che dava sulla strada e aveva l’ingresso dalla porta del convento, con una dipendenza per le quattro donne che l’acccompagnavano.

Ma lei aveva bisogno di libertà e voleva avere la possibilità di uscire dal convento, negata dal nuovo papa Innocenzo XI; successivamente quando il duca di Medina-Coeli (la figlia Lorenza aveva sposato il suo primogenito), le offrì una casa posta nel suo giardino (1686), lei lasciò il convento.

Dopo l’emozione provata quando le fu comunicata la morte del marito (1689), si sentì pienamente libera di poter vivere alla sua maniera e la sua prima decisione fu quella  di vedere i suoi figli e si recò a Roma (1691), dove oramai si sentiva estranea;  ripartì (1692) fermandosi per qualche mese a Genova, dove partecipò alle feste riservate al principe di Danimarca; nonostante avesse cinquantatre anni, aveeva ancora una bellezza che eclissava anche quella delle più giovani.

 

 

LA VITA ERRABONDA

DI MARIA

AD AVIGNONE CADE

NELLE MANI DI UN

 AVVENTURIERO

 

 

R

ientrata in Spagna alla morte del re Carlo II, si legò alla regina vedova, Maria-Anna di Neuburg seguendola a Toledo, dove la regina si era trasferita; a Corte, come capo della nuova Casa regnante di Filippo V, era stato nominato il marchese di Louville che la connestabile conosceva da lunga data e costituiva per lei un solido punto di riferimento.  

Il nuovo re era curioso di conoscere la vecchia fiamma di suo nonno e la conobbe facendo visita alla regina vedova, sorpreso di trovarla ancora bella.

Quasta fu l’occasione che portò Louville a stringere i rapporti di amicizia con la connestabile, suggerendole di andare a passare l’inverno a Barcellona dove lei si recò nel mese di ottobre (1701); il mese precedente il re Filippo V, aveva sposato Maria-Luisa, figlia del nuovo duca di Savoia e nipote dell’adoratore di Maria. Al suo rientro Louville le suggerì di recarsi in Francia.

Questi suggerimenti non erano disinteressati, ma erano dovuti alla circostanza che si voleva tenere isolata la regina vedova, per essere austriaca e ritenuta contraria agli interessi francesi portati dal nuovo re.

Maria parte per la Francia (Gennaio 1702) dove l’ingressso le era oramai consentito, recandosi a Lione; qui decide di stabilirsi ad Avignone, divenuta città papale, facendo sapere al vice-legato mons. San Vitali che desiderava vivere in piena libertà e non voleva alcun accoglimento ufficiale.

Si era stabilita in una casa in Rue Saint Didier e godeva della sua libertà andando a passeggio accompagnata da una sola dama; mentre quando voleva farsi vedere in pubblico, usciva con la carrozza tirata da sei cavalli, con due scudieri e un numeroso seguito.

In questo particolare periodo di amministrazione del vice-legato, Avignone aveva attirato degli avventurieri in cerca di un brevetto di impiego nella milizia papale.

Dopo qualche settimana dall’ arrivo di Maria,ad Avignone giunse un giovane cavaliere di bell’aspetto che disse di chiamarsi Alfeo Morandi di Mazzarino e chiese di essere presentato alla connestabile, alla quale raccontò di esser nato a Palermo e, (a conoscenza della genealogia dei Mazzarino, passata e presente e della stessa Maria e suoi parenti francese), gli fu facile riferire il suo grado di parentela; egli facendo riferimento a un legato che sarebbe stato fatto in favore di tutte le sorelle (di cui queste non erano a conoscenza!), raccontava di essere in forti difficoltà e veniva a chiedere aiuto alla connestabile.

Maria scrisse subito alle sorelle e ai nipoti Vendôme, per sapere se consentivano a offrire la loro parte di duecento luigi d’oro, facilmente accordati, ma senza obbligo legale; avuto un tal consenso Maria, per atto notarile, destinò a don Alfeo la somma di ottocento luigi d’oro, pari a ventimila lire.

Un bel giorno, giunse alle sue orecchie che in un reparto di ufficiali, don Alfeo si vantava di aver fatto un buon affare; da informazioni prese a Palermo, risultò che don Alfeo non aveva alcun grado di parentela con la famiglia Mazzarino; Maria furiosa per essere stata turlupinata, si recò dal vice-legato e fece annullare l’atto notarile, facendo una donazione di cinquanta once d’oro alle sorelle Felicia, Vittoria e Flavia-Caterina della Rovere, figlie di don Flavio della Rovere, religiose del monastero di Louringloume a Palermo (cit. Perey).

Maria, per questa avventura, disgustata di Avignone, parte per Genova dove la raggiunge il figlio, abate Carlo, per lei il più caro, che la invita a recarsi a Roma; anche il suo primogenito Filippo l’aveva invitata a Roma.

Filippo, come abbiamo visto, aveva sposato Lorenza de la Cerda, figlia del duca di Medina-Coeli, che non aveva dato figli al marito, per essere sterile; era morta giovane (1697) e Filippo aveva sposato Olimpia Panfili che gli dava tre maschi e due femmine; questa aveva ricoperto Maria di regali e la invitava a smetterla con la vita errante e recarsi a Roma, ma Maria rifiutava perché il suo cuore era rivolto a Parigi. 

Ma lei poteva tornare? Per mezzo del fratello duca di Nevers fu interpellato il ministro de Barbezieux, il quale fece sapere che la connestabile era libera di recarsi a Parigi e lei partì nel mese di settembre (1704) accompagnata da due donne, due scudieri e una dozzina di uomini tra valletti di camera, lacchè e cucinieri, non curandosi delle spese;  si recò a Passy dove il fratello le mise a disposizione una piccola casa.  

Oramai Maria aveva superato i sessant’anni e doveva preoccuparsi della sua salute; soffriva il freddo ed era piena di sciarpe e di culs de Paris (il cuascino che le donne portavano sul dorso); il duca d’Harcourt era stato incaricato dal re di assecondare Maria nei suoi desideri e alla richiesta se intendesse recarsi a Versailles e se avesse bisogno di danaro,  Maria rispose di no.

La sua visita a Parigi dopo tanti anni, le procurò una viva emozione, avendola trovata abbellita in maniera incredibile; oramai la sua età stava avvicinandosi ai sessantacinque anni e il questo peso si faceva sentire; consapevole di ciò, evitò un incontro con il re e tornò a Passy dove aveva annunciato che avrebbe passsato l’inverno; ma nel mese di ottobre (1705) si recò a Nevers e da qui andò a Lione e poi a Marsiglia dove (gennaio 1706) si imbarcò per Roma, dove il figlio Carlo, divenuto maggiordomo del papa, sarebbe stato nominato cardinale.

A partire da quest’anno (1706) la connestabile non lascia più l’Italia e divide la sua permanenza tra Roma, Firenze e Venezia, dove passa l’inverno (1709) con suo nipote gran priore di Vendôme, figlio della sorella, duchessa di Buglione.

Suo figlio Marcantonio la raggiunse con la moglie Diana e la madre Cristina Paleotto (vecchia amante del connestabile) che abitavano nel palazzo del duca di Fiano, Ottoboni sul Canal grande, mentre Maria e suo nipote abitavano nel palazzo dei Santi-Apostoli anche sul Canal grande; passato quest’inverno, Maria non tornerà più a Venezia, lamentandosi di aver sofferto il freddo.

Maria si teneva costantemente informata sulle guerre di Luigi XIV e degli affari di Spagna, attraverso fonti diplomatiche e del gran-duca di Toscana.

Nel frattempo, muore  il fratello duca di Nevers (1707), seguito (1708) dalla sorella Olympia, contessa di Soissons e dalla  sorella Maria-Anna, duchessa di Buglione (1714) e in questo stesso anno (1714) moriva tra le sue braccia, il suo primogenito Filippo.

Poco dopo, avendo intenzione di ritoccare il suo testamento (scritto nel 1691 in spagnolo), parte per Livorno e Pisa per recarsi dal padre Ascanio Salvatore, esperto in diritto; era dal padre Ascanio quando ebbe un forte attacco apoplettico, che se non fosse sostenuta la sua accompagnatrice, sarebbe caduta per terra.

Le cure deei medici furono vane, alle tre del giorno seguente, l’arcivescovo di Pisa le diede l’assoluzione; il giorno seguente (8 Maggio 1715) spirò; la sua salma, nella chiesa del Santo Sepolcro, era a disposizione dei suoi parenti, avvertiti per mezzo di un corriere.

Maria non aveva voluto lasciare traccia del suo passaggio e sulla sua tomba fu scritto “Maria Mancini Colonna, cenere e polvere”; dopo alcuni mesi (mese di settembre) la raggiungeva Luigi XIV, l’unico amore della sua vita.

 

 

CARLO II DI SPAGNA

 L’HECIZADO

 

 

*) Il principio che poggiava sul brocardo “bella gerant alii, tu felix Austria, nube” (in Carlo V ecc., P.I Sez.II), usato in maniera indiscriminata e asssoluta dagli Asburgo, aveva finito per creare delle mostruosità.

Ultimo degli Asburgo di Spagna, Carlo II (1661-1700), l’hecizado-l’infestato di malattie (il pittore Juan Carreño de Miranda era stato generoso nel dipingerlo nel quadro a fianco!): debole di carattere e di intelligenza, repellente. puzzolente, rachitico, gobbo, invecchiato precocemente, non riusciva a stare in piedi da solo, per di più era iracondo e collerico: aveva fatto una scenata a Maria Luisa che aveva fatto l’elemosiana a un poveraccio, che  aveva preso per un suo amante!

All’età di dieci anni era intervenuto il fratellastro don Juan (figlio di Filippo IV e dell’attrice Maria Calderona: di norma questi figli bastardi erano belli e sani) per curare la sua pulizia, in quanto non lo lavavano per timore che si ammalasse; ma anche quando era cresciuto evitava di lavarsi! Era stato allevato dalla madre nell'ignoranza dei doveri di un sovrano e nell'assenza di una ordinaria educazione; circondato dai  gentiluomini che lo accompagnavano e da scudieri; non aveva la minima conoscenza delle lettere o delle scienze e sapeva appena leggere e scrivere.

Rappresentava un concentrato di tutte le malattie genetiche degli Asburgo e a seguito del trattato di pace di Rijswich (1678), capolavoro diplomatico di Mazzarino, con cui la Francia acquisiva la Fiandra francese e la Franca Contea e Carlo II accettava come suo successore Filippo d’Angiò, un Borbone, nipote di Luigi XIV, che prese il nome di Filippo V (proclamato nel novembre 1700, giunse a Madrid nel dicembre successivo).

Per contro gli venica sacrificata in matrimonio, una figlia della sfortunata Enrichetta d’Orleans, Maria Luisa d’Orleans, figlia di Monsieur, che moriva poco dopo e in seconde nozze sposava Maria Anna di Neuburg ... in quanto si pretendeva procreasse altri figli!

I suoi genitori erano il quarantaquattrenne Filippo IV, che sposava (1649) in seconde nozze,  la nipote  di quindici anni; nonostante fosse debole e malato, riusciva a vivere per quasi sessant’anni (1661-1700) mettendo al mondo cinque figli, dei quali tre morivano infanti e dei due rimasti in vita, Margherita-Maria Teresa (dal viso simile al fratello!) sposava l’imperatore Leopoldo I (che troviamo in Art., “Karà-Mustafà”), ma moriva a venti anni; e  Carlo II che, in quelle condizioni di salute,  riusciva a vivere fino a sessantanove anni.

La madre, Maria Anna d’Austria era stata nominata nel testamento del marito, reggente del regno; ma questo grande impero, con Carlo II era in forte decadenza, fino al punto che la Corte aveva dovuto rinunciare e recarsi all’Escurial e ad Aranjuez, a causa delle difficoltà ad affrontare le spese di viaggio; con i domestici che avevano abbandonato le livree e il palazzo in quanto a tavola  mancavano loro i pasti, come mancavano alla tavola dei gentiluomini e nelle greppie mancava il mangime per i cavalli; i soldati senza soldo e senza nutrimento disertavano le piazzeforti delle frontiere; ma questo declino era già iniziato durante il regno del padre, Filippo IV.

 

 

 

 

 

FINE