IL LIBRO

 DEI TRE IMPOSTORI

COME

L’ARABA FENICE

(che vi sia ognun lo dice

dove sia nessun lo sa)

 

 

 

SOMMARIO; PREMESSA; GILLES MENAGE LETTERATO ED ERUDITO SOSTENEVA LA INESISTENZA DEL LIBRO; THOMAS DI CAMPINTRÉ; JAQUES CURIO E LA “CHRONOGIE” DEL 1556; LA RICHIESTA DELLA REGINA CRISTINA DI SVEZIA; POSTEL IL PRIMO AD AVER PARLATO DELL’ESISTENZA DEL LIBRO; THOMAS BROWNE RITENEVA CHE IL LIBRO FOSSE OPERA DI OCHINO; LA POLEMICA TRA DE LA MONNOYE E FILOMNESE; CONTENUTO DEL LIBRO DEI TRE IMPOSTORI; RISPOSTA DI DE LA MONNOYE CHE SMENTISCE LA PROVEMNIENZA DEL TESTO ATTRIBUITO A FEDERICO II.

 

PREMESSA

 

I

 racconti sul libro dei Tre Impostori dicevano che inizialmente era circolato in poche copie manoscritte (una si trovava nella Biblioteca imperiale di Parigi) e sarebbe stato stampato e diffuso in Germania  e in Francia (la prima stampa sarebbe risalita al 1553) con il titolo: “Liber de tribus impostoribus” o “De tribus impostoribus” e attribuito prima all’imperatore Federico Barbarossa e poi a Federico II (che lo aveva fatto scrivere da Pier delle Vigne!).

A voler seguire le sue tracce esso costituiva una specie di araba fenice, in quanto tutti giuravano sulla sua esistenza per averlo visto, e chi l’aveva visto, sosteneva di non averlo potuto avere in prestito per leggerlo.

Relativamente a questa sua esistenza ne fu coinvolta anche la regina Cristina di Svezia (1626-1689) la quale aveva saputo che il suo plenipotenziario a Munster era in possesso di una copia, ma non aveva ritenuto chiederlo al ministro quando era in vita; ma quando le era stata comunicata la sua morte, aveva mandato il suo medico Bourdelot a chiederlo alla vedova, questa le aveva risposto che il marito prima di morire, per rimorso di coscienza, lo aveva fatto ardere nel fuoco del caminetto della sua camera; la regina poi lo aveva fatto cercare in tutte le biblioteche d’Europa (offrendo trentamila lire), ma era morta senza trovarlo!

Solo verso la metà nell’800 il libro veniva diffuso e pubblicato,  suscitando un vasto dibattito; la copia stampata a Parigi-Brusselle, 1867, risulta la più completa (il testo latino con traduzione in francese contiene una elaborata e approfondita “Notizia filologico-bibliografica” di Filomneste junior (Pierre Gustave Brunet 1807-1896), in cui l’autore ne fa una cronistoria, e risalendo a Rabelais, dice che Rabelais aveva avuto l’ardire di parlarne, sotto un velo assai trasparente, ma non in tutte le edizioni del Pantaguel (v. in Specchio dell’Epoca, L’educazione del giovane feudatario ecc.), mettendo in ridicolo ciò che era oggetto di grande venerazione; nel XVI secolo a seguito delle controversie religiose tra cattolici e protestanti si era ridestata la libertà di pensiero per lungo tempo compressa e Giordano Bruno e Giulio Cesare Vanini (che però non citano la fonte), avevano sviluppato quelle idee nei loro scritti di calcolata oscurità, con asserzioni temerarie che costarono loro la vita.

 

 

GILLES MENAGE

LETTERATO ED ERUDITO

SOSTENEVA L’INESISTENZA

DEL LIBRO

 

 

A

lcuni scrittori avevano condotto delle ricerche e tra questi Gilles Menage (1613-1692) il quale, tra i sostenitori della inesitenza del libro, aveva scritto una lettera inviata a Monsierur Bouhier, presidente del Parlamento di Digione (pubblicata in Menagiana, IV voll. Amsterdam 1716), contenente l’esito delle sue ricerche, il quale raccontava di aver saputo da un amico che uno scrittore tedesco, Daniel George Morbof, gli aveva scritto dicendogli di avere una copia del Libro dei tre impostori e che aveva intenzione di farlo stampare. Menage non gli aveva creduto e, senza temerarietà, affermava che avrebbe potuto dimostrare il contrario.

Nel frattempo, Morbof non aveva potuto mantenere la parola sulla pubblicazione del libro, perché era morto, e Menage sempre convinto della sua inesistenza faceva, nella sua lettera al presidente Bouhier, il rendiconto aggiornato delle sue ricerche e scriveva quanto segue.

Sapete che di tutte le religioni professate nel mondo, le principali sono l’ebraica, la cristiana e la maomettana, alle quali le altre si aggiungono come le specie al loro genere.

Di queste quattro, la pagana, ammettendo una pluralità di Dei, è del tutto insostenibile; i libertini (da intendere: i laici ndr.) hanno creduto quindi di combattere l’ebraica, la cristiana e la maomettana e vi è stato chi ha subito fatto dire che il mondo è stato sedotto da tre impostori; questo pensiero che si presenta naturalmente a persone come queste, nemiche di tutti i culti, si trova attribuito a molti personaggi che hanno parlato di un Libro dei Tre impostori, come di un testo stampato.

Colomiez (Arnaud, scrittore,stampatore-libraio 1666) nelle sue “Melanges Hisoriques” (pag. 28), scriveva che Grozio (Uig de Groot, lat. Grozius, 1583-1645) nel suo “Trattato dell’Anticristo”, si inganna scrivendo che i nemici dell’imperatore Federico Barbarossa gli attribuivano questo libro, ma il libro non era stato scritto da lui ma da Federico Barbarossa, come emergeva da lettere di Pier delle Vigne, suo segretario e cancelliere.

Colomiez inganna doppiamente se stesso, in primo luogo egli mal riferisce l’errore di Grozio espresso in questi termini: Il libro dei tre impostori non può essere attribuito nè al papa, nè agli avversari del papa. I nemici di Federico Barbarossa fecero correre la voce che un tal libro fosse stato scritto per suo ordine. Ma non si è trovato nessuno che l’abbia visto; ciò che mi fa ritenere che fosse una favola (Grotius: Appendix ad tractatum de Attichristus).

In secondo luogo quelli che avevano detto che era stato l’imperatore Federico II ad essere stato l’autore del libro, erano stati i suoi nemici (*). Essi lo accusavano con riferimento a Pier delle Vigne e Matteo di Parigi (Annales 1238) di aver detto che il mondo era stato sedotto da tre impostori, ma non di aver composto un libro con questo titolo.

Federico II del resto negava di aver potuto dire una cosa del genere. Egli detestava i blasfemi che lo accusavano, dichiarando trattarsi di una calunnia atroce e per chi non ha tenuto conto di Lipsia (Monit. & Exemp. polit. 4) e di altri scrittori, che senza esaminare le difese di questo imperatore lo hanno impietosamente condannato. Si sa con quale audacia un secolo prima, si fossero burlati delle tre religioni e con quale audacia Averroé (v. Articoli: I primordi dell’averroismo e la scuola aristotelico-averroistica di Padova) si era preso gioco delle tre religioni, dicendo che “la legge giudaica era una legge di bambini, la cristiana una legge di impossibilità, la maomettana una legge di maiali”.          

 

*) In effetti l’accusa era stata fatta dal papa Gregorio IX in Collectio Conciliorum di Labbé, tomo III e Cherrier: Histoire de la lutte des papes et des empereurs de la maison de Suede, tomo II.

 

 

THOMAS DE CAMPINTRÉÉ

 

 

T

rovo, prosegue Menage, in Thomas de Campintré (1201-1272: Apud Nevizanun  1. Sylvae Nupt. 2. n.121; 2. De proprietatibus apibus 41.n. 5) che un maestro, Simon de Tournai (1130-1201) diceva che tre seduttori, Mosé, Gesù Cristo e Maometto, avevano infatuato con le loro dottrine il genere umano; è certamente del maestro Simon de Chournai (sic!), che Matteo di Parigi racconta un’altra empietà, mentre Polydor Virgile lo chiama de Thourvai, nomi l’uno e l’altro corrotti.

Alvar Pelagio (1275-1350), cordelliere spagnolo, morto verso l’anno 1340, vescovo di Silves in Algarvia, conosciuto per il suo libro “De planctu Ecclesiae”, ha lasciato altri non stampati, tra i quali uno col titolo “Collyrium fidei contra hereses & errores” (Unguento della fede contro gli eretici ed errori). Oltre al manoscritto che Luc Vading, dice trovarsi nella Biblioteca  Vaticana,  corté (sic) n.  2071, in quella dell’abate Colbert.

Lo scrittore e ufficiale Baluze (Etienne, 1630-1718) che me lo ha indicato, mi ha fatto vedere i f. 76 & 77, dove sono annotati gli errori di Thomas Scotus, cordelliere giacobino, rinnegato, apostata, detto in latino fratrum minorum & praedicatorum, allora prigioniero a Lisbona per diverse empietà di cui era accusato e aver propagato in Spagna: Una delle principali era di aver trattato come impostore Mosé, Gesù Gristo e Maometto, sostenendo che il primo aveva ingannato i giudei, il secondo i cristiani, il terzo i saraceni: “disseminavit etiam iste impius hereticus in Hispania”, questi sono i termini di Alvar Pelage “quod tres deceptores fuerunt in mundo, scilicet Moyses qui decepterat Judeus, & Crìhristus qui decepterat Chrisitianos, & Mahomethus qui decepterat Saracennos”.      

Ed ecco il colmo del ridicolo: il buon Gabriele (da) Barletta (domenicano, (prima metà del XV sec.-dopo il 1480) nel suo “Sermone di Sant’Andrea”, aveva fatto dire a Porfirio (233/34-305)-: “E’ così, disse, falsa è stata la sentenza di Porfirio che disse che erano stati i tre garrulatori che avevano attratto a  sé, sovvertendolo, tutto il mondo. Il primo fu Mosé per il popolo giudaico, il secondo Maometto, il terzo Cristo”. Da ciò si vede come egli fosse abile cronologista, avendo messo, Gesù Cristo e Porfirio, dopo Maometto.

Gian Luigi Vivaldo di Mondovì, che nel 1506 tra le altre sue opere aveva scritto nel “Trattato delle dodici persecuzioni della Chiesa di Dio”, al cap. sesto  della sesta persecuzione, che vi sono delle persone che osano mettere in discussione chi, dei tre legislatori, sia il più seguito, Gesù Cristo,  Mosé, o Maometto? “Qui in quaestionem vertere praesumunt, dicentes”: Chi in questo mondo tra le persone e i popoli ebbe maggior seguito, Cristo, Mosé o Maometto?

Herrman Riffwyk, olandese bruciato a Le Haye l’anno 1512, si beffava della religione giudaica e cristiana. Non vien detto ciò che pensasse della maomettana; ma non vi è dubbio che all’apparenza un uomo che trattava Mosé e Gesù Cristo da impostori, potesse avere una miglior opinione di Maometto.

Si dovrebbe fare lo stesso ragionamento, chiunque egli fosse, per l’autore delle empietà contro Gesù Cristo, trovate l’anno 1547 a Ginevra, tra le carte di un soggetto di nome Gruet.

Un italiano di nome Fausto da Longiano (1502/12-1565) aveva iniziato un’opera dal titolo “Il tempio della Verità” in cui diceva in una lettera all’Aretino, di non pretendere che di distruggere tutte le religioni. Ho cominciato, diceva, un’altra fatica la quale è intitolataIl Tempio della Verità”, una fantastica faccenda. Sarà divisa, forse, in trenta libri. Ivi si leggerà la distruzione di tutte le sette, giudaica, cristiana e maomettana e di tutte le religioni, le quali cose sono tutte altamente collegate ai loro primi principii.

In mezzo a tutte le lettere che abbiamo dell’Aretino a questo Fausto, non trovo nessuna in cui sia designata quest’opera. Può darsi che questa non sia stata mai terminata e quando lo fosse stata, potrebbe fare la differenza dell’argomento che stiamo trattando. Non vi è motivo di dubitare che se ciò che si dice sia vero e vi sia una traduzione in tedesco, stampata in folio, di cui vi siano degli esemplari nelle biblioteche di Germania. Ma niente è più inutile che allegare una sorta di fatti ai quali non si è obbligati a credere se sono allegati senza prove. Ma passiamo ad altro argomento. 

Claude Beauregard (1578-1663), in latino Berigardus, professore di filosofia primieramente a Parigi, e poi a Pisa e infine a Padova (dove morì), nel suo Circulus Pisanus, cita o designa un passaggio del Libro dei tre Impostori, dove i miracoli fatti da Mosè in Egitto sono attribuiti alla superiorità dei suoi Demoni su quelli dei maghi del faraone.

L’ex giacobino bruciato a Roma il 17 febbraio del 1600 è stato accusato di aver avanzato in uno dei suoi libri, qualcosa di simile. Beauregard che aveva dovuto riportare questa fantasticheria, prima di giudicare come estratta dal “Trattato dei tre impostori” aveva concluso, o che egli avesse il libro o che quantomeno l’avesse visto.

A ciò io rispondo che nego la conseguenza su cui si potrebbe fare una speculazione poco solida, tale che Beauregard, senza esaminare se la tradizione che egli avesse un Libro dei tre impostori, fosse vera o falsa, aveva supposto che i niracoli di Mosé erano attribuiti alla magia e su questa supposizione non vi è stata alcuna difficoltà ad indicare il libro come se egli l’avesse avuto; allo stesso modo in cui Barletta fa passare Porfirio come empio, per ciò che aveva detto in riferimento ai tre legislatori.

Non vi è dubbio che Beauregard, poco scrupoloso, avido di reputazione, meno filosofo che ciarlatano, aveva prospettato questa citazione per far parlare di sé. Ostentazione tradita essa stessa dalle circostanze. Sia che si guardi al ragionamento attribuito al preteso autore del Libro dei tre Impostori o semplicemente la maniera di citarlo, tutto è male inteso. Quanto al ragionamento, è credibile che un uomo che  vuol dìrsi si sia beffato dei tre maestri delle religioni abbia potuto ammettere il sistema dei differenti ordini dei Diavoli superiori gli uni agli altri. Egli avrebbe avuto insieme nello stesso tempo, l’incredulità e la credulità.

Quanto al modo di fare una citazione, se Beauregard avesse, non direi in maniera diversa, ma avendo visto qualche parte del libro in questione, è possibile che non abbia fatto riferimento ad alcun particolare? Che egli non abbia indicato il formato del libro? Se si sia trattato di un manoscritto o di uno stampato? Che egli abbia riferito solo il passo indicandolo con propri termini; che per una citazione così singolare, avrebbe dovuto sentire il bisogno di dare delle indicazioni più particolari che sarebbero servite nel momento in cui fosse intervenuto il diritto di negare l’esistenza dell’esemplare, fin tanto che non se ne fosse prodotta una copia.

Oppongo la stessa risposta a Tentzelius (Wilelm Ernest Tentzel 1659-1707, tedesco), che sulla fede di uno dei suoi amici, preteso testimone oculare del libro, ne ha fatto una descrizione specificando fino al numero di otto fogli o quaderni che il volume conteneva, aggiungendo un sommario di materie: indicando che l’autore nel primo capitolo trattava dei comuni pregiudizi degli uomini; che nel secondo, trattava del perché gli uomini credono in un Dio che non vedono e che, secondo lui, sussiste nella loro immaginazione. Che egli cercava di provare nel terzo che l’ambizione dei legislatori è l’unica forza di tutte le religioni. Che egli parlava da empio di Mosé e di Gesù Cristo ai quali aggiungeva Maometto, passando alle questioni dell’inferno, del Diavolo e di Struvio, (Burcardus Gothelfius Struvius, autore di “Dissertationis de doctis Impostoribus”, Jena, 1706), riportando questo dettaglio dopo Tentzelius, non trovando niente che la finzione non potesse inventare, non sembrandogli più disposto a credere all’esistenza del libro.

Non occorre avere più deferenza per la lettera scritta al giornalista di Lipsia, della quale, negli  “Acta eruditorum” del mese di gennaio 1709 egli aveva prodotto a pagg. 36-37, un estratto di cui ecco il senso:

Essendo in Sassonia – è l’autore della lettera che parla - ho visto il Libro dei tre impostori nel cabinet de M.***; è un volume in ottava in latino, senza che manchi il nome dello tipografo, né dell’anno della stampa che a giudicare dai caratteri sembra stampato in Germania. Ho cercato in tutti i modi immaginabili per ottenere il permesso di leggere il libro per intero, il proprietario del libro, uomo di delicata pietà, non ha voluto consentire; so di un celebre professore di Wittemberg che inutilmente aveva offerto una gossa somma. Essendo andato poco tempo dopo a Nuremberg, mentre mi intrattenevo sul libro con M. André Myhldorf persona rispettabile per la sua età, mi aveva detto in buona fede che lo aveva lui e che era stato il ministro M. Wlfer che glielo aveva prestato. Da ciò, dalla maniera in cui mi aveva descritto la cosa nei dettagli, giudicai che fosse un esemplare uguale al precedente, per cui conclusi indubitabilmente si trattasse del libro in questione, salvo che, se non fosse stato in 8° e di antica stampa, non sarebbe stato autentico.

L’autore di questa lettera mi perdonerà se gli dico di non  aver saputo approfittare della compiacenza del padrone del libro per avergli lasciato la libertà, se non di leggerlo per intero, quantomeno di esaminarlo interamente. Tutto l’uso che egli ne aveva fatto, si fonda su tre punti molto superficiali e come io ho già incomincianto a far notare, sapere la misura del libro, la stampa e il titolo. I chiarimenti che egli aveva dato a Nuremberg non ci rendono più consapevoli e supporre un sentito dire.

La gente urla, l’ho visto, l’ho visto  ma ciò non basta. Occorre farlo vedere o dimostrare di averlo visto. Per quanto mi riguarda, se l’avessi chiaramente, realmente e incontestabilmente visto, avrei dato delle prove così convincenti che anche il più incredulo si sarebbe ricreduto.

Ma continuiamo nella storia delle false tradizioni. Il primo che io sappia che abbia parlato del libro come esistente è stato nel 1543.

Guillaume Postel nel suo trattato sulla “Conformità dell’Alcorano con la dottrina dei luterani” (Alcorani & Evangelicarum concordia liber,1563) detti evangelisti ed egli chiama cénévangelisti (dal greco zainòs o xenòs), come dire nuovi, vani o frivoli-evangelisti, nell’idea di renderli assolutamente odiosi, egli ritiene che il luteranesimo conduca direttamente all’ateismo e porta come prove tre o quattro libri composti, secondo lui, da atei, che egli ritiene siano stati i settari del preteso nuovo Vangelo. Da ciò deriva che il nefasto trattato VillanovanoDe tribus Prophetis”, “Cymbalum Mundi” (*), “Pantagruellus & Nova insulae”, erano di autori cénévangelisti antesignani.

Naudé (Gabriel 1600-1653) nel cap. 14 della sua “Apologie pour les grandes homme soupçonnez de Magie” (Apologia dei grandi personaggi sospettati di Magia), ha erroneamente creduto che Villanova indicato da Postel, fosse Arnaldo di Villanova (1240-1312/13) morto duecento anni prima e non facendo caso alla circostanza che il Villanova da lui indicato fosse contemporaneo di Lutero e senza alcun dubbio fosse Michel Servet (nato a Villanueva, Spagna il 1511) che sotto il nome Villanovanus aveva pubblicato diversi libri, alcuni innocenti come l’edizione di “Geografia di Tolomeo” stampato a Lione nel 1535; un “Traité de Syrupis”, Parigi 1537 e a Venezia 1543; altri perniciosi come quello stampato l’anno della sua morte (1553) intitolato “Christianismi restitutio” stampato a Vienna del Delfinato, divenuto raro in quanto si erano ricercati gli esemplari a Genova per bruciarlo ed è da ritenere che ne rimane una sola copia che Sandius (pag. 14 Biliotheque Antitrinitar.) riferiva trovarsi nella biblioteca del langravio in Hesse Cassel.

Tutti questi libri che apparsi sotto il nome di Michael Villanovanus, sono riportati nel catalogo delle opere di Michel Servet e fra tali opere non si trova quello “De tribus Prophetis” che non è mai esistito se non nell’immaginazione di Postel.

Nè Calvino, nè Beze (Theodore 1519.1605) né Alexander Morus (1616-1670), in una parola, nessuno dei difensori del partito degli ugonotti i quali per meglio giustificare la punizione di Servet, arso vivo, avesse interesse a convincersi di aver scritto questo libro empio di cui non era mai stato accusato. Postel, autore senza autorità è stato il primo e anche l’ultimo ad averglielo attribuito.

 

 

*) Cymbalum Mundi, Il cembalo del mondo, opera satirica scritta in francese da Bonaventure des Périers (circa 1515-1544), pubblicata nel 1537; contenente quattro dialoghi poetici molto antichi, giocondi e faceti.

É una satira allegorica e complessa intorno alle credenze religiose e alle opinioni degli uomini, che sono invece tutte vanità che valgono quanto il suono di un cembalo. Nel primo Dialogo, Mercurio dice di essere mandato da Giove per rilegare un libro. Ma in un'osteria questo gli vien rubato da due allegri bontemponi, Brifane e Cartalio, che lo sostituiscono col libro degli amori del suo padrone Giove (si son visti da alcuni, riferimenti a Cristo in Mercurio e a Marta nell'ostessa del luogo).

Nel secondo Dialogo, Mercurio fa a pezzi la pietra filosofale, per non crucciarsi pensando a chi debba darla, e ne disperde i frammenti tra la sabbia. Tutti ne fanno affannosa ricerca (è palese la satira ad alchimisti e metafisici).

Nel terzo Dialogo, si viene a sapere che il libro rubato a Mercurio è quello dei destini: ne segue un altro frizzo satirico per gli astrologhi e per quanti presumono di sapere le cose del futuro.

Nel quarto Dialogo, due cani conversano tra di loro. Nell'insieme dell'opera beffe amene si intrecciano con concezioni profonde sulla tolleranza civile e religiosa e vengono satireggiati riformatori quali Calvino, Bucer e Lutero.

Il libro fu presentato come tradotto da un vecchio libro latino trovato in un convento: esso fu ben presto perseguitato e bruciato. Di qui anche la prova della sua importanza nel mondo contemporaneo (Carlo Cordié).

 

 

JAQUES CURIO

E LA “CHRONOLOGIE”

 DELL’ANNO 1556

 

 

S

i crederà forse, che sarà più difficile rispondere a Florimon de Raemond (1540-1601), che ha positivamente scritto di aver visto il libro stampato.

Questi termini sono davvero troppo rimarcabili per non riprenderli quì interamente.

Jaques Curio, nella sua “Chronologie de l’an 1556” dice che il Palatinato si era riempito di schernitori della religione, denominati lucianisti, gente perduta che ha per favole i Libri santi e su tutti, quello del gran legislatore di Dio, Mosé.

Non è stato visto un libro detestabile, stampato in Germania nello stesso tempo dell’eresia che aveva seminato questa dottrina e riportato quella orribile dei tre impostori, prendendosi gioco delle tre religioni che sole riconoscono il vero Dio, la giudaica, la cristiana e la maomettana?

Il solo titolo dimostra che esso fosse uscito dall’inferno e (non sappiamo) quale potesse essere il secolo della nascita che osò produrre un mostro così formidabile.

Non ho fatto menzione di Hosius e Génébrard che prima di me ne abbiano parlato. Ricordo che durante la mia infanzia avevo visto l’esemplare nel Collegio di Prèle, nelle mani di Ramus (Pierre de la Ramé, 1515-1572) uomo molto stimato per il suo alto ed eminente sapere che aveva arruffato il suo cervello di numerose ricerche sui segreti delle religioni che egli  maneggiava con la filosofia. Facendo passare questo libro di mano in mano tra i più dotti desiderosi di vederlo.

O cieca curiosità. Dopo parole così confortanti, è un disagio, così sembra, (riferire) l’ultima esistenza di questo libro. Io vi confesso che se Hosius (? cardinale polacco Stanislaw Hozjusz 1504-1579) e Génébrard (Gilbertus 1535-1597), citati da Florimond de Raemond, parlando così formalmente erano stati piuttosto bilanciati. Génébrard per la verità parla del libro a pag. 39 della sua Risposta a Lambert Daneau stampata in 8° a Parigi l’anno 1581, dove rispondendo alla obiezione che gli era stata fatta toccando l’errore di Postel, egli dice che non meno dell’esempio di Calvino, che aveva reso maomettani George Blandrat, Paolo Alciato e Bernardino Ochino, che aveva tacciato di ateismo Geoffroi Vallée e infine dato luogo a uno scellerato sconosciuto, di pubblicare il piccolo Libro dei tre impostori.

Non Blandrat, non Alciato, non Ochino si erano convertiti al maomettismo; né Vallée era  stato indotto a professare l’ateismo, non altri avevano sparso e letto il libello dei tre impostori dei quali il secondo era Cristo, il primo Mosè, e (terzo) Maometto.

Ecco cosa era stato detto, fondato sul chiasso che era corso e che correrà ancora su questo libro, senza stare a inseguire chi l’avesse visto.

Io mi fermo a due riflessioni. L’una riguarda chi lo ha definito piccolo libro, libello, un’opera che non pretende una traduzione; come ho innanzi sottolineato, è stata stampata in folio che non deve essere eccessivamente corto per corrispondere al suo titolo che secondo l’amico di Tentzelius, non era uno scritto di circa otto fogli ma un grosso volume contenente critiche esatte e maligne del Pentateuco, del Nuovo Testamento e dell’Alcorano. L’altro che se degli esemplari, come dice Gérébrard, è usata la parola spargendum (diffuso), era stato diffuso, sarebbe impossibile che non fosse rimasta qualche copia.

Riguado a Florimond de Raemond (gesuita, 1550-1601) quello che parla, come si dice, de visu, non esiterei a dirvi che la sua deposizione non mi scuote per niente.

Io non accetto che le persone di lettere si ricoprano di autorità. Non oserei citare le parole indicate e sovente ripetute, che essi facevano tre cose memorabili: produceva fine danaro; creava fine confidenza; scriveva fine scienza. 

Io credo, in effetti, che egli non faceva che prestare il suo nome a P. Richeome (Louis, 1544-1625, autore del “De Origine heresium”), gesuita, che sapendo come i suoi fossero odiosi ai protestanti, si nascondeva sotto il titolo di Consigliere di Bordeaux per scrivere contro di essi. E chi non sa che P. Richeome, cercava di scrivere cose sorprendenti piuttosto  che veritiere; vi sono delle persone che per mettersi in vista suppongono di aver visto certi libri rari, singolari, che si ritengono perduti.

Testimone Francesco Veneto, che fece credere a un grammatico di Fano, commentatore dei primi sei libri che ci restano dei “Fasti” di Ovidio, che gli ultimi sei erano nella Biblioteca del re di Francia dove li aveva visti e letti.

Testimone, senza andare troppo lontano, colui che nel 1690, si vantava di aver recuperato l’intero Petronio ed ebbe la sfrontatezza di far stampare un preteso supplemento, non solamente indegno di questo autore, ma anche più che mediocre.

Erano stati promessi a Jean Sturm (Johannes,1507-1589) i sei libri della Repubblica di Cicerone, alla ricerca dei quali il cardinale Polo aveva speso duemila scudi d’oro, inviando espressamente una persona in Polonia, dove gli avevano fatto sperare che si trovasse il manoscritto. Era stata promessa la stessa cosa a Vives (Juan Luis 1492.1540), per l’opera gli “Anti-Catone di Cesare”.

Queste favole non avevano toccato anche Tito Livio? Sono più di venticinque anni che l’attendono da Chio. Qualcuno ha detto (cit. da Antoine de la Faye nella Prefazione di Tito Livio)  che si trova completo in Arabia alla Goletta. Altri hanno detto che si trova nella stessa lingua nella Biblioteca dell’Escurial.

 

LA RICHIESTA

DELLA REGINA

CRISTINA DI SVEZIA

 

 

A

llo stesso modo si è voluto dire che il Libro dei tre Impostori si trova presso Monsieur Salvius, plenipoptenziario di Svezia a Munster e che la regina Cristina, non aveva voluto chiederglielo quando era in vita sapendo bene che lo avrebbe chiesto inutilmente e quando era morto, aveva mandato M.eur Boourdelot, suo primo medico, pregando la vedova di soddisfare questa curiosità; ma le era stato risposto che il malato, preso dai rimorsi di coscienza, alla veglia della morte, nella camera, aveva fatto gettare il libro nel fuoco del caminetto.

Era press’appoco nello stesso tempo che la regina aveva fatto cercare il “Colloquium heptaplomeres” (*) di Bodin, manoscritto allora raro. Dopo una lunga quiete riuscì infine a trovarlo, ma per la passione che essa aveva avuto per il Libro dei tre Impostori e le ricerche che aveva fatto fare presso tutte le Biblioteche d’Europa, alla fine essa è morta, senza averlo potuto ottenere, per cui non faccio alcuna difficoltà ad affermare assolutamente che esso non esiste, perché se fosse esistito, Cristina lo avrebbe certamente scoperto.

Chrétien Korthoit che ha dato il titolo “De tribus Impostoribus” al suo libro contro Herbert, Hobbes e Spinoza, non ha omesso di dire, con molta sicurezza, nella sua Prefazione, di aver visto il vero “Trattato dei tre Impostori” nelle mani di un libraio di Basilea.

 

 

*) “Coloquium heptaplomeres de rerum sublimium arcanis abditis”: Dialoghi delle sette parti sugli arcani misteri. Sette personaggi (parti, come in una causa giuridica) discutono, nella libera Venezia, su problemi religiosi e specialmente sulla tolleranza; essi sono Salomone Barcassia saggio ebreo; Diego Toralba, Portoghese, in difesa della religione naturale; il calvinista Curtius; il misterioso e antitrinitario Senamus, imbevuto degli ideali del Rinascimento; il luterano tedesco Frideric Ponamicus; il cattolico veneziano Paolo Coronaeus e il Lucchese convertito all'islamismo Ottavio Fagnola.

In particolare, per bocca di Barcassia, Bodin lotta contro il verbo di Cristo (in quanto esso avrebbe spezzato una tradizione millenaria già esistente) e, senza pur unirsi per le sue affermazioni agli “atei” dell'epoca, combatte il trinitarismo e ogni legge religiosa che si allontani dai dettami del Vecchio Testamento.

La ragione fa sentire la sua voce, dopo la prima rivelazione di un Dio trascendente e unico: né Cristo, né Maometto, né l'antichissimo Giove possono recare alcun contributo a chi già è nella Legge. Così nei contrasti dei vari personaggi (in cui si è anche voluto vedere il riflesso di diversi atteggiamenti spirituali dell'autore, o almeno dei vari momenti della sua vita di pensatore e di polemista) spiccano le affermazioni in lode della scienza e della natura, pur combattuta direttamente contro il Machiavelli del Principe. Notevole la necessità di una Chiesa organizzata con severità e rigore giuridico come quella calvinista, e anche una simpatia assai viva verso la tolleranza intesa quale modo di convivenza sociale (Carlo Cordié).

 

 

POSTEL IL PRIMO

AD AVER PARLATO

DELL’ESISTENZA DEL LIBRO

 

 

P

ostel (Guillaume,1510-1581), che come ho detto, è stato il primo ad aver parlato del libro come esistente, lo aveva annunciato nel 1543;  Florimond de Raemond non lo fa comparire che nel 1556;  altri, come farò rilevare più avanti, indicano altre epoche.  

A chi di essi si dovrà attribuire il tempo della scoperta? Per me, sono persuaso che essa non sia mai stata che immaginaria.

Il “quodlibet”, il motivo per il quale il mondo è stato sedotto da tre bari, continuamente ribattuto dai libertini, avrà dato a qualcuno di essi l’occasione di dire che aveva  un buon motivo per esercitare il suo spirito e che sarebbe stato un buon soggetto del libro. Questa idea essendo piacevolmente accolta non ha avuto bisogno, per diffondersi nel mondo, di far rumore sul preteso Libro dei tre Impostori. 

L’avidità dei curiosi ha fatto  loro raccogliere certe novità con tanto maggior piacere, da farle ritenere veritiere. Gli uomini più increduli non potevano liberarsi da certe immagini delle pene che si apprendevano inflitte nell’alro mondo e trovavano in questi racconti, cercati nel libro, il modo di liberarsi delle loro paure. Alcuni fingevano di averlo visto; esso era come il segreto della pietra filosofale che erano in molti a cercarla e qualcuno si vantava di averla scoperta, ma nessuno l’ha vista realmente.

Una ragione che dopo qualche anno può aver aiutato a far credere che il Libro non fosse una chimera e che era stato veramente stampato, è stato che il libro fu utilizzato da Kortholt l’anno 1680, contro i tre autori che ho nominato innanzi, ventisei anni prima dal medico e matematico Jean Baptiste Morin (1583-1656), sotto il nome di Vincentius Panurgus, contro tre dei suoi avversari, Gassendi, Neudé e Bernier.

Da dove viene che degli uomini senza erudizione ai quali, qualcuno, abusando della loro credulità, abbia mostrato, come di sfuggita, la parte superiore del titolo dell’uno o dell’altra di queste opere, assicurando arditamente di aver visto il libro di cui si tratta e prima di esserne così ingannati abbiano ingannato altri che si sono fidati della loro testimonianza.

Senza arrestarmi all’epoca della scoperta del libro, che mi dice poco se nel tempo in cui è potuto apparire, è possibile che nessuno si sia levato a confutarlo?

Abbiamo visto i Pre-Adamiti di La Peyrére (Isac,1596-1670) il “Traité Theologico-politque” di Spinoza, combattuto da non so quanti autori che hanno voluto come soffocarlo fin dal momento della nascita.

La stessa opera di Bodin, tanto rara e manoscritta com’è, non ha potuto sottrarsi alla critica. Il Libro dei tre Impostori  il cui solo titolo fa paura, meritava una maggior grazia? Come si spiega che non è mai stato censurato? Che non è mai stato riportato alcun passaggio sicuramente estratto dall’originale? Come mai non è mai stato inserito nell’Index? Che non vi è mai stato nessuno che abbia emesso l’ordine di soppressione degli esemplari? Che non è mai stato bruciato? I libri contro i buoni costumi, qualche volta sono tollerati, ma quelli come questo, che attaccano il fondo della religione non rimangono mai impuniti. Non vi è dunque nessuna apparenza che il libro abbia visto la luce del giorno. Non si insiste sulle circostanze dedotte da Florimond de Raemond. Esse mi rendono la cosa più sospetta. Egli ha tenuto a riferire di essere ancora un ragazzo quando ha visto il libro, per evitare di rispondere su particolari che avrebbero potuto domandargli. Egli cita Ramus, che essendo morto da trent’anni non era più in grado di convincerlo con le menzogne. Egli cita Hofius e Génébrard, ma in termini vaghi senza specificare i titoli delle loro opere. Egli dice che facevano passare di mano in mano questo libro che mi sembra che avessero voluto tener chiuso sotto chiave per non volerlo lasciar vedere che in segreto senza consegnarlo.

 

 

THOMAS BROWNE

RITENEVA CHE IL LIBRO

 FOSSE OPERA DI OCHINO

 

 

T

homas Browne (1605-1682) nel suo libro intitolato “Religio Medici”,  tradotto dall’inglese in latino da Jean Merrivheather, riteneva (rimarcandolo con asterisco) che secondo lui il libro fosse opera di Bernardino Ochino morto piuttosto come deista, che ateo.

Moltkius, in una sua nota su questo argomento di Browne, non assicura che questo libro fosse di Ochino; rilevando che il libro era scritto in latino e che Ochino non scriveva che in italiano e se si dovesse supporre avesse preso parte a quest’opera, i suoi avversari che avevano fatto tanto rumore per qualcuno dei suoi Dialoghi, che avevano toccato la Trinità e la poligamia, non gli avrebbero perdonato il Trattato dei tre Impostori.

Per di più, come mettere insieme Browne e Génébrard? Ochino, secondo Browne non era settario di Mosè, né di Gesù Cristo, né di Maometto e poteva fare un processo ai tre legislatori, ma secondo Génébrard che tratta di Maometto, egli era obbligato a fare grazia a Maometto. Sarebbe in verità molto piacevole rilevare la poca conformità che si riscontra tra gli autori ai quali si pretende di attribuire il Libro.

Da una parte, come abbiamo notato, Naudé per un ridicolo disprezzo, credeva che esso fosse di Arnaud de Villeneuve scrittore rozzo e barbaro. D’altra parte, Henri Ernstius, dichiara, trovandosi a Roma, di aver sentito dire da Campanella che fosse opera di Muret (Marc’Antoine 1526-1585), srittore elegante e di lingua latina, posteriore di più di due secoli di Arnaud de Villeneuve.

Se la testimonianza di Ernistius è sincera, o Campanella ha cambiato  allorché nella Prefazione del suo “Atheismus triunphans”, ma più espressamente ancora nella sua questione del “Gentilissimo non retinendo”, egli ha detto che l’opera sia partita dalla Germania; o è da supporre che egli non avesse che l’edizione della Germania, ma che la composizione fosse di Muret, ciò che fa ritenere che il Libro fosse stato creato in Germania dove era stato stampato.

Muret accusato di falso, come proverò alla fine di questa Lettera, non ha bisogno di alcuna apologia. In verità la sua avventura di Toulouse gli ha fatto torto essendo la sua religione stata giudicata dai suoi costumi. Gli ugonotti sapendo che egli apprezzava la loro dottrina, lo avevano abbandonato definitivamente senza prestargli aiuto nel momento del bisogno.

Beze (Theodore, 1519-1605), nella sua “Historia Ecclesiastica”, gli ha rimproverato due crimini di cui il secondo è l’ateismo. Joseph Scaliger (1540-1609) indispettito nei suoi confronti per una bagatella di erudizione, non gli aveva reso maggior giustizia. Muret, aveva detto maliziosamente, sarebbe il miglior cristiano del mondo se egli credesse in Dio così bene da farsi ritenere credente.

Dei compilatori idioti che non hanno alcuna idea di ciò che si chiama critica, a torto hanno espresso la prima che si era loro presentata; un Etienne Dolet d’Orleans, un Francois Pucci di Firenze, un John Milton (autore di Paradiso Perduto 1608-1674) di Londra un, io non so qual Merula, falso maomettano. Qualcuno, senza considerare che Pier Bacci d’Arezzo, detto volgarmente l’Aretino, uomo di grande ignoranza, senza studi e senza letture, che non conosceva che la lingua materna e parlava come uno scrittore molto licenzioso, era  desideroso di renderlo autore del libro.

Quelli che hanno detto che fosse stato Poggio (Bracciolini, 1380-1459) si sono fondati sullo stesso motivo. Altri sono risaliti fino al Boccaccio (Giovanni, 1313-1375), senza dubbio a causa del terzo racconto del Decamerone dove è riportata la parabola dei tre anelli collegati, di cui fa una pericolosa applicazione alla religione giudaica, alla cristiana e alla maomettana, insinuando, così sembra, che si possa abbracciare indifferentemente l’una delle tre, facendone motivo di preferenza.

Sono sorpreso che siano stati dimenticati Machiavelli e Rabelais, ma poi ho trovato che Rabelais non era sfuggito a Decker; che l’olandese che ha tradotto in francese il libro di religione del medico Browne, nelle sue note  sul cap. 20, oltre a Machiavelli nomina anche Erasmo. Egli sarebbe stato meno stravagante se acesse indicato al posto di quest’ultimo, Pomponazzi o Cardano.

Pomponazzi (Pietro, 1462-1525) nel cap. quattordicesimo del suo “Trattato sull’immortalità dell’anima”, ragionando da puro filosofo e ipotizzando la creazione cattolica, alla fine del libro osa dire che la dottrina dell’immortalità dell’anima è stata inserita da tutti e tre i fondatori delle religioni per contenere i popoli nei loro doveri, nei quali tutti o parte di essi  sono divisi in due: poichè è da supporre, aggiunge, che non vi sono che tre religioni, quella di Gesù Cristo, di Mosé e di Maometto: se tutte e tre sono false, è tutto il mondo ad essere stato ingannnato; se ve ne sono due false è la più gran parte del mondo ad essere stato ingannato.

Ragionamento scandaloso che nonostante tutte le precauzioni di Pomponazzi ha dato a Jaques Charpentier (1524-1574) la possibilità di ricredersi: Quid vel hac sola dubitatione in Christiana schola cogitari potest perniciosus? (Che cosa può essere considerato pernicioso nella scuola cristiana solo con questa esitazione?).

Cardano (Gerolamo, 1501-1576), fa ancora di più di Pomponazzi; nell’undicesimo dei suoi libri sulla “Sottigliezza” (“De subtilitate Libri XXI”) egli paragona succintamente le quattro religioni  generali, dopo averle fatte disputare l’una contro l’altra, senza che si dichiari per qualcuna di esse, egli chiude bruscamente il discorso dicendo: Igitur his arbitrio victoriae relictis (lasciandoli quindi al capriccio della vittoria). Ciò che significa in buon francese che egli lascia al caso decidere della vittoria.

Parole che correggerà egli stesso nella seconda edizione sulle quali si lasciarono passare tre anni quando furono riprese aspramente da Jules Scaliger (Giulio Cesare Scaligero 1484-1558) a causa del terribile senso che esse mostravano e dell’indifferenza che marcavano dalla parte di Cardano, riguardo alla vittoria che uno dei quattro partiti, chiunque esso fosse, potesse riportare sia per la forza della ragione sia per la forza delle armi.

Mi degnerò di citare, signore, Naudeana (et patiniana, ou singulariez remarquable di Gabriel Naudé e Guy Patin; il libro tocca diversi argomenti di conversazione e riflessione, ndr.).

E’ una rapsodia di sviste e falsità, l’ultimo articolo delle quali  contiene delle ricerche confuse sul libro dei tre impostori. Vi è detto che Ramus l’attribuiva a Postel: ma, ritengo, non si troverà nessuna indicazione negli scritti di Ramus. Poiché Postel ha una singolare opinione e Henri Etienne riferisce (Traicté preparatif a l’apologie d’Herodote, pag. 106 edit. 1566)  di aver sentito dire che delle tre religioni, giudaica, cristiana e maomettana, ne può uscire una buona e lui in nessuna delle sue opere ha attaccato la missione di Mosè e non ha dubitato della dìvinità di Gesù Cristo; non ha neanche difeso in termini precisi la religiosa ospitaliera veneziana che egli chiamava madre Giovanna la quale era redentrice delle donne, come Gesù Cristo era redentore degli uomini. Solamente dopo aver detto che nell’uomo la parte maschile era l’animo, e l’ anima la femminile, aveva avuto la follia di aggiungere che queste due parti che erano state corrotte dal peccato (originale), la madre Giovanna aveva redento l’anima femminile, come Gesù Cristo aveva redento l’animo maschile.

Il libro in cui parlava di queste stravaganze era stato impresso a Parigi, in 16ma, l’anno 1553 sotto il titolo delle “Trois merveilleuse victoires des femmes”, e non è divenuto così raro che non si trovino facilmente molti esemplari;  per di più è stato visto chi ha pubblicato i Tre Impostori,  se è vero che sia giunto a questo eccesso di empietà. Nel 1543 aveva dichiarato che l’opera era di Servet che non si era fatto scrupolo per vendicarsi degli ugonotti, suoi calunniatori, di imporre con una lettera che scrisse a Mafius l’anno 1563, d’aver fatto stampare il libro a Caen.

Ora ritorno a Naudeana. Si parla di un certo Barnaud in termini così intricati da non far capire niente, a meno di aver visto un libro inttitolato “Le Magot Genevois”. E’ un in 8,° di 98 pagine stampato nel 1613 senza nome del luogo. L’autore che non si nomina affatto ma che io credo si tratti di Henri de Sponde, poi vescovo di Pamiez, che dice che in quel tempo un medico di nome Barnaud, convinto di arianesimo, aveva scritto il Libro dei tre Impostori che era di fresca data. Ciò che vi è di più ragionevole in quest’ultimo articolo di Neaudeana è di far dire a Naudé, uomo di esperienza infinita in materia di libri, che egli non aveva mai visto quello dei tre impostori che riteneva non fose mai stato stampato e che riteneva una favola tutto cio che vi si raccontava.

Io posso aggiungere a questo catalogo il famoso ateo Giulio Ceare Vanini, bruciato a Tolosa nel 1619 col nome di Lucilio Vanino accusato di aver sparso questo libro in Francia qualche anno prima del suo supplizio. Non vi sono degli scrittori semplicemente creduli, gente priva di senso comune che possa ammettere queste impertinenze e assicurare che il libro si vendeva pubblicamente in diverse parti d’Europa non rendendosi conto da ciò che le copie non dovevano essere tanto rare. Una sola copia avrebbe risolto la questione. Ma non se ne vedeva nessuna che si supponeva fossero state stampate, sia da Chretien Wechel a Parigi, verso la metà del secolo sedicesimo, sia da parte di Nachtegal a Le Haye nel 1614 o 15.

Il Padre Theophile Raynaud, dice che il primo, ricco che fosse, cadde per punizione divina in estrema povertà. Mullerus dice che il secondo fu  scacciato con ignominia.  Bayle, nel suo dizionario, alla parola Wechel ha solidamente rifiutato la favola che gli attribuisce questo imprimatur. Riguardo a Nachtegal, Spicelius riferisce che quest’uomo che era di Alcmar fu cacciato da Le Haye non per aver pubblicato il libro dei tre impostori, ma per aver profferito qualche blasfemia di certa specie.

Io concludo col dire che dopo aver letto con molta pazienza e attenzione ciò che Vincent Placcius (1642-1699), nell’edizione in folio della sua vasta opera “De Anonymys et pseudoanonuymis”, Chretien Kortholt (1709-1751) nel suo libro “De tribus Impostoribus”, rivisto da suo figlio Sebastiano e infine Struvio (Georg Adam Struve, 1619-1692) nell’edizione del 1706 della “Dissertazion de doctis impostoribus”, hanno scritto sullo stesso soggetto, io non ho trovato niente, nelle loro ricerche che mi abbia obbligato a rilasciare tanto poco dei miei sentimenti.

Sono molto meravigliato di Struvius il quale, malgrado le prove, le più specifiche menzionate che gli ha potuto offrire Tentzelius dell’esistenza del libro, si è sempre mantenuto, come ho precisato più avanti, fermo sulla negativa, si è poi, non so come, dedicato alla più frivola delle ragioni che si possa immaginare.

Ecco il fatto: In una Prefazione anedottica dell’ “Atheismus triunphatus” di Campanella, che gli era caduta tra le mani, aveva trovato che l’autore, per discolparsi del crimine che gli si imputava, di aver scritto il Libro de tribus impostoribus, rispondeva che questo libro aveva visto il giorno trent’anni prima che egli venisse al mondo. Cosa meravigliosa. Questa risposta campata in aria, a Struvio era parsa tanto dimostrativa che Struvio aveva cessato di dubitare dell’esistenza del libro, concludendo di esserne ora sicuro, per cui non era più permesso di ignorare il tempo della pubblicazione che, avendo preceduto di trent’anni la nascita di Campanella avvenuta nel 1568, cadeva di conseguenza nell’anno 1538.

Da questa data, andando con le sue scoperte più lontano, egli si era convinto di ritenere Boccaccio autore del Libro, ciò che egli cerca di provare con una cattiva interpretazione di un altro indirizzo di Campanella, che non ricordava o non voleva ricordare, che questo aveva detto a Ernisius che l’opera era di Muret. Ma che Struvio scegliesse Muret o Boccaccio egli non guadagnava di più dall’uno o dall’altro.

Se in effetti fosse stata di Boccaccio ne sarebbe seguito che secondo Campanella il libro dei tre impostori non sarebbe stato che la terza novella del Decamerone. Se fosse stato di Muret si trovava che essendo nato nel 1526 egli non poteva aver composto il libro nel 1538, preteso anno della sua stampa, quando aveva dodici anni, età in cui non si può pensare avesse potuto comporre un tale scritto.

Io penso dunque di non aver avuto il torto di dire che Struvius, per il suo onore, dovrebbe tornare alla sua prima opinione. Per quanto mi riguarda io persisterei invariabilmente nella mia, fino a quando non si stabilisca con migliori prove, l’esistenza presente o almeno passata del Libro di cui si parla.

Io parlo di esistenza passata; poiché si è costantemente affermato che il libro era stato certamente stampato, oggi ne resterebbe qualche esemplare. Tali sono per esempio le opere di Servet, per mezzo delle quali si può trovare Sandius nella biblioteca degli Anti-Trinitari e M. Simon, la sua “Histoire critique des commentateur du Nuveau Testament”.

Ad Amsterdam era stato stampato il “Cymbalum mundi”, libro che Bonaventure Périers (1515-1544), aveva stampato col nome di Thomas du Clavier, scritto in Francia, che nella Prefazione dice di averlo tradotto dal latino.

Tale infine, per non entrare in un più lungo elenco, è il piccolo volume intitolato “La béatitude des Chretiens, ou le fleau de la foi” (La beatitudine dei cristiani o la disgrazia della fede), dal quale l’autore Geoffroi Vallée d’Orleans fu appeso e bruciato in Gréve il 9 febbraio 1573, dopo aver abiurato i suoi errori (*).

Libro di tredici pagine in 8°, stampato senza nome del luogo, molto criticato, ma per il resto così raro che l’esemplare posseduto dal signor abate d’Estrées  si può dire che oggi sia l’unico.

Quando io dico che questi libri sono totalmente periti, non si può dubitare che essi non esistano perchè la loro storia è vera mentre quella del libro dei tre impostori è apocrifa.

Ecco, signore, ciò che ho inteso dirvi su quest’ultimo. Voi siete, senza dubbio il giusto soggetto che mi possa comprendere. Io ho promesso di dirvi poche parole e sono alla ventiduesima pagina. Ho trascritto, veglia su veglia, su questi fogli, ciò che confusamente era nella mia memoria. Ho finito col ricavare e sbrogliare, ricorrere alle fonti, verificare articolo per articolo; in buona fede non credevo  di aver avuto tanto da dire.

Vi chiedo scusa, Signore, e vi assicuro di non essere stato così accorto da cadere in questa colpa.

Parigi il 16 di Giugno 1712.

 

 

 

*) Menage in nota chiarisce che il fondo della dottrina di questo Vallée, indicato anche come Francois Godefroi du Val, tradotto in latino come Godefridus ou Gothofredus a Valle, non è l’ateismo propriamente detto, ma un deismo comodo, che non consiste nel riconoscere un Dio senza crederlo e senza aspettarsi alcuna pena dopo la morte. Su ciò, Maldonat, contemporaneo de la Vallée, avendo detto nel suo “Commentario” al cap. 26 di S. Matteo che un libertino del suo tempo aveva scritto un “Traité de l’Art de ne croire” (Ttrattato dell’arte di non credere), “libellum  de arte non credendi”, molti prendendo le sue parole alla lettera, hanno creduto che essa fosse latina e avesse per titolo “Ars” o “De arte nihil credendi”, non potendo intuire che Maldonat avesse voluto, per propria iniziativa, esprimerlo in francese con “Fleau de la foi” (disgrazia della fede).

 

 

LA POLEMICA

TRA DE LA MONNOYE

E FILOMNESTE

 

 

P

ietro Federico Arpe di Kiel nell’Holstein, autore della “Apologia di Vanini”, stampata a Rotterdam nel 1712, sotto il nome di Filomneste il Giovane, aveva pubblicato un articolo, sotto forma di lettera, con la quale diceva di rispondeere “a una specie di dissertazione” (pubblicata in Menagiana, IV, 1716)su un argomento sul quale pareva che in questo paese tutti gli eruditi volessero esercitare la loro critica e nello stesso tempo discolpare molti uomini valenti che si facevano passare per autori del libro”.

Tale dissertazione era attribuita al signor de La Monnoye (Bernard, avvocato, poeta, filologo e critico letterario,1641-1728), il quale gli dava l’occasione di parlare del libro “De tribus impostoribus”, che de La Monnoye riteneva non esistesse e, affermava Filomneste, “si industriava di provare la sua opinione con congetture, senza addurre alcuna prova atta a colpire un animo abituato a non sopportare che si voglia dargliela a intendere”.

Senza stare a confutare punto per punto questa dissertazione, scriveva Filomneste, che nulla contiene di ciò che non sia stato già detto in una dissertazione latina di Burchard Gottheffie Struve, stampata per la seconda volta a Genova da Muller nel 1706 (vista dall’autore che la cita).

Io possiedo un espediente, proseguiva Filomneste, ben più sicuro per confutare la dissertazione di La Monnooye, di aver visto  “meis oculis” il famoso libricciuolo “De tribus impostoribus” e che ho qui, nel mio studio, e racconterò il modo in cui sono venuto a scoprirlo ed esaminarlo di cui darò un breve e fedele sunto.

Nel 1706 mi trovavo a Francoforte sul Meno e un giorno ero nella bottega di uno dei librai meglio provveduti di libri di ogni genere, insieme a un ebreo e a un amico chiamato Frecht, allora studente in teologia. Stavamo esaminando i cataloghi del libraio, quando vedemmo entrare nella bottega, una specie di ufficiale tedesco il quale, rivoltosi al libraio, gli diceva in lingua tedesca che voleva concludere quel loro affare, altimenti sarebbe andato altrove. Frecht che conosceva l’ufficiale che si chiamava Trawsendorff, gli chiese che affare avesse da concludere con il libraio.

Trawsendorff gli rispose che possedeva due manoscritti e un libro antichissimo e voleva realizzare un piccolo peculio e che il libraio la stiracchiava per cinquanta risdalleri, volendo sborsarne quattrocentocinquanta, invece dei cinquecento richiesti.

Questa grossa somma per due manoscritti e un libriciattolo, eccitò la curiosità di Frecht che chese all’amico se non si potessero vedere i libri che voleva spacciare a così caro prezzo. Trawsendorff trasse subito di tasca un pacchetto in pergamena, legato con un cordoncino di seta che aprì, traendone i libri. Entrammo nel magazzino del libraio per esaminarli più liberamente e il primo che Frecht aprì era quello stampato che portava il titolo scritto a mano al posto del titolo vero che era stato lacerato.

Il titolo era “Specchio (vedi sotto!) della Bestia trionfante”  la cui stampa non pareva antica: io ritengo che si trattasse della stessa copia di cui Toland pubblicò una traduzione inglese, da qualche anno, i cui esemplari si sono venduti a caro prezzo.

Il secondo, un vecchio manoscritto latino, di scrittura piuttosto intralciata, non portava alcun titolo, ma in cima alla pagina, con caratteri abbastanza grandi, era scritto: Othoni illustrissimo amico meo carissimo F.I.S.D. e l’opera cominciava con una lettera, della quale ecco le prime righe: Quod de tribus famosissimi nationum deceptoribus in ordinem jussu meo digessit doctissimus ille vir, etc. .

L’altro manoscritto era pure latino e senza titolo e cominciava con queste parole, che sono di Cicerone, nel primo libro del “De natura deorum”: Qui vero Deos esse dixerunt tanto sunt in veritate et dissensione constituti, ut eorum molestum sit annumerare sententias [...].

Frecht, dopo aver sfogliato in fretta e furia i tre libri, si fermò al secondo, di cui aveva spesso sentito parlare  e intorno al quale aveva letto storie diverse e senza più curarsi degli altri due, tirò in disparte Trawsendorff e gli disse che avrebbe trovato dovunque chi sarebbe stato disposto a comperargli quei tre libri.

Non si parlò più del libro italiano e quanto all’altro concludemmo, leggiucchiando quà e là qualche frase che conteneva un sistema di ateismo. Poiché il libraio si tenne fermo alla prima offerta e non volle accordarsi con l’ufficiale, uscimmo e ci recammo nell’abitazione di Frecht il quale, avendo le sue mire, fece portare del vino e pregato Trawsendorff di raccontarci come quei libri erano caduti nelle sue mani, mentre lo inducemmo a vuotare tanti bicchieri che vi annegò la ragione e Frecht ottenne senza molta fatica che gli lasciasse il manoscritto “De tribus famosissimis Deceptoribus”, non senza vincolarci con esecrabile giuramento, che non lo avrenno copiato. A tali condizioni divenimmo possessori dalle dieci della sera del venerdì, sino alla sera della domenica, quando Trawsendorff sarebbe tornato a riprenderlo e vuotare alcuni fiaschi di quel vinetto che gli era andato tanto a sangue.

Poiche non ero meno smanioso di Frecht di conoscere il libro, ci mettemmo tosto a leggerlo, deliberati di non dormire fino alla domenica. Il libro era voluminoso?, domanderete. Niente affatto. Era in 8° grande, di dieci fogli, senza la lettera posta in principio, ma scritto con carattere minuto e zeppo di tante abbreviature, senza punti né virgole, che arrivammo a gran fatica a decifrare la prima pagina in capo a due ore; ma poi la lettura si fece man mano più agevole.

Allora mi venne in mente di proporre al mio amico Frecht un espediente: di equivoco alquanto gesuitico per procurarci una copia, senza violare il giuramento fatto (ad mentes interrogantis) di non copiarlo. Era presumibile che Trawsendorff, esigendo che il libro non fosse copiato, intendeva che non fosse trascritto; la scappatoia consisteva nel farne una traduzione. Frecht, dopo qualche esitazione acconsentì e ci ponemmo a tradurre il testo.

A mezzanotte il libro era copiato e passai a limare quella frettolosa traduzione e ciascuno ebbe la sua copia, concertando di non parlarne ad anima viva.

Quanto a Trawsendorff, ebbe i suoi cinquecento risdalleri dal libraio che lo acquistava per conto del principe della Casa di Sassonia il quale seppe come questo libro era stato sottratto dalla biblioteca di Monaco, quando, dopo la sconfitta dei francesi e bavaresi a Hochstet, gli alemanni si impadronirono di questa città, dove Trawsendorff, come egli stesso ci raccontò, essendo entrato d’appartamento in appartamento sino alla bibloteca di S.A. l’elettore, cadutogli sotto gli occhi quel pacchetto di pergamena con quel cordone di seta gialla, non seppe resistere alla tentazione di cacciarselo in tasca, sospettando potesse contenere qualche oggetto prezioso; e non si ingannava!

Per compiere la storia di questo libro, restano da dire le congetture di Frecht e mie intorno alla sua origine.

Inanzitutto ci trovammo d’accordo nel ritenere quel “carissimo Othoni” della dedica, non fosse che Ottone l’illustre duca di Baviera, figlio di Ludovico I e nipote di Ottone il Grande, conte di Shiven e Witteelspach al quale l’imperatore Federico Barbarossa aveva ceduto la Baviera in riconoscimento della sua fedeltà, togliendola a Enrico il Leone per punirlo della sua ingratitudine.

Ora questo illustre Ottone, successe a suo padre Ludovico I nel 1230, durante il regno di Federico II, nipote di Federico Barbarossa, nel tempo in cui questo imperatore aveva rotto con la corte romana, al suo ritorno da Gerusalemme; ciò che ci fece congetturare che il monogramma F.I.S.D. che seguiva l’ amico meo carissimo, significasse Federicus Imperator salutem dicit. Congetture dalle quali dover dedurre che il trattato “De tribus Impostoribus” fu  composto dopo l’anno 1230, per ordine di questo imperatore, aizzato contro i cattivi trattamenti ricevuti dal suo capo, allora Gregorio IX, dal quale fu scomunicato prima che partisse per la terra Santa, e perseguitato fino alla Siria dove, a forza di intrighi indusse l’esercito ad ammutinarglisi.

Questo principe, al suo ritorno, pose l’assedio a Roma saccheggiando le province circostanti; in seguito concluse una pace che non durò a lungo, ma fu seguita da una violenta animosità fra imperatore e sommo pontefice  che non si spense se non con la morte di quest’ultimo che morì di dolore(1241) nel vedere Federico trionfare dei suoi vani fulmini e smascherare i vizi del santo padre nei versi satirici che fece divulgare in Germania, Italia e Francia.

Ma non ci venne di scoprire chi fosse i doctissimus vir con cui Ottone si era intrattenuto intorno a quella materia, nel gabinetto reale e probabilmente in compagnia dell’imperatore, se non si dica che sia stato il celebre Pier delle Vigne, segretario, o come altri vogliono, cancelliere, di Federico II.

Il trattato di costui “De potetsate imperiali” e le “Epistole” ci fanno sapere quanto grande fosse la sua erudizione, lo zelo che aveva per gli interessi del suo signore e l’astio che lo animava contro Gregorio IX, gli ecclesiastici e le chiese del suo tempo.

E’ vero che in una delle sue epistole si studia di scolpare il suo signore, accusato sin d’allora di essere l’autore di questo libro; ma ciò potrebbe appoggiare la nostra congettura e far credere che egli forse non abbia patrocinato Federico, perché non fosse posta a suo carico un’opera così scandalosa; forse egli stesso ci avrebbe tolto ogni pretesto di fare simili supposizioni, confessando la verità, se, quando Federico, sospettando che avesse cospirato contro la sua vita, non lo avesse condannato ad essere accecato e abbandonato nelle mani dei pisani, suoi acerrimi nemici e la disperazione non avesse accelerato la sua morte in una infame prigione, dove non poteva comunicare con anima viva.

Ed ecco distrutte tutte le false accuse contro Averroé, il Bocacccio, Dolet, l’Aretino, Serveto. Ochino, Postel, Pomponazzi, Campanella, Poggio, il Pulci, il Mureto, il Vanini, Milton e diversi altri; e risulta che il libro fu composto da un dotto di prima levatura, alla corte e per ordine di Federico, e si ritenne che esso fosse anche stampato (sic! la stampa era ancora di là da venire! ndr.), ciò che non e molto probabile, poiché si può credere facilmente che Federico, circondato com’era da nemici, non avrà voluto divulgare un tal libro che avrebbe offerto una bella occasione di propalare la sua irreligiosità. E può darsi che non ne sia esistito  mai altro che l’originale e questa copia mandata ad Ottone di Baviera.

E ciò mi pare possa bastare per quanto riguarda la scoperta del libro e il tempo in cui fu scritto; ora ecco cosa contiene.

 

 

CONTENUTO DEL LIBRO

DEI TRE IMPOSTORI

 

 

I

l libro è diviso in sei libri o capitoli, ognuno di quali è diviso in diversi paragrafi; il primo capitolo ha per titolo “Di Dio” e contiene sei paragrafi in cui l’autore, per farsi conoscere spoglio da qualsiasi pregiudizio e di educazione o di partito, mostra che, sebbene gli uomini abbiano interesse peculiare di conoscere il vero, non pertanto essi non si pascono che di opinioni o di immaginazioni e che essendovi persone cui torni conto di intrattenerli in ciò, vi restano invischiati, perché possano facilmente scuoterne il giogo, non facendo che piccolissimo uso della loro ragione.

Quindi passa alle idee che abbiamo della divinità e prova che le recano ingiuria, come quelle che fanno di Dio l’essere il più spaventoso ed imperfetto che vi possa essere; se la prende con l’ignoranza dei popoli o piuttosto con la loro goffa credulità che presta fede alle visioni di profezie di apostoli, dei quali fa un ritratto conforme all’idea che egli si è formato.

Il secondo capitolo tratta delle ragioni che hanno spinto gli uomini a figurarsi un Dio: è diviso in undici paragrafi nei quali si prova che dall’ignoranza delle cause fisiche derivò un naturale timore alla vista di mille terribili casi, il quale fece nascere l’idea che esista qualche potenza invisibile; tema e sospetto, dice l’autore, di cui i sagaci politici seppero far uso a norma dei propri fini e diedero voga all’opinione di detta esistenza, confermata da altri che vi trovavano il loro tornaconto e radicatosi negli animi per la stoltezza della moltitudine sempre ammiratrice dello straordinario, del sublime, del meraviglioso.

Poi esamina qual sia la natura di Dio e atterra la volgare opinione delle cause finali, come contrarie alla sana fisica: finalmente prova come l’uomo non si sia fornmata questa o quella idea della divinità, se non dopo aver giudicato ciò che è perfezione, bene, male, virtù, vizio; giudizio fatto dall’immaginazione o spesso il più falso che sia; donde poi derivarono le false idee che ci formiamo e conserviamo intorno alla divinità.

Nel decimo paragrafo l’autore spiega a modo suo ciò che Dio è e ne dà una nozione conforme al sistema dei panteisti, dicendo che la parola di Dio ci rappresenta un ente infinito, uno  degli attributi il quale è di essere una sostanza estesa e per conseguenza eterna e infinita.

Nell’undecimo volge in beffa l’opinione volgare che si fugura Dio in tutto simile ai re della terra e, passando ai libri sacri, nel parla in modo molto svantaggioso.

Il terzo capitolo ha per titolo ciò che significa la parola religione, come e perché ne sorse sulla terra numero così grande.

Questo capitiolo conta ventitre paragrafi. Nei primi nove l’autore esamina l’origine delle religioni e con esempi e ragionamenti stabliisce che, ben lontane dall’essere divino, sono anzi tutte opere della politica.

Nel decimo pagarafo pretende svelare l’impostura di Mosé, mostrando chi egli fu e quale fu il modo adoperato per fondare la religione giudaica,

Nell’undicesimo, esamina le imposture di alcuni uomini politici come Numa e Alessandro. Nel dodicesimo passa a Gesù Cristo del quale esamina i natali; nel tredicesimo e seguenti, parla intorno alla sua politica; nel diciassettesimo e in quello che segue, esamina la sua morale che non trova molto più pura di quella di molti antichi filosofi; nel decimonono esamina se la fama che ottenne dopo la morte, abbia contribuito a deificarlo e, finalmente, nel ventesimoterzo parla dell’impostura di Maometto del quale non dice grandi cose, perché non si trovano tanti avvocati della dottrina, come di quella degli altri due.

Il quarto capitolo contiene verità sensibili e manifeste e non conta che sei paragrafi, dove l’autore dimostra ciò che è Dio e quali sono i suoi attributi; e rigetta la credenza di una vita avvenire e dell’esistenza degli spiriti.

Il quinto capitolo parla dell’esistenza dell’anima, è diviso in sette paragrafi nei quali, esposta l’opinione volgare, l’autore reca quella dei filosofi dell’antichità, come anche quella  di Cartesio (sic!); finalmente dimostra qual sia la natura dell’anima, secondo il suo sistema.

Il sesto e ultimo capitolo ha sette paragrafi nei quali si fa parola degli spiriti chiamati demoni e si chiarisce l’origine e la falsità dell’opinione volgare circa la loro esistenza.

Ecco l’analisi del famoso libro in discorso; l’avrei potuta fare più per esteso e più partitamente, ma, oltre ad essere questa lettera già di soverchio prolissa, ho creduto che tanto basti per farlo conoscere e far vedere che si trovi effettivamente in mia mano.

Pertanto, sebbene questo libro possa essere stampato anche subito, non per questo credo che sarà mai reso di pubblica ragione. Quanto a me, non voglio espormi allo stiletto teologico, che temo quanto (san) Paolo temeva lo stylum romanum; pure sul letto di morte non sarò tanto superstizioso da farlo gettare alle fiamme, come aveva fatto Salvius, plenipotenzario di Svezia; coloro che verranno dopo di me, ne faranno ciò che vorranno, senza conturbare minimamente la pace del mio sepolcro.

Nel frattempo, mi dichiaro, signore, con sentita stima, il vostro obbedientissimo servitore.

Da Leida, addì 1 gennaio 1716.

 

 

RISPOSTA DI DE LA MONNOYE

CHE SMENTISCE

LA PROVENIENZA DEL TESTO

ATTRIBUITO A FEDERICO II

 

 

B

ernard de La Monnoye rispondeva con l’articolo pubblicato nelle Memoires de litterature (L’Aja editore Enrico Sauzet, 1716) e riprodotta in Biblioteca Rara, De Tribus Impostoribus (1862), nel modo seguente, contestando specificamente la provenienza del manoscritto, ritenuto da Filomneste proveniente da Pier delle Vigne e rilevano i madornali errori fatti in riferimento alla posssibile stampa del libro, che sarebbe arrivata tre secoli dopo e il riferimento al titolo del testo di Giordano Bruno indicato per “Specchio”, anziché “Spaccio della Bestia trinfante”, mentre non indica l’altro errore grossolano sulla esistenza dell’anima, con riferimento a Cartesio (v. in Specchio dell’Epoca “Sum, ergo cogito” ecc.) che non aveva nulla a che fare con l’epoca di Federico II e Pier delle Vigne! (ndr.).

Nella mia dissertazione (prosegue de La Monnoye), sul preteso libro “De tribus Impostoribus”, dimostrai che sebbene in diverse età, si siano dati empj diversi che ardirono asserire che il mondo fu sedotto da tre impostori, non pertanto le voci corse intorno a un libro scritto sull’argomento, che non cominciarono a diffondersi che verso la metà del sec. XVI. Si può anzi fissare la data nel 1543, tempo nel quale Guglielmo Postel parlò di quest’opera come già essistente. L’autore anonimo della risposta alla mia dissertazione ha del tutto errato, sostenendo che questo libro sia stato scritto per ordine dell’imperatore Federico II.

Intorno a ciò non si trova nulla all’infuori che i nemici di questo imperatore l’accusarono di aver detto, parlando di Mosé, di Gesù Cristo e di Maometto, che essi furono tre seduttori che ingannarono il mondo; empietà della quale si discolpò, protestando contro siffatta calunnia.

Non pertanto, se questo libro  al presente esiste, come assicura il mio critico, tal quale egli vuole che questo imperatore l’abbia fatto comporre in latino, egli non ha che mostrarne il manoscritto; e quando abili giudici, dopo averlo esaminato, avranno dichiarato che non vi è frode, allora confesserò pubblicamente che, in luogo di negare l’esistenza del libro, avrei dovuto dire semplicemente che esso non fosse consociuto.

Ma, fintantoché si spaccerà una storiella senza fondamento e non vedremo allegare che una traduzione al tutto recente dell’originale antico, che non sarà mai pubblicato, io persisterò nella mia opinione; e se arriverà, cosa che io non credo, a quella di pubblicare la traduzione di cui parliamo, sosterrò altamente che essa sia una composizione dell’editore, non già una versione fatta sul manoscritto che si pretende tolto dalla biblioteca di Monaco.

Il libro dei tre impostori, trovato da un ufficiale tedesco  dopo la battaglia di Hochestedt, rassomiglia molto al Petronio completo trovato nell’assedio di Belgrado da un ufficiale francese.

Queste due scoperte sono veramente una più bella dell’altra. Il falso Petronio si riconobbe a primo tratto per la differenza manifesta dello stile. Si riconoscerà il falso libro dei tre Impostori con la stessa pietra di paragone. E’ certo che la lingua latina al tempo di Federico II era tutt’altro che elegante; non aveva né periodo, né numero, nè purezza. Si può giudicarne dalle epistole di quel Pier delle Vigne che si vuol far passare per autore dell’opera di cui si tratta. Chi le lesse ben sa quanto siano barbaramente scritte.

Giusta questa norma, vediamo il principio dfella lettera che si spaccia come scritta da Pier delle Vigne, al nome del signore.

L’anonimo, tuttoché impegnato da esecratìbile giuramento a non copiare il manoscritto, non giudicò che tale obbligo si estendesse anche all’epistola preliminare, della quale grazie a questa giudiziosa distnzione, potè comunicarci le prime linee. Othoni illustrissimo, amico meo carissimo F.I.S.D.- Quid de tribus famosissimis nationum deceptoribus in ordinem ... (omissis).

Questo esordio nulla ha del torno, né della dizione di Pier delle Vigne. La formula “salutem dixit” a quel tempo non era in uso. “Museum” era parola sconosciuta nel sec. XIII. Altrettanto dico di “exscribo”; e io adduco questi fatti senza tema di essere smentito da nessun esempio tratto da autori contemporanei a Federico.

L’anonimo per fermo dirà che l’imperatore in questa occorrenza, ordinò al suo cancelliere di usare lo stile più puro che l’ordinario, e questo essere appunto il senso di quelle parole: “codice illum stylo aeque vero ac puro scriptum”; il che significa che la lingua di questo libro era del pari pura e sincera. Rispondo  che questa scappatoia è inutile, perché l’imperatore e il suo cancelliere non  avevano né l’uno, né l’altro, idea della buona latinità, più che il cieco nato, dei colori ....  .

Passo all’anonimo il granchio d’aver letto “specchio”, per “spaccio” parlando del libro stampato che si vendeva con i due manoscritti.

Esso è un libro italiano in 8°, intitolato da Giordano Bruno, suo autore: “Spaccio della bestia trionfante”. Meno buono  altresì è il confronto ch’egli fa della mia dissertazione con quella di Struvius, scritta dieci anni dopo la mia, della quale nel 1654 in Olanda fu pubblicato un riassunto citato dallo stesso Struvius. Neanche starò a chiarire il modo di spiegarsi, ove dice che non è probabile che il libro dei tre impostori sia stato impresso, poiché Federico si sarebbe guardato dal presentare ai suoi nemici una sì bella occasione di divulgare la sua empietà; espressione che sembra supporre che la stampa fosse conosciuta ai tempi di Federico.

L’anonimo vuol essere creduto ed egli non dice il suo nome; egli non nomina la libreria di Francoforte. Nomina soltanto Trawendorff e Frecht, due uomini sì poco conosciuti che tornava lo stesso non nominarli. Lo scopo principale del suo scritto è di annunciarci la sua pretesa versione, la quale, checché ne dica, consisterà forse il quel compendio che egli ci offre, sì facile ad essere immaginato; non dandosi empio che con mediocre abilità non possa concepirne ed esporne uno simile in men di un’ora; di maniera che così fatti disegni di ateismo potranno in pochissimo tempo moltiplicarsi, e il mondo udrà parlare ogni tanto dei tre impostori, e senza mai vedere il libro, si vedrà andare in volta, grandissimo numero di riassunti.  

 

 

 

 

FINE