L’Harem

 

 

ROSSELANA

DA SCHIAVA A MOGLIE

(Hürrem Sultan)

DI SOLIMANO IL MAGNIFICO

 

Michele-Enrico Puglia

 

AL PRESENTE ARTICOLO E’ COLLEGATA LA SCHEDA:

L’DEA DI SOLIMANO DELLA CONQUISTA D’ITALIA

 E LE ATTUALI CONDIZIONI DEL NOSTRO PAESE.

                                                               

 

SOMMARIO: SOLIMANO IL MAGNIFICO E LA BATTAGLIA DI MOHACS; IL MISTERO DELLE ORIGINI DI ROXELANA (In Nota: l’Harem e Il Serraglio); L’AMORE DEL SULTANO PER ROSSELANA; ROSSELANA CONVINCE IL SULTANO A UCCIDERE I PROPRI FIGLI; SOLIMANO FA ASSASSINARE IBRAHIM SUO COMPAGNO DI GIOCHI; L’UCCISIONE DI MUSTAFA  (In Nota: Il falso Mustafà); LA TRAMA PER DIVENTARE SULTANA; LA FINE DI BAJAZET E SELIM.

 

 

SOLIMANO

IL MAGNIFICO

E LA BATTAGLIA

DI MOHACS

 

 

Era riuscito a sopravvivere, salvato dalla madre, in quanto il padre Selim I intendeva avvelenarlo con una veste avvelenata; era longilineo e di statura poco superiore alla media, di colore bruno, la fronte grande e  spaziosa, occhi neri e grossi, naso aquilino e una bella bocca; nell’aspetto era malinconico ma poteva anche apparire gioioso e gli piacevano le risposte spiritose: un giorno le si era presentata una donna che gettatasi ai suoi piedi piangente si lamentava  che i ladri le avevano svaligiato la casa; Solimano le rinfacciò che evidentemente dormiva tanto bene che i rumori non l’avevano svegliata; la donna con presenza di spirito gli rispose: Signore, ho dormito quieta perché credevo che voi vegliaste su di me; il sultano si sentì punto da questa risposta senza darlo a vedere, ma le donò molte monete d’oro per risarcirla del furto.

Oltre al titolo di Magnifico, fu detto anche Kanuni (Legislatore) e Saib Chiran (Dominatore del suo secolo);  fu “cinto” con la scimitarra, secondo l’usanza turca, nello stesso giorno in cui Carlo V veniva incoronato imperatore ad Aquisgrana (1520); diversamente da questo suo antagonista che era un uomo arido, non amante delle arti e delle lettere e, come si diceva,  animato contro Francesco I, invece che contro i turchi”, Carlo V aveva dedicato tutta la sua vita a combattere Francesco I di Francia (ma anche i turchi!).

Solimano II (*) (1494-1566) fu grande monarca, giusto (condannava le ingiustizie e i pascià che si appropriavano di beni altrui) e colto (leggeva i Commentari di Cesare e conosceva il greco); fu legislatore, guerriero e poeta e grande mecenate nelle lettere; raccolse manoscritti e fondò biblioteche e nelle arti si servì del grande architetto, autore delle opere del Rinascimento ottomano, Mi’mar Sinan, morto novantenne, se non centenario (1489-1588), che fu anche al servizio di Selim II e Murad III.

Solimano non riuscì a realizzare il suggerimento di Francesco I, che unico tra i monarchi occidentali, per potersi difendere da Carlo V, con lui aveva stretto rapporti di alleanza, gli suggeriva di conquistare l’Italia (**), ma il sultano pensava di  conquistare prima Rodi, per cui, per il momento diresse le sue conquiste verso l’Ungheria.   

Aveva conquistato Belgrado (1521) e cacciato da Rodi i Cavalieri (1522); conquistato Bagdad (1534), l’Arzebajdzan (1536), l’Algeria (1535); le sue navi, comandate da Khair Addin (il pirata Ariadeno Barbarossa), dominavano nel Mediterraneo.

Per poco non aveva conquistato Vienna (v. sotto) e nella  celebre vittoria di Mohacs (1526), si impadroniva della parte meridionale dell’Ungheria dove regnava Luigi II di Boemia e Ungheria, ultimo della dinastia polacca degli Jagelloni.

Luigi II (1506-1526) era giovane e incapace; per lo scontro con i musulmani,  invece di riunire il consiglio di guerra con gli ufficiali dell’esercito, aveva convocato i vescovi che furono del parere che si dovesse dar subito battaglia; per di più si presentava un monaco francescano millantatore, fra’ Paolo, che salito a cavallo prometteva la vittoria in nome di Dio, ricorrendo agli esempi biblici di Gedeone e Giosué.

Il giovane sovrano timido e inesperto non ebbe la fermezza di mandar via l’impetuoso monaco e mentre all’inizio della battaglia si stava delineando una vittoria a favore dei cristiani, quando entrò in funzione il cannone di Solimano, essi, spaventati, si diedero alla fuga; il pavido re, visti i suoi fuggire, fece altrettanto, ma si avviò da solo, e durante la fuga cadde in un fosso nei pressi del Danubio, dove moriva miseramente senza aver potuto ricevere alcun aiuto.

L’insensato monaco aveva causato la morte del fiore della nobiltà ungara e di venticinquemila uomini; millecinquecento ufficiali furono fatti prigionieri con duecentomila persone di ogni età e sesso; la testa di fra’ Paolo messa su un’asta con in testa una mitra di carta fu esposta come trofeo con la mano destra che gli era stata tagliata perché avrebbe dovuto maneggiare il messale invece della spada.

Chi si giovava di questa perdita fu Solimano che guadagnava l’Ungheria meridionale, la Schiavonia e Sirmio (territorio della Pannonia e città lungo il fiume Sava), portando l’impero ottomano (ingrandito da Mehemet II) all’apice della grandezza, e il rapace arciduca Ferdinando d’Asburgo (marito di Anna di Ungheria, sorella di Luigi II) che incamerava la Boemia e la parte dell’Ungheria non occupata da Solimano, il quale si faceva eleggere re di Boemia e d’Ungheria!

Solimano si trovava ad assediare la città di Zighet in Ungheria, il campo si trovava in prossimità di Belgrado dove fu colto da un colpo apoplettico; il suo gran visir Mehemet volle tenere segreta la sua morte per cui fece strangolare segretamente il medico ebreo e gli schiavi che ne erano stati testimoni, dicendo a tutti che il sultano era indisposto.

Mehemet mandò subito a chiamare Selim e al suo apparire mostrò il corpo del sultano all’esercito (che non lo vedeva di buon occhio!), dicendo che Selim ne era il successore; egli suggerì quindi a Selim di correre a Costantinopoli e prendere possesso dell’impero e il nuovo sultano si attenne al suggerimento di Mehemet-pascià.

 

*) Solimano è erroneamente indicato anche come I, ma il primo Solimano era stato il terzo sultano dopo Othman o Osman e Orchan suo padre; aveva iniziato le sue imprese nel 1549 vivente ancora il padre, in effetti regnò per soli due anni in quanto morì (1560) per  una caduta da cavallo.

**) Si veda in Schede di Storia L’idea di Solimano il Magnifico di conquistare l’Italia e le attuali condizioni del Paese.

 

Hürrem Roxelana

 

                                                             

IL MISTERO

DELLE ORIGINI

DI ROXELANA

 

L

e varie supposizioni sui nomi e provenienze di Rosselana non risultano da documenti ufficiali, come avrebbero potuto essere i registri del Serraglio, per cui tutti i vari nomi e le varie provenienze, compresa quella che presentiamo, sono tutte da considerare pure ipotesi.

Se, infatti, si è riusciti a ricostruire storicamente tanti aspetti della sua vita, non si è riusciti a documentare ufficialmente le sue origini, che secondo alcuni storici sarebbero russe, sulla base del fatto che il nome che veniva dato agli schiavi si riferisse o al paese di provenienza o a una caratteristica fisica; quindi il nome Roxelana (Rossolana o altri equivalenti), avrebbe potuto designare o le sue origini russe, come confermato dall’ambasciatore di Venezia, Domenico Trevisan, che aveva scritto che l’attuale sovrana (Rosselana) è russa; questa provenienza è confermata da Leonclavio (che non parla della Hassakì-Mahidevran, ma facendo riferimento a Mustafà lo indica come “nato da una circassa di condizione servile”!).

Rosselana, era anche rossa di capelli e date tutte queste incertezze, il suo nome avrebbe potuto far riferimento ai suoi capelli rossi (come dipinta da Tiziano nel quadro conosciuto come “la Sultana Rossa” ma denominato  Gentildonna in costume con ermellino” che si trova al Ringling Museum of Art, Sarasota, Florida).

Oltre che originaria della Russia, Rosselana si è ritenuta proveniente dalla Crimea, o dalla Polonia con il nome di Roxolana Luczakowsky; l’Ucraina l’ha ritenuta propria concittadina con il nome di Alessandra o Anastasia Lisowska nata a Rohatyn, dove le è stata dedicata una statua, ma già l’incertezza del nome fa sorgere dei dubbi!

 

Titian, ‘La Sultana Rossa’, Centre for Fine Arts (BOZAR)L’unica certezza è data dall’anno della sua morte (1558); ma Rosselana secondo gli ucraini sarebbe morta a cinquantasei anni, il che non è possibile in quanto è pacifico che sia morta all’età di trentotto anni (come spieghiamo più avanti); vi sono dubbi anche da parte di chi sarebbe stata rapita, indicandosi i tatari o i genovesi, mentre la data del rapimento (1518), e quella in cui fu donata al sultano (1520), non coinciderebbero con la data di nascita attribuita (1500).

Essa infatti sarebbe stata donata al sultano a vent’anni o diciotto, ma questa età è da escludere, essendo troppo avanzata per le ragazze che finivano nell’harem (*) del sultano, che andava dai quattordici anni (o meno!) fino al massimo di sedici.

E’ anche da tener presente che per la vita rilassata che conducevano e per l’abbondante alimentazione, queste odalische, dopo i venticinque anni  incominciavano a sfiorire e ingrassare, come si nota in alcuni ritratti delle due mogli di Solimano, di cui parliamo.

Rosselana dovrebbe essere stata rapita a dodici anni; Wikipedia (ben fatta ma non esente da “imprecisioni!), indica come anno di nascita il 1500 e della sua morte il 1558, non tenendosi conto che quando Rosselana è morta non aveva cinquantotto anni, ma, come detto, trentotto (o 36/37 come riferisce Abbondanza) mentre  Solimano ne aveva cinquantotto.

Tra le tante ipotesi sull’origine, ne presentiamo ancora una, inedita, dovuta a storici italiani, completamente omessa negli studi dei ricercatori stranieri: - la sua origine senese!

Essa è dovuta allo storico romano Vincenzo Abbondanza (Monarchi Ottomani, 1736) il quale la considera senese, donata come schiava a quattordici anni a Solimano.

Abbondanza non dà nessun elemento relativo al rapimento ma racconta di come il sultano ne fosse stato colpito, scrivendo:-

“Benché il sultano avesse rinchiuse nel suo Serraglio (**) le più rare bellezze dell'impero (che da tutti i suoi Stati venivano' continuamente donate, non maggiori di sedici anni, che disputar potevano in bellezza col Sole, quando la vide ne rimase talmente preso, che, non curandosi delle altre odalische, note per la loro bellezza e perfino della sultana ufficiale (Hassakì-Mahidevranchiamata anche Gülbahar, rosa di primavera, bellissima circassa per alcuni, greca, per altri, proveniente dalla Tracia, madre dei suoi due figli ndr.), “le si dette anima e corpo”!

 

 

*) L’HAREM

Il termine deriva da Charam o Haram (Charam significa divisione, separazione, luogo dove non è lecito entrare), erano appartamenti per sole donne, separati da quelli degli uomini, divisi in base alle donne che vi abitavano; a Costantinopoli ve n’erano tre: uno era quello costruito da Ibrahim pascià (v. sotto), era il Serraglio dell’Ippodromo che serviva per le pubbliche giostre, feste dei combattenti e particolarmente per la circoncisione del Gez-Ade, ossia dell’erede presuntivo al trono, la festa più solenne di tutte; l’altro era quello unito al Serraglio del sovrano, chiamato Eski Serrai cioè Serraglio vecchio in cui erano richiuse le donne dei sovrani defunti o detronizzati e tenuti in carcere e vi si trasportavano la madre, le sorelle, e tutte le sue odalische, salvo che il nuovo sovrano non avesse voluto prenderne qualcuna per sé; il terzo, detto Serraglio nuovo era quello adiacente all’ala del Palazzo occupata dal sultano, collegata da una porta interna dalla quale il sovrano poteva recarvisi senza uscire dal Palazzo, a guardia della quale vi erano molti eunuchi; il sultano era l’unico uomo che potesse entrare nell’harem oltre al medico chirurgo (Geirachibasci), solo in caso di bisogno di grave malattia che si recava nell’appartamento dell’ammalata.

Gli appartamenti erano sontuosi, arredati con un lusso superbo, anche maggiore di quelli degli uomini, con tutte le comodità possibili come bagni giardini, acque, camere per conversazioni e per tutte le serventi delle mogli, favorite e schiave del sultano.

A far la guardia vi erano gli eunuchi neri; nell’impero ottomano vi erano due specie di eunuchi, i bianchi e i neri; i primi erano castrati come i cantanti (voci bianche)  e quindi subivano l’asportazione dei soli testicoli e non erano ritenuti di alto valore economico;  occupavano comunque molte cariche al servizio del sovrano: su di essi sovraintendeva il Capi-Agà, capo di tutti gli eunuchi bianchi.

Gli eunuchi neri erano completamente evirati e si servivano di una cannuccia per liberare la vescica (ma avevano ugualmente perdite e non sappiamo come ovviassero all’inconveniente!); i deformi di questa categoria (zoppi, gobbi, di brutta dentatura, col naso schiacciato, con labbra gonfie, con vista corta) erano i preferiti e avevano prezzi elevati!; il loro capo era il Kislar-Agasì che si arricchiva più di tutti gli altri; gli eunuchi di ambedue le categorie erano severissimi e rigidi nel loro lavoro, specie i secondi addetti alla sorveglianza dell’harem, in quanto se ne fosse fuggita qualcuna, cosa che non risulta esser mai capitata, ne rispondeva con la vita il Kislar-Agasì.

Essi avevano tutti i tipi di maneggi con le odalische negli acquisti, vendite, nel ricevere o spedire lettere, ma non avevano contatti diretti, in quanto gli scambi avvenivano attraverso una ruota; era consentito a una venditrice ebrea (in quanto erano le uniche a sottoporsi al controllo del sesso), di portare gioielli e altro nell’harem, da vendere alle odalische, alla presenza delle Kaduns che erano le donne anziane che facevano da maestre e nello stesso tempo controllavano le odalische; in questo frattempo, aumentava anche la vigilanza e la guardia degli eunuchi. 

Gli eunuchi accumulavano grandi quantità di danaro che non potevano spendere in quanto non potevano uscire per acquistare alcunché di personale o prendersi qualche divertimento e veniva loro dato dal sovrano tutto ciò che potesse servire; ma quando morivano la ricchezza accumulata finiva nel chasnà del sultano.

 

**) IL SERRAGLIO

Il termine deriva da Serray che significa Palazzo col quale si indicava il palazzo del sultano e per Porta si indicava il portale maggiore, di ingresso al Serraglio e tanto magnificamente decorato e pregevole da far riferimento allo stesso impero turco (Porta ottomana, la Sublime Porta ecc.); era posto sul Bosforo  dove si uniscono il mar Egeo e il Ponto Eusino, con recinto triangolare di tre miglia di giro, con un lato verso la città e due battuti dal mare e dal fiume che entrava nel palazzo, circondato da alte e possenti mura e torri con esposti cannoni di vario calibro (nei più grossi vi poteva entrare un uomo): per dare una idea del numero di persone che in esso vivevano, vi erano sette cucine diverse, con quattrocento cuochi e in un giorno si cucinavano cinquecento montoni; era dotato di infermeria dove ai malati era dato il vino e non mancavano i finti malati che ne approfittavano per concedersi qualche bevuta; vi era la scuola dove i ragazzi (ichoglans), interamente mantenuti dal sultano,  frequentavano le varie classi, dove insegnavano eunuchi bianchi; essi dormivano in camerate e molti di loro non avevano mai visto una donna, per cui, quando non erano controllati dagli eunuchi (scrive lo storico), sfogavano tra di loro le pulsioni della natura!

Le classi erano quattro dette Camere (Odà); nella prima, detta piccola ma in effetti era la più grande dove si imparava a leggere e scrivere e si imparava la legge coranica (il metodo di imparare a memoria il Corano è usato dai musulmani ancora oggi ed è per questo che tra i musulmani circola tanto fanatismo!) e durava sei anni; nella seconda (Quilar-Oda)  si imparavano gli esercizi del corpo, tiro dell’arco, della lancia e altro, e le lingue (turca, araba e persiana), durava quattro anni; la terza (Chasnadar-Oda) o Camera del Tesoro che durava quattro anni e si incominciava a rendere piccoli servizi al sultano e si imparava l’equitazione; la quarta Camera era  la Camera del Principe dove i giovani incominciavano a respirare, dopo aver sofferto tanti anni nelle tre precedenti; potevano infatti parlare con tutti nel Serraglio e spesso avevano approcci col principe e incominciavano ad avere dei favori; terminata la quarta Camera gli studenti erano pronti per essere immessi nella pubblica amministrazione.

   

 

Mahidevran prima moglie di Solimano

 

 

L’AMORE DEL

SULTANO PER

ROSSELANA

 

 

L

a passione di Solimano per Rosselana non fu un capriccio ma un vero amore, che per i delitti che la diabolica Rosselana gli farà commettere - benché Solimano fosse crudele (come lo erano stati tanti personaggi del nostro Rinascimento, papi compresi) - le aveva dato e perso la sua anima (a voler credere nell’anima!); e  non era stato un amore passeggero, ma era durato tutto il corso della vita (venti-ventiquattro anni) passati insieme.

“Nessuno è riuscito a descrivere la bellezza di Rosselana; è stato detto “che   possa essere stata bella, non possono esservi dubbi”, ma Abbondanza la descrive “di non soverchia bellezza, bensì di grazia, di spirito e di raggiri senza eguali”!; dal ritratto ufficiale che riportiamo in effetti non sembra  bella, con un piccolo musetto non molto raffinato, ben diverso dall’elegante viso e fisico della Hassakì-Mahidevran che vediamo nella immagine che riportiamo; ma nell’amore non è tanto la bellezza (esteriore) quella che conta, ma la carica di energie, il magnetismo, i feromoni e il cervello che portano all’attrazione dell’uno verso l’altra.

Il carattere di Rosselana è stato descritto come “vivace di spirito e gioiosa” doti alle quali univa la “dolcezza del tratto, un portamento elegante e una fisonomia così omogenea, che trattandola e non innamorarsene sarebbe stato pressoché impossibile”.

Abbondanza ci dice che “aveva tutta la finezza delle dame del suo paese” (vale a dire il senese), oltre a una “sodezza di giudizio tale, che non le faceva giammai prendere abbaglio in cosa alcuna: tutto cedeva alla sua penetrazione (di pensiero) e destrezza”; dai risultati raggiunti possiamo dire che era dotata di un talento straordinario e una mente diabolicamente geniale, da poter essere pari, se non superiore, a quella del cardinale Richelieu.

La sua smodata ambizione, che sapeva ben nascondere, non la tratteneva dal compiere alcun delitto, fosse il più esecrando come far morire un proprio figlio (Bajazet), pur di portare a termine i sui progetti.

Dall’altra parte troviamo questo grande personaggio come Solimano, il più grande di tutti i sultani che lo avevano preceduto e di quelli che lo avevano seguito, che manovrava eserciti e governava un impero che aveva ingrandito e portato al massimo dello splendore, piegato alla volontà di una tal giovanetta che lo divertiva con la sua gaiezza e gioiosità (perché come detto, Solimano era di carattere melanconico) e lo dominava, ottenendo ciò che desiderava con le sue astuzie, pianti e capricci, a tal punto, che il sovrano non muoveva un dito senza averla prima interpellata e i suoi suggerimenti centravano perfettamente l’obiettivo!   

Solimano aveva avuto da Rosselana sei figli, una femmina Mihrimah e cinque maschi, Mehemet (morto a vent’anni nel 1542) Gihangir, Bajazet e Selim.

Gihangir (Giangor) non creava problemi di successione perché era gobbo; il padre lo portava sempre con sé perché era faceto e lo divertiva;  un giorno seguiva il padre a caccia e Giangor (dopo la morte di Mustafà), osservava con amarezza la crudeltà della uccisione del fratello e del nipote, facendo notare al padre che l’amore dovesse regnare tra i giovani e i vecchi  scordando di esser padri facevano macello del proprio sangue come quello dei nemici; questa osservazione adirò Solimano (che di per sé era un iracondo) e lo svillaneggiò, dicendogli di levarsi dalla sua presenza; pochi giorni dopo Giangor morì di veleno, non si sa se fosse stato il padre o, poco probabilmente, si sarebbe egli stesso avvelenato.

A proposito della dipendenza di Solimano da Rosselana, Abbondanza indica  due esempi, egli dice, tra i più strepitosi: “il primo, che Rosselana riuscì a farsi solennemente sposare da Solimano, a dispetto delle Leggi dell'Impero Ottomano e della pratica inviolabile scrupolosamente osservata da tutti i Monarchi Ottomani, di non sposare alcuna donna”.

In verità non si sa bene se questa disposizione fosse sancita espressamente da una legge oppure fosse una consuetudine introdotta da Baiazet I (1354-1403) per le offese arrecate alla moglie, Maria (Olivera Despina) figlia del principe di Serbia, che  Tamerlano, stando a tavola, aveva fatto denudare, facendosi servire da bere (ma si ritiene che questo racconto, come i maltrattamenti subiti da Bajazet, secondo i quali Tamerlano lo faceva mettere carponi a terra per salire a cavallo, non siano veritieri, ma non si spiegherebbe la circostanza che si raccontava, secondo la quale egli si suicidò fracassandosi la testa contro le sbarre della gabbia in cui era tenuto prigioniero, o si fosse avvelenato, o avesse avuto un colpo apoplettico!); sta di fatto che la disposizione era osservata da tutti, salvo qualche eccezione come quella di Solimano.

Il secondo esempio è quello che segue nel prossimo paragrafo.

 

ROSSELANA

 CONVINCE

SOLIMANO

A UCCIDERE

I PROPRI FIGLI

 

Q

uesto secondo esempio, di notevole spessore di crudeltà, è quello di aver indotto Solimano a far uccidere i figli procreati dalla Hassakì (regina- gran signora) Mahidevran, perché fosse suo figlio a succedergli nell'Impero; quando Rosselana fu donata a Solimano egli aveva già i due figli il cui primogenito aveva il nome di Mustafà ed era l’anima e il cuore di suo padre, il secondogenito era Mehemet.

Rosselana tutta intenta nei suoi progetti per il proprio figlio, prese in odio questo giovanetto e decise di eliminarlo unitamente alla madre, onde evitare che alla morte di Solimano vi fossero altri pretendenti.

Quando Mahidevran si rese conto di tutte le manovre usate da Rosselana per irretire il monarca, in un empito di rabbia la prese per i capelli, la scapigliò e graffiò sul viso, sfigurandole il volto; quando il sultano una notte la mandò a chiamare, Rosselana gli fece sapere che non era degna dei suoi sguardi, così suscitando la curiosità del sultano di volerla vedere; fattasela portare davanti a sé, vide com’era stata maltrattata, Rosselana riferì che era stata Mahidevran a ridurla in quelle condizioni; il sultano la mandò a chiamare e essa si giustificò dicendo che Rosselana era una tiranna e che disprezzava tutte quelle che stimavano e riverivano il loro signore.

Mentre Rosselana aveva esposto le sue ragioni con modestia, Mahidevran, più impulsiva, si era espressa con arroganza, dicendo che avendo dei figli, tutte le altre dovevano essere sue vassalle e aveva inveito contro Rosselana, non potendo soffrire che una straniera e per giunta schiava gli avesse rubato non solo tutto 1’amore del sultano, ma tutta l’autorità e i privilegi che spettavano alla madre dell’erede presuntivo dell’Impero, che tutti i monarchi ottomani osservavano e facevano osservare

Il sultano, sdegnato con Mahidevran la fece partire da Costantinopoli con Mustafà per Amasia nel Sangiaccato di Manisa e tenne con sé Rosselana; da quel momento non solo l’amò per il resto della vita ma quando morì, nella sua gran moschea le fece costruire un sepolcro per eternare la sua memoria.

Mustafà in età di quattordici anni era protetto da Ibraim, il quale riferiva al sultano che Mustafà “era il suo ritratto, era l’idolo di Costantinopoli e amato dai giannizzeri, che non gli aveva mai dato motivo di lamentarsi e che aveva un animo docile, ubbidiente, legato al suo signore e padre e che per essere l’erede presuntivo non era bene allontanarlo da sé, anche per una buona politica, mentre un figlio di questo genere, vedendosi maltrattare, avrebbe potuto recare delle amarezze e travagli con sollevazioni in suo favore, cosa facile da realizzare, trovandosi con il comando nelle proprie mani e lontano dal padre”.

E, parlandogli di  Mahidevran, Ibrahim aggiungeva che questa, avendogli dato due maschi, Mustafà e Mehemet, assicurandogli la successione, ed essendo una donna rispettabile non poteva essere privata, senza una enorme ingiustizia dei suoi onori e privilegi, che sarebbero passati a una forestiera e schiava, ambiziosa di comandare e prevaricare sulle altre.

Queste parole, dette e ridette da un ministro che aveva già dato al suo signore molte prove di zelo, per la gloria sua e dell’impero, i cui consigli erano stati sempre utili e vantaggiosi in pace o in guerra, da un ministro che in guerra non aveva eguali (come il sultano aveva potuto sperimentare in varie occasioni), cominciarono a risvegliare dal suo letargo il sultano che si era quasi convinto a far tornare Mustafà con la madre da Manisa e prendere qualche provvedimento contro Rosselana, che aveva scoperto come fosse veramente; ma Rosselana si preparò a difendersi da Ibrahim, predisponendo calunnie e raggiri per mettergli contro il sovrano.  

 

SOLIMANO

FA ASSASSINARE

IBRAHIM

SUO COMPAGNO

 DI GIOCHI

 

I

brahim (secondo Abbondanza, secondo altri autori Pargali-Ibrahim in quanto sarebbe nato a Parga in Grecia sotto il dominio veneziano) apparteneva a una nobile famiglia ginevrina ivi trapiantatasi e all’età di sette anni, a seguito di una scorreria, era stato preso dai turchi e donato a Bajazet II, il quale lo fece circoncidere e volle che fosse educato con suo nipote Solimano; i due divennero amici  condividendo le stesse passioni per i giochi e per i cavalli, gli stessi interessi e le stesse idee. 

Quando sarà nominato sultano, Solimano lo nominerà visir-azem, la più alta carica dell’impero e lo ricoprirà di continui regali; gli aveva anche concesso  di costruire un palazzo (tutt’ora esistente, adibito a Museo) nell’area dell’Ippodromo bizantino di fronte alla chiesa di santa Sofia, onore mai concesso a nessun altro.

Ma un giorno Ibrahim, sapendo che tutti i grandi visir che lo avevano preceduto, per la maggior parte erano finiti uccisi dai propri sultani, chiese a Solimano di non elevarlo tanto e non fargli altri regali in quanto temeva di soggiacere alle stesse disgrazie di quelli che lo avevano preceduto; Solimano gli fece il più sacro dei giuramenti, giurando sull’anima del padre e di Maometto che durante il suo regno non sarebbe morto per causa sua, e per di più gli fece sposare una sua sorella.

Non l’avesse mai fatto! Quando SoIimano ragionava con  Ibrahim era il vero Solimano e accettava quanto Ibrahim gli suggeriva; quando poi stava con Rosselana da innamorato, cambiava idea; accortasi dunque Rosselana che per lei si incominciavano a intorbidare le acque, decise di tagliare il cordone costituito da Ibrahim e per annientare un grande personaggio qual’era Ibrahim, incominciò a inventare contro di lui mille calunnie e ricorrendo a mille raggiri aveva intercettato lettere indirizzate all’imperatore di Alemagna fino a indurre il sovrano a decretare la sua morte - privando così il Divan (Consiglio dei Ministri) e tutto l'Impero di un ministro - che poi rimpianse.

Secondo i memorialisti veneziani di vero, nella intelligenza di Ibrahim con il nemico, vi era stato il suo tradimento all’assedio di Vienna (1529); Ibrahim infatti pur essendo stato circonciso ed essere stato educato nella religione musulmana, era rimasto in fondo al cuore un cristiano e quando gli era stato ordinato di andare a conquistare Vienna si era sentito trafiggere l’anima in quanto gli dispiaceva che quella città cristiana fosse caduta in mano ai turchi.

Egli, pur avendo eseguito gli ordini del sultano nel porre l’assedio alla città, aveva cercato di salvarla e aveva avuto un incontro segreto con il generale austriaco; l’armata era giunta già in stagione avanzata (settembre) quando i fiumi cominciavano a ingrossarsi inondando le strade maestre che erano infangate e stancavano uomini e animali; questi ritardi, di per sé, andavano tutti a favore della città; Ibrahim, per parte sua, per alleggerire il carico aveva lasciato indietro i cannoni pesanti, che erano proprio quelli che gli sarebbero serviti per abbattere le mura della città, portando solo quelli leggeri che non servivano allo scopo.

I padiglioni turchi, disposti in cinque siti principali che occupavano le ampie pianure intorno alla città, riempirono di terrore i viennesi; vi furono diversi assalti e per trenta giorni i turchi manovrarono con sessanta pezzi d’artiglieria leggera che non produssero gravi danni, mentre gli austriaci avevano un grosso cannone che mieteva vittime: in venti ostinati assalti morirono ventimila ottomani.

Solimano aveva chiamato a rapporto tutti i capi rimproverando la loro codardia aveva ordinato un generale assalto, ma le perdite di giannizzeri erano state tali, che Solimano, vista la strage e la rigidezza della stagione (14 Ottobre), decise di togliere l’assedio e per sfogare la rabbia, sulla via del ritorno fece abbattere tutti gli alberi da frutta, distruggere le viti, portando via tutti quelli che incontrava sul suo cammino, facendo così un gran numero di prigionieri.

Pieno di rabbia, ordinò a Ibrahim di andare con le truppe in Ungheria, ma Ibrahim si adoperò per distoglierlo da questa impresa e Solimano lo mandò in Persia dove gli ottomani furono atrocemente battuti; Rosselana approfittò del malumore di Solimano per scapricciarsi contro Ibrahim, dipingendolo come un traditore e mostrandogli le lettere intercettate.  

Il sultano fece allora chiamare Ibrahim e dopo averlo ricevuto non più come amico e compagno ma da sovrano malamente corrisposto, lo riempì di rimproveri mostrandogli le sue lettere; Ibrahim si buttò ai piedi di Solimano implorando pietà e voleva giustificarsi, ma non gliene fu dato il tempo e fu portato via come era stato ordinato. 

Solimano, prima di farlo uccidere aveva consultato il muftì sul giuramento che aveva fatto; il muftì, già prevenuto, gli rispose “quando uno dorme non regna e perciò poteva sua Altezza, durante il sonno, fare assassinare il traditore”; Solimano aveva dato a un eunuco un pugnale adunco e aveva preso dell’oppio per dormire e mentre il sultano dormiva Ibrahim fu scannato; tutti i suoi beni finirono nella chasnà (compreso il suo palazzo che divenne Serraglio e, come detto, attualmente adibito a Museo), mentre alla moglie (che era sorella di Solimano) fu concesso un misero assegno per il suo mantenimento e quello dei figli.

Dopo la morte di Ibraim era stato creato visir-azem il pascià Rustan, divenuto anch’egli genero del sultano (aveva sposato la figlia di Rosselana, Mihrimah), “suo infame adulatore e ministro delle sue empietà”, al quale si unì un altro pascià chiamato Portaù e con costoro Rosselana mostrò a Solimano delle false lettere di Mustafà dirette a Tacmas di Persia, con le quali lo pregava di aiutarlo nell'impresa di farsi dichiarare imperatore.

Solimano inorridito nel sentire queste trame del figlio, era incredulo che Mustafà potesse compiere una simile azione, ma i tre cospiratori continuavano a tenerlo sotto pressione riferendo altre dicerie e menzogne e alla fine essi ottennero la decisione di far morire Mustafà.

 

L’UCCISIONE

DI MUSTAFA’

 

C

ontinuando Rosselana a continuare a perseguire i suoi malvagi propositi, suscitando in Solimano timori e preoccupazioni sul comportamento del figlio che aveva raggiunto  la maturità, riuscì nel suo intento di far morire anche il suo figliastro Mustafà, ricordandogli quello che aveva fatto Selim a  Bajazet II suo padre: Si trattava di Selim I che si era impossessato del trono con l’aiuto dei giannizzeri che glielo avevano imposto, in quanto non accettavano Achmet suo fratello maggiore; Bajazet aveva fatto strangolare un altro figlio, Mehemet che temeva volesse impossessarsi del trono; dopo che il padre gli aveva ceduto il trono, Selim lo fece avvelenare (1512).

Solimano ascoltava senza riuscire a prendere la decisione di commettere quest’altra barbarie, ma Rosselana non gli dava tregua e continuando nel perseguire il suo malvagio proposito, suscitando in Solimano timori e preoccupazioni sul comportamento del figlio, raccontandogli di aver scoperto che Mustafà tramava con Tacmas, re di Persia, per farsi proclamare imperatore; Solimano ascoltava senza riuscire a prendere la decisione di commettere quest’altra barbarie.

Alla fine, poiché Rosselana non gli dava tregua, Solimano usciva da Costantinopoli (1553) con il suo esercito, accampandosi nei pressi di Amasia da dove aveva mandato a chiamare Mustafà (che aveva raggiunto l’età di vent’anni); molti, compresa la madre, gli sconsigliarono di andare, ma Mustafà volle obbedire.

Mustafà si preparò salendo sul rialzo per poter comodamente montare in sella, mentre il miriacuba  (maestro di stalla) gli teneva fermo un suo bellissimo cavallo, che montava spesso, ma il cavallo quel giorno si mostrava nervoso e non ci fu verso per farlo avvicinare al rialzo (ritenuto indice di cattivo presagio); altrettanto si verificò con un altro cavallo, per cui Mustafà scese dal rialzo e balzò con un salto in sella; andò ad accamparsi a due miglia di distanza dall’accampamento del padre, dove arrivò una freccia con un biglietto in cui era scritto di non presentarsi da suo padre perché voleva ucciderlo.

Pensando che fosse un’azione di Rustan, gli fu consigliato di presentarsi dal padre, in aperta campagna in modo da poter essere visto da tutti e non in un padiglione chiuso, dove non sarebbe entrato nessuno dei suoi; Mustafà disse di non aver commesso nessun errore contro suo padre da meritare la morte e aggiunse stoicamente: “Se è vero che mio padre mi ha dato la vita, potrà togliermela come me l’ha data” e così preparati i doni per il padre, fodere di pelli e bellissimi cavalli, uscì vestito di bianco e di argento e sotto di raso cremisino, sul suo bellissimo cavallo ornato di gioie; essendo anche lui di bellissimo aspetto, scrive lo storico, “era cosa bella a vedere”.

Giunto al primo padiglione del sovrano, sceso da cavallo, lasciò la scimitarra, secondo l’uso di chi si recava a baciargli la mano; nel secondo padiglione non c’era nessuno, passato nel terzo trovò il capigiler chietcudasci che gli disse di aspettare e subito dopo fu fatto entrare nel quarto padiglione dov’era il padre; fatta la riverenza Mustafà si sentì dire “Ah cane hai ancora animo di salutarmi” e subito si voltò (era il segno per quelli che dovevano ammazzarlo), senza dargli il tempo di giustificarsi; il capigiler gli mise le mani al collo dicendogli di non muoversi perché faceva ciò che stava facendo per ordine del gran signore; tre muti (utilizzati sempre per queste incombenze) gli furono addosso mettendogli una corda d’arco attorno al collo per strangolarlo; ma la corda si spezzò e Mustafà si divincolò buttandone alcuni per terra; stava per fuggire, ma inciampò nella sua veste e stava per cadere, in quel mentre il capigiler lo prese per un piede e gli si buttarono tutti addosso per mettergli un’altra corda; ma Mustafà fece a tempo a mettere un braccio tra la corda e il collo in modo da non poter essere strangolato; il sultano che assisteva suggerì di togliergli la berretta dalla testa, dicendo “finché l’avrà in testa non potrete farlo morire” (ciò perché i turchi sotto il turbante portavano una berretta di bambagia su cui vi erano scritte parole alle quali credevano, che, finché esse toccavano la carne, non si sarebbe riusciti ad ammazzarli con la violenza); il capigiler gliela strappò dalla testa e la diedero al sovrano che la mise da parte, mentre i muti misero a Mustafà una terza corda intorno al collo, che era l’ultima che avevano, mentre Mustafà si difendeva accostando la barba al petto; ma i muti gli alzarono la testa facendo cadere la corda intorno al collo e così stringendo gli tolsero la vita.

Si riteneva che Mustafà, per virtù e valore avrebbe superato ogni altro sovrano della casa ottomana; subito dopo la sua morte, il capigiler uscì dalla tenda piangendo e tutti quelli che erano fuori capirono cosa fosse successo.

Il sovrano diede disposizioni di andare a togliere il sigillo regio a Rustan- pascià e consegnarlo ad Achmet-pascià che occupava il secondo posto; poi diede ordine di portare il cavallo di Mustafà nella scuderia regia; quando i soldati videro portar via il cavallo di Mustafà, si levò un grandissimo strepito; il sovrano, ad evitare che i giannizzeri (che amavano Mustafà) non insorgessero, ritenendolo ancora vivo, espose il corpo del figlio su di un tappeto in modo che tutti potessero vederlo.

Nella scarsella gli fu trovato il biglietto lanciatogli con la freccia; secondo un’altra versione, nella tasca di Mustafà fu trovato un documento giurato in cui Mustafà riferiva tutti i tradimenti orditi contro di lui da Rustan e  Rosselana; quando Solimano lesse il documento, pianse calde lacrime e destituì Rustan, e, se costui non perse la vita, fu per merito di Rosselana.

Il sultano mandò subito a deporre Cardar pascià-visir, ritenendo (ma ingannandosi), che fosse stato lui a mandare il biglietto con la freccia; fece prelevare anche il miriacuba di Mustafà e il suo capobandiera ai quali fece tagliare la testa.

Questo capobandiera era un gentiluomo veneziano di casa Michiel il quale facendo il garzonetto su una galea, era stato preso da una nave turchesca durante la guerra con Venezia (1538) ed era il principale di tutti gli altri schiavi.

I funerali di Mustafà (**) si fecero nel campo e il corpo, messo su una carretta reale fu mandato a Bursa, dove erano sepolti tutti i figli dei sultani.  

Il relatore veneziano anonimo, aggiunge che, “mi hanno accertato che se Mustafà, quando si era svincolato dagli uccisori fosse uscito dalla tenda, l’esercito lo avrebbe difeso contro il sultano”.

Anche il figlio di Mustafà, Murad, fu ucciso; a questa incombenza provvide Rustan.

Tutti ritenevano che il delitto di Mustafà fosse stato suggerito da Rustan-pascià che i giannizzeri volevano uccidere, ma il sultano mise in giro la voce che intendeva far morire quattro dei principali funzionari della Porta, in modo che si credesse che fra costoro vi fosse il deposto Rustan-pascià.

Egli si trovava nel campo ma scomparve la stessa notte col suo seguito; i giannizzeri trovata la tenda vuota tagliarono le corde della tenda, abbattendola in segno di disprezzo.

Solimano dovette però richiamare Rustan, perché era in guerra con i persiani e solo Rustan, che in precedenza gli aveva procurato immense quantità di oro,  riusciva a spremere il popolo, senza suscitare rivolte né contro di lui né contro il sovrano ed era capace di procurargli il danaro che occorreva: “Quando una gran fortuna”, commenta lo storico, “si pone fin dalle fasce ai fianchi di qualcuno, ordinariamente lo accompagna fino al sepolcro”!  

 

*) Lo storico spiega che essendo l’ambizione una fame, un appetito di regnare, con lo stringere il collo si castiga la gola; l’uso della morte con una corda d’arco è ritenuta dai turchi più onorevole dell’uso del ferro, quasi che l’uso della corda di arco sia una specie di morte in trionfo.

 

 

**) IL FALSO MUSTAFA’

 

Quando si sparse la notizia della morte di Mustafà il popolo rimase incredulo; un giovane che gli somigliava ne approfittò per farsi passare per Mustafà, raccontando di essere riuscito a fuggire; molti lo seguivano, lo animavano, gli donavano danaro; riuscì a raccogliere quarantamila uomini, faceva eseguire condanne a morte e la sua fama cresceva; avvicinatosi a Costantinopoli Solimano mandò Portaù-pascià con un esercito si sessantamila uomini e il falso Mustafà fu portato alla presenza del sultano che lo interrogò e Mustafà gli rispose di essere nato a Sinope e di avere una bottega di frutta a Costantinopoli; che avendo la morte di Mustafà suscitato generale compatimento, egli aveva avuto questa idea dalla quale aveva tratto molto denaro; Solimano lo fece torturare per sapere se avesse complici e gli fu tagliato il naso, le orecchie, tirato da un cavallo, in giro per Costantinopoli e infine appeso a un gancio che procurava una morte lenta e dolorosa.

 

 

LA TRAMA

PER DIVENTARE

SULTANA

 

I

l programma disegnato nella mente di Rosselana non si fermava a questi delitti: il passo successivo doveva essere l’affrancazione dalla schiavitù essendo ancora schiava, a cui avrebbe dovuto seguire il matrimonio, dal quale le sarebbe derivato il titolo di Hassakì e per i suoi primi due figli, Selim e Bajazet innalzarli al livello di successori (Rosselana aveva raggiunto l’età di trentacinque anni mentre Solimano ne aveva cinquantasei e su di lui pesavano le fatiche militari delle guerre e gli strapazzi del governo): per raggiungere questo scopo Rosselana imbastì una sottile e raffinata trama!

Rosselana si rivolse devotamente al muftì confessando di aver commesso molti peccati e per offrire a Dio delle opere del suo ravvedimento aveva pensato di costruire un ospedale per i poveri; il muftì le rispose che l’opera non poteva essere più santa e accetta a Dio, ma poiché era una schiava non poteva avere nulla di proprio e tutto ciò che aveva era di Solimano suo signore, per cui il merito di costruire degli ospedali non andava a suo beneficio ma del sultano, mentre il merito per lei sarebbe stato di scarsa rilevanza.

La astutissima Rosselana ben conosceva quanto le avrebbe detto il muftì, essendo a conoscenza delle disposizioni coraniche e delle leggi ottomane e ciò gli sarebbe servito per il suo piano.

Si fece trovare un giorno da Solimano addolorata e piangente e dopo ripetute domande del sovrano gli raccontò delle sue intenzioni della costruzione dell’ospedale e di quello che le aveva detto il muftì che le aveva procurato tanto dolore: il sovrano ritenne di accontentarla essendo giusta la richiesta e le fece avere un “kebim” che la affrancava dalla schiavitù e la dichiarava donna libera.

Qualche giorno dopo, avendole il sultano mandato al Serraglio il kislar agasì (l’eunuco che aveva questa funzione), per dirle che desiderava nella notte averla nel suo letto, “lei con rassegnazione rispose che lui era il suo sovrano e signore, padrone della sua vita e di tutti i suoi tesori ma non era padrone della sua anima e non poteva obbligarla a commettere un gravissimo peccato ad avere un rapporto con una donna libera, proibita dal Corano e per questo non era in grado di compiacerlo recando offesa Dio”!

Solimano capì la trama e dopo vani inutili tentativi, dopo alcuni mesi, tra il richiamo dell’amore per Rosselana e l’osservanza delle leggi che avrebbero potuto creargli qualche sommossa di popolo che non apprezzava molto questa donna, trionfò la passione e chiamati due kadislekieri dell’Anatolia e Romania, sposò Rosselana divenuta ora sultana Hürrem Sultan e madre dell’erede al trono (Abbondanza scrive che lei aveva trentacinque anni, il sultano cinquantacinque)!

Ma dei due figli Rosselana amava il secondogenito Bajazet che avrebbe voluto che succedesse al padre e mise i due fratelli l’uno contro l’altro; essi crearono disordini nell’impero, suscitando amarezza in Solimano; la scaltra sultana si giustificava con il sovrano dicendogli che la colpa era tutta del primogenito Selim che descriveva come inquieto e ambizioso mentre elogiava Bajazet che descriveva come un principe adorabile come suo padre.

In mezzo a questo trambusto di intrighi, Rosselana moriva dopo aver realizzato tutte le sue aspirazioni ma non tanto da vedere la fine ingloriosa dell’amato Bajazet: aveva trentasei o trentasette anni  (Abbondanza precisa che lei “moriva due anni dopo aver raggiunto la felicità”, vale a dire che era divenuta sultana) e Solimano cinquantotto anni (*).

 

*) Probabilmente Rosselana poteva avere anche trentotto anni, vale a dire che vi erano più o meno vent’anni di differenza tra lei e Solimano che moriva all’età di settantadue anni dopo aver regnato per quarantasei anni.

 

LA FINE DI

BAJAZET E SELIM

 

R

osselana, per togliere Bajazet dagli occhi del padre, avendo raggiunto i ventun anni, non solo lo fece mandare in Caramania in modo che con il padre rimanesse soltanto Selim, ma continuamente cercava di mettere in cattiva luce Bajazet presentandolo come disobbediente, sedizioso, impaziente di attendere col tempo la grandezza che gli era stata riservata dalla fortuna che tentava di anticipare con l’arte o con la violenza.

Si fingevano lettere, si seminavano ombre, tutte per insospettire il padre; Selim riferiva di lui cose distorte per rendere il fratello più sospetto, quanto sé stesso più gradito e accetto; alla madre e al figlio si aggiungeva Rustan-pascià, cognato di Rosselana in modo che le inclinazioni di Solimano verso Selim incominciavano ad apparire ogni giorno più distinte; questi maneggi divennero pericolosi per Bajazet il quale accortosi degli insidiosi maneggi contro di lui, ammassò le truppe per una campagna militare, facendo sapere al padre di non avere alcun disegno oltraggioso nei suoi confronti; ma contro di lui si mosse Selim con le truppe paterne e vennero allo scontro; ma mentre Bajazet combatteva coraggiosamente, Selim si stava dando vilmente alla fuga e Mustafà-pascià che gli era vicino, gli prese le briglie del cavallo e  gli rimproverò la nascita, la reputazione, ricordandogli il valore del padre e dicendogli che dandosi alla fuga avrebbe perso anche lo scettro; così, Selim, trattenuto per forza con la mano e la persuasione, riportò la vittoria, mentre Bajazet, abbandonato dai suoi dovette darsi alla fuga.

Bajazet fece sapere al padre che non aveva sguainato contro di lui la scimitarra ma si era dovuto difendere dalle crudeltà di Selim che lo voleva distrutto e voleva rimanere da solo, e l’unico suo delitto era di essere nato prima di lui.

Il muftì di Costantinopoli aveva pubblicamente dichiarato che quelli che  aderivano al partito di Bajazet, come disubbidiente al padre, sarebbero incorsi nella maledizione e nella dannazione; vi fu invece il muftì di Amasia che si era trasferito nella capitale ed era uno dei principali interpreti coranici del tempo, il quale predicava che al figlio penitente  si dovesse concedere il perdono, trattandosi di risparmiare il sangue degli Ottomani, aggiungendo che quelli che l’avessero perseguito durante lo stato di penitenza avrebbero offeso la Legge (coranica).

Solimano non  gradì questa dichiarazione e non vide di buon occhio il muftì:

nel frattempo giunse un ambasciatore dell’imperatore che sebbene ben accolto, si sospettò fosse stato mandato per conoscere le discordie familiari del sultano; l’ambasciatore aveva portato in dono un elefante d’argento con una torre su cui era montato un orologio di squisita fattura.

Solimano non accettò le suppliche del figlio e gli ordinò di mandargli il Capigì-pascià (ritenuto suo fomentatore), Bajazet obbedì e glielo mandò, questo fu interrogato, torturato e messo a morte.

Da parte del sultano si armava nuovamente l’esercito per battere con le armi Bajazet o vederlo umiliato presso la sua Corte e ricevere il castigo del genitore; Bajazet, senza denaro e senza i mezzi per resistere al fratello sostenuto dall’autorità paterna, si recò a Tauris per rifugiarsi dal re di Persia, che lo accolse con stima e onore.

Il re gli offrì la sua protezione e volle mandare un ambasciatore a Costantinopoli per ottenere il perdono paterno; l’ambasciatore portava come doni due elefanti, dei cammelli e altri doni ma fu ricevuto da Solimano irato, in malo modo e con ingiurie; il suo segretario fu preso e torturato per far dire tutto ciò che sapeva di Bajazet, ciò che questo avesse in mente e quali favori gli riservava il re; nel frattempo furono consegnate da parte di Selim, al sultano, lettere (falsificate) che servirono a intorbidare le acque in quanto contenevano macchinazioni di Bajazet con il re di Persia; Solimano disse all’ambasciatore che se il suo re avesse continuato a proteggere suo figlio, sarebbero stati rotti tutti i rapporti.

L’ambasciatore cercava di convincere il sultano dicendo che il re aveva accolto Bajazet non per fomentare la discordia ma per mettere pace tra principi di ugual credenza (religiosa) e scrisse al suo re che il sultano avrebbe mantenuto la pace solo a condizione di inviargli la testa del figlio e avesse fatto a pezzi tutti quelli del suo seguito.

Sempre aizzato da Rosselana (“che giorno e notte stuzzicava l’incendio”), il sultano inviò come ambasciatore straordinario Portaù-pascià che con un orologio d’oro, vari argenti e trecentomila scudi in contanti offriva la pace e prometteva denari se gli avesse consegnato vivo o morto, il delinquente, e la guerra se gli fosse stata negata questa richiesta.

Giunto l’ambasciatore a Tauris, il re gli fece comunicare di non poterlo ricevere avendo preso l’Acqua di Cina (purgante) e non poteva dargli audizione (ma il re temporeggiava per prendere una decisione tra la pace e la guerra).  

Alla fine il re, consultati i satrapi  decise di anteporre la sicurezza di Stato, fece mettere in catene Bajazet, furono ammazzati tutti i suoi seguaci romeni, fu occupata l’Anatolia e Bajazet strangolato col laccio (1562).

Per evitare che il popolo pensasse che Bajazet fosse stato ucciso per denaro, il re fece divulgare la voce che egli tramava contro di lui; la notizia fu portata a Solimano e riempì il sultano tanto di gioia che volle premiare il messo concedendogli un Sangiaccato.

A Solimano furono mandate le spoglie del figlio morto, con le sue armi e i suoi cavalli; il sultano non contento della morte del figlio, fece uccidere i figli di Bajazet dei quali il più piccolo non aveva compiuto un anno.

Come abbiamo visto, la morte di Solimano era stata tenuta segreta, ma i primi a subodorarla erano stati i mercanti ebrei che a Costantinopoli tennero i negozi chiusi ad evitare saccheggi da parte di soldati e questo fu anche il motivo per il quale Selim si recò immediatamente al Serraglio, per evitare che i soldati andassero a saccheggiare il chasnà (le quattro camere dov’era conservato tutto il tesoro pubblico e privato dell’impero) dove si trovava la ricchezza accumulata da Solimano ammontante a trenta milioni di oro.

Selim dopo aver occupato il trono si recava alla gran moschea (santa Sofia) accompagnato da trecento cavalieri e vestito di velluto violato, mostrando mestizia per la morte del padre e dopo aver pregato si recò in altre cinque moschee, lasciando a ognuna cinquecento zecchini di elemosina.

Mentre si ritirava, Selim fu visto dal popolo bere due coppe di vino; il popolo se ne rallegrò in quanto Solimano ne aveva proibito la vendita (anche a costo di non riscuotere i ricchi pedaggi!), con rammarico  dei bettolieri che avevano dovuto cessare l’attività e ora speravano che il rigore imposto da Solimano sarebbe cessato con Selim.  

Il padre ben sapeva della debolezza di Selim (basso di statura, era già divenuto pingue, con un viso rosso quasi infiammato e uno sguardo quasi spaventoso, era stato soprannominato sarkok-ubriaco) e  prima di morire gli aveva mandato un messo  esortandolo a moderarsi; Selim, “avido di vino e di sangue”, sdegnato dell’ammonimento, fece segretamente uccidere il messo.

Selim, oltre ad amare il vino - il suo Marte fu Bacco - preferiva le donne alle guerre (alle  quali provvedevano i generali del padre e i corsari, primo fra tutti Ariadeno Barbarossa, che avevano preso Cipro con Famagosta e combattuto la battaglia di Lepanto -1571- v. in Specchio dell’Epoca), mentre  era invischiato nell’harem con le sue Veneri. 

Spesso amava starsene su una loggia (kiosk), che aveva fatto costruire di fronte al mare da dove si estasiava ammirando il panorama e bevendo coppe di vino (di Cipro da quando era stata conquistata): a ogni coppa bevuta veniva sparato un colpo di cannone.

Quando aveva preso il potere, aveva chiesto all’astrologo di corte quanto tempo sarebbe vissuto e l’astrologo gli aveva risposto, otto anni; Selim non credeva nell’astrologia e non se la prese, rispose che avrebbe approfittato per godere tutti i piaceri che gli avrebbe concesso la sua regalità  (delegando ai ministri tutti gli affari di Stato)

La previsione era risultata esatta e Selim morì dopo otto anni di regno a quasi cinquant’anni (presumibilmente nel 1573 tra altre diverse indicate), preso da febbre seguita da colpo apoplettico.

Lasciava sei figli, Murat di ventisette anni, Mahomet (di nove anni),  Aladim, Giangir, Abdallah, Soliman ( era il più giovane e aveva due anni) e due odalische incinte.

Murad che si trovava in Amasia avvertito dal visir-azem, corse a Costantinopoli  dove interpellò il muftì sulla fine che dovevano fare i fratelli; il muftì, ancora più sanguinario dei sovrani, disse che la loro morte non solo era giusta ma necessaria; essi furono quindi strangolati da un muto mentre le due odalische incinte furono gettate in mare; ebbe così inizio il regno di Murad III (1574-1595) (v. in Cronologie:  Cronologia dei Sultani Ottomani).

 

 

FINE