Giacomo Borlone (1484-1485) La Danza Macabra – Particolare – Clusone (BG)

 

 

LE GRANDI PESTILENZE

 DELLA STORIA

 

 

SOMMARIO: PREFAZIONE “OMIBUS” SULL’ATTUALITA’ E CONSEGUENZER DEL C.VIRUS: LA NATURA INTELLIGENTE; IL MAGGIOR NUMERO DI MORTI IN LOMBARDIA (In Nota: Il Dereto rilancio e i famigerati Decreti attuativi); LA PIANURA PADANA E LE ISOLE DI PLASTICA; MANCA LO SPIRITO EUROPEO; LA BUROCRAZIA DI BRUXELLES; UN PARLAMENTO EUROPEO INUTILE; COINVOLTA LA GIUSTIZIA E LE CARCERI.

LA LEGGENDA DELLA PRIMA PESTE IN MESOPOTAMIA DEL DIO ERA; EPIMENIDE CHIAMATO PER PURIFICARE ATENE E LA PESTE RACCONTATA DA TICIDIDE: IL LUOGO DI PROVENIENZA E DIFFUSIONE; I SINTOMI; SI MORIVA CON LE CURE E SENZA CURE; LA PESTE DI BISANZIO DURANTE IL REGNO DI GIUSTINIANO: CHI NE ERA COLPITO VEDEVA I FANTASMI; NON VI ERA NESSUNA SPIEGAZIONE PER LA SCIENZA UMANA; ALCUNI APPESTATI SUPERAVANO LA MALATTIA; I PROVVEDIMENTI DELL’IMPERATORE E LA NOMINA DEL REFERENDARIO; NON VI ERA POSTO PER SEPPELLIRE I MORTI LE STRADE ERANO DESERTE LE ATTIVITA’ MERCANTILI BLOCCATE; LA MORTE NERA DEL 1350; AI FLAGELLI SI AGGIUNSE L’INVENZIONE DELLA BOMBARDA INAUGURATA ALLA BATTAGLIA DI CRECY; I SINTOMI DELLA PESTE MUTAVANO IN OGNI LUOGO E AMICI E PARENTI SI TENEVANO A DISTANZA; SI CREDEVA CHE GIOIA E PIACERI FOSSERO IL SICURO RIMEDIO CONTRO LA PESTE; I VICINI DI CASA ERANO AVVERTITI DALLA PUZZA DEI CADAVERI; ELOGIO DI GIOVANNI VILLANI LA LAURA DI PETRARCA MUORE DI PESTE; LA SIGNORIA DI FIRENZE SOSPENDEVA I PAGAMENTI PER PICCOLI DEBITI E LIBERAVA I CARCERATI PER LEGGERI REATI; SPARSA IN EUROPA SINTOMI MUTAVANO IN OGNI LUOGO AMICI E PARENTI SI TENEVANO A DISTANZA; RIAPPAIONO I FLAGELLANTI; LA DANZA MACABRA; LA PESTE NEL 1500 E GLI STUDI CHE NE ERAN SCATURITI (In Nota: BIBLIOGRAFIA DEI TESTI CINQUECENTESCHI VENEZIANI E PADOVANI); LA PESTE A VENEZIA E LA DIATRIBA TRA MEDICI PADOVANI E VENEZIANI; I DUE MEDICI SONO LICENZIATI; LA PESTE MANZONIANA PORTATA DAI LANZICHENECCHI (in Nota: Il passo del Manzoni su Cecilia); IL TUMULTO DI SAN MARTINO DURANTE LA CARESTIA; I MONATTI E GLI UNTORI DURANTE LA PESTE; LA PESTE DI LONDRA DEL 1665 NEL RACCONTO DI DANIEL DE FOE.

 

 

PREFAZIONE

OMNIBUS

SULL’ATTUALITA’

E CONSEGUENZE DEL

C. VIRUS

 

 

O

r sono già moltissimi anni che questo articolo è stato pensato e preparato nelle ricerche, non saprei dire se per il macabro fascino suscitato dalla peste con il suo strascico di morte (v. sotto La danza macabra), ed era lì in attesa solo di essere scritto.

Con l’arrivo del C.virus, trovandomi nella debole fascia dei classificati ad alto rischio, tra i quali sta avvenendo la falcidie (si è calcolato che per ogni ventun morti, venti hanno superato i settant’anni!) nelle case di riposo (anche se per mia fortuna vivo nella mia casa, in perfetta solitudine e senza assistenza), forse l’impellente pericolo mi ha dato la carica  per scriverlo, liberandomi anche dalla depressione che mi accompagna da anni;  ...  ora, che l’ho scritto, mi auguro di vederlo pubblicato!

Anche se questo nuovo tipo di pestilenza ha avuto un nome scientifico (Covid 19.2) adeguato ai tempi, essa, come si vedrà, segue più o meno le stesse orme delle pesti del passato, seppur in forma più attuale e, dal presente “excursus” (limitato alla peste e non alle altre pandemie di altro genere come il colera, vaiolo, febbre petecchiale, spagnola ecc.), vediamo che le pestilenze hanno sempre accompagnato dall’origine l’umanità, facendo sorgere  spontanea la domanda: Perché?

Mi guarderei bene dal voler dare spiegazioni scientifiche che lascio alla scienza; la mia risposta viene dal sentimento, dal profondo amore per la Natura che dovrebbe regnare nel cuore di tutti, particolarmente delle Autorità (Canada in testa, che autorizza la caccia alle foche, diminuite di duemilioni di capi ... uccise a randellate:- Come si può lasciar uccidere quelle bestiole indifese in un modo così barbaro?).

 

LA NATURA INTELLIGENTE

 

La Natura intelligente colpisce particolarmente gli anziani lasciando indenni i bambini (come ha dichiarato il prof. Giorgio Palù dell’Università di Pd), perché (è nostra opinione), mentre la scienza gongola di soddisfazione per aver allungato la vita dell’uomo portandola a novant’anni e oltre, ha invece dimenticato di adeguare alla età, le buone condizioni fisiche, nel senso che seppur si viva più a lungo, nella maggior parte dei casi gli anziani non conservano la buona salute e l’autosufficienza ma sono afflitti da varie malattie, dalle cardiovascolari alla perdita dell’uso degli arti o peggio, colpiti da Alzeimer o Parkinson; basta recarsi in una casa di soggiorno per assistere al triste spettacolo di esseri trasformati in Zombi; e con l’attuale strage sembra che la Natura abbia voluto far sapere scienza di non essere d’accordo con questa impostazione!  

La Natura, inoltre, si ribella quando l’uomo non la rispetta e ne fa scempio indiscriminato, raggiungendo limiti insopportabili, non solo con la deforestazione con l’esempio della foresta amazzonica – polmone del mondo – che viene deliberatamente lasciata bruciare per far posto a terreni coltivabili; per di più massacrando quei poveri indios che vivono per loro conto senza far male a nessuno (non escludendo la trasmissione del C.virus portato dai cercatori d’oro!).

A Oriente invece è l’Indonesia a farne le spese, deforestata dai giapponesi, che fanno grande uso del legname, i quali, unitamente ai canadesi, stanno distruggendo anche le balene, con l’impari lotta, all’apertura annuale della caccia, di Green Peace che con le sue barchette  cerca di fermare le grandi baleniere!

Una cosa si potrà dare per certa: che la società con questa sferzata del C.virus, subirà dei cambiamenti radicali, non è possibile prevedere in che modo, ma tutto cambierà!

 

 

IL MAGGIOR NUMERO DI MORTI IN LOMBARDIA

 

Il maggior numero di morti causati dal C.virus (in totale in Italia a maggio 2020 hanno superato i trentamila) tra i quali un grande contributo è stato pagato da medici e infermieri, meritevoli di una medaglia d’oro al valor civile, per aver dato la loro vita  compiendo il loro dovere.

Le maggiori perdite si sono riscontrati in Lombardia e a Milano; alcuni hanno ritenuto che la causa sia da attribuire alla globalizzazione, altri alle antenne 5G, altri alla elettricità o all’inquinamento. Per l’elettricità, abbiamo l’esempio di Nicolas Tesla (1856-1943) che in mezzo alla elettricità, con tutti gli esperimenti che faceva, aveva passato l’intera la sua vita, morendo all’età di ottantre  anni!

Sull’inquinamento, è da dire che nel passato non c’era,e per la globalizzazione è da dire che nell’antichità, nel mondo chiuso in se stesso in cui si viveva, essa non esisteva e la peste arrivava ugualmente dappertutto!

Forse sarebbe da prendere in considerazione la incidenza della popolazione, avendo la Lombardia dieci milioni di abitanti pari al doppio delle regioni immediatamente successive, con i cinque milioni del Lazio e della Campania; ma in passato non vi era questa incidenza, e la Lombardia risultava ugualmente la più colpita: il motivo  rimane quindi senza risposta!

Le pandemie che si sono succedute nella storia, nella generalità dei casi hanno presentato gli stessi problemi, primo fra tutti il blocco delle attività economiche e commerciali, col conseguente impoverimento di tutte le categorie sociali (*) tra le quali i più danneggiati sono i bisognosi:- Un esempio è dato dalla concentrazione dei contadini che si trasferivano in città – ad Atene come a Milano - che attualmente si è ripetuto in maniera massiccia in India (già afflitta dalla tubercolosi!), dove i contadini che si sono recati nelle città per guadagnare di più (quattro o cinque dollari al giorno!), con il C.virus non solo si sono trovati senza lavoro, ma con il blocco dei mezzi di trasporto non hanno potuto  tornarsene a casa, e senza denaro non hanno neanche dove andare a dormire ... e la situazione è veramente tragica dal momento che si tratta di milioni di esseri umani! 

L’Africa da cui si attendevano risultati catastrofici. sta risultando indenne in quanto  la sua popolazione è giovane, anzi giovanissima avendo il 43% della popolazione  con meno di quindici anni e solo il 5% ne ha circa 60.

 

IL DECRETO RILANCIO E I FAMIGERATI DECRETI ATTUATIVI

 

*) La situazione italiana tra industria e commercio, le cui attività sono sospese, è gravissima in quanto comporta la perdita di 10 Mld. alla settimana mentre la girandola dei miliardi promessi dal Presidente del Consiglio sono risultati solo fumo negli occhi, dal momento che cominciando dal prestito garantito dallo Stato di 25.000 €. per le aziende, le operazioni risultano ancora bloccate (le Banche richiedono ben diciannove documenti per erogare il prestito!) e le aziende lamentano di non aver visto ancora un euro!

Anche la promessa del pagamento di una parte dei 40 Mld. dovuti dallo Stato alle aziende fornitrici, che avrebbe dovuto essere il primo versamento da fare alle aziende, da anni in attesa, e, molte, nel frattempo, fallite!

Il  nuovo decreto (meglio maxi-decreto, comunque decreto-rilancio**), che da come è stato presentato sembrerebbe il decreto delle meraviglie  di oltre quattrocentocinquanta pagine e  duecentocinquantotto articoli, incomprensibili per gli esperti (è stato detto), pieno di pastoie burocratiche...con periodi lunghi venti righe ... da apparire come vessillo della burocrazia a carattere fortemente assistenziale: tutto ciò che è dato è messo a debito!); dovremo comunque attendere la sua applicazione pratica ... che non sarà semplice perché dovrà essere seguita da una cascata di decreti di attuazione che costituiranno una specie di mare magnum in cui ci sarà da perdersi: tutto dipenderà dal Capitano che sta conducendo la nave e vedremo se la spinta al rilancio della economia ci sarà (nulla è stato detto per la ricostruzione rimandata a un altro faldone!) o si ridurrà tutto a un grande bluff!

Quantomeno sarà immediatamente esecutivo e non abbisogna di seguire il percorso dei famigerati decreti attuativi, che denunciamo pur con la nostra flebile voce.

Questi decreti attuativi sono stati un vittorioso escamotage  della burocrazia per impedire la realizzazione di quelle piccole riforme date come specchietto per le allodole a noi cittadini. Ecco come funziona il sistema; si promette su un determinato settore una legge di riforma e si vara regolarmente la legge, approvata dal Parlamento e firmata dal Presidente della Repubblica; la legge però si limita a indicare le linee generali della riforma in modo che chi l’ha presentata possa vantarsi della riforma in essa contenuta, ma nella sua realizzazione pratica la riforma è demandata al decreto attuativo per il quale non viene fissato alcun termine!

Non solo: ma il decreto attuativo è materialmente eseguito (scritto) dallo stesso ministero che è interessato dalla riforma! Ciò significa che il ministero può prendersi tutto il tempo che vuole per scrivere il decreto e realizzare la riforma ... o non realizzarla!

Il risultato è che vi sono ben novantotto decreti attuativi da realizzare, molti dei quali risalgono al Governo Monti ... nel silenzio dei politici che evidentemente fiancheggiano la burocrazia e della stampa che non denuncia la stortura!

Ecco come si fanno le riforme in Italia, mentre assistiamo allibiti alle leggi fatte negli altri paesi come la Germania dove la legge è fatta e realizzata (es. i pagamenti alle industrie; appena varata la legge gli industriali sono stati immediatamente pagati), in Italia pur dando l’impressione di aver fatto la legge, quanto alla sua realizzazione ... si vedrà!

  

 

LA PIANURA PADANA  E LE ISOLE DI PLASTICA

 

In Italia, la Pianura padana ha gli stessi livelli di inquinamento della Cina, perché l’aria da Genova a Venezia, bloccata dai monti di Genova, ristagna (*), col risultato che la Lombardia con le plur’inquinate città di Milano, Brescia e Bergamo hanno avuto il maggior numero di morti.

Vi è poi l’inquinamento del mare con tutta la plastica (Great Pacific Garbage Patch) che arriva da dieci fiumi (Yangtze, Xi e Huanpu  (Cina), Gange  (India), Oyono  (Nigeria), Brantas e Solo (Indonesia), Rio delle Amazzoni (Brasile), Pasig (Filippine) e Irrawaddy (Birmania), cloache a cielo aperto; trasportata dalle correnti, aveva formato, nel bel mezzo del Pacifico un’isola grande quanto la Spagna... ma in poco tempo le isole si sono moltiplicate diventando quattro, con un’altra attualmente in formazione nelle vicinanze dell’Alaska;  i paesi responsabili indifferenti, dovrebbero avere la sensibilità di unirsi e farsi carico della loro eliminazione!

Vi è poi l’inquinamento atmosferico che porta al surriscaldamento terrestre, che sta facendo sciogliere i ghiacci dell’Artico e, in un futuro molto prossimo, farà alzare il livello del mare e sommergere le coste, mandando sott’acqua le città costiere tra le quali la città di Venezia, inestimabile città d’arte, che tra l’altro sta anche sprofondando ... e non sarà il costosissimo Mose, con il quale si sono arricchiti politici e faccendieri, a salvarla!

 

 

*) Negli anni sessanta vi era stato chi aveva suggerito di aprire un varco nella montagna di Genova in modo che passando l’aria, avrebbe ripulito tutta la pianura; l’idea non sembra essere stata balzana, ma nessuno l’aveva presa in considerazione!

 

 

MANCA LO SPIRITO EUROPEO

 

Nel contesto europeo, la Polonia, per nostra sfortuna (vale a dire dei convinti europei!) membro della U.E., ha rifiutato la richiesta di riduzione dell’inquinamento programmato per i paesi facenti parte della U.E. e ha fatto sapere che userà il carbone fino al 2050!

Non è questo lo spirito dell’Europa che volevamo quando eravamo giovani (v. in questa Rivista, Unione Europea Storia e Istituzioni), che ci aveva spinti a desiderare una Europa Unita e coesa, pronta a sacrificare gli interessi nazionali e particolari, per gli interessi generali! 

Aver fatto entrare nell’U.E. i Paesi dell’Est è stata una jattura che hanno portato uno scollamento in quanto questi paesi provenienti dal ferreo regime sovietico avrebbero avuto bisogno di un periodo di assestamento della loro democrazia; essi in effetti, non hanno avuto il tempo di maturare uno spirito inteso come  europeo”, che comporta quello di accettare disposizioni comunitarie (un esempio è dato dal rifiuto di recepire le disposizioni sulle quote degli immigrati, come ha fatto l’Ungheria, che ha chiuso i confini con muri e filo spinato!); è evidente che la loro entrata nell’Unione ha avuto solo fini utilitaristici, preordinata solo in funzione dei finanziamenti distribuiti dall’U.E., e, quanto al resto oppongono il più vieto nazionalismo!

Purtroppo ciò a cui non si era pensato (e non si poteva pensare!), sarebbe stata la previsione della espulsione per i paesi che non avessero aderito allo spirito unitario e di solidarietà (peraltro, di recente opposta, nell’impellenza del C.virus, dai paesi del Nord Europa, primi fra tutti Olanda e Germania, nei confronti dei paesi del Sud Europa,come l’Italia, Francia e Spagna per la richiesta di finanziamenti!); per di più una bordata è da ultimo partita con una sentenza della Corte Costituzionale della Germania contro l’operato della BCE, sentenza inaudita e prevaricatrice che costituisce un attacco al potere della U.E. e alla sua indipendenza e autonomia nei confronti dei suoi singoli componenti, in quanto unico organo giudicante è la Corte di Giustizia della Unione Europea.

 

LA BUROCRAZIA DI BRUXELLES

 

Nello stesso tempo, la burocrazia di Bruxelles si dà un gran daffare per fare entrare due dei paesi balcanici occidentali (*), come l’Albania e la Macedonia del Nord , che hanno un alto tasso di corruzione e con il loro ingresso si farebbe un favore alla loro criminalità e alla nostra  (già tra di loro collegate!) che avrebbero via libera per i loro traffici illeciti.

Anche la Turchia è desiderosa di entrare nella U.E. (in passato ci eravamo mostrati favorevoli al suo ingrasso ma ora siamo nettamente contrari) e, per fortuna la procedura sta segnando il passo, per le prove che sta dando Erdogan sulla scarsa  maturità democratica (duecentotrenta giornalisti che si erano mostrati contrari al regime o hanno fatto critiche al Presidente, sono detenuti perché considerati terroristi!).

L’ingresso di altri paesi nell’U.E. in questo periodo di crisi, non farebbe che aumentare il carico già gravoso di una Unione elefantiaca, completamente bloccata da una burocrazia asfittica che non prende decisioni in campo interno e si mostra completamente assente nel contesto internazionale.

Abbiamo grande fiducia nella nomina della due nuove presidenti Christine Lagard della BCE e Ursula von der Leyen della Commissione, ma occorrerà del tempo per valutare le loro realizzazioni.

 

 

*) Gli altri quattro sono Serbia, Kosovo, Bosnia Erzegovina e Montenegro

 

 

UN PARLAMENTO EUROPEO INUTILE

 

Peraltro, l’Unione Europea avrebbe bisogno di una bella cura di ringiovanimento e di riforme (v. in Schede L’Idea di Solimano il Magnifico ecc. L’Unione Europea impaludata), primo fra tutti del Parlamento privato della funzione prioritaria Legislativa, che hanno tutti i Parlamenti del mondo, che con la sua sola funzione di proporre le leggi, risulta una Istituzione del tutto inutile, che comporta solo una  enorme spesa per il mantenimento di settecentocinque (erano settecento cinquanta con la Gran Bretagna) lautamente pagati, che discutono su leggi che devono passare al vaglio dei rispettivi paesi .... come dire che discutono sul sesso degli angeli!

E, a nessun Presidente (ne sono stati eletti consecutivamente due italiani dai quali non è venuta nessuna idea innovativa. come per es. quella di convincere tutti i deputati di farsi carico presso i propri rispettivi governi, a rendere quel Parlamento finalmente autonomo con pienezza dei suo potere Legislativo

I burocrati di Bruxelles, invece di pensare di far entrare altri Paesi, potrebbero, oramai dopo ben settant’anni, decidersi a forzare la mano ai Governi, di rendere  finalmente autonoma l’Istituzione, con un proprio Governo, con Parlamento,  Ministeri ed Esercito indipendenti, prevedendo, per quei paesi che per motivi nazionalistici si dovessero opporre, la possibilità di rimanere come associati esterni alla unione, ovviamente, senza diritto di voto sulle decisioni che fossero prese dai membri della unione.  

Sarebbe poi opportuno fissare la sede del Parlamento nella stessa sede del Governo in quanto una sede separata come quella di Strasburgo è un controsenso, voluto all’epoca, dalla Francia, per morivi patriottici, che ha comportato e comporta un enorme spreco di danaro in quanto, ogni sessione prevede il trasferimento di casse di documenti da e per Bruxelles!

 

 

COINVOLTA LA GIUSTIZIA E LE CARCERI

 

Il C.virus ha posto in evidenza il problema del sovraffollamento delle carceri 189 carceri italiane: E’ noto che le carceri italiane sono da terzo mondo, in una situazione igienico-sanitaria drammatica oltre ad essere sovraffollate: i quarantamila posti disponibili sono occupati da cinquantasettemila detenuti con una spaventosa promiscuità (126 detenuti e 148 guardie carcerarie sono risultati positivi al virus con un alto numero di suicidi tra detenuti e guardie carcerarie): in una cella per quattro sono ammassati nove detenuti, con la disponibilità di un bugnolo a vista e una doccia senza acqua calda ... e  la distanza di sicurezza tra detenuti dovrebbe essere di mt. 1,80!

Mentre altri paesi stanno provvedendo ad alleggerire le carceri, in Italia nonostante vi sia un centinaio di detenuti e centocinquantotto guardie carcerarie positivi al virus e nonostante vi sia stata una rivolta che ha avuto alcuni morti, invece di liberare (tenendoli agli arresti domiciliari) i detenuti di reati non gravi e con solo alcuni mesi da scontare o in attesa di giudizio (liberando così un diecimila posti): è stato fatto tutto il contrario: sono stati mandati a casa trecentosessantasei boss mafiosi, per motivi di salute!  

Pur essendo dubbio che tutti costoro avessero bisogno di particolare assistenza medica, trattandosi  di detenuti che hanno commesso reati gravi (e più avanti si vedrà che durante la peste a Firenze erano stati liberati solo coloro che avevano commesso reati leggeri!), tenendo sempre presente la salvaguardia della persona umana, per costoro, che avevano bisogno di particolari cure mediche, non disponibili  nelle carceri dove erano detenuti, si poteva provvedere a metterli in un unico ospedale (ve ne sono di liberi!) per poterli assistere in maniera adeguata.

Improvvido e inopportuno è stato il provvedimento al quale il ministro, subissato di critiche e polemiche, con giravolta il ministro ritiene di farli ritornare in carcere ... con altro pasticcio davvero inestricabile!

Riprendendo l’argomento, il vanto giuridico dell’Italia è stata la previsione della funzione educativa della pena, sostenuta da Cesare Beccaria fin dal 1764 e prevista nella nostra Costituzione; nella pratica i detenuti, salvo alcune eccezioni che offrono risultati positivi, passano le loro giornate nella più assoluta inedia, senza che siano impegnati in alcuna attività, sì che quando hanno finito di scontare la pena, uscendo dalle carceri tornano a delinquere.

Da tempo è stata predisposta la riforma carceraria; ma il precedente ministro Orlando l’aveva rinviata fino all’ultimo momento e quando è stato sostituito, la riforma è rimasta nel cassetto, dove la tiene anche l’attuale ministro Bonafede.

Purtroppo, con tutti i gravi problemi che assillano la Giustizia, ambedue i ministri (ma anche gli altri che li hanno preceduti!) hanno completamente dimenticato la corposa materia della riforma che prevede la sostituzione dei quattro codici (civile e penale e le due procedure), causa anche della lentezza dei processi e dello spaventoso arretrato ai quali si aggiungono ora i processi sospesi a causa del C.virus: e siamo al  blocco totale ...e la magistratura, a parte le polemiche interne, tace!

Tra tante polemiche, i due ministri si sono limitati ad apportare modifiche alla sola prescrizione in materia penale ... facendola passare per riforma della giustizia!

Il Manzoni proprio relativamente alla materia giudiziaria (con particolare riferimento alle grida) aveva scritto che le riforme umane, si fanno per gradi (precisando): “parlo delle vere riforme, non di tutte le cose che ne hanno preso il nome”!

Ci chiediamo come mai dei ministri che dimostrano di non avere specifiche capacità innovative, rimangano imperterriti a occupare la poltrona solo perché la politica glielo consente, arrecando un danno alla comunità!

L’Italia ha bisogno di essere interamente riformata e ricostruita, come se fosse uscita da una guerra, ma occorrono anche uomini capaci di provvedervi  ... con i tempi (*) del ponte di Genova (onore a Renzo Piano).

Se con la fine del C.virus l’Italia non dovesse partire, sarà definitivamente condannata a rimanere un paese da terzo mondo ... come è stato fino ad ora! 

 

 

*) Per l’Italia un ponte di quel genere (il ponte è bello ma quel contesto sottostante di condomini non lo é, sarebbe meglio un bel bosco!) tirato su in venti mesi sembra un miracolo (ora si deve procedere solo all’asfalto); è stato possibile perché è stata messa da parte la burocrazia che dovrebbe essere tenuta da parte da tutti gli appalti oppure prevedendo l’arresto per i funzionari che, anche per loro salvaguardia, ritardino la esecuzione dei progetti come sta avvenendo nelle zone terremotate dove su 2.6oo progetti ne sono stati portati a esecuzione 260. Naturalmente facendo grande attenzione a possibili infiltrazioni criminali che negli appalti trovano la porta aperta attraverso i subappalti che dovrebbero essere assolutamente vietati, ma di questa possibilità, stranamente, nessuno ne parla!

 

 

LA LEGGENDA

DELLA PRIMA PESTE

IN MESOPOTAMIA

 DEL DIO ERA

 

 

L

a peste da sempre ha accompagnato l’uomo durante tutta la sua storia e quelle di cui si ha notizia ne sono state tante, da poterne fare un lunghissimo e interminabile elenco; di queste solo alcune sono state descritte da valenti scrittori che riportiamo cominciando da quella avvenuta in Mesopotamia, di cui si ha notizia con la “Leggenda di Era” (*).  

In questo mito babilonese e assiro (ricordiamo che la civiltà mesopotamica – dal 3000  al 500 - si sviluppa in tre fasi: sumera, babilonese e assira  fino alla invasione di Babel (539 a. C.) si narra che Era (da non confondere con la dea greca giunta successivamente, moglie di Giove), divinità maschile, dio della peste; egli si arma per la battaglia e invita i Sette a schierarsi al suo lato; questi Sette erano i dèmoni che Anu gli aveva messo al fianco, perché lo accompagnassero nelle sue battaglie e distruzioni, essendo egli un dio fondamentalmente distruttore.

I sette dèmoni incitano il dio a compiere le sue opere nefaste; il cattivo dèmone Ishum, spargitore della pestilenza, ricorda al dio tutto il male già compiuto, specialmente quello contro la città di Babele, il suo re e i suoi abitanti, ma anche le distruzioni di altre città importanti della Babilonia, come Nippur e Uruk, Dûrilu e qualche altra.

Il dio Era, approva quanto gli dice Ishum e si sente incoraggiato a compiere distruzioni ancora maggiori; egli si augura che le varie parti della Babilonia si distruggano vicendevolmente e che infine si sollevi Akkad e getti tutti a terra; dà perciò a Ishum l'incarico di eseguire tutto ciò che desidera, e Ishum fa come Era gli aveva ordinato.

Gli dèi ne sono spaventati, ma Ishum continua a eccitare il dio a sempre nuove devastazioni, e infine a placarsi; così infatti avviene, e s'inizia il periodo della prosperità che durò per parecchi anni.

Nella forma a noi pervenuta il mito non è che l'introduzione di uno scongiuro, e consta di vari estratti del mito completo che per ora non ancora si conosce.

Edizione: Ebeling, Der akkadische Mythus vom Pestgotte Era (Berlino, 1925). Giuseppe Furlani in Disionario Bompiani dei Personaggi e delle Opere, 1983.

 

*) Rileviamo che di questa divintà non se ne fa menzione tra le divinità della Mesopotamia.

 

 

EPIMENIDE CHIAMATO PER

PURIFICARE ATENE

E LA PESTE

 RACCONTATA DA TUCIDIDE

 

 

L

a prima peste abbattutasi su Atene è quella alla quale accenna Plutarco nella vita di Solone (VIII-VII sec.) quando parla del gran sacerdote Epimenide Festio di Creta (Candia), il quale, avendo gli dei mandato i segni della loro ira sulla città, lo avevano chiamato per purificarla e lo storico purtroppo, non parla né della calamità, né della purificazione, ma è preso dalla descrizione del quasi leggendario personaggio.  

Epimenide era infatti considerato uno dei sette sapienti e stimato come uomo pio, caro agli dei e dotto nelle cose divine, per sapienza infusa dal cielo e misteriosa; egli aveva inoltre la sobrietà del sacerdote e la sua maniera di nutrirsi era meravigliosa. Per questo gli uomini di quel secolo lo consideravano figlio della ninfa Balte e lo chiamavano nuovo Curete. Venuto ad Atene, aveva stretto amicizia con Solone e gli fu giovevole in molte cose e gli preparò il sentiero delle sue leggi.

Rese più semplici e ridusse le spese per le sacre cerimonie e introdusse maggior moderazione per quanto riguarda i lutti, perché impose agli ateniesi di semplificare i sacrifici alle esequie e abolito quanto di aspro e barbaro si soleva in precedenza praticare nei pianti, dalla maggior parte delle donne.

Ma ciò che maggiormente importa egli aveva con certi sacrifici propiziatori e purificazioni e fondazione di templi rivolto la città alla religione e devozione, rendendola più obbediente alla giustizia e più maneggiabile per guidarla alla concordia.

L’altra peste abbattutasi su Atene, è quella del racconto di Tucidide nelle “Storie”, del 431 a. C. quando gli ateniesi oltre alla sventura della guerra mossa contro di loro dai peloponnesi, ebbero quella della peste che si abbatteva contemporaneamente su di loro.

Proveniente dalla lontana Etiopia, dopo aver serpeggiato nei territori che le erano intorno,  attraversando il mare, come avverrà per altre epidemie, era sbarcata nel porto del Pireo e quindi era giunta ad Atene. Tucidide ne era stato anch’egli colpito e il suo racconto (che riassumiamo*) è fatto per cognizione diretta; ed ecco il racconto.

Da pochi giorni i Peloponnesi e i loro alleati avevano invaso l’Attica (23.IV.431 a..C.), quando ad Atene cominciò a manifestarsi la pestilenza: si diceva che in precedenza la peste fosse scoppiata  a Lemno e a1trove, ma non si ricordava che fosse stata mai tanto perniciosa e avesse ucciso tanti uomini.

I medici, che si trovavano per la prima volta a doverla curare, non vi riuscivano per inesperienza, ed anzi, più degli altri essi stessi morivano, perché più degli altri venivano a contatto col male; né serviva alcuna altra risorsa umana; inutili erano anche tutte le suppliche ai templi (Ripamonti riferisce della processione con la statua di Iside (v. in Schede F. Ermete Trismegisto e il libro di Thot il Cap. Iside e Osiride), che non abbiamo riscontrato nel testo consultato), il ricorso ad oracoli e a mezzi del genere, tanto che finirono col rinunciare, vinti dal male.

 

 

IL LUOGO DI PROVENIENZA

E DI DIFFUSIONE

 

 

A

 quanto si diceva era iniziata in Etiopia, a sud dell’Egitto, dove si era diffusa, passando quindi in Libia e in gran parte dei territori circostanti; ad Atene si abbatté inaspettata, partendo dal  Pireo (porto di Atene),  mentre si era sparsa la voce che fossero stati gli spartani ad aver gettato i veleni nelle cisterne (in quanto non vi erano sorgenti); poi raggiunse la città alta, e i morti cominciarono a farsi ormai più numerosi.

Io stesso sono stato malato e ho visto con i miei occhi altri ammalati e su questo malanno ciascuno, medico o profano, potrà esprimere la sua opinione sulla sua probabile origine e sulle sue cause; io posso dire come esso fu, e indicherò tutti i sintomi, dai quali si potrà meglio riconoscere il male e non sbagliare se mai si dovesse presentare un’altra volta.

Quell’anno non vi erano state le altre malattie (di stagione), sembrava che tutti ne fossero stati immuni, ma se qualcuno si fosse ammalato prima, la malattia si convertiva nella nuova.

 

I SINTOMI

 

G

li altri invece, all’improvviso, senza nessuna causa apparente, mentre erano in piena salute, erano colti dapprima da violenti calori alla testa; gli occhi, infiammati, si arrossavano; gli organi interni, come la faringe e la lingua, erano subito gonfi di sangue e ne usciva un respiro irregolare e fetido; seguivano poi starnuti e raucedine e in breve tempo il male scendeva nel petto con forte tosse. Quando si fissava nello stomaco lo sconvolgeva: sopravvenivano, tra grandi sofferenze, tutti quanti gli spurghi di bile ai quali i medici hanno dato un nome.

I più erano presi da conati di vomito a vuoto che provocavano spasimi violenti subito dopo l’attenuazione di quei sintomi o anche molto più tardi.

Al tatto, il corpo esternamente, non si presentava troppo caldo, né pallido, ma piuttosto rossastro, livido, disseminato di pustole e di ulcere; all’interno invece, i malati ardevano al punto che non tolleravano il contatto delle vesti più leggere né di lenzuoli, né di altro, ma volevano restar nudi e, come massimo piacere, gettarsi nell’acqua fredda; molti di coloro che non erano curati lo fecero gettandosi nei pozzi, vinti da una sete inestinguibile; ma il bere molto o poco portava all’identico risultato.

Li tormentava continuamente l’impossibilità di riposare e l’insonnia; ma il corpo, durante lo stadio acuto della malattia, non languiva, ma resisteva alle sofferenze in maniera sorprendente, di modo che i più o morivano nel settimo o nel nono giorno per l’arsura interna, quando ancora avevano un po’ di forze oppure, se superavano questa fase, allora, poiché la malattia scendeva nel ventre a produrvi forti ulcerazioni e una diarrea asciutta, generalmente morivano a causa di questa, per debolezza. 

Il male infatti, passava per tutto il corpo, cominciando dall’alto dove si era localizzato nel capo; e se si sopravviveva ai suoi attacchi più violenti, i suoi effetti si manifestavano alle estremità.

Colpiva infatti il sesso o le dita delle mani e dei piedi, molti scamparono perdendo queste membra, alcuni anche gli occhi;  altri, appena guariti, erano presi da amnesia completa e non riconoscevano più né se stessi, né i propri cari.

Questo genere di malattia, superiore a ogni descrizione, colpiva ciascuno con una violenza troppo grande perché la natura umana potesse resistergli e si dimostrò diverso dagli altri mali comuni anche in questo: gli uccelli e i quadrupedi che si nutrono di carne umana, benché i cadaveri insepolti fossero numerosi, non vi si avvicinavano, oppure, se ne assaggiavano, morivano.

La prova è che gli uccelli di questo tipo erano assolutamente scomparsi, e non se ne vedevano né intorno ai cadaveri, né altrove; i cani invece  permettevano meglio di osservare questi effetti perché convivono con l’uomo.

Tralasciando molti altri particolari per cui la malattia dell’uno si distingueva da quella dell’altro, dirò che in genere la malattia presentava questo aspetto che ho descritto; in quel tempo non infierì nessun’altra delle solite malattie: se se ne manifestava una, alla fine si trasformava in questa.

 

 

SI MORIVA CON LE CURE

E SENZA CURE

 

 

A

lcuni morivano perché non curati, altri nonostante tutte le cure; si può dire che non vi fosse proprio nessun rimedio la cui applicazione potesse giovare; quel che era utile a uno era nocivo a un altro; nessun corpo, forte o debole che fosse si rivelò capace di resistere al male, ma tutti ne erano colpiti, anche quelli tenuti a regime con ogni cura.

L’effetto più terribile di tutto questo male era lo scoraggiamento che colpiva chi s’accorgeva d’essere malato (lasciandosi subito andare alla disperazione, si abbattevano ancor di più e non opponevano resistenza) e il fatto che, curandosi l’un l’altro, si contagiavano e morivano come bestie; questa era la principale causa della moria.

Infatti, se per timore (di prendere il male) non si avvicinavano l’uno all’altro, morivano abbandonati e molte case rimasero vuote perché mancava chi prestasse le sue cure; se invece si avvicinavano ai malati, morivano, specialmente coloro che volendo dar prova di altruismo, senza riguardo per la propria salute, andavano dagli amici; e perfino i parenti, vinti dall’enormità della sciagura, avevano smesso  il compianto funebre dei defunti.

Ancora di più, coloro che avevano superato il morbo e lo conoscevano per averlo scampato e si sentivano al sicuro, compiangevano i moribondi e gli ammalati: esso infatti non colpiva mai una seconda volta la stessa persona in maniera mortale e quelli nutrivano per il futuro la fatua  speranza di non dover mai più morire di nessun’altra malattia.

Il morbo infieriva anche per l’ammassamento in città di coloro che provenivano dalle campagne in quanto abitavano in capanne che la calura rendeva soffocanti e la moria si estendeva in piena confusione in quanto morendo i cadaveri giacevano, oppure si rotolavano per le strade e intorno alle fonti per il desiderio di dissetarsi, in cerca di acqua.

I santuari erano pieni dei cadaveri di coloro che vi si erano attendati e lì erano morti; le leggi umane e divine non erano più rispettate, né si seguivano le consuetudini delle sepoltura, ma ciascuno seppelliva dove poteva e molti ricorrevano a sepolture indecorose, perché ponevano i propri morti su pire altrui e accendevano il fuoco; altri invece gettavano i propri morti su pire che stavano bruciando, gettandoli sugli altri cadaveri e se ne andavano.  

In città gli uomini morivano e fuori il paese era devastato dai peloponnesi i quali erano rimasti nell’Attica quaranta giorni e andarono via perché, si diceva, avevano saputo dai disertori che in città vi era la peste.

La peste era durata circa due anni, ma non era cessata definitivamente perché  riprendeva (427-426) e durava da meno di un anno quando morirono quattromila quattrocento opliti dell’esercito regolare e trecento cavalieri; per colmo di sventura vi furono anche diversi terremoti nelle stessa Atene, nell’Eubea e in Beozia e, in particolare, a Orcomeno di Beozia.

E vi erano stati ulteriori strascichi, se negli anni seguenti (428) il grande Pericle (495 c.ca-429) che aveva dato il suo nome al secolo in cui era vissuto (come lo chiama Voltaire, il secolo di Pericle ne “Il secolo di Luigi XIV), aveva visto morire i suoi più cari amici, poi la sorella, poi il figlio Santippo e quando gli fu tolto il prediletto Parolo non poté frenarsi dal versare un torrente di lacrime; il morbo non lo risparmiò ma ne fu minato poco a poco; gli amici lo assistevano intorno al suo letto e parlavano delle sue virtù, della potenza che aveva avuto e dei trofei che egli aveva innalzato per la patria; ma Pericle aveva sentito e si era meravigliato che lo lodassero di cose alle quali egli doveva la sua fortuna e che tanti altri capitani avevano fatto prima di lui, mentre non avevano parlato della sua vittoria più bella: “che nessun ateniese si fosse mai vestito di bruno per causa sua”.

 

 

*) Il testo è ripreso da Storie di Tucidide, Club del Libro, Novara, 1966.

 

 

 

LA PESTE DI BISANZIO

DURANTE IL REGNO

DELL’IMPERATORE

GIUSTINIANO

 

Riportiamo quasi per intero la descrizione

di Procopio di Cesarea,

meno conosciuta, sebbene pari nella descrizione

al racconto di Tucidide,

 

 

C

irca novecento anni dopo la peste di Atene, a Bisanzio, capitale dell’impero bizantino, durante il regno dell’imperatore Giustiniano ((v. in Articoli: I Mille anni ecc. Cap. III)), vi fu un’altra ondata di peste che a dire di Procopio, “poco era mancato che andasse distrutto l’intero genere umano”.

Qualificata  come variolas, vaiolo, non era del genere che colpiva i bambini; era ben diversa e non presentava gli stessi sintomi nei vari luoghi che ne fossero colpiti; partita anche questa dall’Etiopia, era passata all’Egitto e invaso la Palestina ed era giunta a Bisanzio dove ne fu colpito (565) lo stesso Giustiniano che superò la malattia con rigorosa dieta: ma ecco il racconto di Procopio.

Scoppiò innanzi tutto in Egitto, tra gli abitanti della città di Pelusio (30 km a sud di Port-Said), e di li si propagò in due direzioni: una verso Alessandria e il resto dell’Egitto, l’altra verso le regioni della Palestina confinanti con l’Egitto; poi si sparse per tutta la terra, avanzando sempre, nei momenti ad essa più favorevoli.

Sembrava infatti che si movesse secondo una regola fissa, sostando in ciascun paese per un determinato periodo di tempo e colpendo tutti col suo contagio, non certo alla leggera, per poi trasferirsi in un’altra zona, fino agli estremi confini della terra, come se temesse che qualche angolo del mondo le potesse sfuggire.

Difatti non lasciò indenni né una sola isola né una spelonca né la cima di un monte ove si trovassero esseri viventi; e per caso saltò qualche villaggio senza attaccare gli uomini che vi abitavano o sfiorandoli appena leggermente; più tardi tornò di nuovo indietro e senza più toccare per nulla coloro che vivevano nelle vicinanze e che aveva già duramente decimato in precedenza; non si allontanò da quel villaggio finché non ebbe esattamente pareggiato il numero dei morti a quello degli abitanti vicini morti prima.

Cominciando sempre dalle regioni costiere questo contagio poi di là s’introduceva nell’entroterra; il secondo anno, a metà della primavera arrivò pure a Bisanzio, dove anch’io mi trovavo in quel periodo di tempo.

 

 

CHI NE ERA COLPITO

VEDEVA I FANTASMI

 

 

M

olti cittadini cominciarono coll’avere delle apparizioni di fantasmi, del tutto simili a uomini nell’aspetto: e quando s’imbattevano in essi, sembrava loro di venir colpiti in qualche parte del corpo dall’uomo in cui si erano imbattuti; subito dopo aver avuto tale apparizione, venivano colti dalla pestilenza.

Da principio, chi vedeva i fantasmi cercava di cacciarli facendo scongiuri, come meglio poteva, ma senza ottenere assolutamente alcun risultato, tant’è vero che molti morirono persino nelle chiese in cui si erano rifugiati; più tardi, per lo più, rifiutava persino di ricevere gli amici che venivano a fargli visita e si chiudeva nella propria stanza, fingendo di non sentire se qualcuno bussava alla porta, evidentemente perché temeva che a chiamarlo fosse uno di quei fantasmi.

Per altri però, la peste non sopravveniva in questo modo, bensì avevano delle visioni durante il sonno e sembrava loro di subire gli stessi colpi da parte del fantasma sognato o di udire una voce che annunciava loro che erano già iscritti nell’elenco dei morti.

Ma alla maggior parte delle persone accadeva di essere colte dalla pestilenza senza essere preavvertite di ciò che sarebbe successo né da sveglie né in sogno.

Si ammalavano in questo modo:  Erano assalite all’improvviso dalla febbre, alcune appena si svegliavano dal sonno, altre mentre passeggiavano, altre ancora mentre erano intente a fare qualsiasi altra cosa;  il corpo non cambiava il suo precedente colore, né diveniva caldo, come avviene a chi è colto dalla febbre e neppure appariva alcuna infiammazione, ma dal mattino fino alla sera la febbre era così  debole che né ai malati stessi né al medico che tastava loro il polso sembrava preannunciare un indizio di pericolo.

Quindi, nessuno fra coloro che si erano ammalati credeva di dover morire per quel male; ma qualcuno nella stessa giornata, qualcuno nella seguente, altri non molti giorni dopo, vedevano formarsi un bubbone non soltanto in quella parte del corpo sotto l’addome chiamata inguine, ma anche sotto le ascelle e in qualche caso anche dietro le orecchie o in un punto qualsiasi delle cosce.

Fino  a questo stadio della malattia, più o meno i sintomi erano uguali per chiunque ne fosse colpito; ma da quel momento cominciavano manifestazioni differenti, non so dire se per la diversità delle costituzioni fisiche o perché cosi fosse la volontà di Colui che aveva mandato l’epidemia.

Alcuni infatti cadevano in un profondo coma, altri erano presi da un violento delirio, e tanto i primi che i secondi soffrivano esattamente tutti gli inconvenienti caratteristici di queste due infermità.

Quelli che erano sotto l’effetto del coma, sembrava dormissero in continuazione; se c’era qualcuno che si prendeva cura di loro, di tanto in tanto assaggiavano un po’ di cibo, ma se erano abbandonati a se stessi, per mancanza di nutrimento in breve tempo morivano.

Invece quelli che erano presi dal delirio soffrivano d’insonnia e di frequenti allucinazioni e immaginando che qualcuno venisse ad ucciderli, erano scossi  da una terribile agitazione, per cui si precipitavano in fuga, gridando disperatamente.

Cosi coloro che li assistevano stavano in continua apprensione, affranti dalla pietà e dal dolore, tanto che tutti avevano compassione di loro non meno che dei malati; e non perché avrebbero potuto contrarre la pestilenza andando loro vicino: infatti non accadde che alcun medico o altra persona venisse contagiata dalla peste per aver toccato un malato o un morto, tant’è che molti, i quali erano sempre occupati a curare e a seppellire anche persone estranee, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, continuarono nella loro attività, mentre molti altri furono subito colpiti inesorabilmente dalla malattia e morirono in breve tempo.

Si aveva invece compassione di costoro perché dovevano sopportare durissime pene: per esempio, quando i malati cadevano dal letto e si rotolavano a terra, essi li rimettevano a posto e quando tentavano di gettarsi giù dal tetto di casa, dovevano afferrarli e strapparli via a viva forza; se per caso si trovavano vicino a un po’ d’acqua, volevano buttarsi dentro, non per desiderio di bere (molti infatti si sarebbero buttati anche nel mare), ma la causa era da cercare unicamente nella loro alterazione mentale; gli assistenti dovevano anche faticare molto per far loro prendere cibo, perché non lo accettavano voléntieri; tanto che molti, mancando qualcuno che li assistesse, morirono o consunti dalla fame o per essersi gettati giù dall’alto.

Coloro che non cadevano in coma o non erano colti dal delirio, morivano invece perché il bubbone andava in cancrena ed essi non riuscivano più a sopportare il dolore.

Si può forse supporre che ciò sia accaduto anche a tutti gli altri, ma che, non essendo nelle loro piene facoltà mentali, non abbiano minimamente potuto rendersi conto della sofferenza, perché l’alienazione toglieva loro la sensibilità al dolore.

 

 

NON VI ERA NESSUNA

SPIEGAZIONE

PER LA SCIENZA UMANA

 

 

O

ra, alcuni medici, trovandosi in imbarazzo perché non conoscevano tutti questi sintomi, congetturarono che il focolaio della malattia consistesse nei bubboni e perciò decisero di esaminare i cadaveri di coloro che erano morti; sezionato un certo numero di bubboni, scoprirono che nel loro interno si era formata una specie di carbonchio purulento.

Alcuni morivano subito, altri molti giorni dopo, e in certi casi fiorivano su tutto il corpo delle pustole nerastre grosse come lenticchie; costoro non rimanevano in vita nemmeno un giorno, ma morivano immediatamente; molti altri, anzi, erano colti all’improvviso da uno spontaneo sbocco di sangue che li faceva restare soffocati sul colpo.

Sinceramente posso affermare che medici assai rinomati diagnosticarono a molti che sarebbero ben presto defunti mentre essi, viceversa, poco dopo si sentirono inaspettatamente liberi da ogni male; a molti altri assicuravano che si sarebbero salvati e invece erano già quasi sul punto di morire.

Cosi, di questa malattia, non c’era nessuna spiegazione possibile per la scienza umana, perché in tutti i casi essa aveva un decorso imprevedibile; ad alcuni era di giovamento lavarsi, altri anche cosi erano ugualmente stroncati dalla morte; molti morivano per mancanza di cure, altri invece si salvavano;  i metodi curativi avevano per ogni singolo paziente effetti differenti; si può dire, insomma, che nessuno sapeva come fare per salvarsi, sia che prendesse precauzioni per evitare il contagio, sia che cercasse di superare la malattia una volta che ne era colto.

 

 

ALCUNI APPESTATI

SUPERAVANO LA MALATTIA

 

 

C

i si ammalava senza motivo e si guariva per puro caso; le donne incinte, se si ammalavano, morivano sicuramente, alcune di aborto, altre durante il parto e la morte le coglieva subito, insieme con i loro neonati.

Tuttavia si racconta di tre donne che sopravvissero, mentre morirono i loro bambini e di un’altra che invece mori proprio nel momento in cui partoriva, mentre il figlio nacque e rimase in vita.

Nei casi in cui il bubbone diventava molto grosso e maturava pus, poteva succedere che gli appestati superassero la malattia, evidentemente perché la virulenza del carbonchio trovava lì una via di sfogo e in genere questo era un indizio di guarigione.

Ma se al contrario il bubbone manteneva sempre la forma originaria, allora si manifestavano le complicazioni di cui ho prima parlato. Avveniva anche che a qualcuno di questi malati le gambe si rinsecchivano e perciò, se il bubbone si formava li, non poteva andare a suppurazione.

A taluni avvenne di scampare alla morte, ma ne rimase offesa la lingua, nel senso che per tutta la vita restarono balbuzienti o incapaci di articolare le parole in modo intellegibile.

A Bisanzio la pestilenza durò quattro mesi, e in tre di questi  fu soprattutto violenta; da principio la mortalità fu di poco superiore al consueto, l’epidemia si diffuse sempre più rapidamente e il numero dei morti raggiunse la media di cinquemila il giorno, per arrivare persino a diecimila e anche di più.

 

 

I PROVVEDIMENTI

DELL’IMPERATORE

E LA NOMINA DEL

REFERENDARIO

 

 

N

ei primi tempi ciascuno si preoccupava di dar sepoltura ai morti della propria famiglia, magari deponendoli di nascosto e con la violenza nelle tombe di altre persone; in seguito tutto finì in una grande confusione generale.

Vi furono schiavi che rimasero senza padrone, uomini prima molto benestanti che si trovarono privati del servizio dei loro domestici o perché malati o perché defunti; alcune case restarono completamente deserte di persone; per conseguenza accadde che in quel caos anche qualche illustre personaggio rimase parecchi giorni insepolto.

L’imperatore naturalmente si preoccupò di prendere provvedimenti per tale situazione e diede incarico di occuparsi di tutti questi problemi a Teodoro, assegnandogli guardie di palazzo e una somma di denaro.

Costui aveva la mansione di segretario relatore delle decisioni imperiali, nel senso che segnalava all’imperatore la richiesta dei postulanti e poi riferiva a costoro, a loro volta, quali fossero le sue deliberazioni; i Romani chiamano questa carica col nome latino di referendarius (v. I mille Anni dell’impero bizantino, in Schede: Cariche di Corte e della Chiesa).

Così, mentre coloro che non avevano ancora visto cadere in completa distruzione la loro situazione familiare provvedevano personalmente alla sepoltura dei propri congiunti, Teodoro, distribuendo il denaro avuto dall’imperatore e attingendo anche al suo patrimonio, faceva seppellire i cadaveri di coloro che erano rimasti senza assistenza.

Quando alla fine si giunse al punto che tutte le tombe esistenti furono piene di cadaveri, la gente se la sbrigava scavando delle fosse nelle campagne intorno alla città, una dopo l’altra, deponendovi i morti, ciascuno come meglio poteva.

Ma in ultimo, coloro che scavavano le fosse, non potendo più far fronte al numero dei defunti, salivano sulle torri che sorgono lungo le mura di Sica, e, scoperchiati i tetti, vi gettavano dentro i cadaveri in gran disordine; così praticamente riempirono tutte le torri di cadaveri, accatastandoli alla rinfusa, secondo come cadevano e poi le coprirono di nuovo coi tetti.

Perciò da esse cominciò a diffondersi fino alla città un puzzo nauseabondo, che diveniva sempre più insopportabile per gli abitanti, specialmente se soffiava il vento provenendo da quella parte.

 

 

NON VI ERA POSTO

PER SEPPELLIRE I MORTI

LE STRADE ERANO DESERTE

LE ATTIVITA’ MERCANTILI

ERANO BLOCCATE

 

 

I

n quei giorni tutte le norme relative ai riti funebri erano trascurate; i morti non venivano scortati da processioni, com’è consuetudine, né accompagnati con i soliti canti, ma era già abbastanza se si trovava qualcuno che portasse a spalle uno dei morti fino alla spiaggia della città e qui giunto lo gettasse a terra, di dove i cadaveri sarebbero poi stati caricati su di una nave e trasportati e buttati in acque più profonde.

In quei momenti, però, i cittadini che prima erano stati divisi in fazioni, deposto l’odio reciproco, attendevano in comune agli uffici funebri, portando via personalmente e seppellendo anche i cadaveri di gente a cui non erano uniti da nessun legame.

Coloro che prima si erano compiaciuti di condurre una vita dissipata e piena di vizi, anch’essi, abbandonate le loro riprovevoli abitudini, seguivano con scrupolo le norme della religione, non perché avessero imparato ad essere saggi e fossero diventati improvvisamente amanti della virtù, ma perché allora erano tutti quanti, si può dire, terrificati da ciò che succedeva, e, temendo di dover anch’essi prima o poi morire, erano logicamente costretti dalla necessità delle cose a imparar momentaneamente la morigeratezza.

Tanto è vero che, appena guarivano dalla peste di cui si fossero contagiati, ritenendo di essere ormai al sicuro, perché l’epidemia era passata ad altre persone, cambiavano di nuovo idea e tornavano ai loro vizi, dando più ancora di prima dimostrazione della loro sconveniente condotta e anzi superando se stessi in dissolutezza e in ogni altro genere di malefatte.

Si potrebbe addirittura sostenere paradossalmente, ma senza dire una bugia, che quella pestilenza, o per caso, o per un disegno divino, fece una scelta diligentissima, lasciando indenni proprio gli uomini peggiori.

Ma questo si poté constatare solo qualche tempo più tardi.

Per il momento, a Bisanzio, non era facile veder girare qualcuno per le strade, perché tutti coloro che avevano 1a fortuna di essere in salute rimanevano chiusi in casa o a curare i malati o a piangere i morti.

Se capitava d’incontrare una persona che passava per via, era perché stava portando un cadavere; ogni attività era ferma, tutti gli artigiani avevano abbandonato la loro arte, e così accadeva di ogni altra specie di lavoro che ciascuno avesse per le mani.

Di conseguenza, in quella città ch’era stata veramente sovrabbondante di ogni genere di beni, si era diffusa una spaventosa carestia; trovare un po’ di pane o qualunque altra cosa in misura appena sufficiente, appariva senza dubbio un’impresa molto difficile e degna di nota, cosicché si può dire che per diversi malati la morte sopravvenne prima del tempo per mancanza del necessario.

Insomma, a Bisanzio non era più assolutamente possibile vedere qualcuno che indossasse la clamide, specialmente quando avvenne che si ammalò anche l’imperatore; a lui pure, infatti, si sviluppò un bubbone; ma nella città ch’era la capitale dell’impero romano tutti i cittadini se ne stavano ritirati, indossando gli abiti normalmente usati in casa.

Questo fu dunque l’andamento della pestilenza in tutto l’impero romano e particolarmente a Bisanzio; ma essa si abbatté anche sull’impero persiano e fra tutti gli altri barbari.

 

LA MORTE NERA

 DEL 1350

 

 

S

viluppatosi nei topi (Rattus-Rattus) portatori di pulci, tra le dune di sabbia del deserto del Gobi e trasportata dalle carovane o dai soldati o dal rapido servizio postale degli imperatori mongoli, un male misterioso  si era diffuso in Cina (1331) e l’anno seguente (1332) aveva colpito il ventottenne Gran Khan Jiiagatu Toq-Temur con i suoi figli;  era avanzato (1346) nelle Indie orientali, dove non aveva fatto molte vittime; a Tabriz (Iran), si era fermato per sei mesi e poi aveva proseguito la sua corsa; il flusso in Europa seguì invece la strada della Crimea con le navi di mercanti che attraversarono il Mar Nero..

A Cipro dove era vivo il commercio portato dai mercanti, i musulmani, temendo che gli schiavi si ribellassero, avevano pensato di metterli a morte, ma furono distratti da un improvviso terremoto; chi fuggiva dal morbo era inghiottito dalle voragini, mentre in mare i vascelli erano inghiottiti come fuscelli; a queste sventure, si aggiunse una invasione di cavallette e un nebbione aveva ricoperto  per lungo tempo tutta la Grecia.

Questa peste fu particolarmente virulenta perché la popolazione era indebolita dalla precedente carestia e vi avevano contribuito anche le scarse condizioni igieniche personali e generali; la gente infatti conviveva con gli animali domestici e dove vi erano animali domestici vi era anche un numero maggiore di topi; la malattia non era uguale dappertutto; era caratterizzata da 1. infiammazione della gola e polmoni; 2. violenti dolori al petto; 3. vomito e tosse con vomito sanguinolento; 4. fetore emanato dal corpo e dall’alito; su una popolazione totale di cento milioni si ebbero dai 25 ai 30 milioni di morti.

 

 

AI FLAGELLI SI AGGIUNSE

L’INVENZIONE  DELLE BOMBARDE

INAUGURATE

NELLA BATTAGLIA DI CRECY

 

 

L

’Italia era travagliata da tanti disordini e da tanti mali, quando fu colpita all’improvviso dai più terribili flagelli che il cielo avesse potuto riservare per castigo della terra: una crudele carestia e la più mortifera pestilenza di cui le storie abbiano serbato memoria; a questi si potrebbe aggiungere, un terzo flagello: l’invenzione della bombarda, che avvenne in quest’epoca sventurata.

Con questo ritrovato (scrive Sismondi) il soldato fu ridotto ad essere semplice macchina, il potere dei despoti accresciuto, indebolito quello delle nazioni, private le città della  sicurezza che davano loro le mura; ma i durevoli effetti dì così funesta invenzione non si manifestarono che lungo tempo dopo.

Le bombarde, di cui parlano per la prima volta gli storici, furono adoperate il 26 agosto del 1326 nella battaglia di Crecy, tra Inglesi e Francesi; non parvero ai principi che macchine atte a scagliar delle palle per spaventare i cavalli col fragore e col fuoco.

Il re d’Inghilterra, tra bombardieri che aveva egli solo nel suo esercito, e le saette d’arco che nell’aria sembravano una nuvola e non cadevano senza ferire persone o cavalli; con i colpi delle bombarde che facevano “si grande tremuoto e romore , che pareva che Iddio tonasse; con grande uccisione di gente e sfondamento di cavalli,   Edoardo III sconfisse i francesi.

Lo stesso anno l’Italia fu afflitta  dalla carestia  e le intemperie delle  stagioni ne furono la principale cagione; piogge a dirotto dell’autunno (1345), non permisero le seminagioni in ottobre e novembre e fecero infracidire il frumento che cominciava a germogliare.

Nella seguente primavera imperversarono di nuovo le piogge con eguale ostinazione; nei successivi mesi di aprile, maggio e giugno la terra fu sempre o inondata o talmente ammollita, che le sementi delle biade marzuole e del miglio, non riuscirono meglio di quelle dell’autunno.

Né questa sciagura si ristrinse a una sola provincia, ma si estese a tutta I’ Italia, alla Francia e ad altri paesi, sicché in gran parte d’Europa non si era mai fatto un così scarso raccolto come nel 1346; il vino, 1’olio ed ogni altro frutto della terra venne ugualmente a  mancare.

 

 

LA SIGNORIA DI FIRENZE

 SOSPENDEVA LE PROCEDURE

PER MINUTI DEBITI

E LIBERAVA I CARCERATI

PER DELITTI LEGGERI

 

 

Q

uesta carestia era stata universale in Italia, e non tutte le città avevano provveduto ai bisogni del popolo, con saggi o generosi regolamenti; ne conseguiva  l’affievolimento dei corpi che viziavano gli umori e le malattie epidemiche non tardarono a manifestarsi.

Frattanto, affinché i poveri non fossero tormentati dalla carestia, dalle malattie e dai creditori, la Signoria di Firenze sospese le procedure forensi per i minuti debiti e nel giorno di Pasqua, facendone come un’offerta a Dio, liberò tutti i carcerati per debiti verso il comune e tutti coloro che si trovavano nelle prigioni per leggeri delitti; nello stesso tempo diede a tutti quelli che avevano ricevuto multe, la facoltà di liberarsi, pagando il quindici per cento della somma portata dalla sentenza; ma la miseria era sì grande, che pochissimi potettero approfittare di questa grazia.

Nella estate del 1347 la mortalità fu in Firenze grandissima, specialmente tra i poveri, le donne e i fanciulli; si calcolava che la carestia avesse fatto morire quattromila persone.

Ma nello stesso tempo un più terribile flagello si andava preparando in Oriente; nel regno di Casan (Scizia), si erano aperte voragini che vomitavano fiamme (si trattava certamente di fuoriuscita di magma ndr.), divampando fra le aride erbe, si stesero da ogni parte, per molte e molte miglia intorno.

Coloro che si sottrassero a questo disastro, portarono una malattia contagiosa, che sparsero sulle rive del Tanai (antico nome del Don) e in Trabisonda: malattia funesta che in quelle contrade, di cinque persone il morbo ne uccideva quattro.

A Sebastia (Palestina) cadde colla pioggia un’immensa quantità d’insetti neri che avevano otto gambe e la coda, in parte morti e in parte vivi; questi avvelenavano col morso; quelli morti si decomponevano e infettavano l’aria.

La peste si sparse in tutto il Levante e corse per la Siria, la Caldea, la Mesopotamia, l’Egitto, le isole dell’Arcipelago, la Grecia, 1’ Armenia, la Russia.

Alcune navi cristiane partite dal Levante la portarono (1347) in Sicilia, e  poi a Pisa, dove vi furono sette morti ogni dieci abitanti;  a Siena i morti furono ottantamila in quattro mesi; a Genova altrettanti in due mesi; sparsa in tutta Italia (1348) ne soffrì non solo il commercio ma anche l’agricoltura con la perdita delle messi di grano e dell’uva che marciva incolta.

A Roma vi furono centosettantamila morti, quanti ve ne furono a Napoli, esclusa Trapani nel sud; a Milano e nei paesi vicini alle Alpi ai confini con la Germania, non fece molto nocumento.

 

 

SPARSA IN EUROPA

I SINTOMI  MUTAVANO

IN OGNI LUOGO

AMICI E PARENTI

SI TENEVANO A DISTANZA

 

 

N

el 1348 la peste valicò le montagne, e si estese alla Provenza, alla Savoia, nel Delfinato e nella Borgogna e da Aigues-morts, penetrava in Catalogna, Granata e la Castiglia. 

Nel susseguente anno si sparse per tutte le altre terre occidentali fino alle rive del mare At1antico, la Berberia, la Spagna, l’Inghilterra e la Francia: il solo Brabante parve sottratto a tanta sventura o leggermente toccato.

L’anno successivo (1349) raggiunse l’Inghilterra dove si alternò per nove anni mietendo  cinquantamila persone all’anno, la Scozia, l’Irlanda tornando verso le Fiandre, la Danimarca, e facendo poco danno al Brabante tornò in Francia.

Nel 1350 il contagio avanzò verso il Settentrione, spargendosi tra i Frisoni, Tedeschi, Ungari, Danesi e Svizzeri.

Per questa calamità la repubblica d’Islanda fu allora distrutta; la mortalità fu sì grande in quell’isola agghiacciata che, rimasti soltanto in vita pochi e dispersi abitanti, il popolo  islandese si spense completamente.

Quando giunse in Germania (1350) fu preceduta da terremoto e tempeste di pioggia dove fece, tra i soli frati francescani 124.434 morti e vi furono eccessi contrari di devozione, pazzia e libertinaggio e fanatici flagellanti (v. sotto); dopo aver raggiunto l’Ungheria, si rivolse (1361) a desolare Milano e Venezia dove colpì il doge Giovanni Dolfin e molti cardinali e vi furono centomila morti; quindi si rivolse verso Avignone.

Ritornò a Firenze (1363) dove morì Giovanni Villani che l’aveva descritta e vi furono centomila morti.

Era cessata, ma riapparve verso fine secolo (1393), quando un infetto la portò a Bologna e via mare giunse a Venezia  e Genova e altri la portò a Brescia e Verona; per ciascuna delle città più piccole era durata circa da cinque a sei mesi nelle altre dodici mesi.

Il male si manifestava con una febbre altissima che portava al delirio e stordimento (stupore) e insensibilità; la lingua e il palato illividivano, fetidissimo il fiato; a molti sopraggiungeva la peripneumonia (infiammazione dei polmoni) con emorragie; macchie nere indicavano la cancrena accompagnata da ascessi esterni; la maggior parte periva il primo giorno: non si conoscevano rimedi.

I sintomi del morbo non furono in ogni luogo gli stessi:  nell’Oriente un’emorragia dal naso era certo presagio della sopraggiunta malattia e della morte; in Firenze, in principio la malattia si manifestava o all’inguine o sotto le ascelle con una enfiatura della grandezza di un uovo ed anche maggiore; più tardi quest’enfiatura, detta gavocciolo si manifestava indistintamente in qualsiasi parte del corpo; la malattia mutava nuovamente i sintomi, che si manifestava di norma con macchie nere o livide, in alcuni larghe e rade, in altri piccole e fitte.

Si vedeva all’inizio apparire sulle braccia o sulle cosce poi su tutto il corpo e come il gavocciolo, erano presagio di vicina morte;  nessuna arte medica poteva resistere al morbo, sebbene quando incominciò I’epidemia, oltre ai professori di medicina, un consistente numero di ciurmatori vendessero molti rimedi che non guarivano un solo ammalato; i più morivano il terzo giorno e quasi tutti senza febbre o alcuna nuova manifestazione.

Nelle contrade colpite dalla pestilenza, altissimo e universale fu il terrore nel vedere con quale prodigiosa rapidità si dilatava il contagio; l’infezione si contraeva solamente  conversando con gli ammalati, non solo toccandoli, ma toccando le cose da loro toccate.

Si videro animali cadere morti per aver toccato gli abiti degli appestati gettati nelle strade e per questo non si riteneva una vergogna mostrarsi vili e senza pietà; infatti,  i cittadini non solo si schivavano l’un 1’altro, ma i vicini abbandonavano i vicini e i congiunti, se pur qualche volta si scambiavano visite, si mantenevano a tanta distanza dall’ammalato, da mostrare il proprio terrore: e all’infuriare della malattia fu visto il fratello abbandonare il fratello, lo zio il nipote, la sposa, il marito e perfino alcuni genitori i propri figli.

E per tal modo, all’infinito numero degli ammalati non rimase altro sussidio che l’ affetto eroico di un piccolo numero di amici o l’avida brama dei servi, che per una grossissima somma di danaro mettevano in pericolo la loro vita per servire il signore.

 

 

SI CREDEVA CHE GIOIA

E PIACERI  FOSSERO

IL SICURO RIMEDIO

CONTRO LA PESTE

 

 

Q

uesti ultimi erano per la maggior parte rozzi contadini rozzi, poco avvezzi alla cura degl’infermi, onde tutti i loro servigi si riducevano per 1’ordinario ad eseguire i comandi che loro davano gli appestati ed a portare alle famiglie la notizia della loro morte.

Da tale misero abbandono e dal terrore che colpiva gli ammalati, nacque un’usanza affatto contraria agli antichi costumi, che una donna giovane, bella e modesta non disdegnava di farsi servire, inferma, da un uomo, comunque giovane  e dallo svestirsi in sua presenza, ogni qualvolta lo richiedesse la cura della malattia, come se si fosse trovata con una donna.

Era costume antico in Firenze che le congiunte e le vicine di un estinto di buon casato, si adunassero nella casa di lui per piangerlo insieme alle più strette parenti, intanto che i vicini e gli amici si riunivano coi preti innanzi alla casa.  

In appresso il cadavere del defunto era portato alla chiesa indicata da lui medesimo prima di morire, da uomini della sua condizione; precedevano il feretro i preti che cantavano, portando i ceri accesi e chiudevano la pompa funebre i cittadini che si erano adunati innanzi alla porta.

Ma queste costumanze cessarono all’infierir della peste, e furono sostituite da pratiche opposte; non solo gli ammalati morivano senza essere assistiti da pietose donne, ma non rimaneva più neppure chi li servisse negli estremi istanti della vita.

Era invalsa l’opinione che la tristezza disponesse i corpi a contrarre più facilmente la malattia; si credeva per certo che la gioia e i piaceri fossero il più sicuro rimedio contro la peste e le stesse donne tentavano di distrarre l’animo dal lugubre apparecchio dei funerali, col riso, coi giuochi, coi motteggi.

Pochi cadaveri erano recati al sepolcro accompagnati da più di dieci o dodici vicini, ed i portatori non erano già onorati cittadini della stessa condizione del defunto,  ma persone della più abbietta plebe, che si facevano chiamare becchini.

Per grossa mercede costoro trasportavano precipitosamente il feretro non già alla chiesa destinata dal morto, ma a quella più vicina, spesso quattro o sei preti precedevano i becchini con pochi ceri; ma talvolta ancora andavano costoro senza preti; e i preti poi, per non affaticarsi con troppo lunghi o troppo solenni uffici, riponevano il cadavere, con l’ aiuto dei becchini, nella prima fossa che trovavano aperta.

La condizione dei poveri ed anche dei cittadini di mezzo era ancora più misera; chiusi a causa della povertà in case malsane e vicinissimi gli uni agli altri, cadevano infermi a migliaia e siccome non v’era chi li curasse o porgesse loro alcun refrigerio, morivano quasi tutti.

 

 

I VICINI DI CASA

ERANO AVVERTITI

DAL PUZZO

DEI CADAVERI

 

 

E

rano moltissimi, sia di giorno sia di notte, quelli che cadevano miseramente moribondi o morti nelle strade; degli altri abbandonati nelle case, non si conosceva dai vicini la morte, se non per Il puzzo ch’esalava dai loro cadaveri.

Per timore che non s’infettasse l’aria piuttosto che per carità, si recavano questi a visitare le camere e far trarre i cadaveri dalle case ed a collocarli davanti alle porte. Ed ogni mattina se ne vedevano ammassati nelle strade e portavano le bare o se non ve n’erano, il cadavere si metteva sopra una tavola e si portava alla fossa.

Ben più d’una bara conteneva il marito e la moglie, il padre e i figli o due o tre fratelli ad un tempo; allorché si scorgevano due preti con una croce accompagnare un feretro e dire I’ufficio de’ morti, da ogni porta uscivano altri feretri che si associavano al convoglio ed i preti convenuti per 1a esequie di un solo defunto, ne trovavano sette od otto da seppellire.

Il terreno sacro non bastava più a tanti cadaveri, onde si cominciò a scavare nei cimiteri grandissime fosse nelle quali si collocavano i corpi a strati, di mano in mano che vi si portavano, poi si ricoprivano con poca terra.

Frattanto i vivi, persuasi che i diletti, i giuochi, i canti. l’allegria potevano solo scamparli dalla morte, non pensavano più ad altro che darsi bel tempo, non solo nelle proprie, ma nelle case  altrui, ogni qualvolta credevano trovarvi cosa da dilettarsene.

Tutto era in balìa di tutti, per cui ognuno, non pensando più alla vita, aveva abbandonato ogni cura di sé stesso e delle sue sostanze; la maggior parte delle case erano diventate comuni e chiunque vi entrasse, ne usava come in casa propria.

Era smarrito ogni rispetto delle leggi divine ed umane in quanto i loro ministri e chi altro dovesse provvedere alla loro esecuzione, erano morti o infermi o privi di guardie e di fanti, che non potevano incutere alcun timore, onde ognuno si riteneva libero di fare tutto quello che gli tornava a grado,

Le campagne non erano meno desolate dal contagio, che le città; e i castelli e le terre erano  l’immagine delle metropoli; gli sventurati agricoltori che abitavano le case sparse nei campi e non potevano sperare né nei consigli di medici, né nell’assistenza di servi, morivano sulle pubbliche strade, nei campi o nelle case, non da uomini ma da bestie.

In tal modo non si curavano più delle cose di questo mondo, come se fosse loro prefissato il giorno della morte, non pensavano più né ai frutti della terra né al premio delle loro fatiche e invece si sforzavano di consumare al più presto ciò che avevano già raccolto in precedenza.

Gli armenti erravano derelitti per i campi abbandonati  tra le messi non raccolte e per lo più rientravano senza guida la sera nelle stalle, benché non vi fossero padroni o pastori per custodirli.

La pestilenza non aveva mai in nessun altro tempo disertata a questo modo l’Italia; in  Firenze e nel territorio, di cinque persone ne morirono tre e il Boccaccio è del parere che la sola città perdesse più di centomila persone.

In Pisa, di dieci persone ne morirono sette; ma sebbene in questa città, come altrove, si fosse conosciuto per prova che chiunque toccasse un morto o le sue vesti o anche soltanto il danaro, era preso dal contagio, sebbene non si trovasse alcuno che per mercede volesse rendere ai defunti gli estremi uffici, pure nessun cadavere restò nelle case senza sepoltura.

I cittadini si chiamavano l’un l’altro, in nome della carità cristiana, “aiutiamoci”,  dicevano, “a portare questo morto alla fossa affinché altri ci portino quando morremo”.

A Siena, nei quattro mesi di maggio, giugno, luglio e agosto, la peste rapi ottantamila persone; la città di Trapani in Sicilia (precedentemente risparmiata ndr.) rimase deserta essendo morti fino all’ultimo tutti gli abitanti; Genova ne perdette quarantamila, Napoli sessantamila, la Sicilia, con la Puglia, cinquecenato-trentamila persone, mentre in tutta 1’ Europa perirono tre quinti della popolazione.

 

 

ELOGIO DI

DI GIOVANNI VILLANI

LA LAURA DEL PETRARCA

 MUORE DI PESTE

 

 

O

sserva uno storico che in Europa morirono personaggi dalle qualità illustri, mentre la peste lasciò in vita tutti coloro per i quali la morte sarebbe stata desiderabile; chi merita di essere da noi più compianto (scrive Sismondi), è Giovanni Villani, lo storico più fedele, più veritiero, più leggiadro e più animato che avesse fin allora prodotto l’Italia.

Abbiamo fatto non interrotto uso della sua storia, pel corso di un mezzo secolo, ponendo in lui quella fede ch’è dovuta ad un autore contemporaneo e giudizioso che fu parte egli stesso delle cose.

Villani, come egli stesso racconta, era andato a Roma nel giubileo del 1300 (*); e quivi appunto, paragonando la decadenza di quell’antica capitale del mondo colla crescente grandezza della sua patria, fermò il disegno di scrivere la storia di Firenze.

Il Villani socio di una compagnia di mercanti, aveva pure viaggiato in Francia e nei Paesi Bassi; fu più volte dei priori della repubblica ed ottenne altri pubblici uffici, come di direttore della zecca e delle fortificazioni e dell’ ufficio dell’ abbondanza delle biade, dimostrando di poter occupare qualsiasi carriera pubblica e privata.

Verso la fine della sua vita fu rovinato dal fallimento dei Bonaccorsi dei quali era socio; e qualcuno scrisse che era stato imprigionato per debiti.

Gli ultimi libri della sua storia pare diano segno di queste private disavventure, ed indicano che l’autore era diventato d’umor tetro e lento; quando morì di peste nel 1348, doveva essere giunto a matura vecchiaia (1280-1348).

Altre cronache italiane terminano nella stessa epoca; il che dà luogo a credere che i loro autori cadessero vittime della pestilenza. Giovanni d’Àndrea, il più illustre giurisperito d’Ialia e la Laura del Petrarca, furono tolti al mondo da questo flagello, il primo in Bologna, l’altra in Avignone.

In tempo della carestia e della peste, i popoli d’ Italia, oppressi da tante calamità  rimasero per la maggior parte in una forzata inazione.

 

 

*) Era stato il primo Anno Santo (Giubileo) istituito da Bonifacio VIII e doveva essere centenario, ma Clemente VI, che si trovava in Avignone, lo rese cinquantenario; Roma nel 1350 era una città in piena decadenza per di più danneggiata dal precedente terremoto; la peste quell’anno l’aveva risparmiata e quei pellegrini che vi si erano recati, come Petrarca, ne rimasero indenni: arriverà infatti sei anni dopo (1356) da giugno fino al marzo dell’anno seguente, riprendendo poi fino a luglio.

 

 

RIAPPAIONO I

FLAGELLANTI

 

 

A

pparsi nel 1260, uomini e donne cominciarono numerosi (migliaia!) a vagare per l’Italia flagellandosi a sangue, invocando la pace e inducendo gli usurai a restituire; trentamila bolognesi si recarono a Modena cantando laudi; poi andarono a san Gimignano, si flagellarono e ottennero ospitalità, distribuendosi in quelle case.

Molti signori come Oberto Pelavicino (Lombardia), Obizzo d’Este (Ferrara), Torriani a Milano, Manfredi in Sicilia  piantarono le forche per coloro che fossero entrati nelle loro città; e, confraternite con vessilli e divise si recarono altrove.

Nel 1334 fra’ Venturino da Bergamo seguito da diecimila (e oltre!) uomini che portavano  una gonnella bianca fino a mezza gamba, di sopra una tabarella di biado corto fino al ginocchio; calze bianche e stivali a mezza gamba, in petto una colomba bianca coll’ulivo in bocca, nella mano destra il bordone, nella sinistra il rosario, si recarono a Roma; al papa non piacque e fra’ Venturino fu messo nelle carceri.

Durante la peste in Germania i flagellanti si recarono a Spira e in cerchio intorno alla chiesa, a torso nudo, con le braccia in croce, ognuno riceveva le sferzate dal vicino dandosi poi il cambio; accompagnavano le sferzate con adorazioni e canti in tedesco.

Terminata questa cerimonia, uno di loro leggeva una lettera  presentata da un angelo alla chiesa di san Pietro in Gerusalemme, che annunziava che Cristo era irritato per i peccati commessi nel mondo, che potevano essere rimessi con l’intercessione di Maria, purché si rimanesse trentaquattro giorni fuori casa e ci si flagellasse (non si hanno notizie sul loro rapporto con la diffusione della peste).

In ogni caso erano ben accolti e ricevevano donazioni, il giorno lo passavano in pubblico; la notte la passavano in chiesa, esclusa la domenica.

Il loro vestito era nero con croci rosse davanti e dietro e sui berretti, con gli staffili alla cintura; erano in molti quelli che li seguivano e ricevevano donazioni; dovevano avere da spendere quattro denari al giorno, essere confessati e comunicati, aver perdonato i nemici e ottenuto l’assenso delle mogli.

Passarono nei Paesi Bassi, in Francia, in Italia; non fu possibile evitare i disordini quando vollero imitarli le donne; ritenevano di scacciare i diavoli e si confessavano e assolvevano l’un l’altro.

Il papa Clemente VI (1342-1352) li disapprovò ordinando di denunziarli; il re Filippo VI di Francia li minacciò di morte se fossero entrati in Francia.

Altra ondata apparve nel 1399. La Madonna era apparsa a un contadino in Irlanda dicendogli che il miglior modo di scongiurare la peste e le guerre erano le processioni; con veste bianca, coperti di cappucci, senza distinzione tra donne e uomini, se non per una croce rossa; se si fosse offeso qualcuno, si doveva chiedere perdono e l’oltraggiato doveva concederlo.

Giravano così per nove giorni, facendo almeno tre chiese al giorno; entrando in un paese cantavano  orazioni e Stabat Mater recitando tre miserere entrando in chiesa; durante i nove giorni facevano vita quaresimale, non dormendo in letto, non svestendosi, molti andavano scalzi; preannunciavano il loro arrivo nelle città nel nome di Maria vergine chiedendo di accoglierli con devozione.

Dall’Irlanda andarono in Inghilterra, in Francia, poi a Genova, in Lombardia, in Toscana e nel resto d’Italia, annunciando la pace, la concordia, facendo prediche e miracoli. 

A questi eccessi di devozione si contrapponevano eccessi di libertinaggio da parte di coloro che ritenevano di godersi gli ultimi sprazzi della vita; non potevano mancare le accuse agli ebrei di avvelenare i pozzi e ne furono trucidati a centinaia, nonostante il papa Clemente VI avesse cercato di frenare quel furore.

 

 

 

 

 

LA DANZA MACABRA

 

 

I

l continuo ritorno della peste nel medioevo e la paura che ossessionava nella vita di tutti i giorni ricchi e poveri, aveva fatto sorgere il gusto macabro per la morte, rappresentato, nel campo artistico dalla danza della morte o danza macabra, che costituiva la allegoria tra una vita fugace, vissuta nel contrasto dello splendore delle corti e della nobiltà e quella dei numerosissimi poveri e il pensiero della morte che portava al disfacimento e alla putrefazione del corpo umano.

Nel campo letterario troviamo “The Dance of the Sevin Deidly Synnis” o “The Dance of the Seven Deadly Sins” (La danza dei sette peccati mortali),  del poeta scozzese  William Dunbar (1450?-1520?), e un poemetto satirico grottesco “Danza de la Muerte, manoscritto dell'Escoriale, in cui si trovano anche i “Proverbios morales del Rabbi Don Sem Tob .

Composto probabilmente al principio del XV sec., La Danza de la Muerte, rappresenta la Morte che invita a una sua lugubre danza i rappresentanti di tutti gli “stati del mondo”, vale a dire di tutte le classi sociali,  dal papa e dall'imperatore, al cardinale, al vescovo, al re, al duca, al cavaliere, al curiale, al mercante, al borghese e al contadino, al frate e al sacrestano, alla donzella e alla monaca.

Ciascuno confessa le colpe della sua vita mortale e le compiacenze che ha riposto nei beni evanescenti, dimentico dell'eterno bene; e ascolta i pungenti rimproveri pronunciati dalla Morte.

La Danza de la Muerte aveva avuto successive elaborazioni specie nella letteratura francese dei secoli XIV e XV (Danse de Macabré, Chorea Machabeorum, non macabre, come avevano detto i romantici); fu durante il periodo romantico del XIX sec., infatti, che “la danza della morte” divenne “danza macabra, per una falsa lettura dei testi francesi.

Nell’arte pittorica la rappresentazione della Morte si sviluppò in tutta Europa e particolarmente in Italia dove la rappresentazione più antica del 1485, è a Clusone sopra riprodotta); al Cimitero di Pisa abbiamo invece il Trionfo della Morte.

Il tema della “Danza” fu ripreso in Germania nel “Todten-Tanz” di Matthaeus Merian nel 1625 con quarantacinque riproduzioni dei rappresentanti delle categorie sociali che danzano con la morte, accompagnate da versetti rimati in tedesco e latino di cui riportiamo la chiamata al risveglio, vale a dire la Resurrezione!                                                                                                           

 

 

Da Todten-Tanz - Matthaeus Merian - 1625

 

 

 

LA

PESTE STRISCIANTE DEL 1500

E GLI STUDI CHE NE

ERANO SCATURITI

 

 

N

el mondo scientifico oramai avanzato, si facevano tutte le ipotesi possibili e con Girolamo Fracastoro (1476/78-1553); pur essendosi accreditata l’idea del contagio tra due persone, si riteneva ciò avvenisse attraverso il calore umano: Fracastoro sosteneva che il contagio non necessita di ricorso alle astrologiche “qualità occulte”: “il contagio è una “consimilis infectio” che si trasferisce fra due corpi diversi attraverso particelle minime e impercettibili. All’origine si pone la putrefazione del corpo dovuta al calore  e umidità innati che evaporano da esso; le particelle disgregate dalla putrefazione si uniscono in movimenti composti che vengono esalati dai corpi infetti e che costituiscono la diffusione dell’infezione”.

Nessuno aveva pensato ai ratti e alle pulci, animaletti con i quali si conviveva perché considerati domestici e la pulizia personale (le pulci prediligevano le ascelle e l’inguine, dove poi si formavano i bubboni!), mentre la religione la considerava peccaminosa, con il primato (tra i tanti!) di santa Caterina da Siena che non si era mai lavata (ma si diceva che anche per diversi mesi il suo intestino fosse rimasto fermo ... e questo non voleva dire che magari odorasse di santità!), ma ciò riguardava anche i concorrenti dei cattolici, rappresentati da Martin Lutero con il suo odore pestifero. 

Ma non erano solo i religiosi a non lavarsi; vi erano i re, come Luigi XIV, il grande re Sole, riprodotto in tutta la sua maestà (Art. Veleni, filtri d’amore ecc. P.I) con le scarpette col tacco rosso e le calze di seta ... ma gli puzzavano maledettamente i piedi, perché non si lavava (l’aveva fatto solo due volte in tutta la sua vita; bagnava solo le mani nella bacinella con acqua e alcol!)  ... e vi era anche Carlo II di Spagna, suo pronipote che oltre ad avere accentuate le deformità degli Asburgo puzzava perché non gli piaceva lavarsi: Ma erano sempre i re!

Nell’Atene  pagana, si riteneva che fosse Apollo a scagliare le frecce della peste; nella evoluzione del cristianesimo, le frecce erano scoccate da Dio; e san Sebastiano, che era un militare, sotto l’imperatore Diocleziano (nato a Narbona e morto a Roma tra il 286/7 e 304), era sopravvissuto alle frecce della peste divina e fu considerato protettore delle pestilenze e i milanesi avevano messo la città sotto la sua protezione; le ferite che egli mostra nelle sue riproduzioni artistiche, tenendo il braccio sollevato, per mostrare l’ascella con la sua guarigione, corrispondevano ai bubboni della peste.

San Sebastiano, collegato alle teorie miasmatiche, fu affiancato da san Rocco nel XV sec. a sua volta collegato alle teorie innovative che vedevano la peste come una malattia del corpo, piuttosto che proveniente dall’aria.

Le frecce, secondo la tradizione biblica, erano considerate lo strumento del castigo divino e le periodiche epidemie, metafore del castigo, costituivano le punizioni inflitte da Dio per i peccati commessi dagli uomini.         

Considerata malaria determinata dal castigo di Dio e dalle congiunzioni astrali. si riteneva derivasse dalla putrefazione dell’aria che causava la putrefazione degli umori dei corpi, determinando febbri e bubboni; collegata quindi a luoghi in cui acqua e aria erano inquinati e stagnanti e alle condizioni meteorologiche con alta umidità, nebbia e piogge.

Era stata personificata in un mostro o un drago e la moltiplicazione di pulci, cimici, ratti era considerato preannuncio di peste; la prevenzione, diffusamente considerata da tutti, cristiani e profani, era la preghiera!

Gli elementi essenziali collegati alla gestione della epidemia erano l’oro, il fuoco e la forca: Con l’oro la città doveva disporre di danaro per far fronte ai mancati guadagni  derivanti dalla interruzione dei flussi commerciali e traffici e disponibilità per la costruzione di lazzaretti; la forca serviva per controllare il movimento delle persone, in quanto responsabili per la diffusione del morbo erano considerati i poveri, o i vagabondi e le meretrici che circolavano liberamente; il fuoco infine serviva per la purificazione dell’aria.

Il cinquecento è l’epoca di maggior interesse per gli studi sulla peste e numerosi furono i testi scritti sull’argomento, in particolare tra Padova e Venezia, come risulta  dalla bibliografia riportata in nota (*).

Questa peste, definita per il periodo in cui si era verificata, del “rinascimento”, sarebbe iniziata già nel 1526 (ma anche prima se Giorgione era morto di peste nel 1511), diffondendosi nelle grandi città quali Venezia, dove secondo Sanudo (1527) vi erano stati più di dodicimila morti, con i corpi disseminati per le strade; Milano e Napoli, continuando negli anni successivi 28, 29 e nel 1530 a Venezia, dove ventimila veneziani si erano rifugiati in campagna, fece quasi quattordicimilacinquecento morti.

Giunse a Modena a luglio, cessando a novembre; la peste padovana (1556)  iniziata a giugno era terminata a settembre: si sa che la prima vittima che aveva diffuso il morbo aveva un tumore alla gola; di tutte quelle che le avevano precedute, le più terribili furono quelle del 1575 e 1577.

 

 

BIBLIOGRAFIA DEI TESTI CINQUECENTESCHI VENEZIANI E PADOVANI.

 

Fasciculus Medicinae con argomenti di carattere medico attribuito a Johannes de Katham illustrata da 10 tavole destinate all’insegnamento che segna l’inizio di questi studi nell’età moderna e raccoglie una sintesi delle principali patologie di interesse medico-chirurgico: Urologia, astrologia medica, flebotomia, ostetricia e ginecologia. Consiglio sulla peste di Pietro da Tassignano. Le proprietà dei farmaci di origine vegetale e l’Anathomia secondo le indicazioni di Mondino de’ Liuzzi.

Pubblicato a VE nel 1491 da Giovanni e Gregorio De Gregori

Consiglio sopra la peste di Vinetia (1556) di Bernardino Termitano (1517-1576.

Informazioni del pestifero e contagioso morbo della città di Palermo (1576) di Gianni Filippo Ingrassia  (1510): Introdusse un rigido isolamento e si ebbero 3.ooo morti, mentre a Venezia dove non si procedette all’isolamento ve ne furono 60mila.

Il poemetto: Canzone fatta intorno allo stato calamitoso dell’inclita città di Venezia nel colmo dei suoi maggiori passati travagli per la peste (1576-77) di Benedetto Leoni, Vescovo di Arcadia: E’ una specie di preghiera, senza riferimenti storici o medici.

De Peste libri duo (1579) di Alessandro Masseria (1510-1598): Si incentrava sulla purificazione dell’aria corrotta, ritenuta veicolo di trasmissione “tenuissimas particulus putrida et maligna”, da purificare con suffumigi, lavaggi di stanze e oggetti con aceto e acque profumate. Eseguì la prima autopsia di cadavere morto di peste. La peste a Vicenza colpì 3omila persone.

De Simpathya et Antipathya rerum liber unus e De Contagiosis Morbis et Curatione Libri Ter  VE 1546 di Girolamo Fracastoro (1476-1553).

Ragionamento dell’ecc.mo N. M. sopra le infermità che vengono dall’aere pestilenziale del presente anno 1555, in Venetia, 1556, di Niccolò Massa (1489-1569) e “Liber de Febre pestilentiale” pubblicato il 1540 in cui distingueva la peste (termine all’epoca generico) dal tifo petecchiale (determinata da febbri intermittenti con eruzioni cutanee-petecchie, in varie parti del corpo) e da altre malattie epidemiche.

Secondo Massa l’epidemia era causata dall’aria perché la malattia colpiva tutti indistintamente, giovani, vecchi, uomini  e donne. Oltre alla purificazione dell’aria con suffumigi e lavaggi degli ambienti egli sosteneva un regime specifico per ristabilire il regime degli umori; insisteva sulla necessità di pulire costantemente strade, canali, fiumi ed evitare il ristagno di acque.

Consiglio sopra la pestilentia quì di Padova nell’anno MDLV dell’ecc.mo M.F.F. fatto a richiesta di questi illustri signori di questa città di Francesco Figimelica (n.a PD il 1490): Pur basandosi sulle distinzioni classiche fra malattie epidemiche ed endemiche e pur ammettendo le epidemiche causate dai miasmi dell’aria, egli mostrava aderire alla teoria del contagio di Fracastoro, per cui la peste si poteva trasmettere solo attraverso il contatto tra due persone o attraverso la mediazione di un fomite; il modo per non ammalarsi era quello di fuggire e stare lontano dalle persone infette.

Historia della peste di Padoa dell’anno MDLV di Cristoforo Baravalle: E’ un trattatello in versi  in cui descrive la peste che ha colpito Padova, causando oltre 400 morti. Con i versi riesce a trasmettere il ritmo incalzante della peste che si espande a macchia d’olio spargendo il terrore tra la cittadinanza che fugge per le campagne, dalla chiusura della città di VE, dall’isteria che porta ad appiccare fuochi agli angoli delle strade e  impiccare individui sospetti di propagare il male intenzionalmente e non.

De Pestilentia Patavina Anno MDLV, di Ludovico Pasini medico docente all’Università di PD. Tratta della causalità della peste, delle forme di contagio, di misure preventive. Anche lui sostiene la teoria miasmica, unita a quella contagiosa, propendendo però per questa. Negava quella della causalità astrologica, sottolineando che a PD non vi era stata alcuna congiunzione planetaria che avesse potuto giustificare l’epidemia del 1555. Il testo manca di informazioni storiche.

-  De pestis pestiferarum omnium affectum causis signis, precautione & curatione libri IV; Apologia pro Galeno tum in logica tum in philosophia tum etiam in medicina libri III.

De coene et prandij portione libri II, di Oddo degli Oddi (1478-1558); dopo aver insegnato lettere classiche a PD si laureava in medicina. Fra i massimi esponenti del galenismo fu soprannominato l’anima di Galeno; nel De Pestis considerava la peste come una corruzione dell’aria provocata da cause ambientali, mentre il contagio poteva contribuire alla sua diffusione. La preservazione e la cura si concentravano sulla purificazione degli umori attraverso purghe e salassi e una dieta adeguata.

Il successo della peste occorsa a Padova l’anno  MDLXXVI- VE- Appresso Paolo Magiatti 1576 di Alessandro Canobbio.

Niccolò Ornameto suo concittadino divenuto vescovo di Padova  nel 1570 lo chiamò come segretario della città e nel 1576  in occasione della peste la descrive rendendo il testo suggestivo in quanto non si limita a riportare gli eventi, ma propone personali interpretazioni sulle cause e natura della pestilenza e al termine del trattato fornisce indicazioni profilattiche e terapeutiche.

De Pestilentia Hieronymum Mercurialis Foro Iuvensis Medici Praeclarissimi Letiones Habitae Patavi 1577 Mense Ianuarii Quibus De Peste Universum Praesertim Vero De Veneta et Patavina Singulari Quidam Eruditionem Tractatur di Girolamo Mercuriale. Venetia a Paulum Maietum 1577.

Girolamo Mercuriale (nato a Forlì nel  1530) aveva studiato medicina a Bologna; nel 1576 fu chiamato a Venezia, con Girolamo Capodivacca (v. sotto, La diatriba ecc.), per consulto sulla peste che si stava diffondendo. Ritenne  che non si trattasse di peste  in quanto la mortalità era troppo bassa e la malattia stava colpendo principalmente i poveri e proibì le misure di isolamento  messe abitualmente in atto a Venezia, con l’effetto di far progredire l’epidemia che alla fine uccise 50mila veneziani. Tornato a PD scrisse De pestilentia con cui tentava di discolparsi  scrivendo che la malattia era divenuta peste vera e propria solo a partire dal luglio 1576 dopo il suo intervento. 

Elegia De Horribili Patavini Civitatis Pestilentia MDLXXVI - Patavi 1557 di Olivierus Tolenellus: letterato, il poema ha lo scopo di mostrare le miserie della terribile pestilenza del 1576 per suscitare un senso di pietà religiosa e il desiderio di redenzione. La peste è considerata come segno dell’ira celeste di fronte alla quale l’arte medica nulla può.

Questi testi si trovano per la maggior parte presso la Biblioteca Civica di Padova.

 

 

 

Trasporto a Venezia di appestati e sospetti al Lazzaretto

 

 

LA PESTE A VENEZIA

E LA DIATRIBA TRA MEDICI

PADOVANI E VENEZIANI

 

 

A

 Venezia la peste era giunta da Trento (il 25.VI.1575), portata dal mercante  Vincenzo de’ Franceschi, dove costui si era recato per acquistare della mercanzia; egli abitava nella contrada san Marziale con la moglie, figli e fantesche; nel frattempo aveva venduto la merce acquistata e dopo sette giorni dal suo arrivo, moriva, senza che si  sospettasse che fosse morto di peste; solo dopo la morte di tre donne intervennero i procuratori della Sanità che trasferirono le due donne rimaste vive ritenute infette, con roba e masserizie, trasportandole di notte al lazzaretto dove roba e masserizie furono  bruciate.

L’intervento, pur tempestivo, dei procuratori che avevano disposto la separazione delle persone sane dalle malate, avevano proibito ai venditori ambulanti di vendere la loro merce per le strade e avevano disposto l’uccisione di tutti i cani e gatti affinché non andassero da un luogo a un altro seminando il morbo, non impedì il suo propagarsi.

Il Senato provvedeva a chiamare due medici dell'Università di Padova, Girolamo Mercuriale da Forlì e Girolamo Capodivacca, i quali pur pronunziandosi per la gravità del morbo, lo ritennero privo di ogni infezione; al contrario i medici veneziani sostenevano che il morbo si trasmetteva, come dimostrato dal de’ Franceschi, che essendosi infettato a Trento, l'aveva  trasmessa nella propria contrada, per passare poco a poco, alle altre; inoltre negli infermi si erano riscontrati gli stessi segni, febbre acuta, vale a dire ardore, vigilie (insonnia), sete, frenesia, pustole, lividore e altri indizi di pestilenza; e gli stessi sintomi si erano osservati nei cadaveri; quindi occorreva togliere gli infermi con i loro assistenti, dalla vicinanza con i sani.

Concludevano i veneziani non esservi altri rimedi che quelli opportuni contro la peste e ove non si fossero usati, il mortifero veleno avrebbe in pochi giorni rapito grandissima  massa di gente.

I due Girolami invece, sostenevano che avendo il male già fatto immensa strage nella più minuta e trascurata plebe, verosimilmente non si sarebbe sparsa ulteriormente e non avrebbe contaminato la città: si ponessero quindi dei limiti alle case povere e abiette, alle taverne, a coloro che travagliati dai bisogni non avevano con che ripararsi, lasciando libere le abitazioni ampie ed aperte e risparmiando i cittadini e i patrizi.

I due medici padovani si dichiararono anche disposti a visitare gli ammalati, senza paventare di correre rischi per la loro vita che era a loro cara e che avrebbero, con la loro esperienza, usato gli opportuni mezzi per la guarigione degli infermi.

In questa discrepanza di opinioni in Senato si erano formate due correnti: una sosteneva a bocca baciata (senza difficoltà) i medici padovani, i quali ritenevano che era inutile suscitare allarmi di terrore in ogni ordine di persone e allontanando dalla città i forestieri e i trafficanti sarebbero derivati danni alla circolazione del danaro e una diminuzione di introiti di gabelle, dando ai nemici della repubblica un incentivo per procurare noiose novità.

L’altra sosteneva, dei medici veneziani che se si fosse temporeggiato e tirato innanzi, sarebbero aumentate le disgrazie che già si provavano e che si volevano evitare; ma prevaleva l’autorità dei professori di Padova i quali chiedevano che a tutti fosse permesso di circolare liberamente; che non venisse vietata la libertà dei cittadini e per rimuovere dall’animo della impaurita plebe ogni timore, ritirare le barche che erano state imbiancate per trasportare dalla città i cadaveri con i loro indumenti.

Aspre e perigliose sembravano tali misure, tuttavia in Senato era prevalsa tale sciocca opinione dei medici padovani; fatto il decreto, se ne rallegrava tutta la città e l’infelice e ingannato popolo che senza saperlo stava già sull’orlo di un più profondo e spaventoso abisso (*).

Intanto a Mercuriale e Capodivacca erano stati affiancati quattro medicastri veneziani vili e svergognati cortigiani, i quali ad onta di qualsiasi evidenza li sostenevano e due sacerdoti gesuiti incaricati di somministrare ai moribondi gli estremi soccorsi religiosi.

 

I DUE MEDICI

PADOVANI SONO

LICENZIATI

 

 

T

utti si accorsero che la forza del male si avviava al peggio e si diffondeva anche in quelle parti della città che non erano mai state contaminate;  per di più uno dei chirurghi padovani moriva e moriva anche uno dei due sacerdoti gesuiti.

Cessata quindi la causa della diatriba in quanto con queste evidenze i due medici Mercuriale e Capodivacca non avevano più nulla da opporre, dopo aver dichiarato di mettere a disposizione della repubblica il loro ardente zelo e offerto alla facoltà la loro vita, furono licenziati, non senza che vi fosse stato chi avesse voluto fossero processati coloro che avevano suggerito fossero chiamati per la loro conclamata celebrità.

Mercuriale (v. bibliografia sopra), tornato a PD scrisse De pestilentia con cui tentava di discolparsi scrivendo che la malattia era divenuta peste vera e propria solo a partire dal luglio 1576 dopo il suo intervento. 

Il Senato quindi decretava:  Che in ognuno dei sei sestieri in cui la città era divisa, fossero elette tre persone, tra quelle che avevano cura del proprio sestiere e altre tre fra le settantadue parrocchie esistenti, una patrizia, una cittadina e una plebea,  per provvedere ai bisogni degli infermi, che vigilassero che non fossero portati all'esterno e a non far uscire di casa coloro che fissero sospettati di essere malati, riferendo a quelli che sovrintendevano al sestiere e costoro ai procuratori alla Sanità

Decretava inoltre, con minaccia  di finire sulle galee, di tortura, di multe, in prigione, alla gogna o frusta o di morte, che nessuno potesse portare in giro alcunché; che i fornai non dovessero entrare nelle case per la consegna del pane, ma stando sulla porta della strada; che i guardiani alla sanità dovessero vigilare le case affidate alla loro sorveglianza e da esse non dovessero allontanarsi se non dopo l'arrivo del loro sostituto;  le scuole per ragazzi e ragazze erano sospese; che nessuno potesse andare in giro per vendere cenci, ferro e canapi vecchi; che non fossero buttate le immondizie in strada e ognuno dovesse tener pulita la parte antistante alla propria casa; che prima dell'alba fossero giornalmente purificati gli smaltitoi (raccoglitori del contento di padelle e pappagalli degli ospedali) e che i facchini dei “campi" (le piazzette veneziane), dovessero mantener pulite le cisterne; che non si facesse entrare o uscire dalla città qualsiasi cosa se non attraverso i cancelli e palafitte ordinarie; che nessuna chiesa o scuola venisse adornata da tappezzerie diverse da quelle normalmente usate per il loro ornamento; che nessuno potesse accostarsi o appoggiarsi alle mura di una casa  infetta o sequestrata; che fosse proibita la vendita della cattive e putrefatte grascie (alimenti); nelle bische e taverne non dovesse darsi da mangiare, bere e giocare; che monache e frati questuanti non potessero entrare nelle case altrui ma fermarsi al limitare della casa.

Ma tutti questi accorgimenti furono vani!

Il doge e i padri della repubblica, vedendo che tutti gli accorgimenti e i rimedi utilizzati erano risultati vani, non videro altra possibilità che rivolgersi all'assistenza del Cielo; ma anche il ricorso alla fede non fece che aumentare il numero dei morti (che furono cinquantamila v, nota*) a causa degli assembramenti dovuti alle processioni e di coloro che deboli, fievoli  e magri avevano affollato la basilica per pregare ... e il mancato ascolto di Dio fu giustificato con il suo sdegno per i peccati del popolo!

 

 

*) Da agosto e fino al successivo mese di febbraio (1576) vi furono  tremila seicentonovantun morti, ma nel corso dell’anno incrudelì, facendo cinquantamila morti; quando cessò il Senato fece costruire dal Palladio alla Giudecca una chiesa dedicata al Redentore ... che l’avrebbe fatta cessare; e la festa del Redentore è magnificamente celebrata ogni anno ad agosto; per di più si era incendiato il palazzo ducale; per fortuna non tutto il palazzo andò distrutto, ma centinaia di capolavori andarono ugualmente perduti.

                                            

 

 

LA PESTE MANZONIANA

PORTATA DAI

LANZICHENECCHI

 

 

I

l 1600 considerato “il secolo pomposo e sciagurato”, alle guerre, rivolte e  rivoluzioni, si ritrovava anche con la peste (1630), preceduta per di più dalla carestia, ambedue funeste per la Lombardia (*) e in particolar modo a Milano.

Il popolo era stato colpito dalla fame, non all’improvviso, ma per gradi: si cominciò col chiudere le botteghe (scrive Ripamonti), da cui il popolo traeva la sussistenza; la plebe, priva di lavoro con cui guadagnava il pane, cominciò a stentare, quindi a languire di fame e in ultimo a morire.

La moltitudine era divenuta mendica; sfiniti per mancanza di cibo, quei poveracci  vagolavano con faccia cadaverica e poi cadevano morti per le strade; più ne rapiva la morte, tanto più ingrossavano quelli rimasti che ogni giorno piombavano nell’ultima miseria; e quasi non bastasse la folla di mendichi, ne accorrevano dalle campagne e altri giungevano dalle città vicine e dall’estero, come ad un asilo sicuro dove non sarebbe mancato alimento, illusi dal nome di Milano e ignorando la triste condizione in cui era caduta la città.

Vid’io (prosegue Ripamonti) passeggiando lungo le mura, una donna con un fardelletto sul dorso e un bambino in fasce, indotta a uscire dalla città con il bimbo e gli oggetti più cari; sopraggiunta dalla morte, cadde estinta appena al di fuori delle porte; le usciva di bocca un pugno d’erba mezzo masticato, il cui sugo verde le imbrattava le labbra, prova della rabbiosa fame, il bambino vagiva sul cadavere della madre; alcune persone compassionevoli raccolto il bambino se ne presero cura allontanandosi dal cadavere; si raccontava di parecchi casi simili, alcuni più atroci per i quali la morte era il più lieve dei mali; alcuni per mancanza di cibo e per fame, ponevano termine alla loro vita gettandosi dall’alto delle mura.

Poi giunse la peste portata “dai luridi lanzichenecchi, che nella loro marcia (1629) disseminarono la peste, di cui sempre uno “spruzzolorimane negli eserciti; sulla loro via cominciarono a scoprirsi cadaveri di sozzi bubboni”; ma i focolai prima del loro arrivo erano nei Grigioni e Canton Ticino da dove erano passati ventiduemila fanti e tremilacinquecento cavalieri.

Da costoro, Pietro Antonio Locato, un soldato che si trovava in Valtellina, aveva acquistato o rubato abiti dai lanzichenecchi; aveva avuto la licenza, recandosi presso una sua zia, Elisabetta, dove né visitato, né custodito s’infermò; era andato all’Hospital grande con un tumore al braccio nonché con un bubbone sotto l’ascella sinistra; all’ospedale erano stati in tre ad averlo toccato.

Il 3 agosto erano morti di peste due di Comino a tre miglia dalla città, il male raggiunse Milano e si diffuse nel borgo degli Ortolani; in quest’anno si celebrava a Milano il Giubileo voluto da Carlo Borromeo e concesso dal papa (Gregorio III), che aveva richiamato schiere di popolo e non è da meravigliarsi (prosegue Ripamonti) che alcuni, provenendo da zone infette, portarono la peste.

Mentre il Tribunale della Sanità prendeva gli opportuni provvedimenti per non farla diffondere (memori della precedente del 1524) furono alzate colonne con le croci ai quadrivi per invocare la clemenza di Dio e si pensò al “Chiodo” che si trovava nel Duomo (ritenuto infisso nel corpo del Redentore quando fu crocifisso!), posto in una croce, portata dall’arcivescovo Carlo Borromeo (1538-1584) in processione.

I magistrati del Tribunale erano contrari per timore che la peste si dilatasse, ma per le insistenze dell’arcivescovo, spinto eccessivo da zelo, di processioni ne fece tre (3, 5, 6 ottobre) andando a visitare le chiese di san’Ambrogio, san Lorenzo e san Carlo, portando il santissimo Chiodo, con grande partecipazione di popolo e clero la peste con funi al collo e piedi nudi.

La peste non si fermò e raggiunse il pavese, il lodigiano, e altri luoghi e nell’anno seguente aveva raggiunto picchi altissimi incrementata da processioni e i raduni nelle chiese ce nessun santo avrebbe potuto fermare. 

L’arcivescovo Carlo, santificato per la sua carità cristiana, piuttosto che per aver fermato  la peste, era dedito all’assistenza ai poveri (per precauzione andava in giro in una portantina di vetro), che circolavano quasi ignudi per mancanza di indumenti; poiché stava per arrivare il freddo, per non farli patire, spogliò tutto il guardaroba e tutto il palazzo dei drappi, mettendoli in vendita, o fece tagliare le tappezzerie, i drappi, gli arazzi dell’arcivescovato e li fece fare in diverse forme, con il cappuccio che sostituiva il cappello; erano state utilizzato anche ottocento braccia di panno rosso e settecento di pavonazzo (il viola mammola ecclesiastico), oltre ai drappi verdi e di altri colori; il risultato fu che si videro in giro e nel lazzaretto “i plebei abbigliati sfarzosamente di seta, di porpora e di altre stoffe preziose come se fossero stati soldati di un esercito con diverse livree e insegne”.

 

 

 

*) Stranamente la peste che aveva circondato tutta la città di Treviso, aveva lasciato la città indenne; anche Ferrara si preservò in linea di massima avendo avuto solo qualche caso; la città di Faenza si mantenne indenne e bloccò la peste proveniente da Bbologna, altrimenti si sarebbe estesa per tutta la Romagna: ciò era avvenuto perché i faentini avevano messo guardie al fiume e un degno prelato che faceva parte di quel governo compariva a cavallo per controllare le guardie e i passi più facili da controllare, tenendo in piedi, fuori della città le forche e non risparmiava né castighi né terrore ai disobbedienti che volessero entrare in città. Così la città di Reggio, benché posta tra Modena e Parma ambedue infette, si mantenne lungamente fino a quando il male fu portato da un personaggio che era al di sopra delle leggi; mentre altre località del ducato di Modena, sebbene confinanti con altre infette si tennero indenni per mezzo delle guardie e con la dovuta diligenza evitarono la disavventura!

Le città di Napoli (dove era giunta dalla Sardegna) da dove passando per Civitavecchia e Nettuno raggiunse di Roma e Genova, furono colpite negli anni successivi (1656).

 

 

Questo passo di Manzoni su Cecilia,

il più bello dei Promessi Sposi,

gli studenti dovrebbero riportarlo

sul proprio smart e impararlo

a memoria per perfezionare la loro scrittura.

 

 

S

cendeva dalla soglia di uno di quegli usci e veniva verso il convoglio una donna il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa e vi traspariva  una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestoso, che brilla nel sangue lombardo.

La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo. che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.

Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori.

Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta, ma tutta ben accomodata, coi capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva: se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’ omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, chè, se anche la somiglianza de’ volti non avesse fatto fede, I’avrebbe detto chiaramente quello de’ due eh’ esprimeva ancora un sentimento.

Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’ insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno disprezzo, « no! « disse: non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete  e così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: “promettetemi di non 1evarIe un filo d’ intorno, di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.

Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sui carro per la morticina.

La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise li come sur un letto, ce I’ accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse I’ ultime parole: addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’ io pregherò per te e per gli altri. Poi voltatasi di nuovo al monatto, voi, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me. e non me sola.

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.

Stette a contemplare quelle cosi indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve.

E che altro potè fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte I’erbe del prato.

 

 

IL TUMULTO DI SAN MARTINO

DURANTE LA CARESTIA

 

 

N

el periodo di carestia che aveva preceduto la peste (1628) a Milano, il Municipio e il Governo avevano utilizzato il Lazzaretto, (costruito per la peste dal Bramante), per raccogliere tutti i poveri che si trovavano in città, quelli venuti dalle campagne e quanti vagavano e giacevano per le strade ignudi e famelici, e scordando le proprie ristrettezze provvidero ai loro bisogni.

Di costoro in città se ne contarono 3. 534, con quelli giunti dalle campagne e città vicine raggiunsero il numero di 9.715 (ma vi fu chi riteneva che il loro numero fosse 14.000), furono alimentati di pane con dentro il riso; ma si scoprì che i fornai, per guadagnare, lo adulteravano con sostanze nocive; inoltre l’acqua da bere era corrotta, la paglia dei locali era fetida (ricordiamo che all’epoca vi era ancora l’uso medievale dei pavimenti sostituiti da paglia o fogliame) e non cambiata mai; il caldo eccessivo di quell’estate (1529) durante la quale non era piovuto per tre messi, svilupparono le febbri nel Lazzaretto con un puzzo insopportabile che aveva fatto svenire il senatore Arconato che si era recato in visita e questa sospesa e il senatore portato via.

A causa della scarsezza di frumento, il giorno di san Martino si ebbe un tumulto; nel passato ciò era avvenuto di rado perché l’agro milanese forniva grano in gran quantità, non solo a popolazioni vicine ma anche alle lontane; il tumulto era stato causato dalle misure adottate per calmierare il prezzo del grano.

Governatore era Consalvo da Cordova, il Gran capitano, assente per essere occupato all’assedio di Casale, sostituito dal Gran Cancelliere Antonio Ferrer che era stato la causa del tumulto.

Il Ferrer infatti, a causa della penuria di grano, aveva  adottato un provvedimento che era servito solo a protrarre il tumulto, in quanto i mercanti del frumento e i fornai,  che occorreva tener buoni, minacciavano di sospendere la vendita del grano e del pane; il prezzo minimo del grano andava dalle quaranta alle cinquanta lire; ma i ricchi incettatori e gli usurai  e gli stessi possidenti, in segreto, avevano fissato il prezzo in maniera esorbitante, fino a cento lire al moggio, e non ancora contenti chiusero il grano nei granai, ignorando le grida che richiedevano che ognuno dichiarasse di quanto grano disponesse.

Il Gran Cancelliere aveva pensato a una via di mezzo e far sopportare ai fornai una parte dell’aumento del prezzo e aveva stabilito che il pane fosse venduto al prezzo fissato per il grano, di trentatre lire al moggio, prezzo valevole sia per i venditori che per i compratori.

Ferrer riteneva che questo prezzo andasse a compensare i precedenti guadagni dei fornai e quanto avrebbero guadagnato in seguito (probabilmente li aveva lusingati promettendo di compensarli in seguito, a spese dell’erario!).

Ma i fornai se ne lamentarono, minacciando di chiudere i forni, ma il Cancelliere emise ugualmente il decreto; il popolo, atteso il buon prezzo del pane, si era recato in massa ai forni, tanto da mettere i fornai in condizione di non poter soddisfare tutti.

Le continue lamentele portarono Consalvo a nominare un presidente del Senato, due magistrati e due questori che rifissarono il prezzo del grano, aumentandolo di dieci soldi il moggio e questo scatenò la rabbia e il furore del popolo in quanto questo aumento accontentava i fornai, ma non la plebe che si aspettava un ribasso del prezzo invece dell’aumento.

 La mattina del giorno di san Martino, all’alba, quando i garzoni dei fornai uscivano con gerle e canestri pieni di pane per portarlo ai monasteri e alle case dei signori e per venderlo altrove al minuto, gruppi di ragazzi, giovani, donne e vecchi, spinti dalla fame assaltarono i garzoni, prendendo il pane che trasportavano: fu così che ebbe inizio la rivolta.

La moltitudine si era armata di bastoni, sassi e quanto capitava nelle loro mani; furono scassinate porte, dandovi fuoco; si fece man bassa di farina e grano, spargendone per terra e gettandoli per strada per disprezzo; altri riempivano i sacchi rubati, di farina e li portavano via; altri arrivavano con carri e tornavano più volte senza che nessuno li potesse fermare; le contrade da dove andavano e venivano i saccheggiatori erano bianche di farina come se fosse nevicato, preda dei poveri e dell’infima plebe che si affaccendava a raccoglierla.

I caporioni avendo trovato dai fornai danaro di molti giorni di incassi, lo rubarono; sfogata così la rabbia e non restando altro da rubare, sfogarono il loro furore prendendo tavole, canestri e utensili, facendone un mucchio al quale diedero fuoco e vi avrebbero buttato dentro anche i fornai e i garzoni se questi non si fossero salvati fuggendo a tempo.

Il capitano di giustizia fu colto da una sassata mentre fuggiva e andò a rifugiarsi in una casa andando a nascondersi in una soffitta dove rimase finché la folla non fu dispersa. 

Il merito andava al Gran Cancelliere Ferrer, venerabile per vecchiaia, che si era guadagnato la simpatia del popolo perché non temeva di esporsi in mezzo a quel parapiglia; nella carrozza che avanzava tra la folla (Ricordate quello che nel romanzo, diceva al cocchiere? “adelante Pedro, con judicio”), con la mano chiedeva silenzio, supplicando che lo ascoltassero, ora alzando le spalle, ora piegando la testa, mentre interrogava che cosa volessero e quando; cessato il fracasso, poteva farsi sentire, mettendosi la mano al petto, prometteva pane in quantità, sedando con la sua dolcezza il tumulto; ma più gli riuscì di dire ciò che il popolo desiderava sentirsi dire: Che veniva per condurre il vicario al castello dove, se fosse stato  colpevole di qualche ingiustizia nei confronti del popolo, sarebbe stato punito; e così con questa promessa, riuscì a salvare il vicario da morte sicura.

Ma “la casa del vicario era stata maltrattata, avendole non solo fracassate le invetriate sotto la porta et scrostata tutta la muraglia, ma mostrato risolutione di ammazzare e bruciare: e se tantino tardava il soccorso del castello, era fatto becco all’ocha”.

 

 

I MONATTI E GLI UNTORI

DURANTE LA PESTE

 

 

P

er non fare propagare la peste, oltre alla chiusura delle porte cittadine, per impedire l’ingresso ai forestieri, ai cittadini fu imposta la quarantena, con l’obbligo di rimanere nelle case e quando in alcuna di esse si manifestava  qualche sintomo del morbo, si provvedeva allo spurgo di tutte le suppellettili e di tutti gli oggetti di cui il malato aveva fatto uso.

La casa infetta era subito contrassegnata e il cadavere portato via dai monatti; se vi erano infermi erano portati nelle capanne costruite fuori le mura; altri monatti profumavano la casa e le pareti con storace (resina di albero indiano), incenso, pece; lavavano ogni parte con calce e ranno (pasta di acqua bollita con la cenere) e inoltre mescolando due libbre di incenso e una di pece li gettavano sul fuoco in modo che il salutifero vapore si spargeva per tutta la casa!

A questi incombenti provvedevano, come detto, i monatti (così chiamati a Milano ma altrove erano beccamorti); seppur già attivi nelle precedenti pestilenze, erano forniti di regolare licenza e indossavano un camiciotto di tela incerata e indumenti stravaganti, con appesi dei campanelli che avvertivano del loro arrivo; erano muniti di una lunga picca che serviva per prestar soccorso mantenendo la distanza.

Sono stati descritti come  gente di poca o nessuna carità, dall’aspetto ripugnante, con facce orribili e voci spaventevoli; dediti a ruberie; i morti venivano loro consegnati se non ignudi, quasi, e certamente senza superfluità di cui si sarebbero serviti come spoglie per appestar altre persone;  invadevano le case e trasportavano quanto vi si trovava; violentavano le figlie e le consorti sotto gli occhi del padre o marito agonizzante, e strapazzi di donne morte; estorcevano denaro con la minaccia di portare  i figli o le spose, benché sani, al Lazzaretto; non era raro vederli mangiare seduti sui mucchi di cadaveri che erano sulle carrette; una grida del 1576 emessa a Milano, vietava alle persone, specialmente alle donne e fanciulli, di avvicinarli quando li incontravano in carretta o altrimenti, sotto pena di tre squassi di corda.

 

     

 

 

Passiamo ora agli untori, argomento che abbiamo riservato per  ultimo perché strettamente legato allo squallido processo che ne era conseguito con la truce e raccapricciante sentenza che aveva  condannato, nel modo più atroce immaginabile, degli innocenti, già sottoposti a crudele e ripetuta (non consntita!) tortura, ad essere ulteriormente torturati prima di essere definitivamente giustiziati; i condannati (indicati in Osservazioni sulla Tortura di Verri) erano, con una prima sentenza, Gian-Stefano Baruello; e con successiva sentenza, Giangiacomo Mora, Guglielmo Piazza, Gerolamo Migliavacca (Foresé), Francesco Manzone e Caterina Rozzana, condotti su un carro, strada facendo: “attanagliati in più parti, tagliata la mano (con cui avevano unto i muri), rotte le ossa delle braccia e delle gambe, si intralciarono (furono avviluppati) vivi sulle ruote e lasciati agonizzanti per sei ore, al termine delle quali furono – (finalmente!) - dai carnefici scannati, poi bruciati e infine le ceneri  gettate nel fiume”; la sentenza aveva inoltre previsto la demolizione della casa di Giangiacomo Mora, perché, a ricordo, sul posto fosse messa la Colonna Infame!

Questa sentenza aveva fatto rivoltare la coscienza del Manzoni (ma anche la nostra!) che aveva scritto la “Storia della Colonna infame” (leggetela, si può scaricare da Google libri, messa a disposizione non da una Biblioteca italiana, come sarebbe stato logico .... trattandosi di un’opera di autore italiano - come fanno i francesi per tutte le opere dei loro autori - ma dalla Biblioteca dei Gesuiti di Chantilly!!!), da cui poi era scaturito il celebre romanzo.

Manzoni in riferimento alla tortura, cita il testo di Pietro Verri, “Osservazioni sulla tortura” (il testo si trova in aggiunta all’indicata Storia della Colonna infame e si trova anche in Google libri ... messo a disposizione della Biblioteca Palatina di Vienna!); Verri nel suo testo descrive anche minutamente il processo agli untori, con gli interrogatori di quei poveracci sottoposti a tortura!

Ciò che fa fremere di indignazione è che nonostante l’evidenza non solo delle prove (il ranno fatto esaminare dalle lavandaie!) ma le confessioni che imputati e testi fecero per le insopportabili torture subite, i giudici avevano mirato deliberatamente  alla condanna e purtroppo storici come lo stesso Ripamonti, il veneto Batista Nani, il Muratori e Pietro Giannone e perfino Benedetto Croce, avevano creduto agli untori inumani carnefici e Pietro Giannone (accusato non solo da Manzoni ma anche da Voltaire, che secondo comincia facendogli un elogio, per poi criticarlo, di aver copiato intere pagine della sua storia dal poco conosciuto Antonio Domenico Parrino, senza citarlo!).

Questo caso di mala giustizia che sembrava dover rimanere unico nella storia, non lo è stato in quanto ne abbiamo avuto un altro,nei tempi attuali, che lo pareggia; è il processo contro Enzo Tortora assolutamente innocente e condannato nella prima sentenza, con la consolazione di una successiva sentenza di assoluzione ma, il povero Tortora non si era potuto consolare, perché nel frattempo (1988), era morto di cancro che gli era scoppiato quando lo avevano arrestato e tenuto in carcere, perché considerato pericoloso spacciatore di droga, nell’attesa del giudizio!

 

 

LA PESTE DI LONDRA

DEL 1665 NEL RACCONTO

 DI DANIEL DE FOE

 

 

N

el 1722 vedeva la luce il libro A Journal of the Plague Year  (Giornale dell'annata della peste) di Daniel De Foe (1659-1731), pseudo-documentario come era nello stile dello scrittore (autore del “Robinson Crusoe”); il libro aveva il seguente sottotitolo-sommario, secondo l'uso del tempo: “contenente osservazioni o testimonianze sugli avvenimenti più notevoli, pubblici e privati, che ebbero luogo a Londra durante l'ultima grande epidemia del 1665, scritto da un cittadino che visse durante tutto quel tempo in Londra e finora inedito”.

Daniel De Foe, non era uno scrittore che cercasse l’immortalità, ma lo faceva per sete di guadagno; tra l’altro era dotato di fiuto mercantile e quindi aveva una qual certa sensibilità per gli argomenti che potessero solleticare il pubblico e gli permettessero di guadagnare dalla vendita dei suoi libri.

L’occasione della peste diffusa in tutta Europa gli parve un soggetto che poteva rispondere al suo scopo, e a Londra vi erano ancora superstiti anziani che erano vissuti durante quella pestilenza di circa cinquant’anni prima, mentre a quei tempi il piccolo De Foe poteva avere cinque o sei anni.

Egli scrisse il libro seguendo il suo sistema delle false memorie, basandosi su testimonianze verbali raccolte da vecchi vissuti in quel periodo e ricercando documenti dell’epoca negli archivi cittadini e usando il suo talento di scrittore.

Peraltro, il libro era in aperto contrasto con la letteratura galante del tempo, senza romanticismi né propensioni all’orrido, ebbe un grande successo; esso si presenta come un lavoro giornalistico, in cui un sellaio racconta il flagello che si abbatté sulla capitale inglese; il racconto, preso da documenti di prima mano dà l’impressione di essere stato scritto proprio nel periodo della peste o poco dopo.

Purtroppo del libro non vi è traduzione francese, sebbene i francesi, che hanno sempre avuto l’accortezza di tradurre i libri inglesi, questo di De Foe, non si sa perché, se lo sono lasciato sfuggire, togliendoci il gusto di quella lettura!

 

 

 

FINE