Minucci porge il suo libro all’imperatore Sigismondo

 

 

 

Frontespizio del De Feudis di Minucci

 

 

 

 

FEUDI FEUDALITA’

E LIBRI DEI FEUDI

 

MICHELE E. PUGLIA

 

 

SOMMARIO: FEUDI E FEUDALITA’; VERSO LA FORMAZIONE DEI “LIBRI FEUDORUM”; SFATATA LA LEGGENDA  DEI LIBRI MANDATI DAL BARBAROSSA A BOLOGNA; L’IMPERATTORE SIGISMONDO INCARICA MINUCCI DEL RIORDINO DELLA MATERIA; L’ALZATA DI SCUDI DEI COLLEGHI INVIDIOSI; SAVIGNY CRITICA IL TESTO DI MINUCCI E NON RISPARMIA BARTOLO; MACCIONI MÉNTORE DI MINUCCI SULLE TRACCE DEL “DE FEUDIS”;  CHI ERANO GLI AUTORI DEL LIBRI DEI FEUDI LOMBARDI; I LIBRI DEI FEUDI LOMBARDI SONO ACCOLTI IN TUTTI I REGNI; I GIURECONSULTI DI NAPOLI ACCOLGONO I LIBRI FEUDALI E SUPERANO I COLLEGHI DEGLI ALTRI REGNI; LA SISTEMAZIONE DEI LIBRI FEUDALI DA PARTE DI CUJACIO E LA POSIZIONE DEL “DE FEUDIS” DI MINUCCI;  LA NUOVA IMPOSTAZIONE DEI  LIBRI FEUDALI DI CUJACIO;  PREMESSA SULLA CAOTICA SITUAZIONE DEL PAPATO; LA PARTECIPAZIONE DEL MINUCCI AI CONCILI DI PISA, COSTANZA E BASILEA.

 

 

 

 

FEUDI E

FEUDALITA’

 

 

L

a feudalità (*) di origine franco-germanica si potrebbe far risalire al diritto romano in cui troviamo i “beneficia” concessi ai milites (soldati a cavallo) e ai veterani, come stanziamenti militari per la difesa dei confini, ai quali erano annessi terreni agricoli ad essi concessi per la loro coltivazione che ne godevano dei frutti, con l’obbligo di rispondere alla chiamata in caso di necessità: essi erano assegnati alla parrticolare magistratura militum in ciui erano iscritti questi beneficia era assegnata a un magistrato (Forneri & Conti, Commentatio de Feudis, Leovardiae, 1694).

Essa era fondata su tre istituzioni: il vassallaggio costituito dal godimento che inizialmente Carlo Magno (v. Articoli: Carlomagno e l’idea dell’Europa), aveva concesso ai guerrieri che, a loro spese avevano combattuto per lui ed era personale, vitalizio e inalienabile.

Il beneficio con cui i beneficiati divenivano legalmente vassalli del monarca e gli giuravano fedeltà, riconoscendolo con l’omaggio proprio signore e obbligandosi a prestare gratuitamente il servizio militare, pagare tributi in natura o in danaro, concedergli ospitalità ed altro; successivamente il termine beneficio. usato per i veterani romani, fu sostituito (tra il 1025 e il 1078) da quello di feudum che equivale a “praedia civilia” fondo civile in  libero possesso, libero da servitù militari.

Occorre tener presente che Carlo Magno con la personalità che lo contraddistingueva, aveva ben tenuto a bada i suoi comandanti da lui nominati duchi, marchesi e conti (non ancora vassalli o feudatari in quanto il termine arriverà successivamente) ai quali aveva concesso parti dei territori conquistati, per amministrarli per suo conto (v. Art, cit. e “I primi re d’Italia) .

Tali concessioni seppur potessero durare per  tutta la vita, erano sempre nella disponibilità del monarca, nel senso che dovevano essere restituiti a sua semplice richiesta, ed erano quindi completamente avulse da qualsiasi concetto di eredità, nel senso che alla morte dell’assegnatario il territorio rientrava, senza alcuna formalità,  immediatamente, nella disponibilità del monarca.

Ciò durò fino a quando a Carlo succedeva il debole Ludovico il Pio e anor più gli altri discendenti, che si troveranno di fronte alle pressanti e prepotenti richieste degli assegnatari, che poco alla volta otterranno concessioni che li porteranno ad essere più potenti dei loro re (v. Il disfacimento dell’impero Carolingio e P. II, Gli ultimi Carolingi).

Dal beneficio, congiunto al feudo, concessi con l‘investitura, il beneficiato diventava feudatario; con l’investitura il feudatario godeva della immunità  ossia diveniva titolare del proprio feudo e in esso esercitava la giurisdizione che spettava al sovrano.

La immunità era stata concessa da Carlo il Calvo (823-877) con il Capitolare di Quiersy (v. in Articoli: I Carolingi e la dissoluzione dell’impero), trasmissibile agli eredi e il feudo diventava così perpetuo.

Carlo il Calvo aveva fatto anche altre concessioni che rendevano il feudo sempre più personale, come l’esonero del servizio militare, il diritto di battere moneta, di imporre tasse e in questo modo il feudatario potette godere di diritti sovrani; a questo modo, l’unico legame con il sovrano era costituito da un vassallaggio solo nominale, che faceva del feudatario un principe autonomo.

Il feudatario a sua volta concedeva benefici ai suoi fedeli, che invece legava a sé, con l’obbligo di servirlo come soldati a cavallo quando se ne fosse presentata la necessità, con altri obblighi: costoro divenivano così vassalli (il termine derivava dal celtico Gwas che denotava il ministro), del feudatario, vale a dire valvassori che a loro volta legavano a sé, con gli stessi criteri, i valvassini.

Il feudo poco a poco perse la sua principale funzione voluta da Carlo Magno, che era quella di tenere legato il feudatario al sovrano e con le autonomie concesse dai sovrani alle piccole formazioni cittadine denominate Comuni, il feudo andò verso il disfacimento, e, con il disfacimento dei feudi, sorsero i Comuni (v. Articoli: Formazione dei Comuni e lotte con l’Impero).

Ai capitolari e al diritto cnsuetudinario, seguì la legiferazione delle  diverse popolazioni europee (Longobardi,Burgundi, Bavari, Franchi, Angli, Goti)  primo fra questi (in Italia), lo jus longobardicus, con la redazione attribuita (ma contestata, come si vedrà più avanti) a Gerardo Nigro e Odofredo de Orto, consoli mediolanensi dell’imperatore Federico I Barbarossa  (1125-1190).

Seguiva il jus feudale francorum e jus germanicum antiquus (formato dai capitolari carolingi) e successivamente (intorno al 1208) al jus Suervicum, Alemannicum e Francicum compilato da Bertoldo conte di Grimmestein, seguito dalla raccolta dell’anonimo feudista (v. sotto), seguita da quella disposta da Federico II (1194-1250), aggiunta alle Novelle di Giustiniano (come scrive Schilter, Institutiones jus feudale, Lipsiae 1728) accoppiandolo all’allodio, che, in senso stretto, designava il patrimonio indisponibile della famiglia che poteva diventare proprietà individuale, quindi “feudo”, in senso lato, come bene concesso in cambio della “fidelitas”.

 

 

 

*) Il  feudalesimo  si può definire come quel particolare fenomeno di carattere economico,  politico e militare che aveva avuto inizio con il capitolare di Qiersy (877) in base al quale  Carlo il Calvo concedeva ai vassalli l’immunità con cui i feudi maggiori divenivano ereditari. Esso andò sviluppandosi  con il disfacimento dell’Impero che si frantumò completamente settant’anni dopo la morte di Carlomagno (814) con  la deposizione alla dieta di Tribur (887) di  Carlo il Grosso (v Art. I carolingi e la dissoluzione dell’impero). Da questo disfacimento  nacquero i nuovi Stati indipendenti (Germania, Francia, Provenza e Borgogna, Italia, Spagna).

 

                                                               

VERSO

LA FORMAZIONE

DEI LIBRI

FEUDORUM

                                                                                 

 

I

l primo accenno a un istituto feudale, fu scritto da Filiberto, Vescovo di Cbartres all’inizio dell’ XI sec. sullaForma della fedeltà” ( documento di cui da lungo tempo si sono perse le tracce). 

Quando Oberto dall’ Orto e Gherardo Negro (XIII sec.), Consoli in Milano, compilarono (1216) il Liber Consuetudines Mediolani vi inserirono quattro capitoli di consuetudini feudali, che, comprendendo il solo diritto longobardo, avevano vigore soltanto all’interno della Lom­bardia che affiancavano quelli del Gius feudale dei Franchi e il Gius Alamannico.

Si ritiene che questo testo accresciuto delle “Consuetudini”, con altre, riunite nei Libri feudorum (Libri dei Feudi *), da parte di un autore ignoto denominato “Feudista, divennero il  testo fondamentale dello jus feudale.

Migliorotto Maccioni (di cui parleremo più avanti), riteneva che Oberto e Gherardo, non fossero gli autori del testo emendato  in quanto, “in alcuni casi, risultava che le loro opinioni fossero contrastanti, il che si sarebbe ben poco conciliato con la loro paternità del testo, che invece con maggiori probabilità era attribuita a Presbiteri (Ugo di Porta Ravennte 1178) che provvide alla sua integrazione quando Federico I Barbarossa  ne aveva chiesto la integrazione  alla Università di Bologna e Ugolino vi aggiunse le Costitu­zioni di Corrado III e di Federico Barbarossa, con il titolo di “Decima Collazio­ne” che fu aggiunta alle Novelle di Giustiniano. 

Così questo Gius Longobardico versato nel Libri feudorum, si diffuse in tutte le parti dell’Europa, penetrato nei Fori e nelle Accademie di Germania ebbe il nome di Gius Feudale Comune.

Ma nelle mani di Bulgaro, Pileo da Prata (XI-XII sec), Ugolino, Corradino Vincenzio, Goffredo (v. in Articoli: Il Corpus Juris ecc.: Note) ognuno di essi aveva inseritio   glosse esprimendo proprie interpretazioni e opinioni col risultato che non solo  essi avevano complicato notevolmente la materia, ma l’avevano resa eccessivamente astrusa.

Solo con l’intervento di Colombino (anch’egli dello Studio di Bologna), con il suo prestigio (come riferiva Giasone del Maino), si mise un freno mise un freno all’imbarbarimento della materia e nessuno più osò aggiungere ai Libri dei Feudi ulteriori glosse.

Dopo la  metà XIIImo sec., Jacopo di Ardizzone fece delle aggiunte alla Glossa e aggiunse ai Libri Feudali una compilazione di cose giudicate (sentenze) che risultarono molto apprezzate dagli studiosi.

Ma con il sistema delle integrazioni si giunse, agli inizi del XVmo sec., come era stato scritto, fatta da persone non molto capaci  l’intero testo risultava poco soddisfacente per la funzione che doveva svolgere e su di esso si erano levate molte lamentele sulla pessima qualità e la poca fedeltà delle stesse parole delle Costituzioni im­periali, ivi riportate.

A questo punto la materia era così degradata che occorreva correre ai ripari, tanto che Molineo (Charles Dumoulin 1500-1566) in seguito commenterà che: “in ordine alla materia erano state inserite bestialità che creavano conflitti ed erano state accumulate buone e cattive consuetudini e Oberto e Gerardo (ai quali se ne attribuiva la responsabilità)  erano due pecore” ( **).

 Si era giunti a questo punto, quando l’imperatore Sigismondo incaricava Minucci  di riformare la materia.

 

 

 

*) In questi Libri dei Feudi fatti aggiornare da Federico II, non erano comprese le leggi feudali normanne quelle di Federico II riversate nelle Costituzioni di Melfi (1231).

**) Inventi... qui ordinem materiarum in ius observatum, vel neglectum potius, carperent, imò quaedam bestialiter ibi con­flituta , bonas, & malas consuetudines suissè cumulatas, Obertumque, & Gerardum fuisse duo pecora (in Schilter).

 

 

 

SFATATA

LA LEGGENDA

DEI LIBRI MANDATI
A BOLOGNA DAL

BARBAROSSA

 

 

P

ietro Giannone nella sua “Istoria Civile del Regno di Napoli” aveva affrontato la materia dei Libri Feudali, con una completa esegesi in cui aveva distinto, i testi che trattavano la materia in via generale (c.d  lombardi), commentati  dalla folla dei glossatori (alcuni noti, ma molti altri sconosciuti), che avevano finito per rendere la materia astrusa e incomprensibile; per di più, in essi era stato usato un linguaggio barbaro (come sarà definito da A. Pilati), che possiamo considerare i precursori degli odierni burocrati; per questo motivo li indicheremo... a memoria dei testi che erano stati utilizzati nel Regno di Napoli, che lo storico  riteneva differenti dagli altri .

Su queste Consuetudini dei regni di Sicilia e di Puglia, Giannone insiste considerandole diverse dalle lombarde, in quanto egli sostiene, gli abitanti avevano costumi differenti da quelli della Lombardia, ed erano state denominate con termine corrotto, “Defetari (come riferiva Ugo Falcando in “Historia Siciliae), con la conseguenza che in questi regni non si avvertiva alcuna necessità di ricorrere ai libri lombardi.

Pare che questa compilazione - precisava Giannone - si fosse resa nota ai giureconsulti dei regni del sud dopo l’anno 1187, quando il re Guglielmo II per la quiete dei suoi sudditi, aveva concluso le nozze della zia Costanza (tirata fuori dal convento dove si trovava in non più giovane età! ndr.) dandola in moglie a Enrico re di Germania, per far cessare le occasioni di discordie sugli imperatori d’Occidente.

Ma  la discordia avvenne ugualmente tra i baroni in quanto alla morte di  Guglielmo, essi non accettando Enrico come germanico, elessero loro re Tancredi, il quale ottenne l’investitura del regno, anche da parte del romano pontefice.

I Libri milanesi, cominciarono ad avere vigore, secondo Giannone, nel sud dell’Italia nell’ anno 1194 quando Enrico, dopo aver scacciati i normanni, essendo uscito vincitore, si era reso padrone del regno acquisendo, con il matrimonio, i beni dotali della moglie Costanza d’Altavilla.

Relativamente a questi primi Libri Feudali, Giannone risale proprio alla stesura di quei libri che ebbero origine in Lombardia, (dove vigeva il jus romano-longobardico), le cui consuetudini, egli dice, non ancora erano state raccolte in volume, alle quali erano state aggiunte le Costituzioni di Corrado il Salico (990-1039) e di altri imperatori, fino a quando, ai tempi di Federico I Barbarossa, ad alcuni giureconsulti milanesi venne in mente di raccogliere tutto il materiale tenuto così alla rinfusa.

Questi Libri milanesi, sebbene conosciuti (come decima collzione) non acquistarono alcuna autorirà di legge e non l’acquistarono nemmeno quando Federico Il,  figlio di Enrico, promulgò le sue Costituzioni fatte compilare da Pier delle Vigne; quando, sull’esempio delle altre città d’Italia, avendo ristabilita in Napoli l’Università degli Studi, era stata introdotta la lettura delle Pandette  (v. cit. Art. Il Corpus juris civilis: L’abbaglio ecc.) e degli altri libri di Giustiniano.

Non è infatti da considerare veritiera, precisa Giannone, la costante opinione secondo la quale i libri della decima collazione, con Federico I avessero acquistato forza ed autorità, e che, come detto, fossero stati mandati allo Studio di  Bologna, aflinchè ivi, si leggessero e si correggessero pubblicamente nelle scuole, e che ciò fosse stato fatto per suggerimento di Ugolino, come è stato testimoniato da Odofredo (citato da Panciroli fonte di Giannone).

Qual bisogno, si chiede Giannone, vi fosse, mandar questi libri a Bologna, quando in questa città essi,  da molti anni, eran conosciuti e pur letti dai bolognesi?

Anche molto prima, prosegue Giannone, aveva scritto le sue glosse Bulgaro, che per più anni aveva professato legge a Bologna, sin dai tempi di Federico I, dal quale fu fatto anche prefetto di quella città? (Panciroli).

Quando era parimenti notissimo in tutte le altre città di Lombardia, come se vi fosse nato; e molti scrittori d’Italia più antichi di Federico II aveano già cominciato a commentarli con le glosse come, oltre a Bulgaro, aveva fatto Pileo  ed altri indicati da Arturo (Duck) e indicaati anche dal nostro Andrea d’ Isernia ?

Odofredo non aveva scritto altro, se non che Federico Il aveva mandato ai dottori bolognesi, non già il Libro de’ Feudi, ma le sue Costituzioni e quelle degli imperadori d’Occidente, che seguirono quelle di Giustiniano, affinchè, siccome Irnerio, dalle Novelle, avea inserito nel Codice ciò che di quelle gli era parso essersi aggiunto di nuovo o corretto, così essi potessero fare di quelle Costituzioni aggiungendole al Codice (Corpus juris!), non già al Libro dei’ Feudi, sotto que’ titoli che pareva loro convenire; ed essi, infatti, riuniti a S. Petronio, “da quelle Costituzioni estrassero molte cose, che aggiunsero o adattarono alle leggi del Codice sotto i convenienti titoli”.

 

 

 

 

L’’IMPERATORE

SIGISMONDO

INCARICA MINUCCI

DEL RIORDINO

DELLA MATERIA

 

 

 

I

ntervenne l’imperatore Sigismondo (1368-1437), che dispose il riordino dei Libri feudali  e l’inserimento e  correzioni delle Costituzioni  im­periali; per questo lavoro fu incaricato il giurista Antonio Minucci da Pratoveccbio (nel suo testo era indicato Mincuccius, tradotto Mincucci, certamente refuso dell’editore al quale all’epoca non si potevano addurre immediate correzioni). 

Il testo portava infatti il titolo, “Antonii Mincuccius de Pratovetere libri sex ex omni veteri Feudorum jure nova ordinatione collecti”, ovvero “Ordinatio nova feudorum”.

Il giurista non solo provvide a riordinare tutta la materia, dividendola in sei parti, riportando le principali  Costituzioni Im­periali  (di Corrado, Lotario e Federico Barbarossa),    secondo il loro ordine, le Consuetudini e gli Usi dei Feudi, ma Minucci adottava una nuova impostazione, eliminando tutto ciò che vi fosse di spurio, con un ordine che risultava più  razionale e diverso  dai precedenti testi, come riferisce Maccioni; Minucci inoltre ebbe l’accortezza di evitare che comparissero glosse interpretative (geminazioni), “o testi contrari, altro che potesse rendere imperfetto l' importante la­voro”. 

Relativamente alla parte riguardante le disposizioni attinenti ai Feudi, la suddivise in XXVII Titoli, iniziando dalle  Persone e Investiture e terminando con i Delitti di lesa Maestà e Giudizi Feu­dali (*) .

Inoltre, sotto i vari Titoli inseriva i richiami alle “Costituzioni imperiali” ri­guardanti i Feudi e tutti gli Usi e Consuetudini feu­dali che si riferivano alla precedente Collezione; fu eliminato, infine, tutto ciò che potesse rendere imperfetto il mastodontico e certosino lavoro.

Avendo poi cambiato l'ordine del testo, Minucci riportava in apposita sezione tutte le .Glosse, facendo in modo che non potessero confondersi con il testo, come invece si era verificato in precedenza, per altro contrassegnandole, per distinguerle dalle proprie annotazioni che aveva inserito nel testo.

Apriti cielo! Tutto questo enorme e paziente lavoro aveva creato un subbuglio nel mondo accademico da parte dei malevoli e invidiosi colleghi da parte dei quali vi era stata una unisona levata di scudi (come si è sempre verificato in Italia quando si presenta qualche novità,sorgono dieci voci contrarie, come aveva detto un manager italiano residente in svizzera!).

 

 

 

 

*) I Titoli erano i seguenti: Titolo I. Delle Persone e dei modi delle Investiture. II. Del modo di acquistare i feudi. III.. Dello stesso argomento. IV. Dei sommi Im­peranti, e degli altri che possono concedere i Feudi. V. Dei modi particolari con cui si danno le Investiture. VI. Del Giuramento e delle forme della fedeltà. VII. Delle successioni Feudali riguardo ai Discendenti in via diretta.  VIII. Delle successioni dei Discendenti in via collaterale (Trasversali).  IX. De Feudi in linea fem­minile. X. Della vera natura della successione feudale in genere. XI. Delle cose particolari sulle quali si costituiscono i Feudi. XII. Dei Vassalli  e loro possessi e diritti. XIII. Dell' alienazione dei feudi. XIV. Dell' evizione Feudale. XV. Dell' ammissione dei Feudi e co­me questa possa intervenire senza colpa. XVI. Delle cause e delle colpe per le quali i Feudi si perdano. XVII. A chi si devolva il Feudo quando il vassallo ne viene privato. XVIII. Come possa essere privato ancora della proprietà. XIX. Dell' agnazione del Feudo.  XX. Del Giudice com­petente. XXI. Dell' ordine del Giudizio Feudale. XXII. Delle prove nei Giudizj Feudali, Testimoni e Giuramento.  XXIII. Della necessità di conservare la pace. XXIV. Della pace reclamata col giuramento. XXV. Delle consuetudini per conservare la libertà ecclesiastica e del togliere quelle che la distruggano. XXVI. Della pace di Costanza. XXVII. Dei Giudizi di lesa maestà.

 

 

 

L’ALZATA DI SCUDI

DEI COLLEGHI

INVIDIOSI

 

 

 

L

opera era stata scritta per l'Università di Bologna e nel Proemio Minucci, si rivolgeva ai colleghi di Giurisprudenza dell’Ateneo, pregandoli di presentarla con i suoi scritti all'Imperatore Sigismondo, al quale la dedicava, perchè con l’autorità imperiale se ne potesse  fare oggetto di pubblico dibattito.  

Ma vi era stata una levata di scudi da parte di tutti i colleghi i quali non solo si scahgliarono contro lo stesso Minucci operando una forma di stalkimg” nei suoi confronti con tutte le tribolazioni che gli facevano subire nell’ambiente universitario  e purtroppo dalle generiche accuse non siamo riusciti a distillare le modalità dei loro comportamenti.  

Quando Minucci aveva scritto (1481) il “Lessico” che costituiva un vero e proprio repertorio in cui aveva inserito tutto il corpo civile, con tutti i commenti primari degli interpreti, come si erano sviluppati nei secoli precedenti, lavoro del tutto nuovo che  agevolava la ricerca dei riferimenti  giurisprudenziali, l’opera, che per l’epoca era originale, non solo aveva suscitato l’invidia degli insegnanti, ma un docente dell’Università di Siena gli aveva contestato il riferimento a un argomento trattato nelle Pandette, affermando che non esisteva in nessuna parte del Digesto nuovo (*); il Minucci per dimostrare di aver ragione, fece  ricorso al famoso “Codice pisano” (**) che si trovava a Firenze, dimostrando la esattezza di ciò che aveva scritto.

L’ostinazione degli oppositori giunse fino all’imperatore Sigismondo, che non   concedeva l’autorità  (in seguito concessa, come vedremo, da Federíco III) e Minucci a causa degli interventi di questi suoi avversari, che screditavano il suo nome e la sua professionalità, decise di lasciare Bologna e trasferirsi a Padova (1429),

Essi sostenevano che l’opera fosse del tutto inopportuna, perché “già l'ordine dei Libri Feudali era generalmente riconosciuto e lo attestava il fatto che essa si era così consolidata nel corso di numerosissimi anni e tutti i dottori avevano accettato quella impostazione data ai commenti delle glosse e alle citazioni ivi riportate, per cui un tale capovolgimento avrebbe  turbato ogni suo ordine che avrebbe finito per alterare tutta la giurisprudenza feudale”.  In effetti essi avendo fissato nellae loro menti la precedente impostazione non volevano sottoporsi allo sforzo mentale di seguire la nuova impostazione, peraltro più razionale!

Ciononostante a Firenze e presso altre università l’opera ottenne ugualmente un risultato lusinghiero e  numerosi consensi (1432).    

Non si può negare, in ogni caso in Minucci, una sua naturale insofferenza a fermarsi in un posto, essendo portato a cambiare spesso sia la sede, sia la materia d’insegnamento.

Invitato a tornare a Bologna, preferì recarsi a Siena a insegnare giurisprudenza (1432) da dove ritornò a Padova (1443) per insegnarvi Giurisprudenza, tenuta in auge in questo periodo  dall’insegnamento di molti maestri (***); da Padova, ritornò ancora a Bologna (1456) dove, questa volta  rimase fino alla morte (****) .

Nel frattempo aveva rimaneggiato ulteriormente il suo testo numerando i titoli con richiami ai capitoli della antica compilazione, in modo da ovviare alle critiche che venivano continuamente mosse al suo nuovo sistema e aggingendo le sue glosse a quelle del Colombino, avendo cura di contrassegnarle col nome dell’autore.   

Venutone a conoscenza l’imperatore Federico III d’Asburgo (IV come imperatore 1415-1493), succeduto a Sigismondo, richiedeva al Minucci di correggere e riordinare ulteriormente l’opera, per poter concedere quella autorità che le avrebbe consentito di esser letta nelle Accademie.  

Minucci aveva apportato delle correzioni e provvide a riordinare la glossa del Colombino e le altre glosse, avendo l’accortezza di con­trassegnare ogni parte della glossa col nome del glossatore come già aveva fatto in precedenza, seguitando sempre a farvi nuove aggiunte per renderla ancora più razionale e di più facile consultazione.

Inviò quindi l’opera (avendo imoparato la lezione dai colleghi invidiosi), questa volta direttamente a Federico III accompagnata da una “epistola” in cui faceva presente di non volere che l’opera fosse pubblicata se prima non avesse ottenuto il suo riconoscimento, dopo l’esame e approvazione da parte di un collegio accademico.

L’imperatore nominava il cardinale Bessarione e Angelo Reatino perché la esaminaessro ed esprimessero il loro parere, e l’opera ebbe finalmente l’approvazione dell’’autorità Imperiale (come riferiva Giovanni Cuspiniano in “Vita Federici”), stampata da Schilter a Lipsia, nel 1695 (*****) in modo da poter essere letta, secondo i desideri del Minucci, in Bologna  e in altre Università (in particolare in Germania dove ebbe ampia diffusione), come affermato da Erm. Giovach. de Westfalen (così riportato da  Maccioni op. cit.).

Ma, neanche dopo morto Minucci doveva esser lasciato in pace!

Uno strascico di “antipatia”, così ci è sembrato, doveva emergere oltre un secolo dopo la sua pubblicazione, per merito di Savigny che dall’alto della sua celebrità, (che certamente non si può disconoscere...  ma questi grandi personaggi a volte sono turbati dalle loro strane  idiosincrasie) aveva considerato il lavoro di Minucci inutile in quanto annullato dalle tavole di Bartolo!

 

 

 

*) Per “digestum vetus si intendeva il primo dei cinque volumi di cui era formato il digesto; gli altri saranno trovati successivamentee e formeranno il “digestum novum”; il vetus era formasto dai libri 1-24.2;, completo, aveva   l’infortiatum 24.3-38;  e il movum 39.50, Codex 1.9; Volumen parvum; Institutiones, Tres libri del Codex e le Novelle.

**)  Il Codice Pisano era quasi leggendario e la circostanza che fosse conservato a Firenze invece che a Pisa era fondata sul disprezzo che i pisani avevano per lo studio delle Pandette, come Benckmann aveva scritto nella “Storia delle Pandette”, contestato dal Maccioni; Benckmann infatti sosteneva che i pisani detestavamo le Pandette in quanto san Bernardo aveva scritto al papa Eugenio III, disprezzando la legge romana; che i pisani le detestavano, per la stima che avevano per san Bernardo e infine il disprezzo per le Pandette era dimostrato da alcune pessime correzioni apportate dai pisani; Maccioni contestava queste affermazioni, dando ragione della stima che i pisani avevano per le Pantette: in ogni caso quel codice si trovava a Firenze!

***) Vi insegnavano Raffaello Fulgosio, sebbene da poco deceduto, era dato per suo concorrente nella materia feudale, tra gli altri giuristi Giovanni  Imolense e Paolo o Angelo di Castro, Francesco Capilistio, Benedetto Sala, Bartolommeo Cepolla  e Giovanni da Pratoveccbio fratello del Minucci.    

****) Di Minucci non si conosce con esattezza neanche la sua data di nascita,  indicata da Maccioni intorno al 1380;  lo stesso Maccioni non aveva saputo indicare quella di morte, escludendo in ogni caso quella che gli era stata attribuita del 1524 in quanto a questa data, egli aveva scritto, avrebbe raggiunto centoquarantaquattro anni; il Savigny la indica invece a poco dopo il 1468 data in cui Minucci, con i figli che avevano commesso un omicidio, era stato bandito da Pratovetere (particolare che Maccioni evita di riportare).

*****) Un bellissimo esemplare ne ho visto nella biblioteca di Felino Samdeo. scrive Maccioni,  che si conserva nella nel Capitolo dei Canonici di Lucca; in questo Codice (e attualmente non sappiamo dove questo prezioso codice sia finito) vi è una bellissma miniatura rappresentante l’Imperatore seduto insieme al cardinale Bessarione (evidentemente diversa dalla riproduzione che presentiamo)  che ricevevano dal Minucci il Libro de Fendi (su Bessarione v. in Schede F.: Polemiche Umanistiche tra platonici e Aristotelici e, La polemica umanistica sulle differenze tra Platone e Arisotele continua)

 

 

SAVIGNY CRITICA

IL TESTO DI MINUCCI

E NON RISPARMIA

   BARTOLO

 

 

N

el Trattato di  Storia del Diritto Romano nel Medio Evo (Geschichte des Römischen Rechts im Mittelalter), Friedrich Karl von Savigny (1779-1861), nel IV volume (abbiamo consultato l’edizione francese Histoire de droit romaine au moyen age, par Charles Guenoux, Paris 1839 messo a disposizione dalla BNF.),  l’illustre storico riporta meticolosamente, tutti i giuristi (anche minori) italiani del XIV e XV sec.: tra costoro manca il Mincuccius!

Andando a cercarlo nell’Indice, al nome Mincuccius  si rimanda a Pratovetere, e quivi, con sorpresa senza alcuna altro riferimento, si trovano direttamente riportati i dati biografici che lo riguardano, le città in cui aveva insegnato, insomma tutta la biografia,  frutto delle ricerche del Savigny, c0mpreso il particolare che Mimicci era stato bandito dalla città con i suoi due figli, che nel 1468 avevano commesso un omicidio; e a questo punto si precisa che egli era  morto poco dopo; e l’aver riportatoquesta biografica  nell’indice è già una cosa strana!

Passando alla attività giuridica del Minucci, Savigny tende a sminuirla e riferisce:

Hanno detto a torto, che Mincucci si era mostrato superiore ai giureconsulti del suo tempo. La sua opera intitolata De Feudis, libri sex, che ha avuto due edizioni è la sola che ha conservato il nome di Mincucci fino a noi. E’ una ricomposizione sistematica del testo dei Libri Feudorum. Repertorio aureum dom ant. de Prato veteri in toto juris scripti opere coadjuvantibus Bartolo nec non in titulus Nicolaus del Neapoli et Dyno in regulis juris libri VI cum aliis additionibus; alla fine si legge Repertorium...super operibus Bartoli de Saxoferrato etc”.

In pratica Savigny definiva il testo di Minucci una ricomposizione dei Libri Feudorum inutile in qunto superato dalle tavole apprestate da Bartolo!

Savigny prosegue: Ques’opera ha avuto due edizioni e Maccioni, ha scritto due opere differenti (una sul testo e una sulla biografia ndr.); e aggiunge. “Le tavole messe in opera da Bartolo, hanno reso inutile il repertorio di Mincucci”. Seguono indicazioni relative al testo, consultato dal Savigny, presso la Biblioteca di Francoforte.

Alla fin fine .... il lapidario giudizio di Savigny è stato di “aver  considerato il lavoro del Mincucci ... del tutto inutile, in quanto Bartolo nel suo libro aveva predisposto delle  tavole riassuntive” !

Rimane innanzitutto inspiegabile la circostanza che Savigny, cime già abbiamo detto,  avesse scritto  la biografia di Mincucci nell’Indice, che poteva benissimo occupare una delle pagine dedicate agli altri autori italiani, invece di relegarlo sprezzantemente nell’indice, perr di più commentando che le tavole di Bartolo rendevano inutile il testo del Minucci, che aveva fatto un minuzioso lavoro di  risistemazione della materia e non aveva niente a che vedere con le tavole eiassuntive apprestate da Bartolo in quanto la impostazione data dal Minucci al suo testo era da  r e p e r t o r i o, come attesta lo stesso Savigny, che consentiva la rapida ricerca di un argomento; purtroppo il testo di Bartolo è introvabile  come in genere i testi di Diritto feudale, nelle librerie antiquarie, salvo le rare copie che si trovano nelle biblioteche di Bologna Minucci e Schilter a Bologna, Firenze e Trieste.

 

Dsponiamo del testo del Minucci, scaricato qualche anno fa gratuitamente - da Google, (seppur con diverse pagine mal riprodotte); attualmente Google ha cambiato orientamento e non consente più di scaricare gratuitamente i libri, come avevamo entusuasticamente riferito nell’articolo: La grande biblioteca virtuale di Google, pubblicato nella Rubrica “Recensioni “ di questa Rivista.  

Ci era sembrato troppo bello ... e, purtroppo le cose belle finiscono presto:

è così che va il mondo!

 

Abbiamo esposto come era stata distibuita la materia del testo del Minucci e non vi è alcun dubbio che questo testo, attesti la razionalità della materia, fosse meglio impostato per la ricerca degli argomenti di quello di Bartolo: come abbiamo detto, a volte questi grandi personaggi presi dalle loro bizze, soffrono di idiosincrasie ed evidentemente Savigny aveva così pensato di liquidare il testo di Minucci che non gli era riuscito digeribile!

Alle volte i grandi personaggi sembra che mangino vipere, accumulando veleno che poi han bisogno di sputare ... ma ciò avviene anche con piccoli uomini  che si compiaccioni di se stessi per autogratificazione e si comportano come abbiamo riferito nell’articolo “I primordi dell’averroismo e la scuola aristotelico-averroistica di Padova” che avevamo mandato a quella Università ma era stato rifiutato da un docente compiaciuto di se stesso che si era sentito di ritenere Rénan, superato (!): e questo è un esempio del corporativismo in cui sono chiuse le nostre Università!.

Tornando al Savigny, è da dire che non aveva trattato male solo di Minucci ... ma  aveva avuto anche da ridire su Bartolo da Sassoferrato (1314—1357) e sulla sua fama!

Dopo aver riportato i suoi dati biografici, egli incomincia col mettere in dubbio che Bartolo fosse stato incaricato – senza prove – della redazione della bolla d’oro e delle leggi della Boemia, come era stato riferito; poi passa all’esame della sua reputazione!

La sua reputazione” egli scrive, “ha superato tutti i giureconsulti del medioevo, cosa rimarchevole, dal momento che era morto nell’età in cui molti giureconsulti celebri cominciavano appena a farsi un nome.

La maggior parte degli autori – prosegue Savigmy – ne parla con ammirazione, Alciato lo considera il primo dei giureconsulti e rimanda ai suoi commentari, dei cui testi egli non dà alcuna spiegazione. Ciò nonostante non sono mancate le critiche severe essendo stato accusato di plagio.

A Padova  - scive Savigny - era stata creata una cattedra per spiegare il testo e la glossa di Bartolo;  la grande reputazione di Bartolo lo ha fatto considerare come il capo di una nuova scuola ed è stato detto che per  primo egli aveva applicato la dialettica alla scienza del diritto: è un errore già rifiutato in questa opera.

Bartolo, al contrario non ha abusato delle forme della dialettica e qualche volta lo stesso egli se ne è servito con vantaggio. Altri hnno sostenuto che prima di Bartolo non esistevano commentari propriamente detti sulle fonti del diritto.

Questa opinione è completamente erronea. In effetti esisteva dopo duecento anni, un’abbondanza di commentari su tutte le fonti del diritto. Si dirà che questi commentari non erano che semplici glosse? Io risponderei che i commentari di Odofredo sono molto più estesi di quelli di Bartolo.

Si dirà che Bartolo è stato il primo a commporre dei commentari scritti, tanto che prima di lui non abbiamo che lezioni orali? Ma la maggior parte delle opere di Bartolo non sono che lezioni orali, raccolte dai suoi allievi e da lui stesso ricompensati.

Aggiungerei che Cino, lo stesso anno in cui era nato Bartolo (1314), aveva pubblicato un commentario scritto sul Codice, tale che non ne esiste alcuno nelle opere di Bartolo.

Pertanto, se Bartolo non è l'inventore del nuovo metodo,  la sua reputazione non è altro che il risultato di un capriccio o del caso; egli non ha fatto altro diversamente dai suoi predecessori, ma lo ha fatto solo molto meglio.

Dopo Accursio l'esegesi del diritto non era che "routine" priva d'intelligenza. Bartolo, come il suo maestro Cino,  gli aveva dato una nuova strada; e senza dubbio  egli deve una gran parte del suo merito alla pratica giudiziaria dei primi anni.

L’entusiasmo dei suoi primi allievi dovette contribuire a estendere la sua reputazione e l’interesse che l’ispirazione del momento aveva dato alle sue lezioni orali e alle sue controversie risportate nelle sue opere.

Bartolo, malgrado la sua superiorità sui suoi contemporanei non è esente dalle manchevolezze del suo secolo. Così, i vantaggi che gli antichi glossatori avevano trovato nello studio immediato delle fonti,  gli sono venute a mancare. Una massa enorme di commentari dal merito disparato, si elevava come una barriera messa davanti ai testi ed egli non aveva saputo resistere a questa funesta influenza.

 Ciò nonostante, le opere di Bartolo sono importanti da studiare esse stesse a causa dell’influenza che hanno potuto esercitare fino ai tempi moderni. 

Così Savigny chiude l’argomento: Come si vede...dando un colpo al cerchio e uno alla botte!

 

 

MACCIONI  MÈNTORE

DI MINUCCI

SULLE TRACCE DEL

 DE FEUDIS”

 

 

M

igliorotto Maccioni (1732-1811), nel suo libro dedicato a  Minucci (*), riconosce che seppur non fosse intellettualmente all’altezza di Cujacio o dell’Othmann né avesse la loro cultura, ma riteneva fosse in grado di dare alle leggi romane la giusta interpretazione e avere l’acutezza di osservare cose che erano sfuggite ai tempi dell’olandese Cornelis Bynkersboeck (1673-1743) che si opponeva a Ugo Grozio (e dell’olandese Gerard Noodt 1647-1725).

E in ogni caso Minucci “si era inserito nel percorso delle scuole di Bartolo e Cujacio come si evince dal Commentario del Digesto vecchio, in cui riuniva in sé la solidità della scuola di ambedue i giuristi”.

E, aggiunge, ambedue le scuole del Cujacio e del Bartolo avevano i loro pregi ma anche i loro difetti, e se la scuola di Cujacio aveva portato all’intelligenza della Legge romana, aveva caricato l’interpretazione dei testi “con l’immensa farragine di erudizione inconcludente ed affettata, che altro non serve che all’impostura con i difetti che sono quelli dei glossatori e degrado di interpreti barbari”(difetti che, come vedremo, saranno presi di mira da Antonio Pilati).

E sull’opera di Minucci non mancarono i detrattori.

Tremenda era stata la filippica di Zaccaria Nibusio che nella Pre­fazione della sua opera “Institutiones Juris Feudalis quibus Longobardica & Ger­manica Jura enucleantur” - Lipsiae 1720, si era così espresso (*) (in libera traduzione): “L’italiano di Bologna detto Antonio da Pratovetere aveva tentato di riformare il malato diritto feudale presentando la sua compilazione all’imperatore Federico perché fosse approvata e fu acetttata, non per questo, ma perché era abietta e derisa, che feriva i compilatori e commemntatori barbari con insolenza e petulanza e, riformare il diritto feudale non era né il tempo né il luogo”.

Di queste “Istituzioni di diritto feudale”  in cui sono enucleati il diritto Longobardico e Germanaico”, di 220 pagine (**), Maccioni ne spulcia il testo per metterne in evidenza gli errori;  ma a noi preme riportare la sua architettura, in quanto, del libro e dello stesso autore non si hanno motizie!

Esso è diviso in tre libri e questi in capitoli in cui fin dalla Prefazione, Maccioni riscontra molti errori di carattere storico  come per es. relativamente alla parola “feudum fatta risalire al tempo dell’imperatore Carlo IV (1316-1378), quando invece risaliva intorno all’anno mille; o dei termini “ambactus, che presso gli antichi francesi signi­ficava “servus”, quando invece fin del tempo di Giulio Cesare il suo significato era di “cliens” (cliente); oppure, passando all’autore del “De Beneficiis”, lo attribuiva al Tommasio nel 1709, quando invece era stato stampato a Colonia fin dal 1569, e relativamente al “Commentario dei Feudi” (Summa feudorum) attribuito a Francesco Duaren (1509-1559), posteriore al Minucci e al Barattieri (mentre autore era stato Jacopo di Ardizzone (vissuto dopo il 1244), quando (Duaren) fioriva più di un secolo e mezzo oltre (***).

Relativamente ai termini antica­mente usati in Germania “Das-Mann-Recht” che denotavano i “giudizi feudali” che si svolgevano davanti al Signore del Feudo, con soggetti  dello stesso Feudo, quando quelle parole denotano ciò che si dice ancora Mann-Lebnrecht, cioè il giudizio- feudale  che si svolgeva con i “Pari della Curia” per esaminare le con­troversie fra il padrone diretto  ed il vassallo (vasso significa basso, Schilter), e tanti altri.

Johannes Schilter (oltre che giurista, era editore in Lipsia) aveva intenzione di stampare l’opera del Minucci e si era rivolto a Ericio (Erik) Maurizio, professore presso l’Università di Tubinga, il quale possedeva una copia, arricchita da elegantissimi ornamenti, avuta in omaggio da uno studente, ma ricevette un rifiuto e la cercò altrove (alla morte del Maurizio la copia fu trovata tra i suoi libri).

Recatosi a Parigi incontrò Cristiano Guglielmo di Eyben consigliere del duca di Lussemburgo col quale si recò presso la Biblioteca Reale per esaminare dei manoscritti, e vi trovò il prezioso Codice che stava cercando.        

La scoperta fu comunicata a Tevenot, Bibliotecario Regio, perché la copia del Codice ritrovata fosse prestata a Schmidio (Giovanni Filippo Schmit) che in quel periodo da Strasburgo si era recato a Parigi: ma al rifiuto di darla in prestito a chicchesia, con grande pazienza, egli non solo copiò, ma descrisse tutto ciò che si trovava nel libro.

Questo Codice di Parigi (***). riposto al n. 5115 dei Manoscritti Giuridici, è in folio (di quarta), elegantemente scritto, con molte miniature (del XVmo secolo non troppo inoltrato).  Contiene non solo  l' Opera feudale, ma altre piccole ope­rette.

Vi è nella prima pagina. un'elegante miniatura, con l’imperatore. seduto sul trono, circondato da alcuni "togati” tra quali si vede Antonio da Pratovecchio che reverentemente gli porge il suo libro.

Lo Schilter ne fece intagliare una simile in rame apposta al principio dell'Opera nell' Edizione di Strasburgo dove la fece im­primere nel 1695 con il Codice che stampò del Gius Feudale Alemannico, aggiungendovi una “Prefazione” in cui riportava una buona storia delle Collezioni Feudali, seguita da molte testimonianze di autori illustri.

 

 

 

*) “Osservazioni e Dissertazioni sopra il Diritto  Feudale l’Istoria e le Opinioni di Antonio Minucci di Pratovecchio”,  Livorno MDCCLXIV.

**) Tentavit invalide Feudalia Ju­ra reformare quidam Italus Bononiae dictus Anto­nius de Pratoveteri. Voluit Compilationem suam Friderico Imperatori consignare ut approbaretur sed recepta non tantum non fuit, sed abjecta, & derisa, ut ferebat Compilatoris, & Commentato­ris Barbari insolentia & petulantia. Reformare Jura Feudorum non erat illius temporis & illius Loci.

***) Tralasciando gli errori riscontrati dal Maccioni e le sue critiche, il contenuto del testo ci sembra interessante (il diritto feudale lo troviamo affascinante e questo articolo lo abbiamo maturato da tantissimi anni e dentro gli abbiamo messo amche l’anima,come d’altronde facciamo per gli altri articoli!), come detto del  testo e dell’autore, dalle ricerche effettuate presso le biblioteche italiane, del Vaticano. e statunitensi non abbiamo trovato notizie.

Ecco il giudizio del Maccioni sul libro del Nibusio.

L’ordine del libro è adattato in modo da oscurare tutta la materia. Nel Libro I tratta dei modi di costituire e di acquistare i Feudi e riserva poi al Cap. III. del secondo Libro la trattazione dell'Essenza e della Natura de' Feudi, e qui si trovano tutte le Definizioni che possono chiarire l'argomen­to.

Nei Capitoli IX, X, XI, del Libro II, tratta insieme i Debiti Feudali, e i Modi in cui cessano i Feudi e si perdono. Nel Libro III tratta dell'autorità del Gius Feudale e vi osserva diverse questioni sopra la Convenzione Feudale.

Il cattivo me­todo, commenta Maccioni, è seguito da una turba d' infiniti errori di giu­dizio e di fatto e non dice che poche parole dello stile della Curia Feudale nel Li­bro terzo Cap. IV., e poi impiega molti Capitoli nel Lib. terzo per osservare la  coerenza del Gius Co­mune col Feudale , e in altri luoghi, come nel Libro primo, Cap. VIII va dietro alle Etimologie di vari no­mi, e in così poco spazio si prolunga tanto.

Tralasciando molti altri simili errori, mi soffermo su quelli più importanti con i quali si confonde tutta la materia feudale, seguendo opinioni false o non comunemente approvate. 

Nel Libro primo, Cap. III, dice che l’Oblazione dell'Enumerazione delle cose Feudali si deve fare dopo l’investitura, quando in effetti si deve seguire il contrario. Nel Libro primo, Cap. IV. scrive che l’Investitura simultanea regolarmente non si rinuova, perché non è del genere delle Investiture che si devono rinnovare; e pure noi vediamo che tutti i Dottori sostengono l'opposto (cit. Cocceio).

Nel Lib. secondo Cap. X, afferma che la Donna quando ha perduto la Dote non può chiedere la porzione Sta­tutaria (e questo è un massìccio errore). Inoltre nel Libro secondo, Cap. XII,  sostiene provenire  dal quasi delitto la necessaria conseguenza della privazione del Feudo, poiché, stante l’equità, d’ordinario non si perde il Feduo. Nel Libro terzo Cap. II asserisce che con l’invesitura non si trasmette altro  che il Gius ad rem. Nel Libro terzo Cap. IV, osserva  che per patto aggiunto non si può ottenere la personale immunità. Nel Libro terzo Cap. V, afferma che non possono succedere nei Feudi assolutamente coloro che sono ascritti all’Ordine Ecclesiastico. Nel Libro terzo del Cap. IX assume per vero che essendo sede vacante un Capitolo, non possa rimuovere i Feudi sottoposti, prendendo esso equivoco dal non potere il Capitolo concedere un Feudo Nuovo. Nel luogo medesimo crede che i Vicari dell’impero non possano concedere  i Feudi dei Conti e dei Baroni.

Infiniti altri errori di questo Autore potrei qui riferire ; ma da quel­li che fin'ora si fono notati , si può arguir che parla a caso, quando non inciampi in qualche scoglio. Eviterò pure di notare che  quel testo è ripieno di solecismi e barbarismi e di tutto ciò che può far degna l’opera del  del suo Autore, meritando questo impugnatore del Minucci , che ai suoi scritti si renda dal pubblico quell' onore che il Mureto (Marc’Antoine Muret 1526-1585) voleva compartire con i Poeti di Brescia.

****) Il libro porta il seguente titolo: Antonii Mincucci de Pratoveteri De Feudis libri sex omni veteri Feudorumjure nova ordinatione collecti. Ad Sacratissimum Principem Sigisundum Romanornm Imperatori nunc prinum ex MS. Codice Bibliothecae Regiae Parisiensis editi dudun. vero ab eruditis desiderati. Argentorati per Fridericum Spoor 1695. in 4a.

 

 

 

CHI ERANO

GLI AUTORI DEI

 I LIBRI DEI FEUDI

LOMBARDI

 

 

 

G

iannone riferisce che il nome di coloro che avevano scritto i libri milanesi non è molto chiaro; prima di Cujacio, egli dice, alcuni ricercatori avevano ritenuto che autore della compilazione fosse stato Oberto de Orto, avvocato del senato e console milanese, il quale aveva realizzato l’opera con l’aiuto di Gherardo del Negro altrimenti detto Cacapisto, anch’egli console di Milano e giureconsulto .

Poi aggiunge, cominciarono ad illustrare questi libri, con semplici glosse, Bulgaro (1085-1166), Pileo da Prata, Ugolino de’ Presbiteri (1233), Corradino, Vincenzo, Goffredo ed altri (indicati da Guido Panciroli 1523-1591) fino all’intervento di   Giovanni Colombini  (1304-1367) che nel sapere aveva superato tutti -  come aveva scritto   Giasone – “dopo di lui niun altro ebbe ardimento di  scriver glosse su quei libri”.

Cessate le glosse si incominciò a scivere le “Summae” opere più concentrate che contenevano il compendio della materia, e poi si passò ai “Trattati de’Feudi che affrontavano l’intera  materia; tra i primi furono Pileo, Giovanni Fasoli, Odofredo, Rolandino, i due Giovanni Blanasco e Blanco, Goffredo, Giovanni Lettore, Martino Sillimano, Giacomo d’Arena, Giacomo de Ravanis, Ostiense, Pietro Quessueal e Iacopoo Ardizzone (Giannone cita come fonte per tutti, Panciroli in Thesaurus e De claris legum interpretibus, di queste opere non si trovano esemplari e eanche notizie dell’autore), seguiti poscia da Zasio,  Rebuffo,  Anettone, Rosental seguiti da infiniti altri libri moderni.

Il primo fra questi giureconsulti secondo Giannone, fu Giacomo di Belviso ma fu oscurato da Andrea d’Isernia il quale (durante il periodo di Carlo II che morì nel 1309), scrisse così copiosi commentari sui feudi (Commentaria in usum Feudum), che oscurò quanti mai prima di lui si erano accinti in questa impresa.

E, ancora, dopo aver professato quarantasette anni la legge civile, Baldo degli Ubaldi, detto da Perugia (1319/27-1400), discepolo di Bartolo, scrisse  i  Commentarii sopra i Feudi” (Panciroli), oltre ad esseere autore del Corpus juris civilis e delle Decretali di Gregorio IX (e gli sono attribuita altre opere non sue), e poco dopo, Jacopo Alvarotti da Padova (1385-1453), con  Commentario ai Libri Feudorum e  Giacobino di Giorgio e Francesco Curzio junior.  

Ma sopra tutti, precisa Giannone, emerse il nostro Matteo d’Afflitto (1447/59-1523), il quale oscurava la fama di costoro (Panciroli). Egli insegnava all’Università di Napoli (sotto Ferdinando I 1751-1825) con stipendio (gli insegnanti all’epoca erano pagati dagli studenti ndr.)  dove commentava gli interi Libri Feudali di Isernia, ciò che nessuno aveva mai avuto l’ardire di fare né prima, né dopo di lui, e per questo criticato dal Camerario (Bartolomeo Camerario detto il Temerario 1497-1564), che riteneva che a causa della vecchiaia d’Afflitto non avesse ben penetrato la mente di Andrea d’Isernia.

Su questa critica insorgeva Giannone che sosteneva che ciò non fosse esatto e “niente vi sarebbe stato da riprendere, in quanto d’Afflitto avrebbe potuto scrivere anche se avesse avuto l’età di ottant’anni, l’età che aveva quando morì”.

Aveva iniziato a scrivere i suoi Commentari nell’anno 1475, come egli stesso aveva confermato, quando aveva trentadue anni, in quanto erano stati sollevati dubbi da parte del Camerario, il quale sosteneva che d’Afflitto avesse scritto questi commentarii  quando era già vecchissimo e che perciò (per mancanza di lucidità mentale) non avesse ben penetrato la mente d’Isernia.

Taccia”  -  scrive Giannone -  “ingiustamente attribuita a quell’insigne giureconsulto, in quanto oltre ad aver scritto nella più verde e florida età, non vi sarebbe stato nulla da  riprendere, se avesse scritto all’età di 80 anni  nella quale morì”. 

D’Afflitto era morto nel 1523 e fu sepolto ìn Napoli nella Chiesa di Monte Vergine, ove si legge che carico di anni, in età senìle era ancora vigoroso di mente da poter sostenere gli studi fino all’ultima vecchiaia; ciò che i suoi familiari avevano voluto fosse scolpito a causa del livore dei suoi nemici, i quali avevano convinto il re Carlo  (l’imperatore Carlo V) della sua debolezza senile e l’imperatore (che non aveva molta predisposizione al mecenatismo, come si vedrà in Art. Carlo V tra Rinascimento, Riforma ecc.), lo aveva privato della carica di consigliere di Santa Chiara; e, quanto al giudizio sul suo Commentario lo aveva dato Francesco D’Andrea che aveva scritto che erano pochi coloro che  si potevano paragonare a lui, ma nessuno potesse superarlo.

Sorsero, conclude Giannone, dopo questi lumi della giurisprudenza feudale, fra noi e gli altri autori, Camerario,  Sigismondo Lofflredo, Pietro Giordan Ursino, Bammacario, Revertero, Pisananello, Montano e tanti altri, dei quali a volerli indicare tutti, l’elenco sarebbe lungo e nessuna menzione potrebbe vantare tanti scrittori in materia feudale, quanto il regno di Napoli  (ieri come oggi in cui ve ne sono quanti in tutta la Francia! ndr.).

 

 

I LIBRI DEI FEUDI

LOMBARDI

SONO ACCOLTI

 IN TUTTI I REGNI

 

 

 

N

e conseguìva che  nel Codice, oltre alle Autentiche d’Irnerio, erano stati aggiunti estratti di Statuti e Costituzioni di Federico I (ivi indicati); e questa, scrive Giannone, fu l’incombenza data da Federico ai  professori di Bologna, e non altro.

Ma, Odofredo aveva precisato che successivamente Ugolino, di suo capriccio, al corpo delle Novelle di Giustiniano - già diviso in nove collazioni, dal che chiamato “nona collazione” -  aggiunse il “Libro feudale” e, raccolte insieme tutte quelle Costituzioni degli imperatori che riguardavano i feudi, li inserì in quel libro, secondo l’ordine in cui li troviamo oggi, e i nostri chiamarono sin dai tempi di Odofredo, “decima collazione”; ciò che  testifica che ai suoi tempi, pochi erano coloro che aveano quelle Costituzioni così ordinate, come le aveva disposte Ugolino (Schilter, in Prefatio al Mincuccius).

Così erroneamente i più eruditi scrittori hanno creduto che Federico II avesse dato autorità e forza di legge  al Libro de’ Feudi, e che sin dai suoi tempi, esso avesse acquistato tal vigore nel nostro e negli altri reami. 

Non altrimenti avvenne dei libri di Giustiniano, in modo che il Corpus juris, ora comprendeva anhe il Libro dei Feudi  - per l’uso e consuetudine dei popoli  e per connivenza dei principi, i quali permisero che nelle Accademie pubblicamente si insegnasase e s’illustrasse con commentari, dai loro giureconsulti; e si allegasse nelle conroversie forensi nei loro tribunali, come ben aveva provato  il Molineo (Charles Dumoulin, 1500-1566, Ad Consuet.), reputato il Papiniano della Francia.

Molineo, a torto, scrive Giannone, riprende Odofredo, quasi eh’egli avesse data occasione agli altri d’errare, quando questo autore non mai disse che Federico avesse dato forza di legge a quel libro, che quella compilazione di Ugolino si fosse fatta per suo ordine, siccome ancora a torto riprende Bartolo, quasi ch’egli fosse stato il primo a dare alla raccolta di Ugolino il nome di decima collazione.

Questo nome è purtroppo antico e più di cento anni prima di Bartolo, era così chiamato nell’uso comune, come testimoniato dallo stesso Odofredo e come lo chiamarono tutti gli scrittori  prima di Bartolo.

E così questa “decima collazione” aveva raggiunto gli altri regni – con i Libri feudali milanesi   e per il suo uso e consuetudine aveva acquistato vigore nei regni dei principi cristiani e aveva raggiunto una tale autorità da superare e derogare le proprie leggi, quando non erano in contrasto con le  proprie leggi e i propri costumi.

Così avvenne, come attesta Cujacio, nel regno di Francia, che ricevè quelle leggi feudali, delle quali si avvale l’Italia, ciò che non ripugnava alle leggi e costumi di quel regno, come per altro  ovunquein cose nautiche” si faceva ricorso alla romana lex Rodia.

Come aveva detto il Presidente Charles Giraud, nel suo “Eloge de Schilter  (in cui sono indicati tutti i suoi scritti, Strasbourg, 1845) il diritto lombardo superando i monti si era propagato in occidente  ed era divenuto diritto comune dei feudi in Alemagna come in Francia.

Schilter aveva dimostrato dalle fonti del diritto germanico che vi era un diritto feudale alemannico, un diritto feudale sassone o un diritto feudale franco, tutto comune al diritto feudale lombardo, ciascuno con un carattere proprio; e ciascuna famiglia germanica aveva liberamente incontrato nella sua marcia verso la civilizzazione moderna, una forma analoga al proprio particolare genio.

Il Codex juris feudalis alemannici, germaniae et latine di Schilter (*) scrive Maccioni, è ancora un libro prezioso della cui autorità le pubblicazioni moderne  non possono fare a meno,

 

 

 

 

*) Titolo completo: Codex juris feudalis alemannici, germaniae et latine, cum commentario ad singula capitula, ac dissertationibus huc pertinentibus et praefatione de ejusdem juris origine, usu auctoritate. Accedunt Antonii Mincuccii de Prato Veteri libri VI de feudis, a biblioth, parisiensi nunc primunm editi; Bartholomaei Baraterii libellus feudorum reformatus, et Antonii D. Alteserrae de origine et statu feudorum pro moribus Galliae liber singularis. Argentorati (Strasburgo) 1697 in 4°, 3 part. en 1 vol, in 4°; reimprimé plus correctement en 1728 à Sttrasbourg in–fol., par les soins de Schertz, qui ajouta une préface et quelques disserations dejà imprimé, entre autres celle De jure emponematum (Del diritto di miglioria fondiario), al quale è da aggiungere Ad jus feudale utrumque germanicum et longobarducum introductio. Strasbug 1695, in 8°; it avec des corrections inédites 1721 ibid. in 8°, 1727 in 8°, it, cum adnot.G .Chr.  Gebauer, Lipsiae, 1728 in 8°; it.cum observat. J.G. Heineccii. Berol. 1742, in 8°; it ead. accedunt Schilteri comment. de natura success. feudalis, atque ad eamdem mantissa (tirée du traité De Paragio etc. infra n.36°) Berol.1750 in 8°. Ce livre classique a de plus eté l’objet de plusieurs commentaires fort étendus, ecrits en langue allemande.

Oltre a questo testo Schilter aveva riassunto la materia nelle Institutiones  Juris Feudalis Germanici et Longobardici; Accedunt De Exoeditione Romana etc.Lipsiae, Ioh. Frid. Gleditschii B. Fil. 1728.

 

 

I GIURECONSULTI

DI NAPOLI ACCOLGONO

I LIBRI FEUDALI

 E SUPERANO  

I COLLEGHI DEGLI

ALTRI REGNI

 

 

L

a compilazione di questi libri fatta dai giureconsulti milanesi, scrive Giannone, non ebbe nelle nostre provincie nessuna autorità di legge, come non l’ebbe nelle altre parti d’Europa; ma dopo il corso di molti anni, piuttosto per uso e consuetudine, che per costituzione del principe, acquistarono autorità, ma essa non fu assoluta, accolta solamente per quelle parti che ripugnavano alle leggi e in particolare ai  costumi di ciascun regno

Certamente  non l’acquiostarono da noi quando regnava Guglielmo, e i suoi successori normanni. Quivi si ebbe infatti la compilazione del 1170, come aveva provato  l’accuratissimo Francesco d’Andrea e non dall’anno 1152, che fu il  primo di regno di Federico I, come aveva scritto Arturo Duck, quando tra il re Guglielmo e Federico ardeva crudele ed ostinata guerra, e quando tra noi ed i Lombardi era interdetto ogni commmercio per le guerre intestine che sin dai tempi di Lotario ebbero sempre i nostri principi con gli imperadori d’Alemagna .

La tregua tra Guglielmo e Federico non si concluse prima dell’anno 1177 ed avendo questi regni proprie o particolari consuetudini, come abbiamo visto con i libri Defetarii, non vi era la necessità di ricorrere alle leggi dei Lombardi, quando vi erano già le proprie, con le quali si regolavano i feudi.

E’ da ritenere, prosegue Giannone, che questa compilazione cominciasse ad essere nota ai nostri giureconsulti dopo l’anno 1187, quando il nostro re Guglielmo per la pace dei suoi  sudditi concluse le nozze di Costanza sua zia con Enrico re di Germania, onde vennero a cessare le occasioni delle discordie con gli imperatori d’Occidente.

Ma questo non bastò perchè non seguissero più fiere ed ostinate guerre; poichè morto poco dopo Guglielmo, i baroni del regno aborrendo la dominazione di Enrico come forastiero, elessero loro re Tancredi, il quale anche dal pontefice romano ottenne l’investitura del regno.  

Per la qual cosa è da credere che questi libri cominciassero ad esser conosciuti dai nostri dopo che Enrico nell’ anno 1194, scacciati i normanni, si rese padrone del regno per le ragioni dotali di Costanza sua moglie.

Sebbene fossero presso di noi conosciuti, non acquistarono alcuna autorirà di legge; nemmeno l’acquistarono quando suo figlio Federico Il promulgò le sue Costituzioni fatte compilare da Pier delle Vigne; quando, ad esempio della altre città d’Italia, avendo ristabilita in Napoli l’Università degli Studi, introdusse che nelle nostre scuole si leggessero le Pandette e gli altri libri di Giustiniano; poichè non è vera la costante opinione dei nostri autori, che questi libri da Federico I, acquistassero forza ed autorità, e che questi fosse primo imperatore che li avesse approvati, mandandoli a Bologna aflinchè ivi pubblicamente nelle scuole si leggessero; o che egli fosse stato l’autore, per ordine dato a Ugolino, della decima collazione, avvalendosi della testimonianza di Odofredo. A torto i nostri scrittori imputano ciò ad Odofredo, il quale non mai scrissø che Federico mandasse il libro de’ Feudi in Bologna.

E – prosegue Giannone  qual bisogno vi era mandar questo libro in Bologna, quando in questa città da molti anni era conosciuto e non pur letto dai botognesi, ma anche molto prima vi avea scritte le sue g]osse Bulgaro, che per più anni professò legge in Bologna, sin dai tempi di Federico I da cui fu fatto anche prefetto di quella città?  (Panciroli)  

Quando era ugualmente noto in tutte le altre città di Lombardia, per essetvi nato; e molti scrittori d’Italia più antichi di Federico II avevano già cominciato a farvi le glosse come oltre a Bulgaro fece Pileo, ed altri rapportati da Arturo (Duck), e notati anche dal nostro Andrea d’ Isernia ?

Odofredo nel luogo additato non scrisse altro, se non che Federico Il mandò ai dottori bolognesi, non già il libro dei Feudi, ma le Costituzioni sue e degli imperatori d’Occidente che furono dopo Giustiniano, affinché, siccome Irnerio dalle Novelle avea inserito nel Codice ciò che gli erra parso essersi per quelle di nuovo aggiunto o corretto, così essi lo stesso facessero anche  per quelle costituzioni, l’aggiungessero al Codice, non già al libro dei Feudi, sotto quei titoli che paresse loro convenire.

E così, radunati a S. Petronio, da quelle Costituzioni estrassero molte cose, che aggiunsero o adattarono alle leggi del Codice sotto i titoli convenienti e quindi il Codice, oltre alle Autentiche d’Irnerio, si  leggono ancora con le altre aggiunte.

In proposito è  da osservare che dopo la pubblicazione delle Costituzioni (1231) vi fu tra i nostri giureconsulti grande contestazione nella Gran corte, relativa a questi libri feudali, per quelle parti che non ripugnassero le nostre Costituzioni e che  potessero avere per noi forza di legge, come si disputò relativamente alla Glossa (in Costitut. De successinibus),

Si tenga a questo punto presente che fin da quando si era incominciato a studiare in Italia con Irnerio, il diritto giustinianeo, questo passava per diritto romano ma tale non era in quanto era stato elaborato a Bizsanzio ed era quindi divenuto bizantino  (come abbiamo già detto in Art. sul Corpus Juris civiis ecc.  e ci auguriamo di tornare sull’argomento ndr.); in pratica il diritto romano originario era stato elaborato e falsato dal bizantino, con le interminabili disquisizioni che non erano altro che polemiche intorno a un argomento (come era avvenuto in religione per il filioque, su cui si era discusso per secoli!), che servivano a tagliare un capello in quttro: si pensi alle obbligazioni che per i romani nascevano puramente da contratto o da delitto, mentre i bizantini lo avevano diviso in quattro, in quanto vi avevano aggiunto il quasi contratto e il quasi delitto! Ciò che sarà deleterio per il futuro dell’Italia (come abbiamo visto nel citato Corpus Jiuris civilis ecc.) portandola verso la deleteria burocrazia dei nostri giorni!

Tornando al Giannone: Dal che si ritiene, egli scrive, che anche in questi tempi era dubbio se questi libri avessero acquistato forza di legge; e se ciò era incerto, per questo stesso motivo non potevano reputarsi di una tale autorità, da poter uguagliare quella delle leggi.

E se Roffredo (Epifanio 1170-1243), “nostro beneventano” (per Giannone), che fiorì in questi stessi tempi di Federico II, parlando di queste consuetudini feudali, oppose il “servari in Regno Apuliae”, nel senso che si dovevano mantenere nel regno, non fosse per altro, se non perchè questa sua opinione era opposta agli altri periti del regno, che sostenevano il contrario.

E così avvenne che in questi tempi e da questo momento, queste consuetudini feudali, si fossero osservate, non già per autorità di legge, ma di ragione e per quanto non si opponessero e non fossero contrarie alle nostre costituzioni (Franciscus de Andreis in  Disputae Feudalis”).

Ciò è tanto vero, prosgue Giannone, che dopo Federico, nei tempi degli altri re suoi successori, e più di ogni altro, degli Angioini, di ciò non si fosse più disputato, essendo chiaro che avessero acquistato successivamente, nel nostro regno, tutta la loro forza ed autorità, quando non si opponevano alle nostre costituzioni, così come l’avervano acquistata in tutti gli altri regni d’Europa ed anche presso i pontefici romani nei loro tribunali ecclesiastici ai quali diedero pari autorità e vigore.

Anzi  nel corso del tempo, lo studio di questa parte di giurisprudenza presso di noi fu tanto coltivato e tenuto in pregio, che i nostri superarono tutti i giureconsulti delle altre nazioni, così in Italia, come oltre ì monti; ed oggi giorno è questo il particolare vanto del nostro regno (è sempre Giannone, napoletano  che scrive! ndr), che in nessuna altra parte si sia saputo e si sappia tanto della dottrina feudale, quanto dai nostrì giureconsulti.   

Di ciò, conclude Giannone, ne abbiamo avuto testimonianza relativamente alla diatriba che si era verificata tra Andrea d’Isernia e Baldo, il quale chiamato a Napoli dalla regina Giovanna I (1326-1381) per consulto, si mostrò così ignaro della materia feudale, che non senza discapito della sua fama, “bisognò che nella vecchiaia s’applicasse a questo studio per ristorare la sua perduta stima”  (Cardinale di Luca).

 

 

LA  

SISTEMAZIONE

 DI CUJACIO

E  LA POSIZIONE 

DEL “DE FEUDIS”

DI MINUCCI

 

 

G

iannone, dopo aver elogiato i giurisperiti napoletani,  scriveva che dopo questi lumi della giurisprudenza feudale sorti fra noi - “non si può defraudare della meritata lode,  fra gli stranieri, l’incomparabile Cujacio”(Jaques Cuiace, francese 1522-1590).

Fu il primo, egli scrive, che, rifiutando come barbara la parte delta nostra giurisprudenza trattata dagli altri, l’accolse e le apparecchiò una abitazione con l’aiuto dei libri più rari e degli scrittori di quei tempi, le diede altra più nobile ed elegante apparenza, tanto che gli altri eruditi, che prima l’avevano rifiutata come barbara, si invogliarono con il suo esempio ad impiegarvi i loro talenti, come fecero Duareno, Ottomanno, Vulteio ed altri nobili ingegni, col risultato che oggi la vediamo esposta ed illustrata dagli uni come dagli altri professori.

Egli aveva ben provato che Oberto de Orto non fosse l’autore del primo libro, in quanto in esso si trovavano delle sentenze che egli stesso aveva riprovato, e poiché quelle sentenze si attribuivano a Gherardo del Negro,  aveva reputato che quel libro  fosse non già di Oberto ma di del Negro; alcuni però, come il Montano (Giovanni Bonifacio 1547-1635)  non erano convinti di questa congettura.

In ogni caso Cujacio, prosegue Giannone, ritenendo che il secondo libro fosse di Oberto, compilato su istruzione del figlio Angelo. saggiamente reputò distinguerli, e divise, come abbiamo visto, il secondo libro  in quattro, ciò che fu accettato dai giurecunsulti  che si astennero dal mutarli per tìmore che nelle citazioni si sarebbe cagionata confusione sicché trovandosi già questa compilazione in due libri, volendosi il secondo dividerlo in più libri, le citazioni non sarebbero state corrispondenti alle precedenti citazioni onde Cujacio, decise di dividere i due libri in quattro, sicché il primo è di Gherardo, il secondo fino al  Titolo 25mo di Oberto, i  rimamenti titoli li divise in due altri libri, cominciando il terzo dal 23 di Oberto de Orto (con l’indicazione “Anselmo filio suo salutem”); il quarto comincia dal titolo 25, ivi, “Negotium tale est”.

E’ chiaro, scrive Giannone, dallo stesso titolo 25 che sia stato compilato da diversi e incerti autori e su ciò sono d’acordo Cujacio e Montano; nel quinto egli unì tutte le Costituzioni degli imperatori attinenti ai feudi, su cui si tornerà ad argomentare.

Prima di Cujacio, Antonio Minucci di Prato Vecchio, aggiunge Giannone, giureconsulto bolognese, per comandamento dell’imperatore Sigismondo, intorno all’anno 1430 aveva disposti questi libri in altra forma; ed avendoli divisi in sei, li offrì all’Università di Bologna, perché si ottenesse da Sigismondo conferma di questa raccolta; ma non consta che I’ imperatore l’avesse  lor data (per i motivi che abbiamo esposti), onde (in momento successivo)  i bolognesi richiesero di nuovo conferma all’ imperatore Federico III, il quale la concesse; onde avvenne che questi libri fossero letti pubblicamente nell’Accademia di Bologna, senza acquistare giammai autorità pubblica: la qual raccolta fu da poi data alle stampe da Johannes  Schilter.

Successivamente alla sua prima edizione (successiva a quella del Minucci per ordine di età ndr.), conclude Giannone, Cujacio  fece un nuovo testo nel quale con somma diligenza diede altro e diverso ordine e ridusse quei libri a miglior lezione, e li commutò con amorevole erudizione, spiegando il loro vero significato, e sopratutto accrebbe il quinto libro, di molte costituzioni imperiali, che erano state omesse da Ugolino, dandogli miglior ordine e disposizione.

Delle edizioni di Cujacio comunque non vi è traccia nelle Binlioteche collegate con Internet (ndr.).

 

 

 LE COSTITUZIONI

 IMPERIALI

ATTINENTI AI FEUDI

E LEGGI DI FEDERICO II 

 

 

 

I

l primo a promulgare le leggi riguardanti la successione feudale, espone Giannone, fu eome più volte si è detto, Corrado il Salico, seguito da Enrico IV che ne stabilì delle altre, seguito in terzo luogo da Lotario III; ma sopra gli altri imperatori nessuno  ne stabili tante quanto Federico Barbarossa e con le Costituzioni di questo imperatore Cujacio termina il suo libro. 

Sebbene nelle edizioni volgate se ne leggono anche di Federico Il, queste dovrebbero togliersi, poiché di Federico II come imperatore, non si hanno costituzioni attinenti ai feudi; di queste Costituzioni del regno ve ne sono moltissime ma esse non  hanno nulla a che vedere con le altre in quanto non sono augustali, ma erano state da lui stabilite come re di Sicilia e solo per questi suoi regni ereditari, non per altri (si tenga presente una volta per tutte che le Costituzioni imperiali raccolte erano anche quelle di tutti gli imperatori bizantini che si erano succeduti sul trono di Bisanzio, che in effetti non avevano nulla a che vedere con i feudi, inesistenti  nell’impero fino a quando l’impero non fu conquistato (1204) dai cristiani, ndr.).

Quelle costituzioni di Federico II che si leggono alla fine del Libro dei Feudi, secondo l’antica compilazione sotto il titolo di Statuti et Consuetudinibus circa libertate Ecclesiae editis, ecc., non hanno niente a che fare con i feudi, onde a torto furono aggiunte e per questa cagione, Cujacio riferisce di  non averle unite colle altre feudali,    

Per la stessa cagione le altre due di Enrico VII, poste sotto il titolo di Estravagantes, non appartenendo ai feudi, non meritano di trovarsi in quel luogo. 

Di questi imperatori nessuno quanto Federico I promulgò tante Costituzioni feudali, delle quali ve ne sono otto (*).

Di queste la sesta sotto il titolo di Pace Costantiae, come la quinta che la preceede,  appartiene alla pace d’Italia e fu stabilita a Roncaglia con i milnesi nella prima guerra che Federico ebbe con loro. 

Federico, per questa custituzione, aveva concesso alcune regalie alle città suddette, e verso altre egli si ritenne Fodrum e Investiturum  Consulum et Vassallorum e concesse al marchese Opizo il cognome Malatesta,

Seguono per ultimo dell’istesso imperatore, due costituzioni de Jure protomiseos, il quale dritto al sentir di Cujacio (che che ne dica il nostro reggente Marinis), competendo non meno agli agnati che ai padroni dei feudi, egli volle inserirle nel quinto libro dei Feudi; parimenti aggiunse una Novella greca dell’imperatore d’Oriente Romano Lecapeno, che tratta il medesimo diritto, donde Federico prese ciò che si vede stabilito nella prima sua costituzione attenente al Jus protomiseos.

Da ciò non possiamo tralasciare di notare che questa costituzione Sancimus, de jure protomiseos, con gravissimo errore da nno dei dottori è creduta che fosse costituzione di Federico II e sopra tal supposizione disputano se abbia a reputarsi come sua costituzione augustale, ovvero come una delle costituzioni del nostro regno, stabilitta per i regni di Sicilia e di Puglia; ed alcuni sostengono che come tale abbia forza di legge nel nostro regno.

 E l’errore è nato perchè la vedono unita insieme con le altre costituzioni e capitoli del nostro regno; ed anche perché hanno rilevato che il nostro Matteo d’Afflitto, che commentò le nostre, costui, fece anche sopra la detta costituzione un particolar commento, tratto nella maggior parte da un altro, non impresso, che ne fece prima di lui Antonio Caputo di Molfetta, dal quale, come dice Giovanni Antonio de Nigris, soppresso  il nome, Afflitto ne prese tanto, da scrivere quel suo trattato; onde vedendola commentata dai nostri antichi scrittori, la reputarono come una costituzione del  nostro regno.

L’errore è gravissimo e indegno di scusa; onde non possiamo non meravigliarci esservi incorso anche il cardinal di Luca, il quale da questa credenza che tal costituzione fosse di Federico II, fa nascere mille qaistioni, le quali cadono per stesse, come appoggiate sopra un falso fondamento; poichè la promulgò non Federico II, ma Federico I, il quale non aveava nessuna autorità di far leggi nei reami di Sicilia e Puglia, onde non poteva obbligar con quella i sudditi di Guglielmo ad accettarla.

Acquistò essa tanta forza di legge presso di noi, non già per autorità del legislatore, ma per consuetudine dei popoli, i quali dopo lungo corso dì tempo la ricevettero non  altrimenti che fu fatto per le stesse Pandette, e per gli altri libri di Giustiniano e ancora di questi libri dei Feudi; ond’è che oggi abbiano tutto il loro vigore nel regno, ma non già nella città di Napoli, ove su questo argomento si procede con particolare e propria consuetudine,  

Le altre leggi di Federico I, così le militari stabilite nel 1158 in Brescia ncll’assemhlea dei principi dell’impero, come le civili, non appartenendo punto a feudi a noi, volentieri tralasciamo, potendo  osservarle presso Goldasto (Costituzioni Imperiali) che le raccolse tutte nei suoi volumi,

 

 

 

 

*) La prima è sotto il titolo de Feudis non alienandis, ove si prospettano tre o quattro motivi in base ai quali si perde il feudo, proibendosi con maggior rigore, quello stabilito da Lotario: relativamente all’alienazione de’ feudi. 

La seconda, sotto il titolo de Jure Fisci, ovvero de Regalibus, ristabilisce in Italia le regalie, le quali per  disusanza andavano mancando, di cui si è già detto in precedenza. La terza, sotto il titolo de Pace tenenda, appartiene alla pubblica pace di Gernnnia onde dai Germani volgarmente è detta “Fried-brief”, cioè Breve di pace, e fu promulgata in Ratisbona dopo che erano state sedate le lotte intestine tra i principi di Germania, i quali avevano lungamente guerreggiato tra di loro per il ducato di Baviera, tolto dall’imperatore Corrado a Enrico il  Superbo; e poiché in essa si stabiliscono alcune disposizioni attenenti ai feudi, ai baroni e alla pubblica pace, fu annoverata tra le costituzioni feudali di questo principe.  

La quarta, sotto il titolo “de incendiariis et pacis violatoribns, che Cujacio prese dall’abate Uspergense, e che fu pubblicata da Federico nell’anno 1187 in Norimberga, parimenti appartiene alla pubblica pace di Germania, e pone alcune norme dei feudi; inoltre, anche se non riguardano direttamente i feudi, i nostri maggiori, come bene osserva Cujacio, han avuto l’accortezza di congiungere con i feudi, tutte quelle istituzioni che trattavano della pubblica pace, in quanto essa non potrà  mai aversi, se non dalla fede e costanza dei vassalli.

La quinta, sotto il titolo “Pace componenda cI rctinenda inter suhjectos, appartiene alla pubblica pace d’Italia, e fu promulgata in Roncaglia e firmata in Costanza (1183) con i  milanesi nella prima guerra che Federico ebbe con loro, poiché Federico già stanco delle tante guerre avute eon i  lombardi, volle intimare a tutti una dieta in Costanza, per poter quivi comporre questi affari.

La sesta sotto il titolo “de Pace Constantiae, appartiene anch’essa alla pace d’ Italia.

Vi intervennero molti principi e baroni e i deputati delle città di Lombardia, dei quali detta costituzione si legge in un ben lungo catalogo. Furono in essa accordati molti articoli e stabilite le condizioni delle città di Lombardia intorno ai servizi che si devono prestare all’imperatore, oltre ai quali non potessero esser gravati di alcun vantaggio.

 

    

 

 

PREMESSA

SULLA CAOTICA

SITUAZIONE

DEL PAPATO

 

 

 

A

lla vigilia del giubileo istituito per la prima volta all’inizio del secolo (che riscosse un gran successo di pellegrini), Roma (come riferisce Gregorovius) era  turbata da una feroce anarchia, si combatteva (1292) per la nomina di un senatore, si distruggevano palazzi, si ammazzavano i pellegrini, si saccheggiavano le chiese; il nepotismo dei papi aveva dato vita alle due fazioni che dominavano la città, Colonna e Orsini; in prossimità della Pasqua (1293) erano stati eletti due senatori Agapito Colonna e Orso Orsini, e la morte di quest’ultimo fu causa di ulteriori lotte.

Il Campidoglio era senza senatori, il Laterano senza papa in quanto l’anno precedente era morto (1292) il papa Nicola IV e una feroce rivalità tra fazioni, impediva la nomina del nuovo papa: a qulcuno venne l’idea di fare il nome di un anacoreta  che conduceva la vita dell’uomo primitivo in una capanna tra i monti degli Abruzzi, sul monteMorrone presso Sulmona; era Pietro di Monte Morrone che da poco aveva fondato l’Ordine religioso dello Spirito Santo e da lui aveva preso il nome di Ordine dei Celestini.

Tutti furono d’accordo ma la Chiesa fece un salto indietro di secoli; gli sostituirono gli stracci che indossava dell’’anacoreta, con la lussuosa tiara papale, gli fu dato il nome di Celestino V e fu condotto a Napoli dove fu ospitato in una cella do Catsel Nuovo (Maschio Angioino) costruito dal re Carlo d’Angiò: per quanto avesse potuto avere grandi doti umane, era assolutamente incapace a goverare la Chiesa.

Alcuni cortigiani si impossessarono del sigillo e gli facevano firmare tutto ciò che volevano;  si diceva che qualcuno (il riferimento era all’ambizioso cardinale Gaetani, che mirava a sostituirlo), la notte con un megafono, con una voce che sembrava provenisse   dall’al di là, lo invitava a dimettersi.

Il sogno di Celestino V, se egli avesse così immaginato il paradiso, quello in cui si era trovato, era durato cinque mesi; date le dimissioni se ne tornò a vivere nella sua capanna; il suo posto lo prese il cardinale Benedetto Gaetani, che assunse il nome di Bonifacio VIII (1294-1303), di tutt’altra levatura del papa che sostituiva.

In questi casi non vi possono essere giustificazioni del tipo del “gran rifiuto” richiamato da Dante, perché o si è capaci di governare o non lo si é; ai giorni nostri di esempi di ministri ( p. es. della Salute, che per impreparazione  ha fatto morire migliaia di fragili anziani!)  o di sindaci (p. es. Roma, che ha fatto morire la città, nella indifferenza dei romani!), incapaci, ve ne sono a sufficienza: gente senza pudore e senza dignità, che, con le proprie incapacità  non si dimette e rimane imperterrita al proprio posto.

Celestino V aveva avuto il pudore e la dignità di dimettersi e questi sono meriti che la storia gli deve riconoscere.  

Bonifacio VIII entrava in conflitto con Filippo IV il Bello (1266-1314), di Francia (il re che aveva annientato i Templari) in quanto Filippo, in guerra con Edoardo I d’Inghilterra, aveva chiesto danaro alla  Chiesa.

Filippo aveva infatti chiesto al clero francese il contributo per le spese di guerra; ma Bonifacio aveva emanato una bolla “Clerici laicos (1296) che vietava alle autorità di imporre tasse senza l’autorizzazione della santa sede, aggravata con la sanzione della scomunica; Filippo rispose bloccando il flusso di danaro ecclesiastico che dalla Francia era mandato a Roma.

Al momento vi fu una sospensione di questo provvedimento, ma si aprì una discussione sulla sovranità che il re-imperatore faceva valere nel proprio regno, come sosteneva  Filippo; mentre  il papa Bomifacio sosteneva il principio della sovranità assoluta del papa sui sovrani (che equivaleva alla teocrazia: il papa rappresentava Dio sulla terra!), riversato nella bolla “Ausculta filii (1302), con la quale il papa indiceva un concilio a Roma dei cardinali francesi che si trovavano in città.

Filippo a sua volta convocava gli Stati generali ed era pubblicato un documento con accuse mosse contro il papa e per di più Filippo inviava in Italia Guglielmo di Nogaret e Giacomo Colonna (detto Sciarra perché litigioso) per arrestarlo; il papa si trovava ad Anagni dove fu maltrattato (Sciarra gli avrebbe dato uno schiaffo) e il papa fu portato dalla folla in rivolta a Roma dove morì dopo due  giorni (1303) di crepacuore.

Fu eletto papa il francese Bertrand de Got, col nome di papa Clemente V (1305-1314) il quale si trasferì ad Avignone (poi, acquistata da Clemente VI (1348), da Giovanna I di Napoli per 80mila fiorini d’oro); Avignone divenne così sede papale  fino a quando il papa Gregorio XI, decideva (1377) di trasferirsi a Roma; ma moriva l’anno successivo e fu eletto nuovo papa l’arcivescovo di Bari (Bartolomeo Prignano) col nome di Urbano VI.

Di carattere duro e poco conciliante, la sua nomina non fu accettata da alcuni cardinali i quali riuniti a Fondi, con l’appoggio di Carlo V di Francia e Giovanna I di Napoli, elessero (1378) un altro papa,  Roberto di Ginevra che prese il nome di Clemente VII il quale si trasferì ad Avignone.

Si ebbero così due papi, ognuno con i propri sostenitori che eleggevano i successori; e così  a Roma furono eletti papi: Bonifacio IX (1389.1404); Innocenzo VII  (1404-1406) e Gregorio XII (1406-1407); ad Avignone dopo Clemente VII, fu eletto l’aragonese Pedro de Luna, col nome di Benedetto XIII (1394-1423).

La situazione era caotica e un gruppo di cardinali per mettere ordine indisse il Concilio di Pisa, ma Gregorio XII ne indisse uno a Cividale del Friuli, mentre Benedetto XIII  lo indisse a Perpignan.      

A Pisa i due papi furono deposti (1409) e fu eletto, come unico papa, l’arcivescovo di Milano, Pietro Filargo (1409) col nome di Alessandro V, che ebbe un solo anno di pontificato e come successore fu eletto Giovanni XXIII (1410-1415): ognuno di essi rimaneva al suo posto (secondo il detto “hinc manebumus optime”).  

A Pisa si trovava l’imperatore Sigismondo, re d’Ungheria, nominato re dei Romni il quale persuase Giovanni XXIII a convocare un Concilio a Costanza (1414-1418) dove gli altri due papi, Gregorio XII e Benedetto XIII non si presentarono; il Concilio impose all’antipapa Giovanni XXIII di deporre la sua nomina e questi accettò (1415); Gregorio XII lo seguì, rinunziando al papato nella speranza di far cessare lo scisma, mentre Benedetto XIII, che insisteva nel non voler riconoscere il Concilio, fu sottoposto a processo e fu deposto (1317).

Si procedette quindi alla nomina del nuovo papa con ventitre cardinali oltre a venti elettori nominati dal Concilio; risultò eletto papa Oddone Colonna col nome di Martino V (1417-1431), il quale fu riconosciuto dall’antipapa Giovanni XXIII, non da Benedetto XIII appoggiato dall’Aragona (dove furono eletti due successori Clemente VIII e Benedetto XIV).

Il papa Martino V succedeva al legittimo papa Gregorio XII il quale rimaneva a Firenze i primi due anni e nel 1420 si trasferiva definitivamente a Roma che da questo momento  ritornava sede papale.

Poiché il Concilio ribadiva il principio della propria superiorità sul papa, Martino V fissava i due Concili di Pavia-Siena (1423-1424) e Basilea (1431) dove ebbe luogo un ultimo strascico della nomina degli antipapi; Eugenio IV era deposto (1447) e nominato Felice V (Amedeo di Savoia), il quale, riconosciuta la irregolarità della propria posizione, abdicava spontaneamente (1449) chiudendo la serie degli antipapi.

A causa della peste (v. in Art. Le epdidemie nella storia), il Concilio si trasferì a Firenze (1439). In proposito è da dire che già dagli anni precedenti erano stati posti i presupposti, tra papa Martino V e l’imperatore di Bisanzio, del Concilio  per la Unione delle due Chiese; definito il Comcilio di Basilea se ne doveva aprire uno a Bologna esclusivamente per l’Unione; a causa della peste scoppiata a Bologna, il Concilio fu trasferito a Firenze e di questo Concilio ne parliamo negli Articoli dedicati ai Mille anni dell’Impero bizantino.

 

 

 

 

Concile de Constance

 

 

 

 

LA PARTECIPAZIONE

DI MINUCCI AI

CONCILI DI PISA

 COSTANZA E BASILEA

 

 

 

C

ome scrive Miogliorotto Maccioni, Minucci si era recato al Concilio di Pisa (1409) dove vi erano turbolenze dovute ai due papi, ciascuno dei quali sostenuto da un forte partito; a questi due papi (come abbiamo visto), se ne era aggiunto un terzo che aveva turbato ulteriormente l’unità dell’impero d’Occidente in quanto ciascuno dei diversi paesi partecipava per un proprio papa.

Dopo la morte dell’imperatore Carlo IV del Lussemburgo,  era stato eletto re dei romani, il figlio Venceslao il quale non si era recato a Roma per essere incoronato imperatore, ed essendo di carattere indolente, inetto,  instabile e non avendo le capacità di governare era stato imprigionato e deposto e gli elettori ecclesiastisti avevano eletto Ruperto-Roberto (elettore palatino) il quale però moriva l’anno successivo (1410).

Era quindi eletto re dei romani Sigismondo (sul quale si era abbattuto il movimento ussita della Boemia), ultimo della casata del Lussemburgo, che aveva mandato al Concilio come suoi rappresemtanti il cardinale Bessarione, Enea Silvio, Ambrogio Camaldolense, Leonardo' Aretino, Cristofaro Landino, Andrea Vicorati  e  Francesco Aretino, i quali non  ricevettero l’attenzione dei padri che dirigevano il Concilio, essendo sorte turbolenze e contrasti sui poteri del papa e dell’imperatore; da una parte, infatti,  si sosteneva la superiorità della volontà del papa rispetto al Concilio, tesi appoggiata da  alcuni giureconsulti, mentre altri tra i quali Minucci al contrario, sostenevano la superiorità dell’imperatore.

 Con il comune consenso di Giovanni XXIII e dell’imperatore Sigismondo ers stato covocato il Concilio di Costanza (1414.1418) dove Minucci fu inviato come rappresemtante dell’imperatore, in compagnia del conte Francesco da Campo; sfortunatamente Minucci si ammalava  per due mesi e l’imperatore lo aveva ricoperto di onori (nominandolo conte e Consigliere dell’impero); venuto poi a conoscenza dei suoi studi nel campo degli usi e cosuetudini feudali, gli chiedeva di emendare i Libri feudali di Oberto dell’Orto e Gherardo del Negro (di cui abbiamo già parlato).

Già da tempo si pensava al  Concilio di Basilea (1431-1439) per i contrasti sorti a causa degli ussiti (invitati al concilio per esporre la loro religione) ed era stato eletto papa Eugenio IV per riparare in parte i danni che subiva la Chiesa e le varie turbo­lenze che si agitavano; lo avevano messo nella necessità di iniziare la sessione di apertura nel mese di dicembre, invece che nel mese di marzo e si doveva discutere anche della superiorità del Concilio nei suoi confronti.

Il papa, non volendo saperne di questo argomento, aveva emesso una bolla con la quale scioglieva il Concilio, ma l’assemblea non accettava la bolla e nella Sessione XXXIV, si passò alla sua formale deposizione, dichia­randolo contumace, sinoniaco ed eretico; ma con l’intervento pacificatore di Sigismondo i lavori del concilio proseguirono negli anni successivi (1431-1443).

Furono molti i principi che intrevennero al Concilio e molti gli oratori e i giureconsulti inviati, fra i quali si distinsero Lodovico Romano e l’abate Panormitano (*) ed altri di fama.

Vari erano gli argomenti che si discutevano in Concilio; da parte dell’Imperatore Sigismondo, si sosteneva che il Concilio era stato convocato con suo editto e il Minucci sosteneva che solo all’Imperatore apparteneva il diritto di convocare il Concilio, a causa della superiorità delle ragioni che riguardavano i diritti dell'Imperatore, che si dovevano ritenere superiori a quelle sostenute dal pontefice nel Comcilio, come confermavano molti giureconsulti, per provare la preminenza del Concilio sul Pontefice. e Minucci, per conto dell’imperatore sosteneva le ragioni imperiali, che consistevano appunto nel diritto dell’ imperatore a convocare il Concilio (in proposito Enea Silvio nella sua Storia di Boemia riteneva Sigismondo di cuore facilmente pieghevole operando molto  in  favore  e contro il Concilio, danneggiando la Chiesa).

Oltre a questa incombenza che riguardava l’imperatore Sigismondo, Minucci ne aveva  altre che riguardavano il re Alfonso d’Aragona e altra ancora per la Repubblica di Venezia; mentre infatti il re Alfonso. impugnava la qualità feudale del Regno di Napoli, e ne contestava l’investitura fatta dalla Chiesa romana; la Repubblica di Venezia disputava di alcuni Feudi col patrarca di Aquilea.

Era stato appena eletto il papa Eugenio IV (veneziano Gabriele Condulmer 1431-1434) dalle turbolenze che agitavano il Concilio, ne era intimorito e procurò di unirsi a Sigismondo (come abbiamo detto egli era solo re dei romani in quanto non era stato ancora incoronato, e fu incoronato imperatore a Roma proprio dal papa Eugenio 1433, ma morì all’improvviso il 1437 (**)); Sigismonodo era di carattere accomodante e con il papa si trovarono d’accordo “in modo che tutto si accomodò tra i Padri adunati in quell' assemblea”.

Il re Alfonso era apertamente contrario al pon­tefice, approfittava del Concilio per contestare il potere del papa rispetto a quello del Concilio e aveva sollecitato molti giureconsulti a scrivere contro l'autorità del Papa e sostenere appunto la superiorità del Concilio su di lui.

Per sostenere le ragioni di Alfonso, a Basilea  era stato mandato il Minacci, il quale era ritenuto contrario ai diritti del papa, a causa di un vecchio risentimento nei confronti del patriarca di Alessandria, sorto quando il conte Francesco di Poppi durante un’assenza del patriarca si era impa­dronito del Borgo S. Sepocro nel Casentino, che apparteneva alla Chiesa e la Repubblica fiorentina aveva dovuto mandare Alessandro Alessandri con l’esercito per risolvere questione.

Minucci era molto stimato per la sua dottrina e in grado di sostenere la tesi contraria a quella sostenuta dal papa, sulla quale si discuteva già dai tempi di Clemente IV (***) che il Regno di Napoli si riteneva fosse feudo della Chiesa.

La tesi del Minucci, era che il Papa non aveva alcun diritto di vassallaggio sul regno, non tanto perchè non aven­dolo mai posseduto, non poteva neanche trarsferirlo, quanto perchè le Consuetudíni Feudali non accordavano tali diritti, se non all'Imperatore; e se (tali diritti) erano stati praticati, non potevano produrre alcun effetto per il decorso del tempo, in quanto sostenuti dalla mala fede: dal che derivava  che la prescrizione non poteva aver luogo, sia perchè si richiedeva la buona fede  fin dall'origi­ne, sia perchè questi diritti non ptevano essere pre­scritti, si poteva ottenere con la forza ciò che sia  per le leggi, sia  per le consuetudini dei feudi era riservato all' imperatore”.

A causa dello strepito, della confusione e della discordia  e dei gravi disordini che regnavano nel Concilio, su questo argomento non vi fu alcuna risposta!

 

 

 

 

*) L’abate Panormitano, Nicolò Tedeschi (1386-1445), tedesco di origine, aveva scritto un “Trattato fopra la superiorità del Concilio”, e poi scrisse in favore del Pontefice contro il Concilio, e quindi nuovamente impugnò le ragioni del Papa per sostenere la Giustizia de Padri di Basilea. Similmente Nicolò Cusano che avea tenute le parti del Concilio, per la speranza del cardinalato si indusse a sostenere le parti d'Eugenio (Richer, Historia Concili)

**) Queste morti improvvise di imperatori o grandi personaggi che dal Nord si recavano a Roma erano spesso dovute al clima pestifero di Roma che provocava la malaria, dalla quale non erano colpiti coloro che vivevano nel territorio in quanto ne erano naturalmente vaccinati.

 ***) Clemente IV 1265-1268) era il papa che aveva offerto il regno di Napoli a Carlo d’Angiò ma la questione del vassallaggio dei re del regno di Napoli risaliva a oltre due secoli prima quando Roberto il Guiscardo dopo la battaglia di Civitella (18.6.1053) era stato acclamato duca dai suoi soldati, titolo che il papa Nicola II gli confermava al Concilio di Melfi (1059); sin da allora era stato stabilito un censo  di dodici denari per ciascun paio di buoi, o sia per ogni estensione di tanto terreno quanto arar ne possa in un giorno un paio di buoi; censo che rimarrà, cambiando nel tempo le modalità del suo versamento; con il giuramento Roberto assumeva la difesa della Chiesa romana e della persona del papa, attesi i pericoli ai quali (specie in quel periodo) era esposto. 

Ruggero II, con la bolla del papa Anacleto (antipapa), del 1130,  aveva ricevuto coronam regni della Sicilia, Calabria, Apulia oltre al principato di Capua e ducato di Napoli che neanche gli spettavano.

Si trattava di un abuso del papato che si considerava proprietario di quei territori, abuso che era comunque acecettato con la contropartita del censo, per la convenienza che avevano i re a ricevere la corona sulla propria testa  da parte dei papi.

 

 

 

FINE