L’EUROPA

VERSO LA FINE DEL MEDIOEVO

 

MICHELE DUCAS PUGLIA

 

PARTE QUARTA

 

SOMMARIO:  L’ITALIA ALLA FINE DEL “1400” CAMPO DI BATTAGLIA PER FRANCESI E SPAGNOLI: TRAME E FERMENTI; LA DISCESA DI CARLO VIII; IL DUCATO DI MILANO; LA CONGIURA CONTRO GALEAZZO SFORZA; L’USURPAZIONE DI LUDOVICO IL MORO; IL REGNO DI NAPOLI TRA ANGIOINI E ARAGONESI: GLI ANGIOINI; GLI ARAGONESI E LO SPAGNOLISMO MERIDIONALE; IL TRATTATO DI GRANADA E LE CONQUISTE DI CONSALVO DA CORDOBA; IL REGNO DI SICILIA.

 

L’ITALIA ALLA FINE DEL “1400”
CAMPO DI BATTAGLIA PER SPAGNOLI E FRANCESI:

TRAME E FERMENTI

 

L

’Italia verso la metà del Quattrocento era un insieme di piccoli Stati con al centro incuneato lo Stato pontificio, causa principale, anche se non unica (come vedremo più avanti), della mancata unificazione del paese, così diviso in due.

Con la pace di Lodi (1453) cessava la guerra di Venezia contro il ducato di Milano  e, per il momento, cessavano anche le trame degli uni contro gli altri (nel 1451 Venezia aveva mandato un proprio agente nel milanese per avvelenare Francesco Sforza).

Il Nord era diviso tra varie Signorie (i principi governavano sempre con il consenso popolare, almeno fino a quando il signore non si appropriava del potere con la tirannia), come il Ducato di Milano, il Ducato di Savoia, il marchesato del Monferrato, la contea di Saluzzo, le Signorie di Este, Modena, Ferrara, Ravenna, Pesaro, Urbino vi erano poi le Repubbliche di Venezia, di Genova, Firenze (di cui si erano impossessati i Medici), Pisa e Siena.

Il Sud costituiva l’entità territoriale maggiore con i Regni di Napoli e di Sicilia, se pur governati separatamente, sempre in continuo fermento di lotte e rivolte dei baroni.

L’Italia nella sua frammentazione non era un caso unico in Europa. Al nord infatti vi era  l’Impero Romano Germanico, ancora più frazionato della realtà italiana, i cui i principi seppur altrettanto litigiosi, erano però tutti uniti in questa forma confederativa, con un imperatore che li rappresentava.

Il risultato finale di questa confederazione era stato quello dell’unificazione della Germania, unificazione  che non aveva portato quelle differenze abissali che si riscontrano ancora oggi in Italia e che dividono il nord, il centro e il sud della penisola.

Tra i reggitori delle varie Repubbliche e Signorie italiane era un continuo fermento di trame, con trattati che nel momento in cui si facevano, erano disfatti (sia in maniera palese sia con accordi sotterranei), in una continua lotta di tutti contro tutti (per questi comportamenti v. in Specchio dell’Epoca: La congiura dei baroni).

L’idea generale non dichiarata era che se qualcuno in questo contesto di piccoli Stati avesse raggiunto una soglia di sicurezza, vale a dire una maggior forza o potere rispetto agli altri, tutti costoro, amici o nemici, si mettevano in movimento per impedirgliela.

Di questi territori, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, il Ducato di Milano e il Regno di Napoli, erano rivendicati e occupati da monarchi stranieri (spagnoli e francesi) che disputavano le loro pretese in territorio italiano, e, per queste dispute l’Italia era divenuta il campo di battaglia per gli eserciti francesi e spagnoli.

Quando Mehemet (II)  aveva conquistato Costantinopoli (v. in Articoli: La prima e quarta crociata ecc. e Recensioni: Ducas, Historia), l’Occidente cristiano non aveva mosso un dito per portare aiuto all’imperatore che lo invocava; quarant’anni dopo, Carlo VIII di Francia, preso dal ricordo dei cavalieri crociati, aveva pensato anche lui di realizzare delle conquiste, cominciando dall’Italia per poi giungere a Gerusalemme e combattere i turchi.

Sulla idea di Carlo, che inizialmente era solo un sogno megalomane, aveva agito Venezia che si era servita del principe di Salerno, Roberto Sanseverino, comandante delle sue truppe, per appoggiare il re di Francia, e ciò contro il re Ferdinando di Napoli e il figlio Alfonso, duca di Calabria, i quali avevano anche una flotta e avrebbero potuto più facilmente conquistare tutti gli altri stati italiani e finalmente unificare tutta l’Italia, mentre con il re di Francia si sarebbe potuto avere, come si riteneva, un regno “tranquillo e soave”, ma sotto la dominazione straniera.

L’opera di convincimento su Carlo VIII fu lunga e alla fine Carlo si convinse in seguito all’intervento di Ludovico il Moro, il quale sconquassando il regno di Ferdinando (a nulla era servito il rapporto di parentela tra Alfonso che aveva sposato Ippolita Maria Sforza sorella di Ludovico il Moro e il nipote di questo Gian Galeazzo che aveva sposato Isabella figlia di Alfonso!), avrebbe potuto togliere definitivamente al nipote il ducato di Milano.

Da parte italiana la calata di Carlo VIII, non era stata vista nei suoi aspetti negativi delle distruzioni che l’invasione e la guerra avrebbero potuto portare. Ognuno dei  vari Stati pensava invece ai  vantaggi che ne avrebbe conseguito, e questa idea aveva dato luogo a un fermento di accordi e di impegni, fatti tutti però con la consapevolezza che essi avrebbero potuto essere cambiati secondo le necessità del momento.

Infatti, Gian Galeazzo Sforza (v. sotto, Ducato di Milano), dalla venuta del re di Francia si aspettava un cambiamento della sua situazione personale nei confronti dello zio usurpatore, Ludovico il Moro; Ludovico il Moro, a sua volta oltre a togliere definitivamente il ducato al nipote, che era duca di Bari, si aspettava di estendere i suoi territori anche in Puglia, prendendo al nipote il ducato di Bari e facendosi concedere da Carlo VIII il principato di Taranto; il duca di Ferrara, Ercole III d’Este, si aspettava che dalle turbolenze potesse riavere il Polesine e Rovigo che aveva dovuto cedere ai veneziani; i  veneziani miravano ad espandere il loro territorio in danno del ducato di Milano e ad appropriarsi di qualche città e territorio ancora in danno del ducato di Ferrara.

Per primo si era mosso Ludovico il Moro il quale, conosciute le intenzioni di Carlo VIII (all’epoca anche le intenzioni, come le idee e gli uomini viaggiavano celermente con lo spionaggio che utilizzava lettere cifrate)  gli aveva inviato legati per fargli conoscere le condizioni della sua venuta per la conquista del regno di Napoli.

Il patto raggiunto prevedeva che quando Carlo fosse giunto in Italia, il duca di Milano gli avrebbe consentito il passaggio attraverso i suoi stati facendolo accompagnare a sue spese da cinquecento uomini d’arme, permettendogli di armare a Genova quante navi avesse voluto, oltre a un prestito di duecentomila ducati.

Il re invece si impegnava a difendere contro chiunque il ducato di Milano e l’autorità di Ludovico; a lasciare nella città di Asti, appartenente al duca d’Orleans (portata in dote dalla madre Valentina Visconti), duecento soldati francesi pronti a difendere in qualunque momento la casa Sforza. e infine, la concessione al duca di Milano del principato di Taranto.

Questi accordi erano segreti e Ludovico, per evitare che si potessero intuire, fece in modo che si credesse che anche lui fosse “atterrito” della venuta di Carlo VIII.

Con un altro trattato (Barcellona, 1493) anche Ferdinando d’Aragona, il Cattolico,  tramava contro il cugino (e anche cognato) Ferdinando di Napoli (che detestava e considerava bastardo), e concordava con Carlo VIII la restituzione della Cerdagna con Perpignan e la contea di Rossillion,  a condizione che Ferdinando il Cattolico non portasse aiuto al re di Napoli, e che non si  opponesse alle sue conquiste  in Italia.

Anche l’imperatore Massimiliano aveva mostrato la sua contrarietà a questa venuta (come Enrico VIII d’Inghilterra), ma Massimiliano essendo un Asburgo, avido di terre e di danaro - in Italia era denominato “Massimiliano pochi denari”- fu tacitato da Carlo VIII con la cessione della Borgogna, l’Artois,  lo Charolais e il Noyon (trattato di Genlis, 1493), mentre Enrico VIII che aveva posto l’assedio a Boulogne, fu tacitato col trattato di Etaples che rinnovava quello di Paquigny (1492)).

Dopodicchè Carlo VIII mandò ambasciatori presso vari Stati italiani per chiedere di prestargli aiuto per recuperare i diritti della sua Casa.

Capo dell’ambasceria era Perron de’ Baschi (di famiglia originaria di Orvieto) il quale si recò per primo a Venezia, dove  per conto del suo re e signore chiedeva aiuto e consiglio”.

I veneziani, che sarebbero stati ben felici di una riduzione del potere raggiunto dagli  aragonesi e si sarebbero volentieri alleati con la Francia, temevano che nel mezzo dell’impresa potessero essere abbandonati dai francesi, e avrebbero poi dovuto proseguire la guerra da soli.

Essi diedero di conseguenza una risposta, che lascia intendere quanto fosse sottile (e ambigua!) la loro arte diplomatica. Risposero infatti che “si sarebbero sentiti troppo presuntuosi se avessero ritenuto poter dare consigli a un principe circondato da uomini tanto prudenti. Che per contro, sarebbe stato imprudente promettergli soccorso in quanto essi dovevano essere sempre in stato di allerta per respingere gli attacchi dei turchi. Che in ogni caso,  il re non doveva dubitare dell’affetto e devozione della Repubblica verso la corona di Francia”.

Quindi l’ambasciata francese si recò a Firenze dove fu accolta dal Consiglio dei Settanta, integrato per l’occasione da un comitato dei Gonfalonieri. Gli ambasciatori chiesero che fosse concesso al loro re il passaggio dell’esercito francese e vettovaglie dietro pagamento.

Il Consiglio era fedele a Piero de’ Medici (v. in Specchio dell’Epoca: La cacciata dei Medici da Firenze), il quale parteggiava per gli aragonesi, e nello stesso tempo non voleva nuocere  ai fiorentini che in Francia esercitavano  attività bancaria e commercio e diede una risposta evasiva,  inviando poi direttamente presso il re, Piero Capponi e Guid’Antonio Vespucci per esternargli l’amicizia della città.

Fu poi la volta di Siena, e i senesi risposero che deboli com’erano avrebbero corso grave pericolo se si fossero dichiarati sostenitori dell’uno o dell’altro e dissero di voler rimanere scrupolosamente neutrali.

Il papa Alessandro VI, mentre da una parte con le sue “bolle” esortava Carlo VIII a volgere tutte le sue forze contro i turchi anziché contro un principe cristiano (Ferdinando d’Aragona), figlio della Chiesa, dall’altra gli aizzava contro, da una parte i turchi e  dall’altra facendo pervenire a Ferdinando il Cattolico tutto ciò che aveva raccolto come tassa per la crociata che aveva fatto bandire in Spagna...”a condizione che Ferdinando il Cattolico se ne servisse contro il re di Francia e non contro i turchi infedeli”(!). E presso i turchi infedeli il papa aveva mandato un suo rappresentante, con l’ambasceria di Ferdinando d’Aragona...”per trattare direttamente per conto del papa”(!).   

Ferdinando in mezzo a tutto questo fermento, si era inutilmente rivolto a Ludovico il Moro ricordandogli che la figlia di suo figlio Alfonso (Isabella), aveva sposato Gian Galeazzo e lui stesso aveva sposato la figlia di sua figlia, duchessa di Ferrara (Alfonsina-Beatrice d’Este).

Ferdinando quindi aveva mandato per due volte un’ambasceria dal sultano, Bayazet II (figlio del grande Maometto II), alla seconda delle quali aveva partecipato il legato del papa, per rappresentargli che Carlo VIII aveva intenzione di conquistare il regno di Napoli al solo scopo di servirsene come base per la conquista dell’impero d’Oriente. Egli chiedeva (imprudentemente!) un aiuto di seimila soldati  e altrettanti cavalli, promettendo che avrebbe provveduto al loro mantenimento per tutto il tempo che sarebbero rimasti al suo servizio.

Per un altro sultano, della tempra di Maometto II, sarebbe stata una bella occasione per invadere pacificamente il regno e impadronirsene, ma Bayazet II era un uomo pacifico e non gli piacevano le guerre e si limitò a chiedere all’Albania di mettere a disposizione del re di Napoli quattromila soldati fatti convenire a Valona.

Ferdinando rivolgendosi al papa gli chiese una più stretta alleanza di quella conclusa da suo padre, oltre alla conferma della investitura per il figlio Alfonso.

Il papa profittando di queste richieste colse l’occasione di dare un illustre parentado ai suoi figli e chiese di suggellare gli accordi con un matrimonio con uno dei suoi figli. Sua intenzione era quella di far sposare Cesare con una sorella di Ferdinando per avere il principato di Taranto (sul quale, come abbiamo visto aveva le sue mire Ludovico il Moro), ma ottenne un rifiuto e ripiegò su  una figlia naturale di Alfonso.

Quest’ultimo non era neanche d’accordo, ma il timore dei francesi gli fece cambiare idea e diede il consenso per il matrimonio tra sua figlia Sancia con l’altro figlio del papa, Jofré  Borgia. Gli accordi (i due non erano ancora in età matrimoniale) furono accompagnati non solo dalla dote per Sancia ma da una  enorme quantità di benefici che costituivano una immensa fortuna (v. in Articoli: I Borgia).

Quando in ultimo l’ambasceria si recò dal papa, egli rispose di non  poter revocare l’investitura data dai suoi predecessori ai principi d’Aragona senza che vi fosse stato un giudizio sui diritti di Casa d’Angiò. In ogni caso il papa faceva presente che il regno di Napoli era un feudo della Chiesa e occupare il regno sarebbe stato come assalire la Chiesa stessa.

Con  queste risposte si potrebbe credere che gl’italiani non volessero vedere sul proprio suolo un esercito straniero, ma la realtà era diversa. 

Gl’italiani sin da quei tempi (v. in Schede Gl’italiani, secondo Prezzolini, ecc.) hanno avuto sempre un debole per la politica del doppio gioco, e nel momento stesso in cui raggiungevano un accordo, già pensavano di cambiarne i termini, ricorrendo all’alleanza con  quella che era stata la controparte precedente (v. in Specchio dell’Epoca, cit.: La congiura dei baroni). In questa occasione avvenne però che, dopo tutte le dichiarazioni di disimpegno sulle richieste di Carlo VIII, in effetti, tutti aspettavano con impazienza la sua venuta!

L’imperatore Massimiliano I d’Asburgo

LA DISCESA DI CARLO VIII

 

 

E

 Carlo VIII discese in Italia partendo da Vienne (23 agosto 1494), con un esercito che si diceva formato da circa 40mila uomini,  in effetti era di circa venticinque-trentamila  uomini, di cui duecento cavalieri della nobiltà francese e milleseicento lance (ogni lancia era formata da sei cavalieri e due arcieri), tremila soldati svizzeri e tedeschi, cinquemila guasconi e una gran quantità di pezzi di artiglieria “di tal sorta che mai aveva veduta Italia le somiglianze”.

Alfonso  per fermare Carlo VIII aveva mandato suo fratello Federico a Rapallo (settembre 1494)  il quale aveva raccolto un esercito di cinquecento cavalieri, cinquemila soldati e un gran numero di fanti, ai quali si erano aggiunte le truppe di Giovanni Adorno fratello del doge di Genova, Agostino Adorno,  ma furono sconfitti.

Carlo  quindi da Genova si recava in visita ad Asti ricevuto in gran pompa da Ludovico il Moro e dalla moglie Beatrice, e dovette fermarsi per un mese perché colpito dal vaiolo. Poi si recò a Pavia dal cugino Gian Galeazzo Sforza (le loro madri erano sorelle), che giaceva ammalato e la moglie Isabella gettandosi ai suoi piedi,  con le lacrime agli occhi, gli chiese pietà per il padre (Alfonso) e per il regno (di Napoli). Ma Carlo le rispose che oramai l’impresa era andata tanto avanti che non era più possibile fermarla.

A Firenze i fiorentini desideravano liberarsi dal giogo dei Medici e approfittarono dell’arrivo di Carlo VIII, per cacciare Piero de’ Medici (v. in Specchio dell’Epoca: La cacciata dei Medici) sottoscrivendo un accordo con Carlo, col quale gli davano il permesso di attraversare quel territorio per proseguire per Roma e Napoli (1494).

E’ in questo periodo che si svolge la breve carriera di Gerolamo Savonarola (v. precedente P. III), insorto contro la vita scandalosa del papa (Alessandro VI), il quale, dopo essere stato  sospeso dalla predicazione, fu scomunicato e quindi  impiccato e bruciato.

Carlo VIII della casa d’Angiò (1470-1498), detto Testa Grossa, figlio di Luigi XI e di Carlotta di Savoia, aveva avuto la corona a soli tredici anni e non era stato dotato dalla natura di qualità che potessero caratterizzare un monarca. E’ stato descritto piccolo di statura, con un corpo glabro e malaticcio, aveva la testa grossa, il colorito pallido, orecchie mostruose, la bocca aperta e le labbra penzolanti, gli occhi a palla, un naso grosso e gonfio, le braccia e le gambe rachitiche, con le mani scosse da un tremito, i piedi così larghi e lunghi che si diceva avesse otto o dieci dita per piede (Guicciardini scrive “era bruttissimo, e se gli levi la dignità degli occhi, è più simile a un mostro che a un uomo”).

Debole nel fisico e nello spirito era stato educato “nell’ignoranza di tutto”. Il padre aveva voluto che del latino imparasse la sola frase: “Qui nescit simulare nescit regnare-chi non sa simulare non sa regnare”. In alcune occasioni aveva mostrato di essere anche un pusillanime. Aveva solo una smodata ambizione che lo portava a rivendicare i diritti dei d’Angiò sul regno di Napoli e dopo questa conquista, andare a combattere i turchi e conquistare il regno di Davide (Gerusalemme).

Questi diritti vantati da Carlo VIII derivavano dalla cessione dei diritti (vantati, non effettivi) fatta da Renato (II) di Lorena a Luigi XI di Francia, figlio di una sua sorella (v. sotto: Gli angioini).

Le truppe di Carlo VIII entravano in Roma nel pomeriggio del 31 dicembre, sotto un cielo plumbeo, al lume delle torce. Sfilarono i mercenari,  preceduti da tremila svizzeri e tedeschi nei loro  costumi colorati, con le picche lunghe più di tre metri poggiate alla spalla e cinquemila guasconi con balestre, “brutti e deformi a vedersi”. Seguivano i nobili nei loro vestiti di seta, con elmi, pennacchi e catene d’oro: i loro imponenti cavalli avevano un aspetto terribile, con le orecchie e le criniere tagliate suscitavano terrore; chiudevano la sfilata  i famosi cannoni francesi: trentasei cannoni di bronzo che sparavano palle di ferro (mentre in Italia erano ancora diffuse le bombarde che sparavano palle di pietra).

Carlo VIII  si recò dal papa con i cardinali ribelli Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere, il quale rimase deluso della persona del sovrano francese, sebbene indossasse una scintillante armatura con mantellina cremisi e fregi d’oro che nascondevano il corpo deforme del re.

Essi concordarono una riappacificazione tra il papa e gli otto cardinali ostili che lo volevano destituire e farlo processare, tra i quali Ascanio Sforza (da lui nominato vicecancelliere), Giuliano della Rovere e il cardinale Colonna, con il pagamento a costoro delle prebende riservate di diritto al cappello cardinalizio.

Il papa, inoltre, doveva cedere  in prestito al re le piazzeforti di Terracina, Civitavecchia, Viterbo e Spoleto (che non fu consegnata), da restituire al ritorno da Napoli. Infine il papa si impegnava a non nominare vescovi in luoghi o città della Chiesa (in Francia), senza il consenso del re, nominando cardinali il vescovo di Saint Malò e il vescovo di Mans.

Sebbene il re avesse vietato ai soldati il saccheggio essi diedero ugualmente una prova di quello che sarebbe stato il tremendo saccheggio dei lanzichenecchi di Carlo V (v. Articoli: Carlo V tra Rinascimento, Riforma ecc., P. V): vi furono incendi e furti nei palazzi le cui sale erano diventate lerce scuderie, con i pavimenti di marmo sporchi di sterco, urina e vomito dei soldati ubriachi. Nei bordelli erano scoppiate risse perché i soldati dopo aver bevuto, mangiato ed essersi serviti delle donne, non volevano pagare; nel ghetto le giovani ebree erano state tutte stuprate dopo che i mariti erano stati uccisi.

A Napoli al sopraggiungere di Carlo (genn. 1495), Alfonso II che aveva da poco ricevuto la corona dal padre appena morto, aveva avuto notizia che la popolazione ricordando l’odio che egli aveva suscitato per le sue crudeltà, si mostrava favorevole ai francesi. Egli,  ritenendo che mettendosi da parte avrebbe rimosso l’odio nutrito nei suoi confronti, abdicava in favore del figlio Ferdinando II-Ferrandino partendo per la Sicilia dove morì lo stesso anno (v. sotto, par.: Gli Aragonesi).

Quando Carlo giunse a Napoli, tutte le province del regno passarono dalla parte dei francesi: tutta Terra di Lavoro, ad esclusione di Capua ed Ischia; la Calabria ad esclusione di Amantea, Tropea e Reggio, l’Abruzzo e per prima la città dell’Aquila e la Puglia ad eccezione di Brindisi e Gallipoli.

Il re Carlo, fece il solenne ingresso in Napoli vestito dal manto reale e portando il globo nella destra e lo scettro nella sinistra, accompagnato da tutta la nobiltà francese e dai  baroni e signori del regno che erano accorsi a rendergli omaggio, e, nella chiesa di s. Gennaro, ricevute le insegne reali giurò ai napoletani di governarli secondo i loro diritti, libertà e privilegi, e di mantenerli e difenderli, nominò cavalieri molti giovani che glielo avevano chiesto.

L’umanista Giovanni Pontano (v. Articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc, P. I) dimenticando i favori ricevuti da Ferdinando e Alfonso, e non mostrando alcuna gratitudine verso chi lo aveva onorato e ampiamente beneficato, invitato da Carlo, tenne una enfatica prolusione in favore del re francese.

In quei giorni vi furono giostre e feste, ed anche s. Gennaro aveva mostrato la sua benevolenza verso il re francese facendo liquefare il suo sangue.

Il 20 maggio, essendo giunta a Carlo la notizia che la Lega aveva costituito un esercito sotto il comando del marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, che minacciava di ucciderlo o farlo prigioniero. Carlo lasciati cinquecento soldati francesi e duemilacinquecento svizzeri e nobili francesi in varie città, se ne partì in tutta fretta, lasciando il comando al duca Gilberto di Montpensier, nominato viceré.

Mentre Carlo VIII risaliva la penisola, in poco tempo le cose mutarono come mutarono  speranze e desideri…e con un voltafaccia generale, tutti gli si rivoltarono contro: Ferdinando il Cattolico passò a sostenere i suoi detestati parenti di Napoli; i napoletani dopo averlo applaudito, mandarono a chiamare il giovane Ferdinando II;  Ercole d’Este attendeva il momento opportuno per riprendersi il Polesine con Rovigo che aveva dovuto cedere ai veneziani con la pace di Bagnolo, mentre in Calabria Consalvo da Cordoba  combatteva contro i francesi.

Anche Alessandro VI, non appena si era reso conto del successo di Carlo, si era rivolto ai veneziani, e all’imperatore Massimiliano chiedeva di venire in Italia in soccorso della Chiesa, e, non ritenendosi sicuro a Roma, se ne andò a Civitavecchia e poi a Perugia.

Si  costituiva quindi una Lega tra Venezia, Ludovico il Moro che era stato la causa principale della venuta di Carlo, e a questa nuova lega, temendo ciascuno per il proprio  Stato, si associavano, l’imperatore di Germania Massimiliano d’Asburgo, Ferdinando il Cattolico e il papa. Per renderlo più plausibile, il trattato fu firmato come “difesa contro il Turco”.

I soldati francesi attraversando le terre della Chiesa si dettero a ruberie e saccheggi. Carlo dopo essersi fermato a Siena, Firenze e Pisa, giunse sul Taro dove avvenne lo scontro: egli comandava personalmente i francesi (nove guerrieri erano però vestiti come il re) e si comportava con audacia, mentre l’esercito della lega  era sotto il comando del marchese di Mantova, Francesco Gonzaga che gli sbarrava la strada.

A Fornovo (6 luglio 1495) vi fu un duro combattimento, di cui non si è mai saputo chi ne fosse uscito vincitore; ma dal numero dei morti (duemilacinquecento in campo italiano e mille i francesi), in effetti era stato Carlo ad avere la meglio. Ma non aveva saputo  sfruttare la situazione perché, passata la notte nell’accampamento, la mattina un’ora prima dell’alba Carlo aveva fatto diffondere per l’accampamento la parola d’ordine “fait bon gué”, fate buona guardia, e tutti i francesi montati a cavallo partirono per Borgo s. Donnino.

Erano stati lasciati i fuochi accesi, senza togliere l’accampamento e nel suo padiglione il re aveva lasciato parte dei suoi archivi e del suo bagaglio, con il sigillo reale, l’elmo e la spada da parata, dirigendosi ad Asti. Solo a mezzogiorno nel campo italiano si accorsero della partenza di Carlo.

Le piogge avevano gonfiato il Taro al di là del quale si trovava l’esercito della lega; il conte di Caiazzo con duecento cavalieri aveva tentato l’inseguimento ma vi era un distacco di sei miglia che aveva consentito ai francesi di superare il tratto impervio dell’Appennino, dove avrebbero potuto essere attaccati; si attestarono nell’ampia pianura riunendosi all’avanguardia, all’artiglieria e alle salmerie che li aspettavano.

In questo posto adatto per una battaglia, avanguardia e retroguardia dell’esercito della lega non osarono attaccare e Carlo ebbe la possibilità di ripartire.

Fermandosi a Torino Carlo, dimenticando la guerra, si concesse degli svaghi con una fanciulla di Chieri, Anna Soleri, senza preoccuparsi del duca d’Orleans che aveva mandato a chiedergli aiuto perchè  dopo aver occupato Novara, colpito da febbre quartana, vi era rimasto assediato dalle truppe di Ludovico il Moro. Ma, in seguito  a trattative, a Vercelli Carlo firmava con lui la pace (9/10-XI- 1495). 

 A questo punto Guicciardini scrive che, tra le altre calamità portate in Italia dai francesi, si raccontava che costoro avessero diffuso a Napoli e poi al ritorno, nel resto d’Italia, la sifilide chiamata “le bolle” (perchè provocava bolle che diventavano piaghe inguaribili)  o “mal francese”. Ma, aggiunge, “occorre togliere questa ignominia ai francesi (lo stesso Carlo però ne era portatore ndr.) perché a Napoli l’avevano portata gli spagnoli che con Cristoforo Colombo l’avevano portata dal nuovo mondo, dove però gli indigeni guarivano bevendo il liquido di una pianta”  (in effetti la malattia era europea essendone state trovate tracce fin dal medio evo, e, al contrario, erano stati gli spagnoli a diffonderla tra gli indigeni che furono falcidiati oltre che dalle armi, anche dalle malattie, e con la calata dell’esercito francese in Italia essa aveva avuto una vera e propria diffusione epidemica  ndr.).

Rientrato in Francia, Carlo VIII si era fermato nella città di Lione dove si dedicò ai divertimenti, ai piaceri, alle giostre e tornei dimenticando le recenti conquiste. 

Aveva anzi avviato dei negoziati con Ferdinando il Cattolico al quale aveva mandato suoi legati per proporre la divisione del regno di Napoli, quando ad Amboise, veniva colpito (1498) da un “accidente di gocciola” aveva scritto Guicciardini (precisando “che i fisici chiamano apoplessia”: si trattava di ictus ndr.), e moriva dopo nove ore di agonia. Alcuni storici avevano scritto che aveva battuto la fronte all’architrave di una porta bassa, e altri avevano pensato all’immancabile veleno, perché Carlo aveva mangiato delle arance giuntegli dall’Italia.  

A Carlo VIII succedeva il cugino Luigi XII (d’Orleans), nipote del duca Luigi d’Orleans che aveva sposato Valentina Visconti, dalla quale derivavano le rivendicazioni degli Orleans sul ducato di Milano (le rivendicazioni di Carlo VIII invece come abbiamo visto, derivavano dalla successione di Renato d’Angiò), il quale al momento dell’incoronazione oltre a farsi incoronare re delle due Sicilie e di Gerusalemme, aveva assunto anche il titolo di duca di Milano, facndo sapere che si proponeva di sostenere con tutte le sue forze queste rivendicazioni.

E senza ulteriori indugi, l’anno successivo (ottobre 1499), un esercito comandato da Trivulzio, d’Aubigny e Ligny, gli aprì la strada ed entrò in Milano. Dopo il suo ingresso a Milano, Luigi se ne ripartì lasciando come Luogotenente, Trivulzio il quale si rese inviso alla popolazione per le vessazioni e la cupidigia.

Ludovico (v. sotto: L’usurpazione di Ludovico il Moro) che all’arrivo dell’esercito francese era scappato da Milano, ritornò nel gennaio del 1500, riconquistando il ducato. Luigi XII radunò un nuovo esercito al comando di La Tremouille e Ludovico questa volta cadeva prigioniero nelle mani dei francesi (v. sotto: L’usurpazione di Ludovico il Moro).

Nel frattempo Luigi XII firmava con Ferdinando il Cattolico un trattato segreto (Granada 1500), col quale i due re stabilivano di attaccare insieme il regno di Napoli e dividerselo (v. sotto: Il regno di Napoli).

 

IL DUCATO DI MILANO

N

ella seconda metà del XIV sec. Milano era sotto il dominio dei Visconti i quali raggiunsero il massimo della potenza con Gian Galeazzo (1351-1402) figlio di Galeazzo II (1320-1378). Costui per il prestigio del casato aveva versato una cifra considerevole (tra i 400 e 600 mila scudi), per far sposare Gian Galeazzo con Isabella di Valois (1364), figlia del re di Francia Giovanni II.

Gian Galeazzo rimasto vedovo (1372) si era risposato con sua cugina Caterina, figlia dello zio Bernabò (1323-1385), ucciso dal nipote e genero (1385), che così diventava padrone assoluto di Milano. Egli aveva sotto la sua egemonia i marchesati di Saluzzo e Monferrato, si era impadronito di Vicenza e Verona (1387) a danno degli Scaligeri,  e di Padova (1388) a danno dei Carraresi.

Aveva ottenuto il titolo ereditario di duca di Milano dall’imperatore del Sacro Romano Impero, Venceslao del Lussemburgo (1395), facendo brillare davanti agli occhi dell’imperatore bisognoso, centomila fiorini d’oro. Successivamente si impadroniva di Pisa e Siena (1399), Perugia,  Lucca e Bologna (1400-01).

Gian Galeazzo eccelleva oltre che in ricchezza, in quanto ricavava dal ducato un reddito di un milione di ducati (pari alla metà di quello della Francia e dell’Inghilterra),  in doti di governo che aveva centralizzato, in quelle diplomatiche,  ed era versato nelle arti che aveva favorito con la costruzione del Duomo di Milano (iniziata nel 1386, proseguirà nei secoli successivi), della Certosa di Pavia, con l’abbellimento del castello di Pavia, con la raccolta della biblioteca, concedendo infine la sua protezione all’Università di Pavia fondata dal padre.

Con lui sembrava che qualcuno potesse finalmente unificare anche l’Italia, ma fu stroncato dalla peste (1402) portando con sé questo sogno che si realizzerà solo per lenta maturazione dopo quattrocentocinquanta anni.

Su questa mancata unificazione, Machiavelli  aveva scritto che “se la Chiesa fosse stata più forte si sarebbe impadronita dell’Italia: essendo debole aveva impedito che altri se ne impadronissero unificandola”.

La politica dei papi in Italia era stata quella di seminare zizzania tra i vari Stati italiani. Il loro compito era stato quello che sarà assunto in seguito nell’opera lirica dalla figura del baritono: quella di creare discordia tra il soprano e il tenore! Infatti ogniqualvolta due stati italiani riuscivano a raggiungere un accordo (il che era già un fatto eccezionale), i papi  intervenivano per metterli l’uno contro l’altro.

Quando l’imperatore Federico III d’Asburgo venne in Italia per l’incoronazione (1451),  era accompagnato da un seguito di duemila persone, che riteneva dovessero essere mantenute da coloro che lo avrebbero ospitato. La sua venuta serviva anche per reperire danaro con assegnazione di titoli e cariche, concesse a salatissimo prezzo; e non mancava chi sperava nell’ingrandimento di propri territori a danno di altri.

A questo proposito il papa Niccolò V aveva commentato: “Mi farei mozzare l’orecchio destro piuttosto che acconsentire che l’imperatore facesse novità in Italia né che si travagliasse in altro che nella sua incoronazione”.

 Insomma, per questa politica dei papi, il movimento unificatore partito dal sud con gli Svevi o dal nord con i Visconti, e poi con Francesco Sforza, nell’uno e nell’altro caso non era riuscito a raggiungere alcun risultato.

Gian Galeazzo, già imparentato con la casa reale francese (avendo sposato Isabella di Valois), aveva fatto sposare sua figlia Valentina a Luigi d’Orleans fratello del re di Francia con una dote di quattrocentomila fiorini d’oro, oltre alla città e territorio di Asti, oltre a gemme e corredo che nessun re sarebbe stato in grado di offrire. Il peggio di questa dote fu che nel contratto di matrimonio era stato previsto anche un diritto di successione nel caso gli fossero mancati discendenti maschi e quindi, in caso di estinzione della casata (viscontea), i diritti di successione sarebbero passati ai discendenti della figlia Valentina.

Alla morte di Gian Galeazzo, tutto ciò che egli aveva unificato, venne diviso tra i suoi  figli Filippo Maria e Giovanni Maria (con i figli di Gian Galeazzo ha inizio per i Visconti, proseguita con gli Sforza, l’aggiunta del nome “Maria” per avere la protezione della Vergine...anche nei delitti che commettevano!), il ducato di Milano andò a Filippo Maria; la contea di Pavia a Giovanni Maria; al figlio illegittimo, Gabriele Maria, la città di Pisa.

Filippo Maria fu l’ultimo dei Visconti (della linea principale, mentre la linea collaterale non aveva avanzato pretese, appoggiando la nuova dinastia inaugurata da Francesco Sforza). Nevrotico, ipocondriaco, dal carattere instabile e assolutamente inaffidabile sulla parola data, pur avendo promesso il ducato a Francesco Sforza al quale aveva promesso in sposa la figlia naturale Bianca Maria, Francesco dovette non solo forzare la mano per prendere in moglie Bianca Maria Visconti, ma il ducato se lo dovette conquistare con le armi.

Si diceva che Filippo Maria Visconti avesse lasciato per testamento il ducato ad Alfonso I d’Aragona  re di Napoli, ma lo scritto non fu mai trovato, per questo il ducato oltre che dai francesi, era rivendicato anche da Alfonso I di Napoli.

I francesi, come abbiamo visto lo rivendicavano perché Gian Galeazzo Visconti nella dote per la figlia Valentina, aveva concesso la successione, in caso di mancanza di discendenti maschi,  ai discendenti della figlia Valentina, moglie del duca d’Orleans.

Non solo. Ma il ducato fu successivamente rivendicato anche dagli spagnoli, particolarmente dall’avido e fortunatissimo Carlo V (v. Articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc.), perchè Francesco Sforza (secondo figlio di Ludovico il Moro usurpatore del ducato nei confronti del nipote  Gian Galeazzo), ultimo della famiglia, nel suo testamento aveva lasciato il ducato in eredità all’imperatore!

Tra queste rivendicazioni e concessioni, interveniva Francesco Sforza che prendeva in moglie Bianca Maria, ultima erede dei  Visconti, prendendo anche il ducato.

Francesco era figlio di Muzio Attendolo (1369-1424) il quale aveva avuto una vita avventurosa che da contadino di Cotignola nel ravennate, lo aveva portato a fare il condottiero di ventura.

Muzio lavorava la terra e un bel giorno (aveva tra i quindici e sedici anni) si era trovato di fronte caporali di Filippo Maria Visconti che volevano ingaggiarlo come soldato. Per decidere pensò di lanciare la zappa su un albero: se questa fosse rimasta impigliata tra i rami, avrebbe accettato di arruolarsi; se invece fosse caduta, non avrebbe accettato. La zappa rimase impigliata e si arruolò e per la bravura e la forza dimostrata, si era meritato il nome di “Sforza” diventando capitano di ventura.

Muzio aveva sposato Polissena Ruffo di Calabria e aveva combattuto prima contro la regina Giovanna di Napoli, poi a suo favore. Aveva combattuto in ultimo, contro il famoso capitano di ventura Braccio da Montone che aveva sconfitto presso l’Aquila, ma era finito affogando con la pesante armatura, mentre attraversava il fiume Pescara.

Francesco (1401-1466), ora Sforza, tenne unita la compagnia paterna e la utilizzò mettendosi al servizio di Filippo Maria Visconti, combattendo contro i veneziani e riportando prima una sconfitta a Maclodio (1427)  e poi una vittoria a Soncino (1431). Era passato anche al servizio del papa (Eugenio IV) di cui divenne gonfaloniere della Marca di Ancona. Combattè in Toscana contro un altro capitano di ventura, Niccolò Piccinino firmando alla fine un trattato con la Toscana (1438) in cui si stabiliva che poteva combattere contro chiunque, esclusi i Visconti di Milano. E proprio a Milano doveva finire la sua vita di condottiero prendendo in moglie Bianca Maria Visconti e guadagnandosi, con le armi, il ducato.

Francesco Sforza aveva tenuto il ducato per sedici anni e da Bianca Maria aveva avuto due figli legittimi, Galeazzo Maria e Ludovico poi detto il Moro. Alla sua morte (1466) gli succedeva il figlio Galeazzo Maria (1444-1476), assassinato a seguito di una congiura (segue), e dopo questa uccisione, gli succedeva nel ducato il figlio, Gian Galeazzo di sei anni (1469-1494), che fu posto sotto la tutela della madre Bona di Savoia: ma il ducato sarà usurpato dallo zio Ludovico il Moro (1452-1508).

 

LA CONGIURA

CONTRO GALEAZZO SFORZA

- 1476 -

 

A

 Milano insegnava lingua latina Cola Mantovano letterato ambizioso, che, tra i giovani ai quali insegnava era in maggiore familiarità con Giovanandrea Lampognani, Carlo Visconti e Girolamo Olgiati, con i quali parlava spesso della pessima natura del principe, giungendo al punto di far loro giurare che raggiunta la giusta età, avrebbero liberato la patria dalla tirannide.

Galeazzo Maria era stato educato nell’amore per le arti e nell’arte della guerra. Era stato inviato dal padre in missioni diplomatiche e inviato in Francia, aveva appreso la morte del padre (1466).

Amante del lusso sfrenato, del mecenatismo sfarzoso, dei piaceri con spiccata propensione per la libidine e per la crudeltà. La sua vita dispendiosa impoveriva le casse dello Stato e ciò lo portava a inasprire i gravami fiscali, rendendosi odioso. Ma lo era anche perché violentava le donne, particolarmente le nubili, e poi pubblicamente se ne vantava; uccideva con facilità  e quando gli si presentava l’occasione, lo faceva in modo crudele. Si diceva anche che avesse fatto morire la madre Bianca Maria di veleno, quando si era ritirata nei suoi possedimenti di Cremona.

Galeazzo Maria, per questione di donne aveva gravemente offeso Carlo Visconti e Girolamo Olgiati e non aveva voluto concedere a Giovanandrea Lampagnoni il possesso dell’abbazia di Miramondo. Queste ingiurie accrebbero maggiormente la voglia di vendetta dei tre giovani, e liberare la patria dal tiranno. Essi pensavano che una volta ucciso il duca, nobili e popolo li avrebbero appoggiati.

Discutendo spesso dell’argomento, si chiedevano quale fosse il luogo più idoneo per realizzare il loro progetto. Escludendo il castello, o durante una partita di caccia, o durante  le passeggiate, o durante un convito, decisero di farlo nel corso di una festività.

Correva l’anno 1476, ed era vicina la festività del Natale, e il giorno di santo Stefano il duca soleva recarsi con gran pompa nella chiesa di quel santo. I congiurati deliberarono che quello dovesse essere il tempo e il luogo prescelto.

Giunto il giorno di santo Stefano per porre in esecuzione il loro piano, il mattino fecero armare amici e servitori, dicendo di voler andare in aiuto di Giovanandrea che contro la volontà dei suoi nemici voleva costruire nelle sue terre un acquedotto e di voler quindi avere il permesso da parte del duca.

I congiurati fecero venire anche altri congiunti, con la speranza che costoro li avrebbero seguiti nell’impresa, ritenendo poi, morto il duca, di poter andare a sollevare il popolo per volgerlo contro la duchessa e ritenendo anche che il popolo affamato li avrebbe facilmente seguiti.

Decisero quindi di assaltare le dimore di Cecco Simonetta, Giovanni Botti e Francesco Lucani che facevano parte del governo, e prenderli in ostaggio.

Giovanandrea con gli altri si recarono presto in chiesa dove ascoltarono la messa, sentita la quale Giovanandrea rivolto verso la statua di s. Ambrogio, pregò il santo dicendo:- “O padrone di questa città, tu sai la nostra intenzione e il fine per il quale vogliamo esporci ai pericoli, sii favorevole a questa impresa e dimostra, favorendo la giustizia, che l’ingiustizia ti dispiaccia”.

Il duca, raccontano le cronache, ebbe qualche premonizione di ciò che gli stava per accadere, perché prima aveva indossato una corazza, secondo la sua abitudine, ma poi l’aveva tolta perché doveva recarsi in chiesa. Sua intenzione era quella di ascoltar la messa nel castello, ma il cappellano si era recato con i paramenti nella chiesa di santo Stefano. Il duca volle che fosse il vescovo di Como a celebrarla, ma il vescovo aveva avanzato degli impedimenti. Galeazzo fu quindi costretto a recarsi nella chiesa di santo Stefano e facendo venire in sua presenza i due figli Gian Galeazzo ed Ermes li abbracciò e baciò molte volte e da essi quasi non voleva staccarsi. Alla fine si avviò  accompagnato dagli ambasciatori di Mantova e Ferrara.

I cospiratori per fuggire il freddo e per non farsi notare, si erano ritirati nella canonica dell’arciprete e quando sentirono arrivare il duca, tornarono in chiesa dove Giovanandrea e Girolamo si disposero uno dalla parte sinistra, l’altro dalla parte destra del portone d’ingresso.

Quando entrarono gli accompagnatori del duca che lo precedevano, seguiti dal duca e questo a sua volta seguito da una moltitudine di persone, i congiurati, simulando di voler fare largo al duca si avvicinarono e strette le armi corte e acute che avevano nascosto nelle maniche,  lo assalirono. Lampognani  gli inferse due colpi uno al ventre, l’altro alla gola; Girolamo lo colpiva alla gola e al petto; Carlo Visconti era vicino alla porta ed essendogli il duca finito davanti mentre  era assalito dai compagni, non potendolo colpire davanti, gli trafisse per due volte la schiena. Con queste sei ferite il duca stramazzò al suolo senza che nessuno si fosse accorto del fatto. Né il duca aveva potuto avere il tempo di reagire, se non per invocare una sola volta il nome della Madonna.

Caduto il duca per terra, si levò un gran rumore e molte spade furono sfoderate e come avviene in questi casi, vi era chi fuggiva dalla chiesa e chi correva verso il tumulto, senza sapere cosa fosse successo. Naturalmente quelli del seguito del duca che lo avevano visto morto, inseguirono gli attentatori. Gianandrea, volendo uscire dalla chiesa passò tra le donne  inginocchiate per terra, com’era costume, inciampando e incespicando tra le loro vesti e fu subito raggiunto da uno scudiero moro del duca, e ucciso. Carlo fu ucciso da chi gli stava vicino e Girolamo Olgiati, uscito dalla chiesa se ne andò a casa sua.

Il padre e i fratelli non vollero prestagli aiuto. La sola madre si rivolse a un prete, vecchio amico di famiglia il quale messigli addosso altri abiti lo condusse alla sua casa dove Carlo si  fermò per due giorni, senza speranza che in Milano scoppiasse qualche tumulto. Temendo di essere scoperto in quel luogo, pensò di fuggire, ma fu riconosciuto e arrestato.

Girolamo aveva ventidue anni  e affrontò coraggiosamente la morte come aveva affrontato la vita. Era infatti nudo davanti al carnefice che aveva un coltello in mano per ferirlo e Carlo gli disse in latino:- “Mors acerba, fama perpetua, stabit vetus memoria facti” (La morte è immatura, la fama perpetua, la memoria del fatto sarà eterna).

Così finirono quei giovani senza esperienza, che avevano preparato la congiura senza alcun sostegno e avevano sperato nell’aiuto di coloro che dovevano aiutarli e seguirli e dai quali non furono né aiutati né seguiti.   

   

Leonardo - Cracovia

Cecilia Gallerani 

 

L'USURPAZIONE DI LUDOVICO IL MORO

     

C

ontro il figlio minore di Galeazzo, Gian Galeazzo Sforza, è lo zio Ludovico il Moro (1433-1492) a cospirare col benestare del papa Sisto IV, appropriandosi della tutela affidata alla madre Bona di Savoia, alla quale si sostituisce usurpando il governo (1481). Alla corte sforzesca si erano formati due partiti: uno capeggiato da Cecco Simonetta, ministro che da cinquant’anni aveva servito il ducato, il quale aveva con sé il figlio Antonio, il fratello Giovanni, un suo amico, Orfeo da Ricavo e tutti i vecchi consiglieri da lui innalzati alle varie cariche. L’altro era capeggiato da Antonio Tassini al quale appartenevano tutti quelli che invidiavano Simonetta e coloro che aspiravano a impossessarsi delle cariche di quelli del seguito di Simonetta.

Il Tassini, originario di Ferrara era cameriere al servizio di Galeazzo, passato al servizio della duchessa di cui era divenuto amante e quindi anche consigliere per gli affari di Stato. Tassini disprezzava e detestava il Simonetta e si era anche avvicinato ai cognati della duchessa.

Era successo che Ludovico era andato a conquistare Tortona, che col suo territorio era stata sotto il dominio dei Visconti, città che si era offerta con i suoi castelli senza colpo ferire e che Ludovico occupava in nome della duchessa e del duca Galeazzo suo nipote.

Ludovico nel frattempo aveva estromesso i suoi fratelli (Ascanio e Ottaviano) da qualsiasi carica, mandandoli in esilio mentre l’altro fratello di nome Sforza come l’avo, duca di Bari  era morto pare, avvelenato (1479).

Dopo la conquista di Tortona, il Tassini aveva suggerito alla duchessa di far venire a corte Ludovico. Da questa mossa Simonetta aveva tratto un triste presagio e aveva detto alla duchessa che lui avrebbe certamente  perso la vita, ma lei avrebbe perso il regno. Infatti al rientro a Milano, Ludovico che si sentiva l’unico vincitore e non più servitore della duchessa, fece arrestare Simonetta con tutto il suo gruppo.

Nel mese successivo Ludovico, dopo aver fatto giustiziare Simonetta (1480), fece dichiarare maggiorenne il dodicenne Gian Galeazzo in modo da privare Bona del diritto di tutela, con la conseguenza che la duchessa si ritirava ad Abbiategrasso e Antonio Tassini col padre Gabriele, privati dei loro beni, venivano mandati in esilio.

Aveva così inizio la tirannia di Ludovico il Moro che da questo momento  governerà in nome del nipote.  

Ludovico riusciva ad ottenere per sé l’investitura imperiale del ducato, cosa che non si era mai verificata in precedenza, facendo quindi cadere il ducato nell’orbita dell’impero germanico. Egli in verità l’aveva sollecitata per il nipote (per dare solo l’impressione di non essere usurpatore in quanto lui preferiva apparire come reggente), per cui aveva offerto in moglie all’imperatore  Massimiliano d’Asburgo (1459-1519), vedovo di Maria di Borgogna (che morendo gli aveva lasciato la grande eredità delle Fiandre v. Articoli cit. Carlo V, ecc.),  la nipote Bianca Maria, con una dote di quattrocentomila ducati (la cifra era enorme e il permanente stato di necessità e l’avidità asburgica non avevano limiti): con questo matrimonio (1494) e questa dote Massimiliano concesse a Ludovico il riconoscimento imperiale.

Ludovico (detto il Moro più che per la pelle olivastra e i capelli neri, perché aveva disegnato sullo stemma la testa di un moro e un gelso: il gelso è detto moro e all’epoca si usava molto fare giochi di parole), aveva dato al nipote una educazione raffinata, non adatta però a un principe che doveva governare. Prima di sposare Beatrice d’Este, Ludovico aveva sedotto e avuto come amante Cecilia Gallerani resa celebre dal famoso quadro di Leonardo (v. in Articoli: Carlo V, tra Rinascimento ecc.), che era al suo servizio. 

Ludovico aveva tenuto il nipote lontano dal governo dandogli, come detto, una educazione cortigiana e aveva combinato anche il matrimonio (1488) con   Isabella d’Aragona (1467-1496), figlia  di Alfonso duca di Calabria, (*)  dalla quale, rimasto colpito dalla sua avvenenza, senza alcun rispetto per il nipote al quale aveva preso il ducato, voleva prendergli anche la moglie, ma Isabella l’aveva respinto e Ludovico aveva sposato Beatrice d’Este (1491).

Gian Galeazzo era dedito alla caccia, ai piaceri di corte, e dopo il matrimonio, si era dedicato alla moglie, che avendo più carattere del marito mal sopportava la sua condizione di duchessa senza potere, nei confronti della recente moglie di Ludovico, Beatrice d’Este, che invece esercitava il potere.

Gian Galeazzo ammalatosi a Pavia, morì dopo poco tempo. Data la sua giovane età, si sospettò fosse morto di veleno fattogli propinare dallo zio, attraverso l’astrologo di corte. Ipotesi resa credibile (ma Gian Galeazzo oltre ad essere debole di carattere era di salute malferma), dalla ambizione dello zio che non voleva concorrenti viventi, e, l’essersi proclamato duca di Milano, subito dopo la morte del nipote, avvalorava questa ipotesi.

Ludovico il Moro non aveva fatto i conti con le aspirazioni del nuovo re di Francia, Luigi XII, che nella sua incoronazione aveva assunto il titolo di duca di Milano e re di Napoli e di Gerusalemme, che sembrava tutto un programma!

Luigi XII aveva sottoscritto con i veneziani il trattato di Blois (1499) tenuto segreto, col quale i veneziani gli riconoscevano i diritti sul ducato di Milano e si obbligavano a spalleggiare la conquista fornendogli millecinquecento cavalli e quattromila fanti, in cambio Luigi cedeva loro  Cremona e la Ghiara d’Adda fino alla distanza di ottanta piedi dal fiume. Non potendosi aspettare aiuto da parte dell’imperatore Massimiliano, Ludovico si rivolse direttamente a Baiazet II che fece fare una scorreria dal celebre condottiero Scander-beg in Friuli (ottobre 1499). 

I francesi superate le Alpi (ottobre 1499), rapidamente invasero il ducato e quando giunsero sotto le mura di Milano, una delegazione portò le chiavi della città che si sarebbe arresa al re, che giunto da Lione  si fermò a Milano poche settimane, tornandosene poi in Francia.

Ludovico ne approfittò e assoldate truppe svizzere respinse i francesi fin oltre il Ticino. Ma Luigi mandò truppe assoldando anche svizzeri che indussero i connazionali assoldati dal Moro a passare dalla loro parte. In breve, per tradimento furono presi Ludovico e il fratello cardinale Ascanio con i giovani figli naturali di Galeazzo, Ermes, Alessandro e Contino finiti in un carcere francese. 

Ascanio fu rinchiuso nella torre di Burges; Ludovico che si era sempre distinto per i bei modi, il particolare ingegno e l’eloquenza, aveva chiesto  di vedere il re ma l’incontro gli fu negato e fu mandato nella rocca di Loches dove morì in solitudine dopo dieci anni di sofferenze.

Gian Galeazzo aveva lasciato un figlio, Francesco (1491-1512), erede legittimo del ducato,  ma Ludovico, estromettendolo, nominava eredi i suoi due figli, Massimiliano e Francesco II. Con la morte di costoro si estingueva la linea ducale degli Sforza. Massimiliano per testamento lasciava il ducato a Carlo V che da questo momento (1535) passava  agli spagnoli, che lo detennero fino al 1726

 

*) Da questo matrimonio, Orazio Bagnasco ne aveva tratto un bel romanzo: “Il banchetto” (Mondadori 1997).

 

 

IL REGNO DI NAPOLI
TRA ANGIOINI E ARAGONESI:

GLI ANGIOINI

 

 

I

l regno di Napoli, denominato regno di Sicilia (infra Pharum; ultra Pharum era la Sicilia), dai papi considerato  feudo della Chiesa in seguito alla falsa donazione di Costantino. Unificato dai normanni fino a Federico II, dopo la sconfitta e l’uccisione di Manfredi (1),  era stato assegnato da Urbano IV (1274) a Carlo, conte di Provenza e d’Angiò (fratello di re Luigi IX il Santo: v. Genealogia Capetingi).

Il periodo di regno degli angioini (1266-1435) era stato turbolento sia per le rivolte di popolo (Vespri) e le turbolenze dei baroni, sia per le rivendicazioni dei vari esponenti della numerosa e avida dinastia.

Durante il regno di Carlo I d’Angiò (1266-1285) era scoppiata l’insurrezione dei Vespri siciliani (1282) e la Sicilia si era staccata da Napoli con l’acclamazione di Pietro III d’Aragona (I di Sicilia), sancita dalla pace di Caltabellotta (1302) e Napoli diveniva capitale del regno di Napoli, dove, alla morte di Carlo I d’Angiò, succedeva il figlio Carlo II, lo Zoppo (1285-1309), seguito da Roberto I d’Angiò, il Saggio (1278-1343), ricordato da Petrarca e Boccaccio come monarca colto, generoso e mecenate.

E’ da dire che era stato proprio il re Roberto, inconsapevolmente, a preparare a Napoli il terreno per l’arrivo degli spagnoli (particolarmente catalani perché per spagnoli si intendevano i castigliani)  in quanto in seguito all’accordo di Castelfranco (1288) tra gli Aragonesi e Carlo II,  Roberto era stato mandato in Catalogna (1288-1295) come ostaggio.  Roberto era terzogenito, e in seguito alla morte del primogenito, Carlo Martello (1295) e alla rinunzia del secondogenito Ludovico, fattosi francescano (1296), fu proclamato successore (1297).

Egli aveva avuto due mogli, ambedue principesse catalane, la prima, Violante (o Iolanda) d’Aragona, sorella di Giacomo II, e quando era morta (1303), Roberto aveva sposato, in seconde nozze (1304), Sancia di Maiorca.

Tra i suoi consiglieri egli aveva dei catalani (Giovanni de Aya e Raimondo Blanch e Pietro Ferrera), e come capitano aveva anche un catalano, Raimondo Cardona, e come medico Arnaldo di Villanova.

Roberto, non avendo più figli maschi (il figlio Carlo duca di Calabria gli era premorto), aveva designato a succedergli, la nipote Giovanna I (1326-82), figlia del premorto Carlo, duca di Calabria (disprezzata da Guicciardini con la frase poi riportata da altri storici, che relativamente alla fama di cui godeva, aveva detto: “non meno per l’infamia dei costumi che per l’imbecillità del sesso”).

Giovanna aveva sposato (a sedici anni) Andrea d’Ungheria (di alcuni mesi più vecchio di lei), strangolato e buttato da una finestra del palazzo di Aversa (1345), in seguito a una congiura di palazzo alla quale non era stata estranea la stessa Giovanna (sulle sue vicissitudini e su quelle di Giovanna II, se ne parlerà in apposito articolo ad esse dedicato), e non avendo figli, aveva adottato Luigi I d’Angiò, fratello di Andrea il quale, alla morte di Giovanna, poiché del regno si era impossessato Carlo III d’Angiò-Durazzo (v. Genealogie: Angiò), scese in Italia con un potente esercito, ed era prossimo alla vittoria quando morì di febbre in Puglia (Risceglie 1384).

A Carlo III, nel frattempo assassinato a Buda (1386), succedeva il figlio Ladislao (1377-1414), con la reggenza della madre, Margherita di Durazzo che continuò a influenzarlo anche dopo essere divenuto maggiorenne (1393).

A Ladislao si opporrà Luigi II d’Angiò (figlio di Luigi I) che aveva occupato buona parte del regno, compresa Napoli (1391), ma Ladislao riuscì a riprendere il regno e Napoli (1399). Ladislao, ottenuto dal papa il divorzio (1402) dalla prima moglie,  Costanza di Chiaromonte, sposava Maria di Lusignano, sorella di Giano re di Cipro.

Con l’aiuto di Guglielmo d’Austria al quale aveva dato in moglie la sorella Giovanna (II), andò a conquistare Zara, proclamandosi re d’Ungheria, ma dovette tornare a Napoli dove i feudatari erano in fermento, mandando a morte gli esponenti delle principali famiglie (Marzano, Ruffo, Sanseverino). Approfittando della morte del principe di Taranto Raimondo del Balzo-Orsini, che stava per muovergli guerra, andò ad assediare la città di Taranto (1406-1407) ma trovò resistenza da parte della vedova del principe, Margherita d’Anghien.

Ladislao, non essendo riuscito a far capitolare la città, poiché era  rimasto vedovo da Maria di Lusignano (1404), sposò Margherita e con il matrimonio ottenne il principato. Era andato a rioccupare Roma e il Lazio (1409), sotto il papa Gregorio XII, ma fu scacciato dal popolo (1409). Riprese a combattere con Luigi II il quale con l’aiuto di Braccio di Montone, lo sconfisse a Roccasecca sul Garigliano (1411).

Ladislao si rivolse ancora contro il nuovo papa, Giovanni XXIII che andò via da Roma, recandosi a Bologna e mentre Ladislao lo inseguiva si ammalò a Narni e fu riportato a Napoli, dove morì (1414).

Ladislao moriva senza figli e il regno passava alla sorella Giovanna II  (n. 1371, regno: 1314-1435), “nome infelice per quel regno” (prosegue Guicciardini) non meno all’una e all’altra (Giovanna I ndr) né d’imprudenza, né di lascivia di costumi, perché costei metteva il governo nelle mani di coloro  nelle quali metteva impudicamente il suo corpo”, e tra costoro vi era Attendolo Sforza (capostipite degli Sforza, v. sopra).

Giovanna II contro le pretese di Luigi III d’Angiò (erede di Luigi I e II) e del papa Martino V, chiese aiuto ad Alfonso d’Aragona (re di Sicilia) che sbarcò a Napoli (1421) e fu adottato e proclamato erede al trono: egli considerò la designazione come nomina ...e la prese tanto sul serio, che dovette essere imprigionato.

Giovanna, ripensandoci scelse come altro erede Luigi III, che era proprio il pretendente del regno (1423). Dopo nove anni (1432) Giovanna revocava questa nomina, ri-adottando Alfonso, poi si pentì rivolgendosi nuovamente a Luigi III che nel frattempo moriva (Cosenza 1434), riconoscendo come erede il fratello Renato (1409-1480) detto “le Bon roi René” (2).

Questa successione di Renato era stata contestata dai baroni del regno che ritenevano il testamento di Luigi III, falsificato, i quali si rivolsero ad Alfonso d’Aragona, sostenendo la sua candidatura.

Giovanna non potette avere altri ripensamenti perché nel frattempo moriva (1435) e con la sua morte  cessava la dinastia dei d’Angiò, ma non le loro rivendicazioni, lasciando il campo aperto ai tumulti e alle guerre tra i pretendenti francesi e quelli aragonesi, e alle varie fazioni dei baroni che parteggiavano chi per Renato e chi per Alfonso (divisi in angioini e aragonesi-catalani).

Renato, più letterato che monarca, aveva cercato di conquistare il regno, ma era stato  vinto da Alfonso (V) d’Aragona e dovette tornarsene in Francia (1442), continuando però a portare il titolo di re di Napoli, e lasciando alla sua morte il titolo a Carlo d’Angiò, figlio del fratello, il quale a sua volta, morendo, lasciava il titolo del regno di Napoli a Luigi XI di Francia, titolo però rivendicato dal duca di Lorena il quale era nato dall’unica figlia di Renato, Jolanda  (v. sopra: La discesa di Carlo VIII).

 

1)  La politica espansionistica di Manfredi  preoccupava il papa Urbano IV che lo aveva scomunicato e si era rivolto al re di Francia Luigi IX per venire a prendere la corona del regno di Napoli e Sicilia. Costui aveva mandato in Italia il fratello Carlo d’Angiò che sconfisse Manfredi a Benevento (1266) impadronendosi del regno di Napoli e Sicilia. Inutile poi fu il tentativo di Corradino di riconquista il regno, il quale fu sconfitto a Tagliacozzo (1268).

 

2) Renato I d’Angiò, duca di Bar, aveva sposato Isabella figlia di Carlo II di Lorena, alla morte di questo era divenuto duca di Lorena, mentre alla morte del fratello, Luigi III, rivendicava il regno di Napoli al quale era collegata la contea di Provenza.

 

 

GLI ARAGONESI

E LO SPAGNOLISMO MERIDIONALE

 

I

l regno dopo tutte queste vicissitudini fu finalmente assunto da Alfonso,  V d’Aragona, IV di Castiglia, I di Napoli (1396-1458), il quale aveva lasciato tutti i domini spagnoli (l’Aragona, Barcellona, Valenza, la Catalogna, Maiorca, il Rossiglione, la Corsica, la Sardegna, e la Sicilia) al fratello Giovanni e si era trasferito a Napoli portando con sé numerose grandi famiglie poi estinte (tra le principali, i Cavatigli, Guevara, Cardenes, Avalos, Villarmini, Cardona, Centeglia, Periglios; altre arriveranno al seguito dei Borgia), e settemila soldati che bastarono a impoverire il regno, tanto che si diceva che “sulla terra che calcano gli spagnoli non nasce più un filo d’erba”.

Da questo momento iniziava la colonizzazione spagnola, deleteria per l’Italia meridionale che, come scriveva l’umanista Galateo, “subiva una trasformazione nei suoi costumi; e (gli spagnoli) non avevano introdotto le lettere (che, a parte Alfonso che le amava, erano disprezzate e ritenute non convenienti per la nobiltà,) la pittura, la scultura,  le leggi, l’arte marinara, la mercatura l’agricoltura, ma (avevano introdotto) usure, furti, corseggi, schiavitù navale, giochi, lenocini, amori meretrici, la professione del sicario, il cantare molle e lugubre, le pietanze arabiche, l’ipocrisia, le cerimonie della mensa e tante altre vanità”.

E dopo i francesi, gli spagnoli, particolarmente nel regno di Napoli, avevano introdotto “pompe e ricercatezze nelle vesti e altri mali costumi: dopo di loro è cresciuto il vizio del gioco, il costume del mentire. Da loro sono venuti in Italia la propensione alle adulazioni superlative,  il “tu” convertito in “voi”, l’uso della Signoria Vostra, il bacio le mani, il servo vostro e tutte le adulazioni superlative”.

“Essi (prosegue Galateo) ripugnavano la scrittura latina del Rinascimento, preferendo i caratteri gotici con cui riempivano le carte, ornate di inesplicabili obelischi, di ancore e di uncini difficilmente decifrabili. Ed essi si vantavano di discendere dai goti, piuttosto che dai romani che avevano civilizzato la Spagna. Agli italiani, sobri e dediti alle opere d’ingegno, opponevano la vita galante dei cortigiani di Castiglia e con le influenze arabe dei loro costumi usavano mense troppo imbandite, con pietanze artificiosamente composte, condite e profumate; nel modo di scalcare gli uccelli, spargere il sale, spiegare i tovaglioli; nel loro modo di conversare e nella loro galanteria con le donne, nel vivere di notte con musiche e canti sotto le finestre delle donne; nelle cure femminili che gli uomini riservavano al proprio corpo con unguenti e profumi, mani inguantate, petto nudo, con anelli, braccialetti e catene; i vecchi usavano capelli finti e si tingevano e imbellettavano; dall’abitudine delle ore piccole derivava quella di dormire al mattino; l’abitudine di adulare e ritenere come acutezza d’ingegno i motti, i frizzi, le arguzie”.

“Amanti del gioco, delle giostre e del gioco delle canne (una forma di combattimento ndr.) ereditata dagli arabi, fondato sulla fuga e sull’inseguimento con urla e grida stridule moreschi. Effeminata, languida lamentosa e triste era la loro musica. E per comprendere la grossolanità con cui educavano i fanciulli, nel modo diverso da quello italiano, i grandi e i nobili, mandavano i figli presso famiglie di cavalieri o della piccola nobiltà e costoro se ne servivano come loro servi, li lasciavano andare con i propri ragazzi mariuoli (“rapazes”) in modo che si abituavano alle avversità della vita, alle fatiche e diventavano maliziosi, subdoli, pronti, arguti, astuti e audaci”.

Insomma questi elementi sono riassunti nel termine attualmente usato di “furbo”, dappertutto considerato “poco di buono” e solo in Italia considerato un complimento!

“Così i  fanciulli (prosegue Galateo) erano educati a ingannare, rubare o sottrarre, a dire facezie, chiedere denaro per giocare, chiedere per gioco, ma poi appropriarsene, e tutto questo veniva lodato comedesenvolturas” ” .

Questa fu la triste eredità lasciata da circa tre secoli di dominazione spagnola, non solo nel meridione (i cui mali sono ben noti ed è veramente difficile pensare che ne venga fuori!), ma avrà influenza sul carattere stesso di tutti gli  italiani.

Alfonso dopo aver sconfitto gli ultimi sostenitori angioini, riordinò il regno e per prima cosa convocò il primo parlamento che aveva stabilito si dovesse riunire a Benevento, ma su richiesta dei napoletani fu tenuto a Napoli.

A questo primo parlamento intervennero  il principe del Balzo di Taranto, il principe di Salerno, i duchi Marzano di Sessa, Orsini di Gravina il duca di S. Marco, Sanserverino, Caracciolo di Melfi (altri tra i quali il duca Acquaviva d’Atri che avevano sostenuto Renato d’Angiò sebbene invitati non si presentarono), i marchesi Cotrame, Centeglia ed Equino di Pescara e molti conti e baroni tra i quali Costanzo e Summonte.

Il re fece presente che avendo liberato il regno, per poterlo in futuro mantenere in pace e difenderlo, sarebbe occorso il contributo di tutti e stabilì per tutto il regno un pagamento annuo per il mantenimento di uomini d’arme, fissando l’importo di un ducato per fuoco (famiglia), all’anno, togliendo ogni altra contribuzione. In cambio, ogni contribuente avrebbe ricevuto un “tomolo”di sale. Il re s’impegnò quindi a mantenere mille armati con paga fissa (durante la pace e la guerra) e una flotta di dieci galee.

Fissò anche una udienza settimanale, al venerdì, per i poveri, istituendo un avvocato che li avrebbe difesi gratuitamente a spese del re. Istituì, per l’amministrazione della giustizia nella Gran Corte della Vicaria, in sostituzione del Gran Giustiziere,  un avvocato che dovesse assistere il suo luogotenente o reggente, con quattro giudici. I baroni conservavano i privilegi di giurisdizione di cui godevano.

Poiché alla G.C. della Vicaria giungevano infiniti ricorsi (appellazioni) da tutte le parti del regno, Alfonso, su suggerimento del vescovo di Valenza, Alfonso Borgia (futuro papa Callisto III), istituì il Sacro Consiglio, con sede a Napoli e altre due, col nome di Sacre Udienze, nelle sedi di Otranto e Bari così divise (la provincia era unica, di Otranto).

A Napoli, presso il Sacro Collegio giungevano ricorsi anche dei domini spagnoli e ciò durò fino alla morte di Alfonso, quando quei domini passarono definitivamente al re Giovanni.  

In questa occasione fu dichiarata la futura successione del figlio naturale Ferdinando, (1423-1494), o Ferrante, nato in Catalogna, che Alfonso aveva avuto da Giraldonna Carlino, valenziana (moglie di Gaspare Reverter di Barcellona), nominato duca di Calabria, così designato a succedergli come erede del regno di Napoli, designazione che avrebbe dovuto avere l’approvazione del papa, col quale Alfonso si dovette adoperare per la conciliazione.

Alfonso dovette barcamenarsi tra il papa Eugenio IV (1431-1447)  e l’antipapa Felice V (Amedeo d’Aosta: 1439-1449), in quanto il papa Eugenio IV aveva appoggiato Renato d’Angiò; il papa (Eugenio IV) rendendosi conto che ormai il re era Alfonso e la sua inimicizia non poteva che nuocergli, gli spedì una bolla (1443) e mandò un suo legato a Terracina dove si trovava il re, concludendo così la pace, e tra i vari patti si concordò:-

Che il re dovesse considerare scismatici i cardinali  che sostenevano l’antipapa; che il papa gli avrebbe concesso l’investitura del regno di Napoli, con tutti i poteri che i precedenti papi avevano concesso ai re di Napoli; che il figlio Ferdinando, avrebbe avuto l’abilitazione alla successione, e alla sua morte avrebbero avuto diritto di successione i suoi eredi”.

Il re quindi si dichiarava (ignominiosamente!) vassallo e feudatario della Chiesa e avrebbe aiutato il papa a riprendere la Marca (Marche) occupata da Francesco Sforza, impegnandosi a mandare quattromila soldati a cavallo e mille fanti. Inoltre il re avrebbe tenuto a disposizione del papa sei galee per sei mesi di guerra contro il turco, le cui spese sarebbero state scomputate dal censo che il re gli avrebbe dovuto pagare (pari a ottocentomila once d’oro all’anno, per tutta la durata della vita di Alfonso). Inoltre il papa assegnava ad Alfonso il governo delle città di Terracina e Benevento, in cambio, al papa, veniva assegnato il governo delle città Ducale, Acumuli e Leonessa che si trovavano in Abruzzo.

Con bolla successiva il papa concedeva la remissione di tutte le somme che gli erano dovute per censi passati e di tutte le somme che i re e i loro ministri avevano riscosso e appartenenti alla Camera apostolica.

Alfonso I, nonostante il pessimo carattere, come è stato detto, era amante delle lettere e aveva ospitato letterati come Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Bartolomeo Facio, Antonio da Bologna detto il Panormita, Paris de Puteo ed altri (v. in Articoli: Carlo V tra Rinascimento ecc. P.I), e tanti altri venuti in Italia dopo la caduta (1453) di Costantinopoli  (come Gaza, Argiropulo, Filatone, Fidelfo, Lascari Sipontino, Bessarione), e alcuni di essi rimasero presso la sua Corte, come  Trapezunzio, Crisolora, Lascari,

Nel frattempo morto il papa Nicolò V (1447-1455), veniva eletto papa Alfonso Borgia, col nome di Callisto III (1455-1458), il quale, sebbene da cardinale fosse stato fedelissimo del re Alfonso, divenuto papa gli si era rivoltato contro, e aveva ricusato di confermare tutti i benefici che gli erano stati concessi dai papi Eugenio IV e Nicolò V, e non solo non volle confermare l’investitura di Terracina e Benevento, ma cercò di impedire, senza riuscirvi, il duplice matrimonio che era stato concordato tra il nipote Alfonso, duca di Calabria con la figlia del duca di Milano Ippolita Maria, di otto anni (il matrimonio ebbe luogo nel 1465).

Alfonso I, dopo aver assicurato la successione al figlio Ferdinando, resosi conto che il figlio  non era molto amato dai suoi vassalli, per avere un carattere completamente diverso dal suo perché era  superbo, avaro, doppio e infido e poco osservante della fede, pensò di trovargli una moglie per legarlo ai feudatari e assicurargli l’appoggio dei vassalli, facendogli sposare l’appartenente a una delle più potenti famiglie della feudalità di Sicilia, Isabella  Chiaromonte, nipote del principe di Taranto. Inoltre fece sposare una sua figlia naturale, Leonora, al figlio del duca Marzano di Sessa, assegnandogli per dote il principato di Rossano che comprendeva gran parte della Calabria.

Alfonso, temendo poi che Ferdinando non potesse mantenere tutto il regno, alla sua morte (1458) lasciò al fratello Giovanni, tutti i regni spagnoli, compresa la Sicilia e a Ferdinando  il solo regno di Napoli.

La successione di Ferdinando, nonostante le accortezze alle quali era ricorso il re Alfonso, non fu neanche tanto  facile perché i baroni si rivolsero prima al re Giovanni d’Aragona perché venisse a regnare a Napoli, e al suo rifiuto si rivolsero a Giovanni II d’Angiò, figlio di Renato (3) che si considerava pretendente e usava il titolo di  duca di Calabria.

Anche il figlio di re Giovanni d’Aragona, don Carlos, principe di Viana che si trovava a Napoli, sostenuto dai baroni catalani, avanzò le sue pretese sul regno, ma la città di Napoli,  ricordando le promesse fatte ad Alfonso, acclamò Ferdinando che attraversava la città, mentre don Carlos abbandonava l’impresa e si imbarcava, recandosi nel dominio del  padre in Sicilia.

Ferdinando I  una volta insediato sul trono, con una saggia politica di matrimoni aveva instaurato rapporti di parentela con Milano (che comunque, come abbiamo visto, non avevano impedito la chiamata di Carlo VIII da parte di Ludovico il Moro!).

Dalla prima moglie (in seconde nozze sposerà Giovanna, figlia di Ferdinando d’Aragona re di Spagna), Isabella Chiaromonte, aveva avuto quattro figli, Beatrice, Alfonso, Eleonora e Federico. Aveva fatto sposare Alfonso con Ippolita Maria Sforza (1448-1495), figlia di Francesco I Sforza  e la figlia di Alfonso, Isabella d’Aragona (1467-1496), con Gian Galeazzo Sforza (1469-1494), il nipote di Ludovico il Moro. L’altra figlia, Eleonora aveva sposato (1473)  il duca di Ferrara, Ercole d’Este, e Beatrice aveva sposato il re Mattia Hunyadi d’Ungheria: tutte primeggiarono tra le donne rinascimentali dell’epoca.

Ferdinando pur essendo stato crudele e vendicativo (v. Specchio dell’epoca cit. Congiura dei baroni) aveva regnato con magnificenza, circondato da letterati ed artisti, aveva introdotto a Napoli l’uso della stampa (1474) e aveva arricchito la biblioteca iniziata dal padre, facendone una delle più celebri d’Europa.        

Pur essendogli riconosciute doti di saggezza politica, era stato avido: assieme al figlio Alfonso aveva monopolizzato la vendita dei principali beni di consumo (olio, frumento ecc.) che acquistava a prezzo vile, costringendo poi gli stessi commercianti dai quali li avevano acquistati, a ricomperarli a prezzi maggiorati,  e  si era comportato da vero tiranno. Così il popolo non si dispiacque della sua morte.

Questa avvenne nel momento in cui Ferdinando I aveva sentito ventilare della venuta di Carlo VIII e si stava  preparando ad andare a Milano da Ludovico il Moro, quando gli giungeva la notizia che ai suoi ambasciatori in Francia era stato ordinato di abbandonare il territorio e che Carlo VIII stava per scendere in Italia per conquistare il suo regno. Ferdinando ormai vecchio, moriva (nel mese di novembre 1494) all’età di settantun anni, dopo trentasei di regno e aveva fatto appena in tempo a fare incoronare suo figlio Alfonso II con una magnifica cerimonia  (8.V.1494) officiata dal figlio cardinale di papa Alessandro VI (che all’epoca era Cesare Borgia).

In questa occasione il nuovo papa Alessandro VI (1492-1503), in seguito agli accordi precedentemente intercorsi,  con una bolla aveva rimesso ad Alfonso il pagamento di cinquantamila marche sterline (pari a ottomila once d’oro) che egli avrebbe dovuto versare ogni anno oltre a un palafreno bianco ogni tre anni, come diritto di feudalità dovuto alla Santa Sede, e questo per tutta la durata della sua vita.

Il papa aveva anche approfittato dell’occasione per dare in moglie a uno dei suoi figli, una donna di sangue reale, e aveva concordato il matrimonio tra la figlia naturale di Alfonso, Sancia, con suo figlio Jofré (v. in Articoli: Carlo V ecc., P. III, I Papi rinascimentali: Alessandro VI). Sancia portava in dote due feudi con 30mila scudi di pensione e due compagnie, spesate, di cento uomini ciascuna. Jofré regalava alla sposa gioielli, drappi e tessuti, per un valore di duecentomila ducati. Alfonso regalò inoltre alla figlia il principato di Squillaci e Jofré veniva creato principe di Tricarico e conte di Chiaromonte, Lauria e Carinola.

Alfonso II (1448-1495),  nel breve periodo di regno (un anno e due mesi) non fece che acuire l’odio e il risentimento del popolo che lo detestava già da quando  come principe ereditario aveva governato il regno col padre, chiamandolo “il guercio” per un difetto che aveva all’occhio. Più dissoluto del padre che pareggiava in crudeltà e avidità, di cui ambedue avevano dato prova soffocando nel sangue la rivolta dei baroni, avevano fatto morire prelati e alti personaggi appropriandosi dei loro beni

Alfonso era stato uomo di guerra più che di governo. Era coraggioso e combatteva sempre nelle prime file. Dedito alle armi fin dall’età di quattordici anni, aveva messo col suo esercito sottosopra mezza Italia: fu alleato dei fiorentini nella lotta contro le truppe veneziane capitanate dal Colleoni (1467); nel territorio di Siena aveva occupato diverse città, costringendo alla pace (1478) Lorenzo de’ Medici che si era recato a Napoli per firmarla ( v. in Specchio dell’Epoca: La congiura de’ Pazzi, par. Trame di conquista ecc.). Prese parte alla “guerra di Ferrara” come alleato del duca Ercole d’Este, combatté contro le forze di Sisto IV alleato dei veneziani, ma fu battuto a Campomorto presso Velletri da Roberto Malatesta capitano del papa (1482). Dopo che il papa aveva cambiato posizione, passando dalla parte di Ferdinando I, Alfonso aveva combattuto contro i veneziani fino alla pace di Bagnolo (1484).

Il papa Alessandro VI per evitare la rovina di Alfonso con la discesa di Carlo VIII, mandò come legato il cardinale di Sant’Eustachio (14.10.94) per invitare il re francese a desistere dalla impresa, dicendogli che la peste stava mietendo vittime e che la sua venuta poteva provocare rivolte civili e  poteva provocare  l’aumento del prezzo dei viveri. Inoltre, che Alfonso, per difendere i suoi stati avrebbe chiesto aiuto ai turchi e ciò avrebbe danneggiato la religione cristiana.

Il re rispose che “non temeva il contagio, che colpendolo lo avrebbe affrancato dalle fatiche (avvenne anzi, come abbiamo visto che il contagio della sifilide lo aveva portato lui con il suo esercito, che lui stesso aveva!), né l’aumento del prezzo dei viveri, avendo preparato abbondanti scorte o di combattere il turco, contro il quale era desideroso di combattere fin da bambino ed attendeva l’occasione per incontrarlo”.

Alfonso preso da stanchezza e da crisi mistica abdicava (1495) in favore del giovane figlio Ferdinando II, di ventiquattro anni, andandosene in Sicilia in un convento degli Olivetani,  morendo verso fine dello stesso anno (nov. 1495) all’età di quarantasette anni. Di lui fu scritto “si può dire morto il dio della carne, lasciò fama di malo omo, distruggitore della sua casa”.

Dell’odio del popolo nei confronti del padre, ne fece le spese  Ferdinando II (1467-1496), detto Ferrandino, “bello, aitante nella persona, con occhi vivaci, sciolto nell’armeggiare, nel volteggio, nella corsa, nel salto, colto  nelle arti e nella poesia”, aveva primeggiato in giostre e tornei, si trovò a dover uscire da Roma, mentre dalla parte opposta vi entrava Carlo VIII.

Mentre l’esercito napoletano era messo in fuga a San Germano, Ferrandino aveva convocati i nobili sciogliendoli dal giuramento nei  suoi confronti, dando licenza di mandare a prendere il re di Francia.

Non potendo disporre di aiuti si recò a Capua dov’era possibile  la resistenza, che abbandonò recandosi a Napoli, mentre Capua nel frattempo si arrendeva ai francesi. Con la plebe in rivolta Ferrandino lasciava il regno nelle mani dello zio Federico (fratello di Alfonso), e Ferrandino, con la vecchia regina madre, moglie del nonno Ferdinando I e la figlia Giovanna, s’imbarcò per Ischia proseguendo poi per la Sicilia. 

I nobili napoletani che erano corsi a rendere omaggio a Carlo VIII, presto si resero conto che nei loro confronti non veniva usato alcun riguardo e neanche venivano ricevuti a corte, non solo, ma erano stati revocati tutti gli incarichi che essi ricoprivano, per essere assegnati ai francesi. Gli ufficiali francesi compivano furti e rapine e non mancò molto che nobili e popolo napoletano “gente più d’ogni altra mutabile” scrive Pietro Giannone, “quel pazzo amore che avevano mostrato ai francesi  cominciarono a mutarlo in odio”.

Ferrandino intanto dalla Sicilia invocò l’aiuto di Ferdinando il Cattolico il quale per parte sua riteneva che il regno  fosse  stato ingiustamente assegnato dal fratello Alfonso I al figlio bastardo Ferdinando (I), mentre doveva appartenere alla corona d’Aragona, per cui diede incarico a Consalvo da Cordova di riconquistare il regno per suo conto.

Il Gran capitano sbarcato a Messina, dopo aver rassicurato Alfonso e Ferdinando (senza scendere con costoro in ulteriori spiegazioni!),  risalì il regno dalla Calabria.  

Ferrandino ritornato ancora a Napoli fu questa volta applaudito dal popolo che si rivoltò contro i francesi. Nell’abbandonare mesi prima Napoli egli aveva fatto liberare dalle carceri tutti i baroni angioini tenuti da anni in prigione. Ora, mirando a una pacificazione generale li aveva convocati e aveva detto loro:- “Sono Ferrando, se voi avete fatto alcuna ingiuria o ribellione al re mio padre o al mio avo, non l’avete fatta a me, per cui vi perdono”.

Ferrandino giunse con sessanta grosse navi e venti piccole e dopo essere sbarcato raggiunse Napoli che attraversò  a cavallo, acclamato dal popolo. Seguirono tutte le altre città di Terra di Lavoro a rivoltarsi contro i francesi e così la Puglia dove a Brindisi si trovava Federico, mentre la Calabria era stata conquistata da Consalvo da Cordova.

Ferrandino dopo l’assedio di Atella da cui era riuscito a scacciare i francesi (luglio 1496), per legarsi maggiormente al re di Spagna sposava la zia Giovanna (nata dal secondo matrimonio di Ferdinando I con la sorella di Ferdinando il Cattolico, anch’essa di nome Giovanna) ma fu colpito (ottobre) da febbre terzana che lo condusse alla morte all’età di ventotto anni (1496), dopo aver regnato per un anno e otto mesi.

Gli succedeva lo zio Federico (secondogenito di Ferdinando I, il protagonista della Congiura dei baroni, cit. in Specchio dell’epoca), “saggio e caro alle Muse”, che fu acclamato nuovo re e la vecchia regina (sorella di Ferdinando il Cattolico) e moglie del padre Ferdinando, gli consegnò Castelnuovo, mentre Federico per riconciliarsi con i baroni che si erano dati ai francesi, restituì le loro fortezze.

Il papa, nel giugno dell’anno seguente (1497) gli mandò la bolla d’investitura, accompagnata da una lettera affettuosa, il mese seguente gli mandò un’altra lettera con la quale gli comunicava che gli avrebbe mandato il figlio cardinale (Cesare Borgia) come suo legato  per incoronarlo.

 A cosa si dovevano tutte queste attenzioni e premure del papa, che certamente non erano disinteressate?

I progetti di Alessandro VI erano di una smodata ambizione per il figlio Cesare, per il quale il solo cardinalato non poteva bastare. Come farà con la figlia Lucrezia, che la toglierà a un marito anonimo per darla in moglie ad altro più potente (v. in Articoli: I Borgia), il cardinalato per Cesare poteva essere sostituito da un trono, e a portata di mano vi era quello del regno di Napoli.

Il papa chiedeva quindi a Federico di dare in moglie al figlio Cesare la figlia, con il principato di Taranto. La celata intenzione era che, avuto il principato, con una moglie figlia del re, il figlio “grande d’ingegno e d’animo”, con l’appoggio dalla Chiesa, avrebbe avuto la possibilità di impossessarsi del regno, spogliando il suocero “debole e senza denari”.

Poiché a Napoli era scoppiata la peste, la incoronazione ebbe luogo (10.VIII) nella  cattedrale di Capua, officiata dal cardinale Cesare Borgia, accompagnato dal vescovo di Cosenza, segretario del papa, e da altri prelati.

Alla cerimonia parteciparono gli ambasciatori  dell’imperatore, del re di Spagna, di Venezia e del duca di Milano e di Prospero e Fabrizio Colonna, ed esponenti della nobiltà (4) e tanti altri baroni e cavalieri, e al pranzo che seguì il giorno dopo era presente anche un rappresentante dei Sanseverino, il principe di Bisignano.

Federico al quale erano giunte le notizie sui successi di Luigi XII a Milano e della prigionia di Ludovico il Moro, ebbe timore per sé e per il suo regno in quanto era “debole di forze e senza denaro”, e non avendo avuto l’aiuto chiesto ai turchi, fu costretto a rivolgersi a Ferdinando il Cattolico del quale conosceva le mire, ma mandò anche un ambasciatore presso Luigi XII il quale però stava conducendo trattative con Ferdinando il Cattolico per la spartizione del regno, a sua insaputa.

 

3) Renato ebbe due figli, Giovanni II (1453-1470) e Nicolò (1470-1473) ultimi discendenti, con i quali si estinse la prima dinastia della casa di Lorena. Essa proseguì con la seconda dinastia (dalla quale discenderà Francesco Stefano che sposerà l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo, creando la stirpe degli Asburgo-Lorena), attraverso la figlia di Renato I,  Jolanda, che sposando Federico (Ferry) di Lorena procreava Renato II  duca di Bar  e  duca di Lorena, che avanzava le sue pretese sul regno di Napoli .

 

4) Il duca di Amalfi, Alfonso d’Aragona de’ Piccolomini, Ferdinando Francesco Guevara, marchese di Pescara, Troiano Caracciolo, duca di Melfi, Alberigo Carafa, duca di  Ariano, Andrea d’Altavilla, duca di Termoli, Francesco Orsini, duca di Gravina, Petraccone Caracciolo, conte di Polcino, Giovann’Antonio Carafa, conte di Maddaloni, Troiano Cavaniglia, conte di Montella, Belisario Acquaviva conte di Nardò, Marcantonio Caracciolo, conte di Nicastro, Giovanni Carafa, conte di Policastro, Vito Pisanello segretario del re, Antonio Grisone, camerario del re, Roberto Bonifacio, cavaliere.

 

 

IL TRATTATO DI GRANADA

E LE CONQUISTE DI

CONSALVO DA CORDOBA

 

 

L

uigi XII aveva proseguito, come detto, nelle trattative con Ferdinando, già iniziate con Carlo VIII, che si conclusero con il trattato di Granada (1500), che doveva essere mantenuto segreto.

Con questo trattato i due monarchi avevano concordato che al re di Francia toccasse la città di Napoli e di Gaeta con tutto il territorio di Terra di Lavoro, l’Abruzzo e la metà del dazio delle pecore che arrivavano in Puglia (che fruttava duecentomila ducati l’anno) e come titoli gli sarebbero stati riconosciuti quello di duca di Milano, e re di Napoli e Gerusalemme, mentre al re di Spagna sarebbe spettata la Calabria e la Puglia, l’altra metà del dazio delle pecore della Puglia e riconosciuto il titolo di duca di Puglia e di Calabria; ognuna delle due parti avrebbe conquistato i territori di propria spettanza e solo allora si sarebbero potuti conoscere questi accordi; si sottolineava che (gli accordi) erano stati raggiunti a beneficio della cristianità e per combattere i turchi e questo per poter avere anche l’investitura del papa;  infine,  Federico sarebbe stato scacciato  dal regno.

Federico, all’oscuro di questi accordi, si aspettava l’aiuto del Gran Capitano che si trovava in Sicilia, al quale aveva concesso dei feudi in Calabria, e pensava che l’esercito di Consalvo si sarebbe congiunto al suo e poter resistere all’esercito francese.

Ma nel frattempo l’esercito francese era arrivato a Roma, e gli ambasciatori francesi e spagnoli si erano recati insieme dal papa comunicandogli gli accordi della spartizione...per poter combattere il nemico comune della religione cristiana, chiedendo l’investitura.

Questa notizia colse di sorpresa Federico che dopo alcune tappe a Capua, Aversa e Napoli se ne andò ad Ischia dove si era riunita la famiglia reale (tra cui la sorella Beatrice rimasta vedova di Mattia d’Ungheria e Isabella, figlia di Alfonso, rimasta vedova di Gian Galeazzo Sforza, il duca di Milano spodestato dallo zio), da dove condusse trattative con d’Aubigny  ottenendo, in cambio della cessione delle fortezze che parteggiavano per lui e dell’isola d’Ischia,  il ducato d’Angiò per sé e i suoi eredi e una rendita di trecentomila ducati l’anno.

Dopo di che Federico vece vela verso la Francia (con la disapprovazione di Giannone, che riteneva che se Federico avesse resistito, dalle guerre che erano insorte tra spagnoli e francesi per la spartizione del regno, gli si sarebbero certamente presentate delle occasioni per riavere il regno!). Federico moriva (Tours) due anni dopo (1504).

Nell’arco di tre anni, nel regno di Napoli si erano avvicendati cinque re aragonesi: Alfonso I, Ferdinando I - Ferrante, Alfonso II, Ferdinado II- Ferrandino e Federico (oltre alla breve parentesi del re francese Carlo VIII ).

Il regno di Napoli, alla partenza di Federico era diviso in due parti, una tenuta dai francesi con vicerè Luigi d’Armagnac duca di Nemours che reggeva Terra di Lavoro e Abruzzo, l’altro con Gonzalo Fernandez de Aguilar da Cordova, detto Consalvo da Cordova, Gran Capitano, viceré e gran plenipotenziario del re di Spagna, che teneva la Calabria, la Puglia e la Sicilia.

Tra costoro, al momento della divisione secondo le condizioni del trattato di Granada, che poteva sembrare semplice, essendo stato deciso puramente e semplicemente che la Puglia e la Calabria e metà del dazio delle pecore sarebbe andata agli spagnoli; Napoli, Gaeta e tutto il territorio di Terra di Lavoro, l’Abruzzo e la metà del dazio delle pecore che arrivavano in Puglia, ai francesi: così non fu!

La semplicità quando si hanno riserve mentali, può diventare difficile: e le difficoltà sorsero sia per i territori da dividere, sia anche per la divisione dei proventi del dazio, che sarebbe stata la cosa più semplice, in quanto secondo gli accordi quei proventi dovevano essere divisi a metà.

Per i territori, le province di Capitanata, il contado del Molise e Val di Benevento, Principato (distinto in Principato citra e ultra, comprendeva tutto il territorio di Salerno fino al Golfo di Policastro, feudo dei Sanseverino) e Basilicata, che non erano stati nominati nel trattato, ciascuno riteneva dovessero comprendersi nella propria parte, o che dovessero essere divise per metà.

I francesi ritenevano che la Capitanata (peraltro ricca di frumento che non si trovava in Abruzzo e in Terra di Lavoro) essendo contigua all’Abruzzo ed essendo tagliata dall’Ofanto, facesse parte dell’Abruzzo e non della Puglia.

L’altro motivo era il dazio che con i duecentomila ducati l’anno, costituiva una importante  voce di entrata, e l’averne il territorio (la Capitanata) ...significava appropriarsi anche della rendita.

Queste discussioni non erano condivise dai baroni che volevano che Consalvo e il duca di Nemours si mettessero d’accordo. Costoro si incontrarono ad Atella terra del duca di Melfi, anch’egli presente, ma dopo lunghe discussioni non fu trovato nessun accordo perché la decisione fu quella di rimetterla ai loro re (5).

Il duca di Nemours avendo al momento più  forze di Consalvo, lo aveva minacciato di fargli guerra se non gli avesse consegnato la Capitanata e contemporaneamente fece fare dai suoi una incursione ad Atripalda (1501) dalla quale derivò la guerra, con l’occupazione della Capitanata da parte dei francesi, che presero altre terre occupate dagli spagnoli.

Tra francesi e spagnoli vi furono quindi diversi scontri in varie località del sud, a macchia di leopardo, che si rivolgevano tutte a favore di Consalvo che pareva baciato dalla fortuna.

Ma i principali eventi si ebbero a Barletta dove si scontrarono (1503) italiani e francesi, e a Cerignola dove vi fu una battaglia tra francesi e spagnoli.

In quello di Barletta, era emersa la figura di Ettore Fieramosca e la valentia degli italiani (i tredici prescelti erano uomini d’arme di Prospero Colonna) ed era stato l’avvenimento che nell’800 era stato particolarmente enfatizzato, ma nell’enfasi era stato dimenticato un aspetto importante:- Che gli italiani, nel loro paese erano al soldo dei francesi (come il principe Sanseverino e i baroni sostenitori degli angioini!) o degli spagnoli (come Prospero e Fabrizio Colonna al comando di Consalvo da Cordova) e tutti combattevano per il dominio degli altri, vale a dire dei sovrani e dominatori stranieri, e non per l’indipendenza del proprio paese!

La disfida di Barletta fu seguita poco dopo, dalla battaglia di Cerignola dov’era un castello sulla sommità di una collina coltivata a vigneti, con la base della collina divisa  dalla pianura da un fossato, coperto da piante di finocchio selvatico particolarmente alte.

Quivi  era giunto il grosso delle truppe spagnole con Consalvo e i due Colonna, Prospero e Fabrizio, prima dei francesi, comandati  dal duca di Nemours, che giunto nel pomeriggio, volle subito attaccare, senza fare preparativi.

Il combattimento ebbe luogo in prossimità del fossato, reso più profondo da Prospero Colonna, che i francesi non avevano visto, tra l’altro i cavalli avevano alzato un polverone misto al fumo dell’artiglieria e al fumo  della polveriera degli spagnoli, attaccata dal fuoco.

A  seguito di un ordine dato da Nemours, che non riuscendo a superare il fossato aveva gridato “addietro”, perché intendeva aggirarlo, la parola fu intesa come ordine di fuga; Nemours stesso che era alla testa del battaglione fu colpito a morte, e l’esercito francese si volse in fuga con la perdita di tutte le salmerie e i viveri.   

Nel giro di mezz’ora la battaglia fu decisa. Ottenuta questa vittoria Consalvo si diresse subito verso Napoli e dopo essere stato accolto ad Aversa e Capua si recò a Napoli da dove Pietro Navarro dovette snidare i francesi da Castelnuovo (11.VI) mentre Castel dell’Ovo fu preso ventun giorni dopo.

Tutto il regno era nelle mani degli spagnoli, ad eccezione di Gaeta, Troia, Venosa e Santa Severina.

Luigi XII non poteva darsi pace per la perdita del regno e si sentiva giocato dal trattato di Blois che aveva firmato con l’arciduca Filippo (v. nota 5) mentre Ferdinando lo disconosceva. Luigi decise di attaccare alla grande la stessa Spagna e mandare un esercito nel regno di Napoli.

Fu raccolto un grosso esercito, formato non solo da soldati francesi e svizzeri, ma dagli alleati fiorentini, senesi e signori di Ferrara, Bologna e Mantova, in tutto erano  milleduecento lance e diciottomila fanti, sotto il comando di Louis de La Tremouille, sotto il quale militava il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga (opposto ai francesi a Fornovo,  v. sopra: La discesa di Carlo VIII).

La Tremouille si ammalò a Parma e non fu in grado di partire con l’esercito il cui comando fu preso dal marchese Gonzaga che non aveva né carisma, né risoluzione con i francesi che non accettavano il comando di un italiano e si mostravano indisciplinati. Gonzaga ritenutosi offeso dal comportamento dei francesi, approfittò di un lieve attacco di febbre quartana per tornarsene a Mantova.

L’esercito che si muoveva lentamente, dovette affrontare un autunno quanto mai piovoso e umido fermandosi al Garigliano dove giunse anche Consalvo e dove avvenne lo scontro, che si risolse ancora in favore di Consalvo i cui uomini, come a Cerignola, non dovettero impegnarsi molto.

Infatti i francesi, vedendo che alcune schiere di spagnoli che abbondavano sul fianco, abbandonavano il campo in maniera disordinata, giunti al bivio di due strade che portavano una a Itri, l’altra a Gaeta, si volsero in fuga abbandonando artiglieria e viveri. Molti morirono sul campo, altri si dispersero per la campagna, denudati dai contadini. La maggior parte perì di freddo ma anche per le malattie contratte durante i cinquanta giorni in cui erano stati accampati nel fango e sotto la pioggia. Di tutto l’esercito venuto in Italia con La Tremouille, pochi riuscirono a rientrare in Francia e costoro morirono subito dopo.

Nel regno di Napoli era rimasta la sola fortezza di Gaeta che fu consegnata a Consalvo il primo gennaio dell’anno successivo (1504); rimanevano le città di Venosa, Troia e Santa Severina che Ludovico d’Ars occupava dopo la battaglia di Cerignola, il quale  non pensò neanche di difenderle da Consalvo e le abbandonò tornandosene con i suoi in Francia.

Il regno conquistato da Consalvo da Cordova per Ferdinando il Cattolico dopo l’estinzione della dinastia aragonese di Napoli (il figlio di Federico, Ferdinando era stato mandato da Consalvo in Spagna dove moriva nel 1554), iniziata con Alfonso I, che aveva fatto fiorire le arti e le scienze, il regno di Napoli era degradato a viceregno (ritornerà regno con i Borboni), finirà nella ricca eredità di Carlo V (come vedremo in Articoli: cit. Carlo V tra Rinascimento, ecc), precipitando nell’abbrutimento della colonia e nello sfruttamento delle risorse: umane, con gli uomini che erano assoldati per andare a combattere altrove; ed economiche, con tutte le imposte e gabelle che venivano mandate in Spagna e finivano nel nulla, come tutto l’oro e l’argento che per tutto il secolo (e anche dopo) arriverà dalle colonie americane (v. Articoli: citato Carlo V ecc.).

 

5) i trattati di blois.

 

Ciò che meraviglia è che in tutto il periodo di scontri e battaglie nel regno di Napoli che si erano avuti dopo il trattato di Granada (1500),  le trattative tra i due monarchi, Luigi XII e Ferdinando il Cattolico  erano continuate senza interruzione!

Erano iniziate quando l’arciduca Filippo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Massimiliano, erede delle Fiandre che aveva sposato Giovanna figlia di Ferdinando e Isabella (poi denominata la Pazza) e nel 1500 avevano avuto il primogenito Carlo (v. in Articoli: Carlo V tra Rinascim. ecc. citato), era partito dalla Spagna, via terra, per recarsi in Fiandra e  attraversando la Francia era stato ospitato da Luigi XII a Blois. Da questo sollecitato per la pace, Filippo aveva ottenuto dai suoceri  ampio mandato di condurre le trattative.

Filippo aveva quindi concluso con Luigi XII accordi (che portano la data del 1503 ma in effetti  sono del 5. IV. 1502) con cui si stabiliva: 1. Che il reame di Napoli rimaneva secondo la prima divisione (sopra riportata) e che i territori per i quali si era venuti alle armi, rimanevano custoditi da Filippo. 2. Che il figlio di Filippo, Carlo, avrebbe sposato Claudia, figlia di Luigi XII; 3. Che le due parti del regno sarebbero  state tenute: quella spagnola, da Filippo, quella francese da chi fosse stato designato dal re, fino al momento del matrimonio dei due principi,  in cui sarebbero state unificate le due parti, con quella francese da considerare come dote di Claudia, e ambedue sarebbero stati riconosciuti con i titoli di re di Napoli e duchi di Puglia e di Calabria.

Comunicati questi accordi ai suoceri, essi, anche per le vittorie che Consalvo continuava a riportare nel regno di Napoli, ritennero di non accettarli e mandarono  due ambasciatori  che comunicarono che i loro re (Ferdinando e Isabella) non ritenevano quella pace onorevole, e smentivano anche il genero, dicendo che egli nelle condizioni di pace aveva oltrepassato la loro volontà!

Filippo che aveva un senso dell’onore diverso da quello del suocero, si giustificò con il re di Francia dicendo che ciò non era vero, perché i suoceri avevano giurato sul Vangelo e sull’immagine di Cristo che avrebbero osservato tutto quello che egli avrebbe deciso. Insomma i due re che si onoravano di portare il titolo di  “cattolici”, pur avendo giurato sul Vangelo e sull’immagine di Cristo, quando vi erano di mezzo interessi “reali”,  pensavano a salvare gli interessi piuttosto che osservare i giuramenti ...per quanto fossero sacri!

Solo successivamente alla morte di Isabella (1504) la situazione di Blois si sbloccò nel senso che questa volta il trattato era sancito dal matrimonio di  Ferdinando (di cinquantun anni), con la diciannovenne Germana di Fois, figlia di una sorella del re di Francia, che come dote doveva portare la parte che a lui spettava del regno di Napoli e lui si obbligava a versare settecentomila ducati per rimborso delle spese sostenute dal re francese, e a dotare di altri trecentomila ducati la giovane moglie.

I termini del trattato erano quindi i seguenti:

1. Tutti i baroni sostenitori degli angioini, dovevano riavere tutti i loro beni senza pagamento di somme;

2. Che erano annullate tutte le confische fatte dal re di Spagna e da Federico,;

3. Che fossero liberati il principe di Rossano, il marchese di Bitonto,Alfonso e Onorato Sanseverino, Fabrizio Gesualdo e tutti gli altri baroni che erano tenuti nelle prigioni degli spagnoli nel regno di Napoli;

4.  Che il re di Francia  non usasse più il titolo di re di Napoli e di Gerusalemme.

I trattati però erano carta straccia, e mentre il re di Francia continuò ad usare il titolo di re di Napoli e Gerusalemme...il primo a violare gli accordi fu Ferdinando. Si dovette arrivare al 1513 per un ulteriore trattato in cui, tra l’altro,  si stabiliva che morendo la regina Germana durante il matrimonio e senza figli, la sua parte dotale sarebbe stata acquisita da Ferdinando, ma se sopravviveva a lui, essa doveva ritornare alla corona di Francia; che Ferdinando doveva aiutare Gastone di Fois, fratello della moglie a conquistare il regno di Navarra posseduto da Giovanni d’Albret (ma Ferdinando, della parte spagnola della Navarra se ne impossesserà lui nel 1512!); e che, poiché la pace raggiunta doveva ritenersi “perpetua” ambedue i re dovevano prestarsi aiuto a vicenda.

Le cose non andarono a questo modo perché le guerre continuarono tra i rispettivi eredi, Francesco I e Carlo V  (come si leggerà in cit. Articoli: Carlo V ecc.).

 

 

IL REGNO  DI SICILIA

 

Il regno di Sicilia con la pace di Caltabellotta (1302), rimaneva assegnato a Federico d’Aragona re di Sicilia (non di Trinacria, titolo creato dal papa Gregorio XI, che non fu mai usato da nessuno essendo stato sempre usato quello di re di Sicilia ultra Pharum), al quale succedeva (dopo lunga guerra tra aragonesi e angioini), il figlio Pietro II (1337-1342), nonostante una bolla papale avesse devoluto la Sicilia a Roberto d’Angiò.

A Pietro II succedeva Luigi di Taranto (1342-1355), marito della regina Giovanna, e, morto questo, il fratello Federico III di tredici anni.

Federico concludeva una pace (1372) con la quale la Sicilia rimaneva agli aragonesi, sotto il vassallato di Napoli.

Federico aveva una sola figlia, Maria che alla sua morte (1377),  non venne riconosciuta a succedergli da parte di Pietro III del ramo principale aragonese, il quale cedette il diritto al suo secondogenito Martino il Vecchio, che a sua volta lo trasmise a Martino il Giovane.

La nobiltà feudale siciliana era divisa in due fazioni: quella degli aragonesi e quella dei siciliani (questa capeggiata dalla famiglia feudale dei Chiaromonte); quest’ultima fazione,   prelevata Maria, la condusse in Spagna e la fece sposare a Martino il Giovane il quale  venuto in Sicilia fu incoronato a Palermo (1392).

Questa incoronazione non fece cessare la guerra tra le fazioni, perché morta Maria ( 1402) e successivamente Martino (1409), Martino il  Vecchio si dichiarò erede della Sicilia. Con la sua morte (1410) si estingueva questo ramo di Aragona e dopo un periodo d’interregno, le due fazioni dei siciliani e aragonesi riconobbero Ferdinando di Castiglia figlio della sorella di Martino il Vecchio, il quale al regno di Castiglia univa quello di Sicilia.

Il figlio di questo, Alfonso I (1416-1458), acquisì Napoli, unificando ancora una volta i due regni (1442), denominandosi “re dell’una e dell’altra Sicilia”. Con la sua morte (1458) però l’unificazione ebbe termine perché Alfonso I, come abbiamo visto, assegnando i reami spagnoli a suo fratello Giovanni II d’Aragona (1458-1471), gli destinava anche la Sicilia, assegnando il solo regno di Napoli al figlio naturale Ferdinando I (v. sopra) (1423-1494), il quale dovette combattere con Giovanni d’Angiò (figlio di Renato v. sopra) sostenuto dai baroni siciliani riottosi, che veniva  sconfitto in Puglia nella battaglia di Troia (1462).

Giovanni II d’Aragona e Sicilia, trasmise i due regni al figlio Ferdinando il Cattolico re titolare di Spagna (marito di Isabella di Castiglia v. P. II), che dopo aver riuniti i due regni, ancora per poco  (1501-1503), al regno di Spagna,  rimarranno distinti e degradati a vicereami, con la nomina di viceré separati.

Da questo momento i due vicereami non furono altro che colonie della Spagna con il loro conseguente sfruttamento sia delle risorse economiche (la produzione del grano era monopolizzata dalla Spagna dove veniva mandato tutto il danaro di imposte e gabelle) sia di quelle umane, con arruolamento di soldatesche che servivano alla Spagna per le guerre.

 

 

FINE

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