Pinturicchio – Sala dei Santi – Appartamento Borgia

L’immagine di Djem contestata dai critici d’arte

 

 

LE SVENTURE

 DI  DJEM SULTAN

DETTO “ZIZIM”

E I CAVALIERI DI RODI

 

 


SOMMARIO: MUORE MAOMETTO II E INIZIA LA LOTTA TRA I DUE FIGLI-EMERGE UN ALTRO PRETENDENTE; LA GIOVINEZZA DI DJEM E LE SUE PREDILEZIONI; BAIAZET II SI IMPOSSESSA DEL TRONO - RIVOLTA DEI GIANNIZZERI; I PRIMI RAPPORTI DI DJEM CON IL GRAN MAESTRO D’AUBUSSON E L’ASSEDIO DI RODI; I CAVALIERI DI SAN GIOVANNI DI GERUSALEMME SOCCORRONO DJEM; LE TRATTATIVE DI PACE ASTUTAMENTE PROLUNGATE DA BAJAZET; LE TRATTATIVE DI PACE E IL PRIMO TRATTATO TRA IL GRAN MAESTRO E BAJAZET; IL SECONDO IGNOMINOSO TRATTATO; IL TRASFERIMENTO IN FRANCIA DI DJEM DETTO ZIZIM - PERFIDIA E TRADIMENTO DI D’AUBUSSON; DEGRADO E PEGGIORAMENTO DELLA MORALE NEL XVMO SECOLO; ZIZIM ACCOLTO DA INNOCENZO VIII CHE ACCETTA I DONI DI BAJAZET E DEL SULTANO D’EGITTO; ALESSANDRO VI MERCANTEGGIA CON CARLO VIII L’ASSASSINIO DI ZIZIM CHE MUORE A NAPOLI; (In nota: LA LETTERA DI BAJAZET AL PAPA PER L’ASSASSINIO DI DJEM); CARLO VIII SFILA CON L’ESERCITO A ROMA (In Nota: DESCRIZIONE DI CARLO VIII).

 

 

MUORE MAOMETTO II

E INIZIA LA LOTTA

TRA I DUE FIGLI

EMERGE UN ALTRO

PRETENDENTE

 

 

L

a morte del sultano Maometto II il Conquistatore (1432-1481), aveva suscitato la immensa gioia dei cristiani, che lo consideravano «crudele tiranno e capital nemico della sacra religione», considerando questa morte un miracolo: «potendosi credere ch’egli morisse nel giorno dedicato alla memoria e all’onore della Santissima Croce; potendosi piamente credere che il Signor Nostro Gesù Cristo, solennizzare e illustrare volesse quel giorno (3 maggio) al trionfante e glorioso segno della sua santa Croce consacrato, con la vittoria e morte di così perfido, di così insolente e orgoglioso nemico, dando con questo una delle maggiori allegrezze e contenti che dar si potesse, non solamente al Gran Maestro e all’Ordine (di san Giovanni di Gerusalemme) che egli governava, ma generalmente a tutta la cristianità e ciò sotto molti aspetti, ultimo dei quali, era stata la presa di Otranto che l’anno precedente, il barbaro, aveva occupato per mezzo di Achmet bascià (che aveva pronti a Valona venticinquemila turchi per invadere l’Italia), mentre da altra parte non molto lontana, Mesih Paleologo aveva messo sotto assedio l’isola di Rodi» . Non a caso sulla sua tomba Maometto II aveva fatto scrivere in arabo: «Le intenzioni erano di espugnare Rodi e domare la superba Italia» (Iacomo Bosio : Dell’Istoria della sacra religione ecc, 1594).

Maometto aveva lasciato due figli, il primo Bajazet il secondo Djem (*), in Italia detto Zizim (così nominato da Caorsino (**)); mentre Bajazet si recava a Costantinopoli a occupare il trono, Djem, che avanzava rivendicazioni sul regno paterno, si recava a Bursa (o Brussa in Bitinia), antica capitale del regno turco.

Per le sue rivendicazioni Djem si faceva forte della circostanza che esse avevano avuto un precedente di non poco rilievo, nel grande impero persiano, dal quale gli altri regni traevano orientamento; precedente che gli era stato riferito dagli amici sapienti greci e italiani che egli aveva presso la sua corte, i quali gli citavano il caso di Serse che era succeduto al padre Dario a scapito di Artamene, figlio maggiore del defunto re (***).

I fatti si erano svolti nel modo seguente: Dario alla sua morte aveva lasciato numerosi figli maschi che egli aveva avuto prima di aver ricevuto la corona; alla sua morte, Artamene, il primo per data di nascita, si riteneva successore dell’eredità paterna, ma Serse (519-465) gli contestava questo diritto, dichiarando che, senza dubbio Artamene era suo primogenito, ma egli era nato quando suo padre era un semplice cittadino, mentre lui, Serse, era nato da Dario quando era re di Persia.

La differenza era proprio in questo: che Artamene e gli altri suoi fratelli, erano nati prima dell’assunzione al trono del loro padre, quando egli era un semplice cittadino, mentre lui, Serse, era nato da Dario quando era re di Persia. Con la conseguenza che Artamene e i suoi fratelli, nati prima dell’assunzione del loro padre al trono, non potevano ereditare che i beni che egli possedeva quando erano nati,  e a lui solo, Serse, che era il primo nato dal padre re, doveva pervenire l’impero.

Serse e Artamene non riuscivano ad accordarsi e decisero di sottomettere la loro causa all’arbitraggio del loro zio Artaferne, il quale decise in favore di Serse.

Forte di questo precedente, era da prevedere che Djem avrebbe cercato con tutti i mezzi di far riconoscere ciò che egli considerava un suo diritto: questo era il motivo per il quale presso i sultani di norma chi ereditava faceva assassinare i propri fratelli.

Il diritto di primogenitura del fratello si fondava sulla citcostanza che quando era nato Bajazet, il padre non solo non aveva ancora ereditato da suo padre Murad (Amurad) il regno, ma Maometto II aveva ereditato il regno dopo la nascita di Djem e poi successivamente aveva conquistato gli altri territori; il ragionamento di Djem (caso unico nella storia dopo quello di Serse) era che, mentre Maometto, quando era nato Bajazet, non possedeva nulla, quando invece era nato Djem il padre, non solo aveva ereditato il regno paterno, ma aveva conquistato altri territori ingrandendo l’impero: Bajazet quindi lo privava della  eredità paterna.            

Per questo motivo Djem si era rivolto contro il fratello, ma per ben due volte era stato  sconfitto; la prima a Yenisehir presso Nicea (19 Giugno 1481) ed egli fu inseguito da Achmet fino in Soria (Siria); molti dei suoi lo abbandonarono e con la famiglia si  recò presso il sultano del Cairo, dove portava la sua famiglia; la seconda volta fu sconfitto (Marzo 1482) inseguito fino al mare.

Su questa sconfitta, lo storico Laonico Calcondila (Histoire des Turcs, Paris, 1650). così scrive : « Il Caraman non dormiva in quanto voleva recuperare la Cilicia che Maometto gli aveva tolto e dopo aver raccolto quante più persone avesse potuto presso il monte Taurus si unì a Djem. Achmet lo raggiunse con un'armata di duecentomila uomini. La diversità di forze, fece tremare Djem e dette coraggio all'armata di Bayazet che superava il nemico in valore, in numero e in condotta; così Achmet ebbe l'onore delle vittoria facendo una gran carneficina dell'esercito di Djem, e facendo un gran numero di prigionieri. Costoro erano tutti schierati davanti a loro e Bayazet era disposto a liberarli tutti, ma Achmet glielo impedì dicendo che si doveva dare nello spirito del nemico un esempio di terrore per riportarlo alla ragione; Bajazet non si oppose e Achmet fece tagliare la testa a tutti».   

Quanto a Djem, loro capo, tutto gli era contrario e fu costretto a fuggire non potendo più sperare nell'aiuto dei principi suoi alleati e accolse il suggerimento dello stesso Caraman, di buttarsi nelle mani dei cristiani per cercare un posto sicuro e di farsi portare a Rodi,                      

Dalla spiaggia, Djem, prima di imbarcarsi scrisse una lettera al fratello e legandola a una freccia la lanciò nei pressi della riva; le richieste che Djem rivolgeva al fratello costituivano la  metà dell’impero (anche più della metà !) vale a dire la parte asiatica, che tra l’altro era la migliore, mentre lasciava a Bajazet la parte europea, in pratica  costituita tutta da territori conquistati con le armi; Bayazet gli fece rispondere che «la fidanzata dell’impero non poteva essere divisa tra due rivali, pregandolo di non sollevare il piede del suo cavallo e il bordo del suo mantello del sangue innocente dei musulmani e di godersi i suoi averi tranquillamente a Gerusalemme (J. De Hammer, traduz. dal tedesco, Histoire de l’empire Ottoman, Paris,1836).  

Per contro, Bajazet gli avrebbe consentito di condurre una vita principesca, vale a dire duecentomila scudi d'oro ogni anno e gli avrebbe fornito una Corte con apparato regio, vasi d'oro e d'argento, servitori, schiavi, purché andasse a vivere al di fuori dei confini dell'impero. La lettera si esprimeva in questi termini;-

«Il re Djem al suo crudelissimo fratello per aver chiesto ciò che è giusto e onesto, ma la tua detestabile ambizione, tu violatore della umana e divina ragione e dispregiatore della legge maomettana, mi hai offerto di vivere in una parte del tuo grande impero e sono costretto a far ricorso ai cristiani, il più grande nemico della nostra potente famiglia ottomana; non per disprezzo della religione degli avi, ma forzato dalla tua crudeltà, poiché io vado controvoglia. Se mi avessi dato ciò che giustamente mi appartiene  mi sarei fermato vivendo quietamente. E il tuo real fratello, maomettano come te e del tuo stesso sangue, non si sarebbe sforzato di accostarsi ai cristiani fra i quali mi sarebbe impossibile osservare le cerimonie, i costumi e il culto della nostra legge. Spero nella giusta vendetta di Dio e prego il vendicatore nostro profeta Maometto, che ti doni il debito castigo conforme al tuo demerito. Confido  che per giusto giudizio di Dio, trovar si debba chi in vendetta di sì empio e nefando delitto ti rompa e calpesti il capo e ciò che procuri a me e ai miei figli, si rivolga contro di te e dei tuoi figli.  Sta sano e guardati che l’estrema disgrazia e rovina non opprima te e i tuoi figlioli e non stermini e non consumi».

Bajazet per due giorni, senza esser visto da nessuno, rimase ritirato per l’estremo dispiacere datogli dal fratello, che si fosse ritirato presso i cristiani e particolarmente presso i peggiori nemici, i Cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme.

Nel contesto di queste diatribe ereditarie emerge un altro Bajazet, pretendente dell’impero.

Dopo la presa di Costantinopoli, alcuni cristiani avevano trovato un giovinetto, Bajazet, figlio legittimo di Murad e fratello di Maometto II che  portarono a Roma dal papa Nicola V che lo aveva fatto istruire nelle lettere e battezzare; alla morte del papa era stato portato alla corte di Mattia Corvino.

Egli scrisse una lettera in latino al Gran Maestro dicendo che Maometto II era bastardo e per questo Bajazet e Djem erano illegittimi ma lui solo, fiìglio di Murad era il legittimo successore; la questione (riferita da Bosio) è poco conosciuta e riteniamo pubblicare la lettera (accompagnata da una lettera del re Mattia Corvino)  del seguente tenore:

« Magnifico e valoroso signore, ho inteso che presso di voi si trova il minor figliolo  del  bastardo Maometto mio fratello, che ultimamente è morto. Mi sono infinitamente meravigliato che avendo egli lasciato i principi orientali, venga a chiedere agli occidentali e cristiani. Sappia la magnificenza vostra, che sono ambedue illegittimi e che io sono il vero legittimo figlio di Amurat e che di nessuno di essi è padre Maometto, che ultimamente è morto; il vero erede dell’impero dei turchi sono solo io  successore ed erede. Dopo che fu presa Costantinopoli, sono stato preso e nutrito e allevato dai cristiani e con essi sempre ho conversato e primieramente presso i sommi pontefici, poi con l’imperatore e infine con il re d’Ungheria dove al presente mi trovo. Sono di affinità e parentela con la maggior parte dei principali Grandi di Turchia strettamente congiunto. E se la magnificenza vostra vorrà trattare su questo argomento o altra che ne confina, non dubito che per mezzo mio ne trarrà giovamento e utilità per la cristiana repubblica. Spero che anche ella potrà ridurmi nel paterno impero, per mezzp dei principi parenti e amici miei che si trovano in Turchia i quali nominerei se della volontà e mente sua certificato fossi. Per il che, prego che su ciò possa pensare diligentemente. E poiché nei confini si trova, potrà, dei fatti miei dai turchi informarsi e sentirà di ciò che di me le diranno e piacciale rispondermi e dichiararmi su ciò che ritiene la mente sua. E piacesse a Dio  che io avessi la comodità di poter a bocca ragionarle. Per ciò che molte cose le scoprirei che di scrivere non mi è lecito. ... Si confermi la Magnificenza vostra felice.  Scritta in fretta dal castello di Pest il 23 Novembre 1482, Baiasette Ottomano, figliuolo di Amurat imperatore, principe dei turchi, di propria mano».

 

 

 

*) Gem spiega Sismondi, in lingua turca è il nome di una specie di squisitissima uva, mentre Gemm è il nome magico dato a Salomone e aggiunge che Demetrio Cantemir pende dubbioso sulle due etimologie e osserva che nessun altro turco ebbe questo nome; Zizim è un vocabolo corrotto dagli europei.

Noi abbiamo scelto di indicarlo come Djem fino alla partenza da Rodi, e Zizim da quando arriva in Francia.

**) Guglielmo Caorsino era addetto alla Cancelleria  dell’Ordine e il Gran Maestro gli aveva dato incarico di riordinare in unico volume gli Statuti dell'Ordine fino a quel momento confusionari e contrraddittori;  aveva scritto anche  delle note biografiche di Zizim.

***) Sismondi si rifà al mondo bizantino dicendo che le pretese avanzate da Djem erano utilizzate dai principi bizantini come «porfirogenito»,(v. I mille anni dell’impero bizantino ecc,) vale a dire che egli era nato quando il padre era sul trono, mentre  Bajazet era nato quando il padre era un semplice privato.

 

 

 

LA GIOVINEZZA

DI DJEM E LE

SUE PREDILEZIONI

 

 

G

iunto al suo quindicesimo anno di età (1474), Djem  seguendo gli  usi, lasciò la Corte di Costantinopoli e il padre lo mandò a Kastemuni in Caramania, con il titolo di governatore per fare, sotto la tutela dei consiglieri scelti dal sultano, pratica di governo. Fu in questa città, famosa per il numero di sapienti e di poeti che il giovane Djem sotto quei maestri illustri, fu educato alle varie discipline delle armi e degli studi.

I suoi progressi furono così rapidi che tradusse in poco tempo il poema persiano intitolato  Korschid e Djemschid: il Sole e Djemschid  che dedicò a suo padre, che seguiva i suoi gusti per la poesia, esercitandosi sulla composizione della “ghazal” (poesia erotico-amorosa) nella quale egli dovette acquistare grande reputazione; possedeva e parlava egregiamente la lingua araba, persiana, greca e l’italiano (che lo parlava come un veneziano, aveva scritto Lamartine; evidentemente l’aveva appresa da un veneziano).

Passava il suo tempo negli esercizi del corpo, nella lotta, nell’equitazione e maneggio delle armi e nello studio delle scienze, dell’astronomia, della geografia e soprattutto, come abbiamo detto, della poesia, cara agli arabi (v. La scienza araba alle origini della civiltà europea).

Circondato da poeti tra i quali aveva scelto i primi ufficiali della sua corte come Schahidi suo deftendar, Saad, suo nishaudjibaschi, egli acquistò l’affetto dei sapienti nello stesso tempo in cui il suo vigore e i suoi progressi in tutti gli esercizi del corpo, gli conciliavano il timore e il rispetto  dei rudi abitanti che era stato chiamato a governare.

Montava e stava a cavallo da vero maestro, maneggiava l’arco con tutta l’arte; l’abilità con cui maneggiava l’asta (mazza) di cui si era servito Alaeddin il Grande e che lui ne aveva aumentato il peso di qualche libbra,  gli valsero il titolo di primo lottatore del paese.

All’inizio del 1473, era stato circonciso e sarà sempre osservante della religione; oltre al fratello Bajazet di cui abbiamo parlato, aveva un altro fratello, Mustafà (morto mentre usciva da un bagno a Bosbazardik presso Nikdeh quando Djem aveva quindici anni); con Bajazet doveva entrare in contrasto a causa della successione al trono (Thuasne).

A ventotto anni Djem ci è stato descritto con una taglia alta, con fisico robusto, un viso che sprigionava fierezza, e qualcuno aveva intravisto qualche tratto di crudelta; le sue maniere sono improntate a una fiera maestà (Mantegna citato da Pastor, ma lo stesso Mantegna di Zizim ne aveva fatto una malevola descrizione al suo signore, il marchese di Mantova Francesco Gonzaga, descrivendolo “come crudele ubriaco, con l’andatura da elefante e nei movimenti con la grazia di un barile veneziano”).

Il viso lungo, gli occhi blu erano un pò obliqui, le sopracciglia folte si congiungevano alla radice del naso, quella di sinistra si alzava sulla fronte, quella di destra si dirigeva verso l’occhio; la bocca era  piccola, le labbra grosse che contraeva generalmente verso sinistra; quando scopriva i denti li nascondeva con un semplice movimento del viso abbassando la palpebra sinistra e subito la rialzava. Il suo naso aquilino aveva un pò di sporgenza nel mezzo  deviato a sinistra; il mento sulla estremità era piccolo. La pelle aveva il colore di una castagna, la barba rara e corta la tagliava alla base del viso con le forbici; la testa era gossa, le orecchie piccole, il corpo carico di pinguedine.

La sua obesità si sviluppava sul ventre e sui reni, piuttosto che sul resto del corpo (tutti i ritratti che erano soliti dipingere i pittori, di norma. specie per le donne, tendevano a nascondere i difetti e non risultavano reali (come si rileverà l’immagine che pubblichiamo potrebbe essere solo una riproduzione ideale di Djem in quanto, a parte l’altezza e forse il colore degli occhi,  nessun elemento combacia con le varie descriaioni,ndr,); le braccia, le cosce, le gambe e i piedi erano di misura proporzionata; il peso del suo corpo era di poco incomodo essendo egli  agile nel saltare e monatare a cavallo, cacciare e tirare con l’arco. Quando era contrariato, il movimento dei suoi occhi e il suono pungente della sua voce, indicavano subito la sua collera; e se si presentava una persona dignitosa in un attimo la sua figura riprendeva la calma e sorridendo cercava di ricomporre il viso. Quando si irritava, la sua voce prendeva un tono acuto assai somigliante a quello di una capra; quando era tranquillo la sua parola era grave, temperata e semplice, ma ciò avveniva raramente.

La sua accentuata virilità non lo lasciava insensibile al fascino della voluttà e della dissolutezza alla quale si lasciava spesso andare e che durante la sua  permanenza in Francia gli aveva fatto attribuire, più false che vere, molte relazioni amorose.

Djem durante il suo soggiorno in Caramania aveva sposato una delle schiave del suo harem da cui ebbe un figlio chiamato Oguz-Khan, che egli dovette inviare, per conformarsi alle sospettose leggi della politica ottomana, al serraglio di suo padre a Costantinopoli, perché fosse tenuto come pegno della sua fedeltà verso il sultano; ma aveva una moglie e due figli, un maschio e una femmina; la moglie, Maria era figlia di Eleazaro re di Serbia, sposata nello stesso anno in cui la Serbia era stata incorporata all’impero (1459).

La vicinanza della Turchia dai tempi del sultano Bajazet I, aveva reso familiare all’aristocrazia serba l’apprendimento della lingua turca, nello stesso tempo che la salda educazione delle donne delle grandi famiglie del paese assicurava a queste ultime, quando le sorti della guerra le facevano cadere nelle mani degli infedeli, una accentuata superiorità sulle compagne di schiavitù. Sembra che le donne serbe dalle quali erano attratti i turchi, abbiano avuto un reale ascendente sui loro feroci mariti: per questo vi erano molti matrimoni tra turchi e donne serbe,

Il sultano Murad II, padre di Maometto II aveva sposato una principessa  di questo paese chiamata Mara, figlia del despota Isfendiaroghli, che gli aveva dato un bambino, secondo figlio oltre a Maometto, erede dell’impero: nel sospetto di Maometto, che il fratello potesse avere delle rivendicazioni sull’impero, alla morte del padre lo aveva fatto uccidere, come d’altronde si usava fare nelle famiglie dei sultani (Maometto III uccise venti figli e fece gettare in mare dieci odalische che aveva reso incinte).

Anche suo nonno Bajazet I aveva sposato una principessa serba chiamata Milieva che con i suoi artifici e pratiche licenziose aveva saputo mantenere il potere sul suo sensuale padrone, il quale aveva ammesso per i sultani il numero di quattro spose legittime, come consentite dal Corano.

Nessun dettaglio è pervenuto sulla madre di Djem, dalla quale era stato separato al raggingimento del decimo anno di età, ma per come si comportava Djem è certo che lei aveva saputo acquistare sul suo spirito una influenza duratura, come si potrà rilevare dal suo comportamento. Allevato nella religione musulmana, rimase sempre fedele alla fede dei suoi avi e nelle diverse circostanze della sua vita aveva sempre mostrato delle idee di tolleranza religiosa, idee che gli consentirono di chiedere aiuto e protezione ai Cavalieri dell’Ordine di san Giovanni di Gerusalemme.

Nel periodo dell’esilio presso i Cavalieri si era scoperto che era un gran mangiatore ed era vorace; beveva vino ritenendo, ai fini  religiosi, di modificarne e snaturarne la natura, mescolandolo con  varie sostanze aromnatiche. Amava gli arrosti e detestava i bolliti. Era ghiotto di meloni, uva, pere e ogni specie di frutta; mangiava poco pane, l’acqua era la sua bevanda ordinaria ma mescolandola (pericolosamente, come vedremo) con lo zucchero che lasciava fondere. Sopportava con impazienza il caldo, il freddo, la fame, ma sudava molto e le gocce di sudore cadevano in abbondanza dalla sua fronte e dalle sue guance. Amava il lusso negli abiti e faceva un assiduo uso di bagni caldi e freddi; si immergeva nell’acqua fredda dopo essersi lavato con acqua calda; eccellente nuotatore; nuotava senza pudore (aveva scritto Thuasne, scandalizzato dalla nudità!).

Osservava quelli che lo circondavano e spesso sembrava essere nolto triste e pensoso; si sforzava, particolarmente davanti al Gran Maestro, di apparire gaio. Molto religioso, osservava scrupolosamente le leggi di Maometto. Se vedeva qualcuno dei suoi bere vino, si lanciava furioso sopra di lui. Era così insofferente che non poteva rimanere nello stesso posto e percorreva in lungo e in largo tutte le stanze della sua dimora; quando era a Rodi gli piaceva dormire sulla terrazza, dove faceva mettere il suo letto, passando molte notti all’aria marina. Molto versato nella lingua turca, durante la giovinezza si era applicato così bene nelle lettere, da conoscere l’arte dello scrivere, componendo una storia di suo padre.

Aveva lasciato sua madre e sua moglie con i due giovani figli, un maschio e una femmina presso il sultano del Cairo.

 

 

 

 

 

 

 

BAYAZET II SI

IMPOSSESSA DEL TRONO

   RIVOLTA

DEI GIANNIZZERI

 

 

A

lla morte del sultano, il gran visir Mohammed Nischani aveva cercato di tener nascosta la notizia per dar modo al principe Bajazet, che aveva fatto avvertire, di recarsi a Costantinopoli per prendere possesso del trono. Nischani aveva infatti, con la massima segretezza possibile, fatto mettere in una cassa il corpo del sultano, facendolo portare a Costantinopoli in una  carrozza coperta da tende e portandolo nel serraglio come se fosse ancora vivo, e nello stesso tempo il capigi Kelkik-Mustafà si recava da Bajazet nel governatorato di Amasia, ai bordi del mar Nero, per comunicargli ufficialmente la morte del padre.

Bajazet appena conosciuta la notizia, fece subito vietare a tutte le navi di passare da Costantinopoli, dando ordine al corpo degli Adjemi-Oghaus (una delle divisioni dei giannizzeri) di uscire dal serraglio (*) con pretesto di far riparare il ponte della riva che attraversava la piana degli Elefanti. Le voci della morte del sultano che già circolavano tra il popolo, si erano mutate in certezza quando si videro gli Adjemoghaus andarsi a stabilire nell’accampamento imperiale.

Tutta questa segretezza intorno al sultano morto aveva insospettito i giannizzeri che erano a Costantinopoli i quali pretesero di vedere il sultano; quando fu aperta la cassa e lo videro morto, sospettarono una perfida soverchieria e saputo ciò, quelli della guarnigione si misero in rivolta e impadronitisi dei battelli e bastimenti che erano all’ancora davanti al Pendike,  si recarono a Scutari e di là a Costantinopoli. Loro prima cura, una volta giunti nella capitale, fu di sacheggiare le case dei giudei e dei ricchi commercianti della città, come anche il palazzo del gran visir che assassinarono, sospettandolo della usurpazione del trono.

Grazie alla energia di Ishak-pascià, governatore di Costantinopoli, che il sultano Mohammed aveva fatto chiamare perché lo sostituisse drurante la sua assenza, il disordine poco a poco cessò e la calma fu ristabilita.

Nell’attesa dell’arrivo del principe Bajazet, i grandi dell’impero elessero come imperatore il principe Korkud, figlio di Bayazet di tredici anni (secondo Giovio, di 23 anni), che si trovava nel serraglio imperiale con il suo giovane cugino, il principe Oghuzkhan, figlio di Djem, proclamato luogotenente generale dell’impero (4 Maggio 1481).

Il corriere che era stato mandato da Djem fu arrestato da Sinan-pascià, begle-berg d’Anatolia e suocero di Bajazet e messo a morte, mentre Kedik-Mustafà, arrivava senza intoppi ad Amasia, dopo aver percorso centosessanta leghe in otto giorni.

Dopo aver presentato i suoi omaggi a Bajazet, gli consegnò la lettera che i grandi dell’impero gli avevano mandato, con la quale lo pregavano di recarsi a prendere possesso del trono imperiale. Senza perdere un istante il principe, avendo indossato un abito di lutto e mnifestato il dolore che gli aveva procurato la morte del padre, montò a cavallo e si recò in nove giorni a Scutari accompagnato da una scorta di quattromila cavalieri. Avvertita del suo arrivo, la popolazione gli riservò un’accoglienza inusitata e nello stesso tempo gli altri dignitari della Corte che arrivavano, gli  assicuravano la loro devozione;  il mare era così coperto di naviglio, (riferisce Thuasne), e di  barche imbandite a festa, che e i remi si intrecciavano gli uni con gli altri.

Fu in mezzo a questa scorta che il nuovo sultano, vestito di nero, attraversò il Bosforo per recarsi a Costantinopoli. I berg-pascià e gli agà che l’accompagnavano avevano i turbanti e le cinture dello stesso colore. L’arrivo di Bajazet portò un colpo funesto ai partigiani del principe Djem e molti tra di loro lo abbandonarono e andarono a salutare il nuovo imperatore.

Bajazet sbarcato a Costantinopoli, montò a cavallo e si recò a palazzo dove nella sala del trono, in sostituzione del figlio, ricevette il giuramento di fedeltà dei capi dell’armata e dell’amministrazione e le deputazioni dei borghesi e degli artigiani che depositavano ai suoi piedi il tributo della loro sottomissione e i loro omaggi (20 Maggio 1481).

L’indomani il sultano Bajazet fece recitare le preghiere rituali per il riposo dell’anima di suo padre e  volle portare egli stesso la bara sulla spalla con i visir e i governatori delle province nella tenda posta dietro la moschea che Mohammed aveva fatto costruire quando era in vita.

Bajazet fece fare abbondanti elemosine e istituì pie fondazioni in favore del defunto; dopo aver smesso il turbante nero e le vesti di drappo nero, egli indossò un sontuoso costume e ordinò alla sua corte di celebrare la sua nomina con i festeggiamenti d’uso. Terminate le diverse cerimonie, il nuovo sultano prese subito le redini dell’impero e dedicò tutto il suo tempo agli affari pubblici.

Egli aveva allora l’età di trentaquattro anni, di taglia alquanto al di sopra della media, aveva ereditato da suo padre una costituzione rebusta e un gusto pronunciato per lo studio. Come suo fratello Djem, aveva carnagione scura, il naso aquilino, l’intelligenza viva. L’espressione del suo viso era grave: un esempio di durezza, piuttosto impregnata di malinconia, mentre al contrario, in Djem, più giovane di lui di dodici anni, l’ardore della sua natura e la mobilità della sua fisionomia tradivano le passioni che fermentavano in lui (Thuasne).

Fino alla sua assunzione al trono Bajazet aveva vissuto ritirato nel suo governatorato di Amasia dove si occupava di poesia, filosofia, teologia e particolarmente di astrologia e cosmografia, scienze che si riteneva conoscesse a fondo. Egli si interessava ugualmente alle arti meccaniche e ricercava i diamanti stranamente tagliati e il vasellame cesellato; dedicava larga parte del tempo agli esercizi fisici e, come suo fratello Djiem, acquistò a Konia la reputazione di primo “upehliwan” (lottatore) del paese.

Il principe Bajazet, a dire dell’ambasciatore veneziano Andrea Gritti (riferito da Thuasne), era un cavaliere intrepido e sapeva meglio di tutti tendere un arco e scoccare una freccia. Di costumi semplici egli seguiva esattamente le pratiche della sua religione; mangiava con sobrietà, si asteneva dal vino e faceva abbondanti elemosine. Ma come suo padre Mohammed era incline alla volutttà e alla passione per le donne; più avanti negli anni divenne anch’egli corpulento (i ricchi non conoscevano diete e mangiavano a sazietà ... abbassando la media della vita! ndr.) e conseguentemente soffriva di gotta; tra i tanti problemi, oltre a quello del fratello, dovette affrontare quello tragico dei figli. Egli amava Achmet, suo primogenito, al quale intendeva lasciare l’impero; temendo che il terzogenito Mohammed volesse togliergli il trono, non esitò a ucciderlo.

I giannizzeri erano contrari ad Achmet in quanto preferivano l’altro figlio, Selim e si ribellarono recandosi a Costantinopoli, dandosi al saccheggio, e con urla e grida minacciarono di forzare le porte del serraglio se non fosssero state apere. Bajazet le fece aprire e con sfrontatezza gli dissero che per nessun motivo volevano Achmet e non volevano altri che Selim, urlando per tutto il serraglio che volevano Selim sultan (Vincenzo Abbondanza, Dizionario Storico ecc., 1786).

Bajazet dovette cedere e furono mandati messi per rilevare Selim, governatore di Trebisonda dove si trovava. Giunto a Costantinopoli si presentò da suo padre e dopo essersi inchinato e avergli baciato la mano, fu dichiarato imperatore e sedette accanto al trono del padre, il quale, dopo aver ceduto il trono al figlio se ne partì partì per Dimotico in Tracia, accompagnato dallo stesso Selim e dai personaggi di Corte.

Selim non soddisfatto di tutte queste accortezze, indusse l’ecchimbasci (medico) ebreo ad avvelenare il padre. Quando Bajazet giunse al villaggio di Izurolo, nei pressi di Adrianopoli per riposarsi, prese la medicina e morì tra atroci dolori (1512) all’età di settantaquattro anni (secondo Giovio; per altri a sessantadue), il suo corpo fu portato a Costantinopoli e sepolto in una moschea da lui costruita; Selim aveva dato disposizione al medico di tagliargli la testa e si impadronì dei numerosi preziosi che Bajazet usava portare sempre con sé.

Ora torniamo a Djem.

Nel momento in cui la notizia della morte di suo padre Maometto II gli era pervenuta, Djem, sedendo a consiglio con i suoi sostenitori riunì le truppe e lasciando Konia dove regnava il  Caraman, si impadronì di Bursa, l’antica capitale dell’impero e quì fissava la propria residenza. Era una città aperta senza mura difensive, difesa solamente dalla cittadella e da una debole guarnigione. Avvertito di questo progetto, il sultano Bajazet inviò Ayas-pascià con duemila giannizzeri per difendere questa piazza: Djem stesso si era recato a Scutari con quello che aveva potuto raccogliere delle truppe, nell’attesa che gli arrivassero altri contingenti d’Europa, ma subìva le due sconfitte da parte di Bajazet e fu costretto a chiedere aiuto ai Cavalieri di Rodi.

 

 

*) Serraglio era il palazzo del sultano, che per gli occidentali era la Corte o palazzo reale.

 

 

 

I PRIMI RAPPORTI DI DJEM

CON IL GRAN MAESTRO

D’AUBUSSON

E L’ASSEDIO DI RODI

 

 

 

A

lla fine di quattro anni felici che Djem aveva passato dopo la sua partenza da Costantinopoli, unitamente a  suo cugino Celebi-sultan, sangiacco di Licia, riceveva l’ordine dal padre Maometto di condurre i negoziati con il Gran Maestro dei Cavalieri dell’Ordine di san Giovanni di Gesusalemme, Pierre d’Aubusson, in quanto egli aveva deciso di mettere sotto assedio l’isola di Rodi (e il sultano voleva che le trattative andassero per le lunghe per portare a termine i preparativi della flotta che stava allestendo); questi negoziati costituiranno le premesse dei rapporti di reciproca stima che si erano instaurati tra il principe e il Gran Maestro, in base ai quali Djem nel momento in cui avrà bisogno, gli chiederà il suo aiuto.   

D’Aubusson apparteneva alla famiglia degli antichi visconti de la-Marche, una delle più illustri di Francia, era figlio di Renato d’Aubusson, signore di Monteil-le-Viscomte e di Marguerite de Camborne. Dalla sua giovane età, i suoi gusti lo avevano portato a prendere le armi contro gli infedeli e aveva abbracciato l’Ordine di san Giovanni di Gerusalemme e successivamente  era stato comandante di Salins, bailo della Lingua d’Auvergne e priore di questa Lingua e, infine, dopo la morte del fratello Jean Baptiste des Ursins (1476), era stato chiamato al magistero, ricevendo il voto unanime dei fratelli elettori.

Il principe Djem e Celebi-sultan si erano recati subito  a Patera, città situata in riva al mare, di fronte all’isola di Rodi, per eseguire i negoziati che essi iniziarono con l’intermediazione di un rinnegato greco chiamato Demetrio Sofian, mentre da parte dell’Ordine i negoziati erano stati affidati a d’Aubusson (1478).

Anche al Gran Maestro interessava che i negoziati andassero per le lunghe e finse di cadere nella trappola per lasciare ai cavalieri dell’Ordine sparsi per l’Europa il tempo di recarsi a Rodi. Egli aveva convocato a questo scopo un capitolo generale ordinando ai priori dell’Ordine di recarsi immediatamente con tutti i sussidi di uomini e di denaro che potevano raccogliere. Nello stesso tempo d’Aubusson impiegava tutte le sue forze per fortificare Rodi e approvvigionarla di armi e munizioni. D’altro canto il sultano Maometto era tranquillo nei confronti dei vicini persiani, dai quali non avrebbe avuto noie; il re Usum Cassan infatti era preso a combattere le rivolte dei propri figli.

Tenuto al corrente  dei preparativi di Maometto,  con le spie che aveva anche nel serraglio imperiale, Pierre d’Aubusson non si faceva alcuna illusione sui propositi del principe Djem e di Celebi-sultan. Egli finse tuttavia di assecondare le intenzioni del sultano, che a Costantinopoli attendeva gli esiti dei negoziati. Demetrio Sofian si recò dunque a Rodi in qualità di ambasciatore.

La sua lettera credenziale scritta in greco e firmata in turco dalla mano del principe Djem e Celebi-sultan, era redatta nei termini più rispettosi. In essa, in sostanza, era detto che: “il principe Djem e Celebi, presi dalla simpatia naturale che ispirava la nobiltà e la virtù di anime generose, erano desiderosi d’intrattenere rapporti di amicizia con il Gran Maestro di Rodi e i suoi cavalieri; che a questo scopo avevano agito presso il sultano per ottenere la sua benevolenza nei confronti dell’Ordine e che egli si era benevolmente degnato di ascoltarli favorevolmente. I principi Djem e Celebi invitavano dunque il Gran Maestro ad approfittare della favorevole disponibilità del sultano e offrivano al Gran Maestro la loro mediazione per raggiungere la pace; per questo scopo gli mandavano un ambasciatore per conoscere la sua risposta”.

Questa lettera fu letta davanti al Consiglio dell’Ordine e lungamente esaminata. Demetrio Sofian assicurò il Gran Maestro che il sultano Maometto si sarebbe accontentato di un lieve tributo a titolo di riconoscenza verso il Gran Signore e i rodiani avrebbero potuto vivere e praticare il commercio in pace.

Opponendo astuzia alla astuzia, d’Aubusson incaricò Demetrio Sofian di riferire ai principi  Djem e Celebi che i cavalieri gerosolimitani non volevano a nessun costo pagare alcun tributo alla Porta e che essi preferivano perire con le armi alla mano piuttosto che accettare un tal disonore; ma che se il sultano aveva voluto avanzare delle proposte di pace, come quelle che aveva fatto il sultano Murad suo padre e lui stesso all’inizio del regno, essi lo avrebbero ascoltato.

Pierre d’Aubusson fece scrivere in questo senso la lettera che inviò ai principi Djem e Celebi; Demetrio Sofian si recò subito a Patera per assolvere la sua missione, comunicando che il Gran Maestro non voleva per nessun motivo sentir parlare di qualsivoglia tributo. Quelli, desiderosi di portare avanti i negoziati, inviarono nuovamente il loro ambasciatore a Rodi  portatore di una lettera per d’Aubusson, nella quale gli proponevano di cambiare i termini del tributo che poteva offendere la suscettibilità del Gran Maestro, in un presente di cui avrebbe potuto egli stesso fissare il valore e l’importo.

L’ambassciatore turco ritornò presso il Gran Maestro, ma quegli rispose di aver sottoposto al papa e ai principi cristiani le proposte di pace che erano state fatte e che egli non poteva prendere alcuna decisione prima di aver ricevuto la loro risposta che sarebbe a lui pervenuta al più trardi entro tre mesi.

Tuttavia il Gran Maestro, che a questo scopo manteneva le trattative aperte, proponeva per questo lasso di tempo, una tregua d’armi che assicurava ai cristiani e ai turchi la libertà del traffico in pace. Con questo incarico l’ambasciatore fu congedato e questo, salutato il Gran Maestro, si recò direttamente a Costantinopoli senza passare per Patera,  per portare ai principi Djem e Celebi la lettera ad essi indirizzata. Ciò perché il sultano Maometto non lo aveva incaricato di questa trattativa, per evitare personalmente, in caso di rifiuto da parte dei cavalieri di cui conosceva la fierezza e il coraggio, l’onta del rifiuto.  

Subito dopo la partenza di Demetrio Sofian, d’Aubusson, raddoppiando l’attività, fece fortificare tutti i punti deboli dell’isola e procurare le scorte necessarie per sostenere un lungo assedio. Nel frattempo, in spregio alla tregua stipulata di tre mesi, alcuni vascelli appartenenti all’Ordine furono fatti prigionieri; Pierre d’Aubusson scrisse subito ai principi Djem e Celebi lamentandosi di questa violazione della  fede giurata, pregando di rendere i prigionieri.

Nello stesso tempo il Gran Maestro fu informato che un ambasciatore del principe Djem si era fermato a Fisco, porto di mare sulla costa asiatica, distante ventun miglia da Rodi, nel timore di esser fatto prigioniero dagli incrociatori rodiani, per rappresaglia per la cattura degli uomini dell’Ordine, fece sapere a questo ambasciatore, chiamato Tanghi Vermussi, che poteva in tutta sicurezza recarsi a Rodi.

Quello dunque vi si recò e presentò le sue lettere credenziali che dichiaravano al Gran Maestro che il principe Djiem lo aveva mandato da lui per sapere cosa avesse deciso con Demetrio Sofian circa le proposte di pace e si stupiva che si stesse facendo poco in proposito. D’Aubusson rispose che egli aveva chiaramente manifestato la sua risposta nelle lettere che gli aveva inviato e che l’ambasciatore Demetrio Sofian, gli pareva non gli avesse consegnato, ma egli si guardava bene dal lasciare capire in queste parole di aver capito i perfidi disegni del sultano.

Aggiungeva inoltre che egli non attendeva che l’autorizzazione del sovrano pontefice e dei principi cristiani per concludere la pace che gli era stata offerta; a tal fine,  consegnò a Tanghi Vermussi una nuova lettera per il principe Djem nella quale confermava le sue precedenti dichiarazioni.

Nel frattempo, ogni giorno arrivavano cavalieri di San Giovanni da tutti i paesi della cristianità

Il Gran Maestro aprì personalmente il Capitolo al quale espose la situazione di Rodi che Maometto voleva assediare e annientare e dichiarò ai cavalieri che lui contava su di loro per difendere fino alla morte questo baluardo della cristianità. Tutti fecero giuramento e pregarono Pierre d’Aubusson di assumere la direzione intera e assoluta della difesa.

Nel frattempo, all’inizio del mese di aprile 1479, sbarcava a Rodi l’ambasciatore turco incaricato dal sultano Maometto e dal principe Djem, per chiedere al Gran Maestro una risposta definitiva relativamente alla pace. 

In questo stesso momento, d’Aubusson apprendeva attraverso le sue spie, che il sultano faceva preparativi per la flotta destinata alla spedizione di Rodi. Il Gran Maestro rispose all’ambasciatore che era sempre deciso ad accettare  la pace alle condizioni precedentemente stipulate, ma mai egli avrebbe accondisceso a pagare il tributo alla Porta sotto qualsiasi forma.

Congedando l’ambasciatore turco egli lo fece accompagnare da un incaricato che ripetesse al sultano la risposta del Gran Maestro. L’inviato, al suo ritorno, dichiarò che lui non disperava di raggiungere una intesa e che la flotta turca non avrebbe tardato ad apparire nelle acque di Rodi. I negoziati si trovavano  di fatto interrotti: era la guerra.

Il principe Djem e Celebi-sultan, lasciarono Patera e ritornarono ciascuno nel proprio governatorato.  Il loro ruolo, d’altronde, in questa circostanza, era stato molto efficace e nei loro rapporti con il Gran Maestro essi avevano agito con cortesia e forse anche in buona fede; sta di fatto che due anni e mezzo dopo, il principe Djem si rivolgerà allo stesso Gran Maestro per invocare il suo appoggio, chiedendogli asilo (Thuasne).

Il 4 Dicembre 1479 la flotta ottomana di circa centocinquanta vele era a Rodi davanti al castello di Fano (come riferisce Giacomo Bosio (*)); essendo sbarcati un gran numero di cavalli e fanti, che scorsero l’isola bruciando i casali e saccheggiado le campagne. ma la cavalleria di Rodi riuscì a farli reimbarcare;  essi però tornarono nel successivo 23 del mese di Maggio 1480, con centosettanta vele e come si sa, il 18 Agosto, Mesih-pascià, che comandava l’assedio, era stato forzato ad abbandonare la piazza e costretto ad abbandonare l’isola, riparando a Fisco, per aver avuto tra i suoi novemila morti e portando con sé quindicimila feriti.  

Il sultano Maometto quando apprese la disfatta delle sue truppe ebbe un accesso di collera e decise di porre personalmente l’assedio a Rodi riunendo un’armata ancora più numerosa della precedente, raccogliendo circa trecentomila uomini e fatto fondere dei cannoni di una grandezza straordinaria per aprire una breccia e abbattere le mura della città.

Quanto a Mesih Paleologo, si limitò ritirargli il titolo di pascià e lo nominò sangiacco di Gallipoli (sulla parte europea della Turchia).

Questo scacco si trovò d’altronde compensato dalla presa di Otranto che Guedik Achmed-pascià aveva riportato assalendola l’11 Agosto dello stesso anno; ed è senza dubbio per questo avvenimento che Mesìh Paleologo si era ritirato, considerando comunque la sua sconfitta una semplice disgrazia.

Nella primavera del 1481 Maometto II lasciata Scutari, alla testa delle sue truppe stava avanzando attraverso l’Anatolia, ma quando giunse a Kounkiar-tschari fu preso da una violenta colica e morì quasi subito il 4 rebiul-ul-ewwel, l’anno dell’égira 886 (giovedì 1481).  

Non appena si conobbe la novella della morte di Maometto essa, come abbiamo visto, aveva  suscitato in Europa un profondo generale delirante compiacimento dei cristiani: Messe di ringraziamento furono celebrate in tutte le chiese della cristianità; si considerava la scomparsa del sultano, provvidenziale e come sola capace di arrestare la conquista dell’Italia e degli altri Stati d’Occidente. 

L’occasione sembrava eccellente per cacciare i turchi dall’Italia e di profittare delle turbolenze che non potevano mancare e potevano sorgere in Turchia ed estendersi all’Asia, e l’appello lanciato dal papa Sisto IV non poteva recare nessun aiuto in quanto l’Europa era lacerata da lotte intestine e mentre in Italia tra i vari Stati erano scoppiate guerre civili, Luigi XI di Francia aveva fatto sapere che il danaro che doveva uscire dalla Francia doveva servire solo per la crociata contro i turchi e non per finanziare le truppe destinate ad acquistare principati per i nipoti del papa.

 

 

 

*) Historia della Sacra Religione et illustrissima milizia di san Giovanni di Gerusalemme, 1594; da taner presente che a parte il particolare che riferiamo, tralasciato da Thuasne, egli nel suo testo (“Djem sultan. Etude sur la question d’Orient. Paris 1892), riferisce di aver preso tutto da Bosio e noi ci siamo serviti di ambedue le fonti e di  altri autori che abbiamo riportato tra parentesi.

 

 

 

I CAVALIERI

DI SAN GIOVANNI

 DI GERUSALEMME

SOCCORRONO DJEM

 

 

D

jem, ritenendo che il fratello lo avrebbe comunque fatto assassinare, su suggerimento dello stesso Caraman Kasim-beg, quando erano accampati sul Tauro (dal quale andando verso Oriente si giungeva in Cilicia, regno del Caraman),  aveva preso la decisione di ricorrere al Gran Maestro di Rodi e gli aveva mandato una lettera, intercettata da Bayazet; dopodichè aveva mandato due ambasciatori, Duan e Solimano, con lettere con le quali chiedeva di potersi recare a Rodi per conferire con lui; gli ambasciatori, trovata una goletta di rodioti si fecero accommpaganre a Rodi dove, adunato il Consiglio, dopo lunga discussione si decise di accogliere Djem con tutto il suo seguito che poteva essere da sessanta a cento uomini  e mandargli la Gran Nave del Tesoro, una caravella e una galera verso la marina del Caraman per condurlo a Rodi, accompagnati da un salvacondotto, come fu fatto;  era stato eletto anche l’ammiraglio della piccola flotta nella persona di fra Merlo di Piozzo poi sostituito da  don Alvaro de Stuniga, priore di Castiglia.

Djem dopo aver lanciato la lettera con la freccia, si era imbarcato su un vascello dal quale, allontanandosi dalla riva, aveva avvistato in alto mare l’armata di Rodi. Dubitando però che fossero corsari  si mantenne verso terra, ma le navi si erano avvicimate e don Alvaro de Stuniga, riconoscendo chi fosse, aveva mandato con un brigantino sulla nave di Djem un ambasciatore e un cavaliere il quale gli disse che l’armata dell’Ordine era stata mandata dal Gran Maestro, per condurlo, se desiderava, a Rodi ; avuto l’assenso, l’ambasciatore e il cavaliere tornarono col brigantino per riferirlo a de Stuniga il quale si recò personalmente a prelevarlo e dopo avergli manifestato la buona volontà, il desiderio e la prontezza del Gran Maestro dell’Ordine di aiutarlo, soccorerlo e consigliarlo e avergli mostrato le lettere e il salvacondotto (*), lo imbarcò sulla gran nave dell’Ordine con tutta la sua roba e il suo seguito, salutato e onorevolmente ricevuto con tiri di artiglieria e suono di  trombe: di tutto ciò Zizim si mostrò lieto e consolato, ma mentre le vele spiegate allontanavano le navi da quei lidi, pensando che esule e fuggitivo abbandonava il regno paterno, si rattristò e per molto tempo rimase silenzioso.

Il capitano, sapendo che Djem era digiuno, fece apparecchiare la tavola e mentre tutti i cavalieri si erano seduti alla maniera occidentale, Djem si era seduto su cuscini alla maniera turca, dilettandosi nell’osservare l’usanza dei cristinai e ancor più, il modo in cui erano serviti i cibi, alla maniera principesca, nel portare e servire i cibi e i condimenti ai quali era addetto lo scalco che eseguiva la credenda (l’assaggio), come si usava presso i grandi principi; non essendo avvezzo a vedere quella cerimonia domandò come mai tutti quelli che portavano i cibi in tavola e lo scalco, li assaggiassero con diligenza e l’interprete che gli stava accanto gli rispose che era un’antica usanza osservata alla tavola dei re e dei grandi principi cristiani per evitare il pericolo di veleno. Non temo, egli rispose, di essere avvelenato fra cavalieri così nobili se mai ne avessi avuto il sospetto, non avrei messo la mia salute nelle loro mani; prego lasciare questa cerimonia in quanto desidero essere trattato come privato e non come principe, nè alcun sospetto si deve avere fra nobili e generosi animi; e così si servì dai piatti da cui non era stata fatta la credenda e mischiando il tutto incominciò a mangiare, ricevendo l’applauso dei cavalieri.

Giunti alla vista di Rodi il capitano mandò subito un cavaliere con un brigantino per avvertire dell’arrivo del principe; il Gran Maestro aveva già fatto preparare un pontile in modo che l’ospite sbarcasse direttamente dalla nave, tutto ornato di drappi d’oro e di seta col pavimento ricoperto di tappeti e tutte le contrade attraverso le quali Djem doveva passare, erano sparse di erbe e fiori profumati.

La nave si era avvicinata al pontile e vi saliva il priore di Castiglia col suo seguito e il principe potè scendere col suo seguito tra suoni di trombe, tamburi  e strumenti musicali; acccompagnato dal priore di Castiglia, era atteso dal Gran Maestro, dal comandante dell’armata e  tutto il seguito; si formò un lungo corteo con i cavalieri e commendatori con grosse catene d’oro al collo, che erano stati mandati a riceverlo, i quali montavano bellissimi cavalli ben guarniti e, disposti due a due, formavano il corteo che seguiva Djem e d’Aubusson su superbi caballi ornati d’oro e circondati da un gran numero di staffieri e palafrenieri tutti con la stessa livrea del Gran Maestro; seguivano baglivi e priori; tutto il popolo aveva riempito i tetti delle case per vederlo dirigersi all’Auberge de France sede dei cavalieri, il più grande e splendido palazzo di Rodi. 

Giumti all’Auberge dove sarebbe stato ospitato, Djem, saltando dal cavallo con agilità (seppur con tutto il peso del grosso ventre), secondo l’usanza dei sovrani turchi, salì le scale sostenuto alle braccia da due turchi, si ritirò nelle stanze che gli erano state assegnate.

Il giorno dopo giunse il Gran Maestro con il suo seguito al quale Djem fece il seguente  discorso (Bosio):

 « A te ricorro frlicisssimo principe di Rodi e a voi mi accosto fortissimi cavalieri, caramente e affettuosamente pregandovi che dimenticando le paterne ingiurie, alla calamità che ingiustamente mi preme, vogliate volgere la mente. Consigliami, aiutami e favoriscimi, inclitissimo campione, che alle armi nemiche osi resistere e alle miserie dei principi sai soccorrere. Farò io con i cristiani perpetua confederazione e lega, né sarò loro con le armi molestto mai, contentandomi di una parte del paterno regno; deponendo le armi vivrò quieto. Nè mai sarò scordevole dei benefici da te ricevuti. Imploro il tuo consiglio e il tuo soccorso e invoco l’aiuto dei principi cristiani acciò che a me e a loro stessi, in un medesimo tempo provvedano, vendicando la fraterna crudeltà. Nel che, alla cristiana repubblica acquisteranno un fedele e obbligato amico, in cambio di un crudele e perfido nemico.

Il  Gran Maestro gli rispose in questi termini:         

Le tue parole di prudenza, illustrissimo re, e le grandi lodi che a me e ai miei cavalieri dai, sono da attribuire alla tua modestia. E se qualche scintilla di splendore, di gloria e di fama all’Ordine nostro risplende, tutto dal grande Iddio, d’ogni grazia autore, della cui provvidenza e bontà tutte le cose buone procedono,  per non tacere che cristiani e della croce segnati siamo. Percioché la città di Rodi è rifugio, ricettacolo e fedelissimo porto a tutte le genti. E tutti i principi di qualità, della tua e di  altre nazioni, che a memoria dei nostri padri a quella sono ricorsi, da essa sempre umanità, cortesie e favori hanno riportato. Imperoché agli animi generosi e nobili non conviene quando della pace e della confederazione si tratta, delle passate ingiurie ricordarsi. Se il padre tuo è stato crudele e fiero nemico dei rodiani e se la città nostra ha aspramente combattuto, pensò che al decoro della sua legge ciò convenisse e come nemico fece e noi come nemico l’armi e le spade abbiamo opposte e rivoltate. E Iddio benigno, la più giusta parte favorendo si degnò di mandarci l’Angelo della Vittoria. Tu, come oste (ospite) e amico vieni, però è giusto e onesto che verso di te esercitiamo le leggi dell’ospitalità, dell’’amicizia e della benevolenza. Statti dunque di buon animo percioché non mancheremo a tutto poter consigliare e di provvedere al tuo caso e di eseguire tutto ciò che all’utile e all’onore della cristiana repubblica ci sarà permesso: Il sommo pontefice romano e gli altri principi e la cristiana repubblica, governano e reggono, sono potenti e saggi e al comun beneficio molto affezionati, i quali dell’occasione della venuta tua sapranno godere e noi non ti abbandoneremo, ma alla causa tua pronti e favorevoli ci troverai. Ci è piaciuta molto l’aver intesa la somma della ragione e della tua giustizia affinché si conosca che giusta causa difendiamo. E grate ci sono state le offerte che ci hai fatto, le quali di generoso e grato animo procedono, che ogni macchia d’ingratitudine da te discaccia.

Detto ciò, presa licenza, se ne tornò al suo palazzo, dove ricevette tutti coloro che potevano dargli consigli e suggerimenti del caso e in particolare, se tenere l’ospite in Rodi o mandarlo in Occidente. Alcuni infatti suggerivano fosse mandato in Francia e tenuto sotto la sorveglianza di un sufficiente numero di cavalieri, fino a quando i principi crristiani non avessero trovato una buona soluzione per valersi di questa rara occasione da utilizzare contro il gran turco, comune nemico, tenendo presente che il sultano tiranno, avrebbe tentato tutti i mezzi  per far morire Djem, con le armi o col veleno; ciò che gli sarebbe facilmente riuscito a Rodi dove c’era un gran movimento di persone sconosciute e più difficile in Francia o comunque in Occidente dove si conoscono tutti ed eventuali persone sconosciute sarebbero state facilmente individuabili. Ma lo stesso Djem, per mezzo di persone di sua fiducia  (17 Agosto) fece richiesta al Gran Maestro e al Consiglio  di condurlo in Francia.  

Nel frattempo Djem fece sapere di voler partire al più presto volendo recarsi dal re di Francia che riteneva avesse maggiori forze e lo avrebbe aiutato e soccorso, unitamente al re d’Ungheria con il quale erano amicissimi, per poter recuperare più prontamente il regno paterno, soluzione gradita dal Gran Maestro che aveva dato ordine di accelerare i preparativi; Bajazet dal suo canto, intendeva affrettare gli accordi con l’Ordine e aveva pensato di mandare  a Rodi alcuni mercanti dal Gran Maestro ai quali  egli, come vedremo, non diede alcun peso. 

Essendo aleatorio l’avvenimento, il Gran Maestro, nella sua prudenza, aveva saggiamente cercato di assicurarsi nella eventualità di una restaurazione, un trattato favorevole agli interessi dell’Ordine e della cristianità. Djem inoltre fece avere a d’Aubusson una procura in bianco a suo nome per trattare con Bajezet e un atto autentico con il quale riconosceva di ritirarsi in Francia di sua propria volontà e dopo aver pregato insistentemente il Gran Maestro. D’altronde d’Aubusson e il Consiglio dell’Ordine cercavan di ottenere qualche vantaggio per l’appoggio che davano al principe fuggitivo. Djem si era impegnato a seguire il consiglio del Gran Maestro e a seguirne i suggerimenti e gli affidava un foglio in bianco per trattare con Bajezet al meglio dei suoi interessi. Djem escludeva ogni clausola intesa a restringere la libertà che gli era stata garantita ”fide jurata” con il salvacondotto del 12 Luglio precedente.

Fino al presente il Gran Maestro aveva lealmente eseguito i suoi impegni nei confronti del principe che di propria volontà aveva dettato tutte le condizioni che erano state stipulate. Ma egli si illudeva parecchio se pensava che d’Aubusson si sarebbe intromesso per farlo riconciliare con il fratello. L’interesse dell’Ordine, non meno di quello della cristianità, esigeva al contrario che questa riconciliazione non si facesse a qualsiasi prezzo e che il sultano era sempre preoccupato nei confronti del pretendente (Thuasne).

 

 

LE TRATTATIVE

DI PACE

E IL PRIMO TRATTATO

TRA   IL

GRAN MAESTRO

E BAJAZET

 

I

l Gran Maestro dell’Ordine di s. Giovanni di Gerusalemme (poi di Malta), Pierre d’Aubusson  al quale Djem si era affidato, dopo tante assicurazioni sull’onore e sui doveri  e il rispetto  della ospitalità e le assicurazioni che non lo avrebbe mai consegnato al fratello Bajazet; ora costui bramava di prendere degli accordi con il Gran Maestro e tralasciando tutti i precedenti risentimenti, aveva pensato di mettersi in contatto con il Gran Maestro per chiedergli accordi di pace.

Egli aveva cercato il modo di avvicinare il Gran Maestro, rivolgendosi ad alcuni mercanti i quali, fingendo di voler trattare degli affari, si recarono dal Gran Maestro, ma egli non diede loro alcun peso; il sultano si rivolse quindi, segretamente, al subassì di Pizzona, sangiac-bel, ossia governatore della Licia. che mandasse qualcuno a Rodi per fare intendere al Gran Maestro le sue intenzioni di trattare la pace.

Attraverso il suo ambasciatore Cagi Hibraim, il subassì di Rodi e il subassì di Pinzona, Bajazet cercò di convincere il Gran Maestro che per i fermenti che vi erano ai confini della Licia in cui erano interessati i rodioti, di fare una tregua di sei mesi, per trattare più profiquamente la pace. Ritenendo però che il subassì di Pizzona fosse troppo lento, fece scrivere al Gran Maestro da Achmet pascià, il quale mandò un suo ambasciatore con una lettera in cui, facendo presente di essere stato consigliere del defunto sultano e dell’attuale e invocando  ciò che molti guerrieri ricercano - la pace - esprimeva il desiderio di stabilire e fermare una buona pace con il suo principe Bajazet, considerandola un dono di Dio,”senza la quale, né le separate sostanze, né il movimento dei cieli, né la comunicazione degli elementi, né gli umori, né le giunture del  corpo umano, nè i regni, le provincie, le città o le stesse cose domestiche, quiete, stabili, felici e durevoli, esser posssono. [,,,]  Se di desiderarlo me ne mostrerai i segni la fama della tua prudenza si accrescerà presso di noi non poco, Ma se la rifiuterai, sarò costretto a giudicare che confidi piuttosto nel divino aiuto, che nelle forze umane. Abbraccia dunque, prudentisssimo principe, prontamente questo prezioso dono e questa felice occasione che si appresta. Godi della tranquillità e della pace  la quale il pacifico re dei re Bajazet a niuno che l’abbia chiesta, denegò, giammai avendo egli in questo principio del suo felicissimo impero  con benignità e grandissima amorevolezza ricevute le ambasciate di tutti. Offrendomi d’esserne mediatore e procuratore, spinto a ciò dalla gran virtù tua, alla quale di servire desidero. Sta sano” (Bosio).

Il Gran Maestro, considerando che la insolita umanità era stata rappresentata ad arte e con astuzia e potesse esser dato da Bajazet qualche disturbo di guerra rispose:

Al chiarissimo capitano dei turchi Achmet pascià, regio consigliere, salute. Abbiamo ricevuto la tua lettera piena  di umanità e di prudenza la quale ci persuade e invita alla pace. Sappiamo benissimo quanti beni soglia partorir la pace e quanto sia utile ed efficace agli uomini questo dono divino che la macchina dell’universo regge; che se gli uomini fossero bramosi di abbracciarlo, rimanendo ciascuno contento nei suoi confini, il secolo d’oro certamente rimarrebbe (ancora), Ma la crudele rapacità, la cieca ambizione e l’ingorda voglia di dominare, ha talmente occupato gli animi inquieti e le furiose menti di alcuni che né essi sanno quietarsi  nè gli altri lasciano riposare. Se la pace alla quale ci inviti e persuadi, trattar si vuole, con condizioni che accettarle per noi siano lecite, non dispregiamo la desiderata confederazione, [,,,] Perciò ognuno abbracci ciò che più utile e comodo gli torni. Intanto sarà degno della tua rettitudine se darai ordine che alcuni nostri sudditi e vassalli i quali contro le capitolazioni della tregua con il subassì di Pizzona abbiamo stabilita, sono stati ingiustamente presi dai turchi e siano rilasciati sì come noi faremo con alcuni turchi che il cavaliere fra’ Raimondo Fluviano, dopo i capitoli della tregua, aveva preso. Sta sano.” (Bosio).

L’indomani della partenza del principe (il 2 Settembre 1482) i cavalieri fr. Guy di Montarnand e fr. Leonard du Prat, lasciarono Rodi per recarsi presso il sultano. Essi erano muniti di istruzioni segrete sui negoziati che si andavano ad aprire e sulle risposte che dovevano dare sulla persona di Djem. Essi sbarcarono a Fisco e si recarono subito via terra a Patera, presso il governatore di Lycia. Durante i giorni che essi rimasero in questa città, il soubachi cercò inutilmente con domande insidiose di essere informato sulla condotta e i progetti del pretendente, al fine di avvertire il sultano, ma presto comprese l’inutilità dei suoi sforzi, così, senza trattenere ulteriormente gli ambasciatori li invitò a proseguire il loro viaggio, accompagnati  da sue guide sicure ed esperte.

Giunti ad Adrianopoli i cavalieri gerosolomitani furono oggetto di riguardi particolari. Ammessi in presenza del sultano, questi fece loro buona accoglienza e si informò garbatamente della salute del Gran Maestro, poi, senza entrare in alcun dettaglio sulla loro ambasciata egli li congedò dicendo loro di andare a conferire con i pascià addetti a questo incarico.

Il cerimoniale turco, che richiamava l’etichetta degli antichi persiani, non permetteva che i sultani si abbassassero a discutere persomalmente gli affari di Stato, nel timore che l’augusta maestà del sovrano ricevesse qualche attacco pregiudizievole per il suo prestigio.

Gli ambasciatori furono quindi introdotti in una sala dove si trovavano il gran visir Achmed-pascià (il vincitore di Otranto) e Mesih Paleologo che aveva assediato Rodi; dopo i saluti di rito essi aprirono i negoziati. La lingua impiegata era il greco; il cavaliere Guy de Montarnand prese per primo la parola e dichiarò che il Gran Maestro di San Giovanni di Gerusalemme aveva inviato degli ambasciatori ad Adrianopoli, su domanda reiterata che gli aveva fatto il sangiac-beg di Lycia e Achmed-pascià stesso, per concludere la pace; che il Gran Maestro, accogliendo questo desiderio si era mostrato disposto ad intavolare le trattative; ma, Guy di Montarnaud aggiunse che prima di entrare più avanti nella materia, egli teneva a dire ai commissari del sultano che la pace doveva concludersi da pari a pari e che né il Gran Maestro, né l’Ordine volevano sentir parlare di tributi o riconoscimento di alcuna sorta e che questo era il tenore delle istriuzioni che lui e il suo collega Duprat avevano ricevuto.

L’orgoglio di Achmed pascià fu ferito dalla fierezza di queste parole, e rispose con collera, che “a dir poco era sorpreso di vedere ambasciatorti di un sì piccolo principe come era Pierre d’Aubusson, veder trattare da pari con il temibile e invincibile sultano e rifiutare di negoziare sulle stesse basi che altre repubbliche e governatorati cristiani, molto più potenti di Rodi, avevano accettato”. Il vizir si augurava, per la violenza del suo linguaggio, di  fare impressione sullo spirito dei cavalieri e portarli a ridurre le loro pretese, al fine di ottenere per il suo padrone una pace più  vantagguisa.

I due ambasciatori, senza perdere la loro calma, risposero che essi non ignoravano per nulla la grande superiorità delle forze del sultano su quelle dell’Ordine della Religione, ma che questa poggiava sia sul valore dei cavalieri, sia sulla protezione divina che era stata espressa in modo così manifesto nel passato e che piuttosto che consentire a pagare un tributo o fare atto di vassallaggio, essi preferivano affrontare la morte in guerra piuttosto che intaccare il loro onore con una pace infamante. Achmed pascià era sul punto di rispondere a queste ultime parole, quando il suo collega Mesih Paleologo, vedendo che dal tono della discussione i negoziati stavano per arenarsi, si rivolse in turco al visir e gli fece notare che avendo avuto personalmente rapporti con i cavalieri, egli conosceva il loro carattere indomito e che piuttosto che accettare delle condizioni poco onorevoli, essi avrebbero preferito morire; così egli ritenne non trattenersi ancora su questo punto ma passare agli altri articoli del trattato.

Quelle parole erano state dette in turco perché i cavalieri non potessero comprenderle, ma fr. Duprat che capiva questa lingua, le riferì al suo collega. Il visir, non insistendo ulteriormente, passò alla redazione degli articoli successivi.

L’importanza dell’argomento e le difficoltà che sollevava, resero necessarie diverse sesssioni alla fine delle quali gli accordi tra i cavalieri e i pascià, furono presi; questi ultimi fecero rapporto delle condizioni del trattato e del suo tenore al loro padrone; il sultano le approvò e ordinò ai suoi ministri di condurre la pace senza ritardi.

Il trattato senza dubbio favorevole per l’Ordine conteneva grossomodo le seguenti clausole:- La cessazione delle ostilità, la libertà di commercio per le due parti contraenti su tutti i territori dipendenti dalla religione e dalla Porta, l’applicazione delle tariffe doganali di tasse e gabelle ai commercianti secondo gli usi del luogo, la trattazione dei processi e delle contestazioni davanti ai (rispettivi) tribunali aventi le qualità per trattarli, la reciproca obbligazione per la marina dei due paesi di salutare le rispettive bandiere, l’impegno di restituire gratuitamente ai loro legittimi proprietari gli schiavi fuggitivi, se essi non avevano cambiato religione; ovvero, di riacquisatrli al prezzo di venti ducati d’oro; infine, il riconoscimento del castello di San Pietro (Bodroum sulle antiche rovine di Alicarnasso patria di Erodoto e dello storico Dionigi di Alicarnasso 60-7, c.ca) come asilo inviolabile per rifugiati.

La sua redazione fu sottomessa alla approvazione del sultano che lo ratificò e appose la sua firma in presenza degli ambasciatori rodiani e dei commissari turchi. Questi ultimi si ritirarono mentre il sultano passava in un’altra sala e invitava i cavalieri a seguirlo. Lì, solo con loro e con un interprete li pregò gentilmente di sedersi e gli chiese subito  notizie del principe Djem, suo fratello. Gli ambasciatori rodiani che si attendevano questa domanda, risposero con discrezione e con tutte le riserve che erano state loro raccomandate con le istruzioni segrete. Il sultano disse loro: “Ho fatto la pace con il vostro principe a cui auguro buona salute; lo prego di considerare le parole dell’ambasciatore che gli invio, come uscite dalla mia bocca. Io desidero che ascolti le mie intenzioni e voglia confermarle”. A queste parole egli si alzò, fece fare agli ambasciatori ricchi doni e li autorizzò a tornare a Rodi con l’ambasciatore turco da lui designato. Egli fece subito inviare copie del trattato di pace a tutti i governatori delle province, con l’ordine di pubblicarli a suon di tromba.

I cavalieri giunsero a Rodi un mese dopo averla lasciata (2 Dicembre 1482) e diedero una duplice stersura del trattato al Gran Maestro e al Consiglio dell’Ordine. Dopo averne preso conoscenza e fatto verificare l’autenticità d’Aubusson, diede ordine che a suon di tromba venissero banditi gli articoli di questa pace in tutti i possedimenti dell’Ordine e che ne fosse raccomnandato a tutti e a ciascuno la fedele osservanza.    

 

 

IL SECONDO  

IGNOMINIOSO TRATTATO

PERFIDIA E TRADIMENTO

DI D’AUBUSSON

 

 

I

 trattati sottoscritti da Bajazet e dal Gran Maestro erano due, il primo lo abbiamo innanzi esaminato e come abbiamo visto, riguardava i rapporti tra due Stati, il turco e l’Ordine (da considerarsi tale); l’altro invece, non era un trattato ma piuttosto una convenzione personale tra il sovrano e il Gran Maestro che riguardava il fratello del sovrano, anche se atteneva anche a una tregua d’armi tra i due Stati, ma continueremo a chiamarlo trattato e in un articolo si prevedeva che il fratello del sultano, Djem, pretendente dell’impero appartenente a Bajazet, “sarebbe stato trattenuto sotto la sorveglianza dell’Ordine fino alla sua morte in un castello dell’Ordine e come prezzo di tale servizio, sarebbe stata corrisposta, ogni anno e fino alla morte, la somma di quarantacinquemila ducati d’oro di Venezia”.

Il prezzo di questo perfido servizio (scrive Lamartine) pagato ai carcerieri di suo fratello, era il prezzo infame, non del sangue, ma della vita e della libertà di un ospite che era venuto a confidarsi liberamente con un salvacondotto consacrato dalla buona fede e dell’onore di un Ordine di cavalleria cristiano; la slealtà di questi accordi, disonorava con Pierre d’Aubusson la religione e l’eroismo.

L’esecuzione di questo trattato segreto (prosegue Lamartine) esigeva la più abietta ipocrisia per nascondere la vergogna all’Europa e l’adempimento allo sfortunato Djem. Esso doveva persuadere l’Europa che questo principe era libero e onorato nelle mani dei Cavalieri; esso doveva persuaderlo che l’acquisizione della sua patria era una condizione di salvezza e di ritorno sul trono e che conducendolo in occidente di corte in corte, l’Ordine voleva presentare ai sovrani della cristianità, una persona libera e non un prigioniero.

A questo trattato si era addivenuti in quanto, subito dopo la partenza degli ambasciatori rodiani (dopo la sottoscrizione del primo trattato), Bajazet era venuto a conoscenza del trasferimento del fratello in Francia e aveva subito mandato a Rodi un ambasciatore di nome Cagritaim, suo favorito, il quale, ricevuto in udienza dal Consiglio dell’Ordine e del Gran Maestro  (7 Dicembre) dopo aver consegnato le lettere credenziali, esponeva brevemente lo scopo della sua missione  dichiarando che aveva delle comunicazioni particolari da fare al Gran Maestro da parte del sultano: si decise di dare subito ascolto alla sua richiesta e fu introdotto in un’altra sala dove lo raggiunse il Gran Maestro (Thuasne).

L’ambasciatore gli riferiva che il sultano, dopo aver appreso del ritiro di suo fratello Djem a Rodi e dell’accoglienza ricevuta e degli onori e riguardi che gli erano stati usati, si sentiva obbligato verso l’Ordine e desiderava che il principe fosse strettamente sorvegliato dal Gran Maestro ed egli era disposto a provvedere a tutte le spese.

Il Gran Maestro rispose di aver ricevuto il principe Djem conformandosi ai doveri di umanità, non guardando che alla sua infelice posizione e senza riguardo alla sua posizione di nemico; che Rodi era d’altronde un asilo sempre aperto a coloro che si recavano a chiedere assistenza e il principe era stato trattato con i riguardi dovuti al suo rango e alla sua fortuna.

D’Aubusson aggiungeva che il sultano Bajazet non si doveva disinteressare della deplorevole situazione di suo fratello e permettere che egli vivesse miserevolmente senza che l’onore ne fosse pregiudicato; che infine i cavalieri non l’avevano accolto con l’intenzione di servirsene per creare inquietudine presso il sultano, visto che egli, per il suo carattere, non avrebbe provocato rappresaglie. Su queste parole il Gran Maestro concluse l’udienza e fece accompagnare l’ambasciatore turco alla sua residenza.

L’importanza di questo negoziato doveva durare per diverse sesssioni e d’altra parte il Gran Maestro, per esigenze della sua carica, non potendo seguirle assiduamente, delegò, dopo aver conferito con il Consiglio dell’Ordine, tre commissari  per rappresentarlo. Costoro erano il fr. John Kendal, il fr. Diomede de Villagaruto e il vice cancelliere Guillaume Caoursin.

Dopo diversi incontri il Gran Maestro d’Aubusson, in virtù della procura che Djem gli aveva rilasciato in bianco e della lettera che Bajazet gli aveva fatto avere con l’inviato turco Cagritaim e nella quale il sultano si impegnava ratificare le decisioni prese con il suo ambasciatore; considerando, d’altra parte l’impossibilità nella quale si trovava l’Italia di far guerra alla Turchia, decise di temporeggiare e di arrivare a un accomodamento con la Porta.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

D’accordo con l’ambasciatore turco, D’Aubusson confermava le sue intenzioni amichevoli in una lettera al sultano in cui diceva di aver fatto andare Djem in Francia per impedire che non fosse tentato nulla contro la sua persona. Dal suo canto l’ambasciatore turco, con una lettera resa pubblica a Rodi e datata lo stesso giorno (7 Dicembre), dava la sua adesione al nuovo trattato.

Il Gran Maestro faceva inoltre presente di essere in possesso di una lettera scritta in turco, completata dalla firma e dal sigillo del sultano Djem, con la quale il principe dichiarava il Gran Maestro suo procuratore, con l’autorità e il potere di curare tutti i suoi affari con Bajazet e che la convenzione sarebbe stata redatta in virtù di questo atto. L’ambasciatore si impegnava a restituire questa lettera nel termine di cinquanta giorni e per rendere più solenne questo impegno firmava questa dichiarazione di propria mano; avendo compiuto la sua missione egli ripartiva da Rodi per recarsi dal suo padrone.

Questi erano i presupposti di questo secondo trattato che, sotto il nome di tregua tra i due Stati, veniva successivamente sottoscritto a Costantinopoli dal sultano in presenza degli ambasciatori dell’Ordine Guy de Mont e Arnaud du Prat e dei due plenipotenziari turchi,  Keduk-Achmet-pascià che abbiamo visto (sopra come definisce “integro ma insolente, che faceva tremare il padrone che serviva” e Mesih Paleologo, definito “il rinnegato greco più insinuante e più abile del suo collega, che aveva messo l’assedio a Rodi e aveva personalmente redatto l’ ignominioso trattato che in un articolo segreto prevedeva che Djem, pretendente dell’impero, sarebbe stato trattenuto prigioniero fino alla sua morte in un castello dell’Ordine”!

Come prezzo di questo perfido servizio, dal sultano, come abbiamo già detto, sarebbe stata pagata ogni anno e fino alla morte, la somma di quaratacinquemila ducati d’oro di Venezia ai carcerieri di suo fratello; abbiamo visto (sopra) come Lamartine aveva considerato infame l’accordo sul versamento di questa somma e ritenuti sleali questi accordi, che disonoravano Pierre d’Aubusson, la religione e l’eroismo.

L’esecuzione di questo trattato segreto (prsegue Lamartine) esigeva la più abietta ipocrisia per nascondere la vergogna all’Europa e l’adempimento allo sfortunato Djem. Esso doveva persuadere l’Europa che questo principe era libero e onorato nelle mani dei Cavalieri e che l’acquisizione della sua patria era una condizione di salvezza e di ritorno sul trono e, conducendolo in Occidente di corte in corte, l’Ordine voleva presentare ai sovrani della cristianità una persona libera e non un prigioniero.

E’ da dire che Alphonse de Lamartine (Les grand’hommes de l’Orient, Paris, 1865)), è stato l’unico tra gli storici, a quanto risulta, a definire “ignominioso” questo trattato con il quale il Gran Maestro vendeva Djem al sultano che si impegnava a far versare a Rodi il primo agosto di ciascun anno, la somma anzidetta e per l’annata trascorsa sarebbe stata versata una pari somma, pagabile a quaranta giorni.

In cambio, il Gran Maestro si incaricava della sorveglianza e mantenimento del principe Djem, fino alla sua morte, in modo da eliminare ogni causa di inquietudine al sultano Bajazet che faceva la pace con l’Ordine; questa pace doveva durare tutto il tempo della vita di Djem.

La condotta del Gran Maestro era stata da alcuni storici molto severamente giudicata quanto da altri fosse stata approvata senza riserve (Thuasne), come vedremo nel paragrafo sul degrado e peggioramento della morale.

 

 

IL

TRASFERIMENTO

DI DJEM IN FRANCIA

 

 

L

’Ordine e il Gran Maestro decidevano il trasferimento di Djem in Francia; secondo alcuni storici lo stesso Djem aveva espresso il desiderio di andare in Francia, ma Lamartine (al quale prestiamo più credito per aver potuto consultare documenti del periodo francese), scrive che Djem aveva espresso il desiderio di andare a Venezia per poi raggiungere l’Ungheria.

In ogni caso, il Gran Maestro disponeva che fosse preparata la Grande Nave e nominato comandante suo nipote  Guido de Blanchefort,  accompagnato dai fr.lli Merlo di Piozzasco e  Carlo Alemandi; e alzate le vele, dopo sei settimane di misteriosa navigazione (la notte si viaggiava a luci spente sul ponte), la nave giunse a Nizza dove Zizim si credeva libero, con la guardia che riteneva d’onore e in uno dei castelli d’Europa degli amici di Rodi.

Impaziente di proseguire il viaggio (Lamartine), egli ricordò a Blanchefort l’accordo di portarlo a Venezia; Blanchefort e i cavalieri allegarono l’impossibilità di partire senza l’autorizzazione del re di Francia al qaale apparteneva Nizza e sarcasticamente gli fu detto di mandare dal re uno dei suoi servitori per sollecitare la sua autorizzazione a uscire dalle sue terre e fu rassicurato che avrebbe ricevuto l’autorizzazione in  poco tempo e forse anche l’alleanza del sovrano. Djem per questa ambasceria aveva incaricato il più preparato dei suoi vizir, Nassouh-Celebi, compagno dei suoi studi e dei viaggi in Asia. Ma i cavalieri che lo accompagnavano, dopo tre giorni di viaggio lo fecero arrestare e trattenere in una delle loro commende della Provenza.

Erano passati quattro mesi e Djem non aveva ricevuto alcuna risposta e credette che la corte francese avesse trattenuto il suo ambasciatore a causa della lentezza del negoziato. Ma sopraggiunse la peste che offrì ai cavalieri l’occasione di lasciare la città e dirigersi verso la Savoia attraversando gole di montagna strette e buie.

A Bugey nel Roussillion l’Ordine possedeva una commanderia con muraglie attaccate alle rocce, da sembrare naturali; Djem a tale visione non potette che pensare a una prigione, ma gli permisero di mandare due dei suoi compagni  dal re d’Ungheria per assicurarsi che la strada verso la Svizzera e la Germania fosse libera, ma questi due emissari durante il percorso scomparvero.

Qualche giorno dopo la loro partenza  un centinaio di cavalieri coperti di corazze entrarono nel donjon del Roussillion e prelevarono i suoi trenta compagni lasciandogli due o tre turchi del suo seguito e i trenta compagni furono imbarcati a Nizza e mandati a Rodi.  

Tutti gli abitanti del villaggio del Roussillion accorrevano (“riferiscono le cronache” scrive Lamartine) per vedere alle finestre del donjon l’imperatore dei turchi, ospite o prigioniero dei cavalieri di Gerusalemme. Il duca di Savoia, tornando da una visita fatta al nuovo re Carlo VIII, si fermò al castello del Roussillion. Djem incantato dalla bellezza di questo principe di quattordici anni, gli donò una scimitarra di Damasco incrostata d’oro; egli scongiurò il giovane principe di liberarlo dai cavalieri; il duca promise il suo aiuto ma l’Ordine che godeva delle sue immunità e dappertutto dei suoi alleati, era più potente del duca di Savoia; i cavalieri inquieti di questa vicinanza, qualche giorno dopo fecero imbarcare Zizim sull’Isére e poi sul Rodano per  condurlo, senza attraversare città e villaggi, in un’altra commanderia più forte e isolata sulla roccia pressocché inaccessibile nella valle del Puy-en-Velay; si ignora quanti mesi o anni Djem abbia languito in questo posto ignorato dal mondo.

Poichè il castello di Puy ai cavalieri non pareva sicuro, lo portarono al castello di Sassenage; il soggiorno in questo castello è pieno di mistero e di amore da romanzo, ma (secondo Lamartine) da non considerare al livello di favola (come risulta dal romanzo “Zizim et les chevaliers de Rode* (*)), in quanto, in base a testimonianze irrecusabili da parte degli storici  sia turchi sia cristiani, la verità è ristabilita nella sua realtà storica.

Zisim non aveva ancora ventisette anni e il signore del castello al quale i cavalieri avevano affidato la sua custodia, aveva una figlia giovanissima  Philippine; tra i due sorgeva un amore segreto, rubato ai guardiani del prigioniero e a dire delle cronache del Delfinato  (riferisce Lamartine) era nato un bambino che allevato da Philippine come paggio sposò una parente del nobile casato e il sangue della dinastia Ottomana continuò a scorrere nei discendenti dell’illustre casata cristiana (come era avvenuto in tanti altri casi, tra i veneziani in particolare, per fare un esempio! ndr.)

Ispirato dall’amore, Zizim aveva scritto (ricorda Lamartine) delle poesie (Ghazel, odi v. citato Art. La scienza araba ecc. P.I)) che richiamano la filosofia di Diocleziano e le poesie di Salomone e Anacreonte.   

A seguito di un tentativo di fuga per recarsi alla Corte francese, favorito da Philippine, d’Aubusson dava ordine a suo nipote di trasferire Zizim a Bourgneuf una provincia montuosa tra boschi di querce nel castello di Bourgneuf, feudo di d’Aubusson dove abitava quando non era in trasferta, dal quale, comunque, Zizim riuscì ad avere una corrispondenza segreta con Philippine.

In questo castello abitava la sorella di d’Aubusson la vera castellana e d’Aubusson aveva fatto costruire in cima a una roccia una torre di otto piani per alloggiare Zizim descritta da Seaeddin (lo storico arabo più completo su Djem) al quale lo aveva descritto uno dei compagni di Zizim, dopo la cattività e riferito da Lamartine): nel sotterraneo scavato nella roccia vi erano le cucine; al primo piano vi era l’alloggio delle guardie; al secondo i servitori ottomani del sultano; al terzo e quarto gli appartamenti di Zizim, ai due ultimi vi erano i cavalieri incaricati di sorvegliarlo e di distrarlo dalla solitudine.

Housssein-beg, uno dei confidenti di Zizim, riuscì a forzare la cinta esterna e recarsi dal principe di Borbone; Djelal-beg, un altro dei vizir del seguito che condivideva la prigionia e aveva percorso l’Italia in cerca di un liberatore, gli aveva riferito che il re di Francia, il re di Napoli, il duca di Savoia,  il re d’Ungheria e il papa stavano conducendo trattative per la sua liberazione dall’Ordine, ma l’avido d’Aubusson prendeva tempo in quanto non voleva rinunciare alla somma annuale che riceveva da Bajazet e a scroccare l’altra somma alla moglie per le spese di viaggio di Djem, alla quale aveva promesso di portarle Djem, oltre ad alzare il prezzo del riscatto dal papa, in quanto chiedeva per sé il cappello cardinalizio e per l’Ordine nuovi privilegi. 

In queste circostanze Bajazet inviava da Rodi Sinan-Beg e Ays-Beg, partigiani del principe, per chiedere la sua liberazione e nello stesso tempo un ambasciatore presso Carlo VIII che portava in dono delle reliquie, ma Carlo non volle riceverlo. 

Lo scandalo della prigionia del principe turco si era oramai diffuso in tutta l’Europa e d’Aubusson si decise a ratificare il conttratto con il papa che aveva aderito alle sue richieste dei privilegi per l’Ordine e del cappello cardinalizio per lui, quale prezzo della sua infamia e della sua perfidia, ricompensa, scrive Lamartine, che disonorava nello stesso tempo l’uomo e la dignità; Zizim fu portato a Marsiglia, poi a Tolone dove fu consegnato ai messi del papa e Carlo VIII concesse una scorta d’onore di cinquanta cavalieri per accompagnarlo a Roma.

Carlo nel frattempo, aveva preso accordi segreti con il papa che si impegnava, nel caso il principe fosse stato dato a un’altra potenza, a pagare una penale di diecimila ducati d’oro.

 

 

 

 

*) “Zizim ou les chevaliers de Rode. Roman historique di XVme siécle” par le V.te Adolphe d’ Archiac, Paris 1828 in tre volumi. Vi è anche un romanzo seicentesco di autore sconosciuto siglato L.P.A., “Zizimi prince ottoman, amoureaux de Philippine Helene de Sassenage, Histoire Dauphinoise”, Grenoble, 1673, in cui si parla di un Zizim libero che vive in una villa a Romans nel Royanois (Delfinato)  che festeggia il giorno della pentecoste con un torneo al quale partecipa la nobiltà compreso il barone di Sassenage, con lungo elenco in dieci pagine di  cavalieri che partecipano al torneo, con indicati i loro cimieri gentilizi: tra le dame vi compare la bella Philippine che pareva come un sole tra gli astri!

Il primo libro è un romanzo storico, il secondo è  storia romanzata, la differenza consiste nel fatto che nel primo si inseriscono degli avvenimenti tra quelli effettivamente storici che possono sembrare accaduti, mentre nel secondo,un fatto storico è raccontato liberamente facendo prevalere la fervida fantasia dello scrittore.

 

 

 

DEGRADO E

PEGGIORAMENTO

 DELLA MORALE

NEL QUINDICESIMO

SECOLO

 

 

S

i è visto come d’Aubusson aveva concordato e firmato il secondo trattato in base al quale  l’ospitalità di Djem era stata trasformata in una stretta sorveglianza, con la conseguenza che l’ospitalità giurata, diventava cattività e prigionia.

In proposito, Thuasne si chiede:- Aveva il Gran Maestro il diritto di abusare della confidenza che Djem aveva risposto in lui e di comportarsi in maniera contraria all’impegno che aveva preso?

Lo storico si dà la seguente risposta:- E’ importante non dimenticare che questa è una questione di uomini del quindicesimo secolo e per evitare di essere ingiusti nei loro confronti e di fare su di essi degli apprezzamenti inesatti, occorrerebbe comportarsi da loro contemporanei e giudicare le loro azioni e i loro sentimenti come essi li hanno giudicati all’epoca.

Si deve inoltre osservare che d’Aubusson non agiva come semplice privato, ma come uomo pubblico, rappresentante interessi della collettività e si trovava di fronte a doveri complessi in cui la morale non domina da sola, ma intervengono considerazioni di interesse generale.

Il principe Djem, accettando un salvacondotto per recarsi a Rodi, alla condizione espressa, che egli avrebbe avuto il diritto di entrare nell’isola e di uscire a sua volontà, doveva avere il godimento di questo diritto, per non averlo abbandonato. Ora non si può non considerare come questa procura in bianco rilasciata al Gran Maestro per trattare a suo nome con il sultano, lo fosse stato al meglio dei suoi interessi.

Lo spergiuro di d’Aubusson appare così evidente che Caoursin stesso (Cancelliere dell’Ordine!), obbliagto a riconoscerlo, cerca di giustificarlo, dichiarando che se il Gran Maestro avesse agito altrimenti, egli avrebbe attirato le armi di Bajazet, non solamente su Rodi, ma su tutta la cristianità. Si vedrà, per la successione degli avvenimenti, che questa spiegazione è più speciosa che veritiera, perché Mattia Corvino, la cui legalità non era messa in dubbio da nessuno, richiederà invano la consegna nelle sue mani del principe Djem per poter attaccare la Turchia. 

Così si possono opporre – prosegue Thuasne – alle paradossali spiegazioni di Caoursin e ai sofismi di Paoli e del suo correligionario Mansi (Giovanni Domenico Mansi, teologo e storico  1692-1769) le proteste indignate dell’abate Vertoto che non esita a bollare la condotta del Gran Maestro in questa circostanza. La conclusione del dotto abate è tanto più interessante per rilevare che si poteva temere da un ecclesiastico, l’influenza degli spergiuri religiosi. La sua opinione non ha che un valore comparativo e proverebbe tutt’al più che il livello della moralità è risalito dopo il quindicesimo secolo; ma essa è una illusione che viene a distruggere la brutalità dei fatti per il barbaro assioma “la forza prima del diritto” è oggigiorno la regola di condotta dei governi in Europa alla fine del diciannovesimo secolo, come lo era quella dei princìpi del quindicesimo.

In ques’epoca, era, a dire il vero, il sentimento generale che prevaleva. Se alcuni umanisti, nei loro scritti puramente speculativi, affermano che tutte le promesse fatte dovevano essere mantenute, essi ammettevano nella pratica dei temperamenti.

Nei numerosi scritti dei doveri dei sovrani, la persona del principe è trattata da un punto di vista ideale, facendosi di questo un essere dotato di tutte le virtù morali. E’ in questo spirito che sono concepiti i trattati di Poggio Bracciolini (De officio principis; De infelicitate principis; 1380-1459), del Panormita  (Giovanni Gioviano Pontano 1429-1503: Del principe); essi si domandano da uomini, le belle teorie dei filosofi. Non è dunque ad essi che occorre indirizzarsi, ma agli spiriti positivi come Machiavelli e Commynes che giudicavano le cose non come avrebbero dovuto essere, ma tali quali erano.                                                                

Nel capitolo diciotto del Principe, prosegue Thuasne, Machiavelli dichiara  innanzitutto che “ciascuno comprende quanto sia lodevole mantener fede, agire con sincerità e non con astuzia”; ma egli aggiunge subito: “l’esperienza dei nostri tempi prova che non è dato ai principi di realizzare grandi cose, allorquando hanno prestato poca attenzione alle loro parole e che essi hanno saputo con accortezza ingannare con altre; è così che alla fine hanno saputo vincere quelli che hanno confidato nella loro lealtà. Il principe deve essere leone e volpe e non mantenere la sua parola quando le circostanze in cui l’ha data dovessero cambiare. Se gli uomini fossero buoni, questa massima sarebbe malvagi, ma siccome essi sono malvagi e mancano alla loro parole, fate come loro, le ragioni per scusare la vostra condotta non vi mancheranno”.

Questa è la teoria che formula Machiavelli con gli esempi che egli aveva avuto sotto gli occhi. Per non richiamare che i più famosi sarà sufficiente citare il papa Alessandro VI del quale lo scopo di tutta la vita era stato quello di ingannare gli uomini; suo figlio Cesare Borgia del quale l’agguato di Sernigallia è giudicato dallo stesso Machiavelli un capolavoro e per il vescovo di Nocera ”il più bello degli inganni”; lo spergiuro di Consalvo da Cordova che aveva dato un salvacondotto a Cesare Borgia e aveva giurato sull’ostia di non avere nulla da temere, mentre poi lo aveva inviato prigioniero in Spagna, è guardato dall’integerrimo e austero de Thou (Jaques-Auguste de Thou 1553-1617 magistrato e storico francese), come una “lodevole- perfidia”, e ottiene tutto l’assenso di Paolo Giovio, che non esita ad approvarlo.

Ferdinando il Cattolico, si compiaceva di aver ingannato, in più di dieci occaasioni Luigi XII; Ludovico il Moro che spesso era stato spergiuro, era stato abbandonato dagli svizzeri sul campo di battaglia e consegnato al re di Francia, L’onesto Pio II, infine, rispondendo ai veneziani e al cardinale della Rovere negli stessi termini che doveva impiegare più tardi il segretario fiorentino “in male proximis non est servanda fides” (in prossimità di un pericolo la fede non va mantenuta).

Sarebbe un grave errore concludere con quelle parole del papa alla sua immoralità (come lo era stato nella sua sua età giovanile!). Questa dichiarazione riposava in effetti su una concezione particolare della potenza divina che egli rappresentava ed è confermata dai giureconsulti e canonisti della curia.

Callisto III dichiarò all’imperatore Federico che il concordato di Vienna che egli aveva  firmato con lui  (14 Febbraio 1448), non era obbligatorio per l’imperatore; quanto al papa, nessun trattato poteva legarlo e se egli si fosse sottomesso, era unicamente per amore della pace e per simpatia per Federico. E’ in virtù di questo stesso principio che i papi si erano arrogati il dititto di mettere i reami nell’interdetto, di sciogliere i sudditi dai loro doveri verso i principi e dei principi dai loro obblighi verso i loro sudditi. Non si può dubitare che tali massime abbiano contribuito a corrompere nella loro essenza i principi di moralità, non solamente presso i governanti, ma anche presso il popolo o ciascun individuo, senza curarsi delle leggi, applicando al proprio vantaggio la formula impiegata per i suoi signori.

Ma questi attentati ai sentimenti di giustizia non passarono senza reazione, alcune volte crudeli, nei confronti dei loro autori.

Eugenio IV non si credeva in nessun modo tenuto a mantenere le promesse dannose alla chiesa romana e non accettava come valide che quelle che gli potevano essere utili. Per suo ordine, il cardinale Giuliano Cesarini aveva forzato il re Ladislao (successore di Mattia Corvino) a violare la pace che egli aveva concluso per dieci anni con il sultano Murad (12 Luglio 1444), dichiarando apertamente che non era obbligato a mantenere la parola data a un infedele e si possono leggere in Bonfinio (Antonio Bonfini 1427-1502)  gli argomenti con i quali convinse il re esitante, a vincere i suoi scrupoli.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

 Si sa quale fu il risultato di tale tradizione: l’armata ungherese fu massacrata, il re Ladislao ebbe tagliata la testa e il triste artigiano di questa perfidia perì ugualmente assassinato da predoni ungheresi.

Mattia Corvino, lo citiamo ad esempio per confermare una affermazione fatta in precedenza, invitato a mezzo legale del papa Rovarella, a impadronirsi col tradimento dei figli di Podiebrad, respinse con indignazione una simile proposta, avvertendolo di astenersi di fare simili discorsi che gli ispiravano – disse   la più viva repulsione. Nella condotta di Mattia, non si vede, in  verità che un fatto isolato, ben degno del re cavaliere, vero paragone d’onore e di legalità, ma che deve provocare una sdegnosa pietà presso i tiranni italiani, non meno che presso i potenti sovrani d’Europa.

Dappertutto, in effetti, la perfidia fu considerata come mezzo di governo; occorreva, secondo le circostane, essere leone o volpe. Fu così che si vedeva in Borgogna un cancelliere del duca Filippo che in seguito doveva tradire, simbolizzare la teoria del diplomatico fiorentino, facendo pendere nel suo stemma un Ercole che portava una maschera: l’astuzia che copre la forza, fedele rappresentazione del carattere dell’epoca.

Quanto a Commynes che aveva tradito la casa di Borgogna per passare al servizio di Luigi XI, le sue idee sullo spergiuro sono proporzionate alla sua condotta. Egli confessa ingenuamente “che un tradimento non è odioso quando è pagato”: esso infatti con il compenso diviene un contratto di assunzione: così non esitò ad approvare il Gran Maestro d’Aubusson che per una pensione di quantacinquemila ducati d’oro, avesse tradito un giovane principe che aveva avuto l’impudenza di fidarsi della sua lealtà. Nifo (Agostino, umanista, 1469/70-1539/46), il plagiaro di Machiavelli, è meno categorico del suo maestro sulla questione di sapere se il principe deve mantenere il suo giuramento o se lo può violare; egli esprime degli elogi per il primo caso e delle giustificazioni per il secondo.

Montaigne (Michel Eyquiem, 1533-1592) studia a sua volta la delicata situazione di un principe legato alla sua parola che si sottrae per considerazioni d’ordine superiore; egli non esita a deplorare questa necessità e fa la seguente dichiarazione: “Il principe – dice – quando una urgente circostanza e qualche impetuoso e inopinato bisogno del suo Stato fa scivolare via la sua parola e la sua fede o altrimenti la porta fuori dal suo ordinario dovere, deve attribuire questa necessità ad un colpo della verga (bacchetta) divina; invece non lo è perché ha abbandonato la sua ragione per una più universale e potente, ma certo è una disgrazia”. E più oltre egli aggiunge “vi sono degli esempi pericolosi rari ed  eccezioni invalide  per le nostre regole naturali; occorre andare, ma con grande moderazione e circospezione per qualche necessità di ordine privato, non sarebbe degno che noi facciamo questa violenza alla nostra coscienza, mentre per quella pubblica lo è allorquando sia apparente e molto importante”.   

Presentata con tali riserrve l’opinione di Montaigne è senz’altro accettabile; non vi è nessuno che possa biasimare Carlo VIII di aver rinviato a Massimiliano sua figlia che aveva sposato per procura nello stesso tempo in cui sposò Anna di Bretagna, sposata segretamente con procura  dall’imperatore Massimiliano I (questo intraprendente colpo di mano di Carlo VIII non ha eguali nella storia e lo si può accettare per la sua originalità! ndr.!). Il matrimonio di quest’ultimo con l’erede di Francesco II causò lo smembramento della Francia.

Ma tale non fu il caso del Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Egli avrebbe potuto, senza compromettere gli interessi dell’Ordine e la sicurezza dell’Europa, mandare il principe Djem sia al re di Ungheria, sia al sultano d’Egitto Cait-Bai; egli, monaco cristiano, preferì impegnarsi al soldo del sultano e avere con il suo spergiuro una rendita di quarantacinquemila ducati.

Dopo aver sorvegliato per sette anni il suo prigioniero in una stretta prigionia, egli non acconsentì a cedere alle richieste del papa che in cambio del cappello rosso e di considerevoli vantaggi che gli sarebbero derivati  rinunciando alla pensione che egli aveva fino a quei giorni riscosso dalla Porta. La sua avarizia, sempre desta, lo porterà a speculare sui sentimenti più rispettabili, quale l’amore materno e a estorcere alla madre di Djem (che  si trovava presso il sultano Cait-Bai), ventiseimila ducati d’oro sotto il pretesto menzognero di equipaggiare il vascello che doveva portare il principe in Egitto. Accusato davanti al papa e messo nell’impossibilità di negare la sua azione malvagia, egli sarà costretto, a sua vergogna e sotto l’ingiunzione del pontefice, a consegnare all’ambasciatore del sultano una parte della somma che aveva carpito.

Anche se la morale stava cambiando, non si può  esitare a considerare vile e disonorevole la condotta di Pierre d’Aubusson, Gran Maestro dell’Ordine di san Giovanni di Gerusalemme (poi di Malta), il quale, dopo aver giurato di concedere l’ospitalità, si era fatto carceriere del principe, sebbene fossero stati grandi i servigi resi al mondo cristiano e avesse lasciato il suo nome glorioso alla posterità (Thuasne).

 

 

   ZIZIM ACCOLTO

DA INNOCENZO VIII

 CHE ACCETTA

 DONI DI BAJAZET

E DEL SULTANO

D’EGITTO

 

 

 

G

iunto a Roma, finalmente Zizim fu trattato da sovrano: Innocenzo  VIII lo ricevette con tutti gli onori e con tutto lo splendore che il sommo pontefice potesse offrire al fratello del sovrano di Costantinopoli.

Il 13 Marzo attraversava Roma con corteo, accompagnato da Franceschetto Cibo, figlio del papa e dal priore d’Auvergne, nipote di d’Aubusson e ambasciatore di Francia. A Roma era arrivato l’ambasciatore del sultano d’Egitto che gli portava le lettere di sua madre e della moglie,il quale  sceso da cavallo, si prostrò e baciò per terra e poi baciò il piede del suo cavallo, poi lo seguì fino al Vaticano dove il papa gli aveva riservato un appartamento lussuoso.

All’indomani il papa tenne il concistoro per ricevere Zizim il quale, sebbene istruito sulla cerimonia volle tenere il turbante (ritenuto dai musulmani dell’epoca simbolo religioso)  e rifiutò di inginocchiarsi e baciare il piede al papa, limitandosi a baciargli la spalla destra (secondo l’usanza turca).

Innocenzo sorrise per questo atto di orgoglio e l’abbracciò sulle guance, mentre il principe l’abbracciò sulle spalle alla maniera orientale.

Zizim riferiva al papa le sue sventure, la sua prigionia, la sua crudele separazione dalla moglie e dai figli e il suo desiderio di poter raggiungere in Egitto la moglie e i figli che non vedeva da sette anni; la sua eloquenza e il suo dolore commossero il papa fino alle lacrime, ma gli rispose amichevolmente che il suo precipitoso ritorno in Egitto avrebbe fatto cadere le speranze dei principi cristiani di vederlo sul trono e gli promise l’intervento del re d’Ungheria per fornirgli un’armata, per  realizzare i suoi desideri e insinuò che una sua conversione alla fede cristiana avrebbe portato la cristianità a seguirlo e gli avrebbe fatto guadagnare il cielo e il trono.

Zizim che non aveva potuto vedere le virtù cristiane, ma aveva piuttosto conosciuto l’ambizione dei cavalieri di Rodi, rispose che la sovranità del mondo intero non gli avrebbe fatto abiurare la fede dei suoi padri e se egli avesse avuto la debolezza di farlo, avrebbe giustificato la sua deposizione dal trono e la condanna a morte dichiarata ingiustamente dai giudici turchi contro di lui; il papa quindi cambiò conversazione e ricoprì il principe di protezione e magnificenza (Lamartine).    

La somma versata da Bajazet dava al papa la possibilità di arruolare un esercito per combattere il turco e quindi il papa convocò a Roma un concilio generale per il giorno dell’Annunciazione della Vergine dell’anno 1489. Da tutte le parti e da ciascun reame giunsero ambasciatori e vescovi, dalla Francia, Germania, Spagna, Ungheria, Boemia, Polonia e Inghilterra e il papa ottenne l’autorizzazione di ricevere in piena libertà, annate, rendite, fare collette, vendere indulgenze, concedere dispense e privilegi; mai era stato raccolto tanto danaro con la predicazione della crociata, questa volta dovuta alla presenza di Zizim, sia dalla cristianità. sia dalla parte turca: tre eserciti cristiani di quindicimila cavalieri e ottantamila fanti, si sarebbero diretti per terra e per mare verso le terre  dell’impero turco.

Era stato convocato Mattia Corvino genero di Ferdinando di Napoli, ottimo condottiero, che avrebbe dovuto comandare le forze cristiane, ma Mattia fu colto da infarto (1489). Ferdinando di Napoli che era in attrito col papa, in quanto non versava il tributo feudale annuale (v. Art. Feudalità ecc.), ma versava solo gli arretrati in  30mila ducati ed era il solo a poter fare la guerra ai turchi, con lo sconforto di Bajazet che gli aveva donato la Lancia con cui, si diceva, Longino avesse trafitto il costato di Cristo, il quale nel frattempo, aveva cercato di fare assassinare suo fratello.

Un tentativo di avvelenarlo infatti era stato fatto da un nobile scellerato della Marca di Ancona, Cristofano di Castrano, detto Macrino, per conto di Bajazet (che in cambio gli avrebbe dato Negroponte e un grado elevato  nell’armata turca) che intendeva avvelenare la fonte vicina al Belvedere, dove prendevano l’acqua che davano da bere al  papa e Zizim, con un veleno che avrebbe fatto effetto dopo cinque giorni; ma l’attentatore si tradì a Venezia e arrestato fu mandato a Roma dove, dopo averlo fatto confessare sotto tortura, gli fu tagliata la testa (nel mese di Maggio 1490); vi furono anche altri tentativi, tutti sventati.

Bajazet aveva mandato un’ambasciata a Roma (30 N0vembre 1490), che, oltre ai regali consegnava al papa una lettera scritta in greco su rotolo, ma senza sigillo, con cui chiedeva di tenere suo fratello sotto la sua sorveglianza, alle stesse condizioni stipulate con il Gran Maestro di Rodi (Pastor). Il papa accettò i regali e autorizzò gli ambasciatori a visitare il principe per assicurarsi essi stessi delle sue buone condizioni di salute; gli ambasciatori passarono anche dal tesoriere per pagare la rata annuale che prima pagavano al Gran Maestro.

Il papa colse l’occasione, col pretesto della crociata contro i turchi, per ottenere da Bajazet oltre a nuovi sussidi, anche delle truppe, tutte le volte che ne avesse avuto bisogno.

Bajazet, ai ricchi presenti in oro e argento, fece dono di trenta bellissime schiave circasse per il papa e per i cardinali  e oltre a questi doni, faceva omaggio al papa di centosessantamila scudi d’oro per le spese di mantenimento di Zizim. Non solo. Ma anche il sultano d’Egitto aveva inviato a Innocenzo quattrocentomila ducati e gli avrebbe lasciato in piena proprietà per i cristiani, la città di Gerusalemme, impegnandosi a lasciare al papa tutte le conquiste  che sarebbero state fatte a Bajazet, compresa la stessa Costantinopoli.

L’intenzione del sultano d’Egitto era di mettere a capo delle truppe  Zizim, per togliere dal trono Bajazet, suo terribile nemico.

Innocenzo accettò tutti i regali del sultano d’Egitto e promise di inviare il principe Gem al Cairo non appena possibile e congedava gli ambasciatori. Questi negoziati erano coperti dal segreto ma il capo della delegazione turca aveva appreso che sua santità aveva promesso di rendere la libertà a Zizim, previo pagamento di un enorme riscatto; egli quindi rincarò la dose promessa dagli egiziani, offrendo al papa seicentomila scudi d’oro perché permettesse di avvelenare il fratello del sultano.

A questo punto, la giustizia divina, poneva termine alle infamie di Innocenzo VIII e l’ultima fu commessa per rianimarlo: il 25 luglio 1492 il papa aveva avuto un attacco apoplettico e il medico ebreo per rianimarlogli aveva versato nelle sue vene il sangue di tre bambini di dieci anni e il sangue del del papa, nei tre bambini che morirono e i genitori furono risarciti; fu durante questa malattia che i cardinali rinchiusero Zizim in Castel sant’Angelo.

Il papa pur avendo una forte fibra si aggravò (Luglio 1492) e l’ultimo suo pensiero fu per l’avvenire dei figli (che aveva abbondantemente arricchiti! ndr.).

 

 

 

ALESSANDRO VI

MERCANTEGGIA

CON CARLO VIII

L’ASSASSINIO DI ZIZIM

CHE MUORE A NAPOLI

 

 

I

nnocenzo VIII, come abbiamo visto, per avere Zizim, aveva dato il cappello cardinalizio a d’Aubusson, oltre agli altri privilegi  concessi all’Ordine; successivamente da parte del papa erano iniziate le trattative con Carlo VIII che voleva avere Zizim e per cederlo, il papa aveva concesso il cappello cardinalizio al vescovo Brichonnette de Saint Malo e a Filippo della casa di Luxemburg e vescovo di Mans.

Morto Innocenzo VIII, il conclave aveva eletto come nuovo papa il nipote di Callisto III, Rodrigo Borgia, col nome di Alessandro VI (1492-1503), sulla cui elezione si era fatto molto rumore ed era stato scritto: «Erano i tempi in cui la Chiesa romana, disonorata dai vizi di alcuni capi del sacerdozio, esaltava sul trono un pontefice del quale doveva vergognarsi» e Sismondi definiscee «scandalosa la elezione come capo della Chiesa del più disonesto della cristianità».

Pare che già  quando era in vita Innocenzo VIII, Alessandro VI, come cardimale, avesse partecipato alle trattative con Carlo VIII che voleva avere Zizim per andare a far la guerra ai turchi e, nella sua discesa in Italia, dopo la sua entrata intimidatoria in Roma col suo esercito, (v. sotto), egli era a colloquio con Alessandro VI e Zizim (Sismondi lo chiama Gem), il quale avvicinandosi a Carlo VIII gli baciava la mano e la spalla, e poi rivoltosi al papa lo pregava, con modesta nobiltà, di raccomandarlo alla protezione del gran re a cui egli lo affidava e che si apprestava a conquistare l’Oriente.

Zizim si abbandonava alla dolce speranza di uscire in breve dalla sua cattività e di rivedere la patria; ma, colui che lo cedeva aveva già fissato il termine della sua vita (sebbene le cose fossero andate alquanto diversamente da come aveva programmato).

Alessandro VI aveva mandato dal sultano il suo ambasciatore, il genovese Giorgio Bocciardi, per p0rtare il suo aiuto al regno di Napoli (regnava Alfonso II) ; Bajazet, angustiato dall’esistenza di suo fratello  e mettendo da parte ogni pudore, avendo saputo dai suoi agenti greci che erano in Italia, della venalità del conclave, della simonia del pontificato e lo scandalo della cristianità sul nome di Borgia, approfittando dell’occasione, mandava una lettera al papa, portata dal proprio ambasciatore Dauth, che accompagnava Bocciardi, scritta in greco,  in cui, dopo alcune ipocrite frasi (*), convenienti al carattere di chi scriveva e di chi la riceveva, accettando di mandargli l’aiuto richiesto con un esercito di venticinquemila uomini, Bajazet diceva « di provare grandissimo rammarico per la sorte di suo fratello, aggiungendo che era ormai tempo di dar fine alla sua cattività e dipendenza presso i non credenti; che la morte per un sultano era mille volte preferibile all’attuale situazione e poiché non pareva delitto ai cristiani dar la morte a un musulmano, pregava il papa di liberarlo col veleno da questo domestico nemico, promettendogli il premio di duecentomila ducati d’oro (pari a molti dei miliardi attuali!) e la preziosa reliquia della tunica di  Gesù Cristo, facendogli la promessa in vita sua, di non portare le armi contro i cristiani» (Sismondi, riprende Paolo Giovio); per di più il papa  gli aveva chiesto una reliquia ancora più preziosa, la camicia di Gesù, ma Baiazet gli rispose di non poterla concedere in quanto la usava lui in guerra (come l’aveva usata suo padre) per vincere il nemico!

I due ambasciatori, sbarcati presso la costa di Ancona, erano stati presi da Giovanni della Rovere, prefetto di Sinigallia, che aveva abbracciato il partito del cardinale di san Pietro in Vincoli, suo fratello che aveva cominciato le ostilità verso il papa, togliendogli  loro il danaro di due pensioni di Gem che essi portavano e mettendoli in prigione. Dauth riuscì a fuggire e riparò presso Francesco Gonzaga, marchese di Mantova che aveva contratto alleanza con il Gran Sultano, che  lo rimandò a Costantinopoli (Bosio).

Ma Alessandro VI (secondo Francesco Becattini) essendo stato costretto a consegnare Zizim a Carlo VIII ed essendosi impegnato con Bajazet a non cederlo a nessuno, per non lasciare Zizim nelle sue mani, prima di consegnare al re l’illustre ospite, aveva fatto mescolare nello zucchero di cui Zizim, come aabbiamo visto, faceva grandissimo uso, la polvere bianca gradevole al palato e di non subitaneo effetto, che agiva lentamente senza lasciare tracce (la cantaridina ricavata dalla cantaride, il veleno dei Borgia); era lo stesso veleno che Alessandro VI, aveva usato per sopprimere molti cardinali e di cui egli stesso fu vittima (v, Art. Carlo V tra rinascim. ecc. P. I, Sez. II,  I papi rinascimentali avidi e nepotisti).

Giunto a Capua con Carlo o per altri a Terracina o a Napoli, come ritengono decìsamente gli storici arabi, Zizim avvertendo un malore, improvvisamente moriva il 26 Febbraio 1494; Carlo lo fece seppellire a Gaeta, ma nel 1497 Bajazet richiese il cadavere e Federico d’Aragona lo mandò a Costantionopoli e fu sepolto a Bursa dove erano sepolti tutti i sultani,

L’attribuzione della morte di Zizim al veleno, sembrerebbe molto dubbia in quanto Zizim era obeso e sin dai ventotto anni era in sovraoppeso, poi divenuto obeso, faceva uso smodato di sostanze zuccherate e doveva essere pesantemente affetto da diabete che all’epoca non si conosceva, come non si conoscevano le diete ; riteniamo quindi che possa essere stato questo smodato uso di zucchero, dolciumi e vino mescolato con sostanze aromatiche dolcificate, il giusto veleno che a quararantacinque anni gli aveva stroncato la vita.  

La storia di Zizim (come aveva scritto Lamartine) «Aveva commosso nello stesso tempo, l’Occidente e l’Oriente lasciando  una memoria romantica e poetica perpetua; la storia, i romanzi, i poemi, si sono disputati la sua storia, ma egli ha i suoi propri storici e i turchi  che recitano ancora oggi i suoi canti, lo contano nel numero dei poeti i più colorati, i più amorevoli i più eroici della loro lingua. La sua tomba si trova sotto platani della moschea di Brussa, visitata con pia compassione».

«Fiore spezzato dal tronco di Maometto II sulla tomba del conquisttatore» come egli aveva detto di se stesso in due suoi versi: «Non aveva avuto l’impero di Bajazet ma aveva avuto l’impero dell’immaginazione sugli Ottomani».

 

 

LETTERA DI BAJAZET AL PAPA ALESSANDRO VI

PER L’ASSASSINIO DI GEM

 

*) La lettera (da Francesco Becattini: Storia ragionata degli imperatori, VE, 1788) diceva:

«Il Sultano Bajazet, figlio del Sultano Mehemet Kan, per la Grazia di Dio e del suo Profeta, Gran Re, Imperatore e dominatore del continente Europa e d’Asia, Signore della terra e del mare ecc., all’eccellente Padre e Signore di tutti i  cristiani Alessandro detto Sesto, pontefice della loro legge, residente in Roma.

Dopo avervi di buono e foriero animo salutato, vi significhiamo aver ricevuto con piacere la nuova di vostra convalescenza per la sofferta malattia, di che ci siamo rallegrati. Tra le altre cose ci ha fatto  sapere qualmente il Re di Francia vuol cavare a forza dalle vostre mani Gem, fratello nostro e che nolte cose ha operato contro la vostra volontà, del che a Vostra Grandezza e a tutti i Cristiani ne seguirebbe gran danno; onde col detto Giorgio, abbiamo pensato, per utilità e per nostra soddisfazione, che il detto Gem, nostro fratello, che come mortale, deve essere un giorno o l’alttro soggetto alla morte e che si trova in vostro potere, facciate morire nel miglior modo e maniera, considerata la più utile dalla Grandezza Vostra, rimettendoci noi  alla vostra sperimentata prudenza, nella quale siamo contenti di affidarci e rimetterci e farete un gran bene ancora a detto Gem col levarlo dalle angustie di questo mondo e far passare l’anima sua nell’altro, ove potrà avere miglior quiete e tranquillità.

E la Grandezza Vostra farà adempiere quella nostra volontà e ci manderà il suo corpo in qualunque luogo dei nostri Domini, Noi, Sultano Bajazet Kan, faremo pagare a Vostra Grandezza, in qualunque luogo piacerà, 300mila ducati di Fiorenza e altrimenti con i quali possa la Grandezza Vostra comprare i di lui figli che sono in esteri domini e questi 300nila ducati faremo pagare dai nostri servi a quelle persone che a voi piacerà nominare ed inoltre, promnettiamo alla Grandezza Vostra di aver, finché vivremo, per buona e grata la vostra amicizia, e di fare a vostra richiesta, tutte quelle grazie che ci sarà possibile.

Inoltre promettiamo alla Grandezza vostra, che né da me, né da nessuno dei miei servi, soldati, Bassà e Ufficiali di pace e di guerra, sarà mai data e inferta molestia, impedimento e danno a’ Cristiani di qualunque qualità e condizione siano sì in terra che in mare, quando però da questi non sieno dannificati i popoli fedeli Musulmani soggetti al nostro potentissimo Trono.

E per maggior soddisfazione di Vostra Grandezza, abbiamo giurato e affermato in presenza del vostro Nunzio Giorgio Buzzardo, per  Iddio, il suo Prefeta e l’Alcorano, di osservare esattamente tutto quello e quanto abbiamo significato e promesso a Vostra Grandezza e di non contravvenirvi giammai in nessuna maniera e a tale effetto vi abbiamo posto nel nome del Signore e del suo Profeta, il nostro Imperial Sigillo.

L’anno ecc. il mese ecc. giorno dell’Egira (omessa la loro indicazione araba ndr.), il dì 18 Settembre 1494».

 

CARLO VIII SFILA

CON L’ESERCITO

A ROMA

 

L

’esercito di Carlo VIII (*) entrava in Roma il 31 Dicembre 1494 percorrendo la città da Piazza del Popolo fino a Castel Sant’Angelo: l’avanguardia era composta di svizzeri e tedeschi che camminavano a suon di tamburo, divisi in battaglioni preceduti dai loro stendardi: i loro abiti erano corti e di svariati colori; i loro capi portavano come segno distintivo gli elmetti adorni di alte piume; i soldati avevano corte spade e lance di legno di frassino lunghe dieci piedi con la punta di ferro aguzzo e sottile; la quarta parte di essi portava lunghe alabarde il cui ferro somigliava alla banda tagliente di una scure da cui sorgeva una punta quadrangolare. Essi le maneggiavano con ambedue le mani ferendo di taglio e di punta; per ogni migliaio di soldati vi era una schiera di cento archibugieri. I soldati della prima fila di ogni battaglione avevano elmi e corazze che coprivano loro il petto, questa era pure l’armatura dei capitani; gli altri non avevano armi difemnsive. Seguivano gli svizzeri e cinquemila guaschi, quasi tutti balestrieri: mirabile era la prontezza con cui tendevano e scoccavano le loro balestre di ferro; del resto, per la piccola statura e le vesti prive di ogni ornamento, facevano brutta mostra rispetto agli svizzeri.

Seguiva la cavalleria, la quale era il fiore della nobiltà francese e faceva mostra di sé con i manti di seta, con gli elmi e le collane dorate; vi si contavano duemilacinquecento corazzieri e cinquemila cavalleggeri: i primi portavano, come gli italiani, una lancia scannellata, armata di salda punta ed una clava ferrata; i loro cavalli erano grandi e robusti con la coda e le orecchie mozzate, secondo la moda francese; la maggior parte non erano coperti, come usavano gli italiani, da una corazza di cuoio bollito per difendere i loro cavalli dai colpi,

Ogni corazziere era seguito da tre cavalli, il primo montato da un paggio, armato come il padrone, gli altri due erano scudieri, chiamati ausiliari laterali. I cavalleggeri portavano archi di legno all’uso inglese, fatti per scagliare lunghe frecce; non avevano altre armi difensive, fuocrché l’elmo e la corazza; alcuni portavano una breve picca di cui valersi per trafiggere al suolo coloro che erano stati atterrati dagli uomini d’arme. I loro mantelli erano ornati di spilloni e di borchie d’argento in cui era cesellato lo stemma dei loro capi.

Seguivano in ultimo, quattrocento arcieri, tra i quali scozzesi che camminavano ai fianchi del re il quale era accompagnato da duecento cavalieri francesi scelti tra il fiore della nobiltà, che camminavano a piedi; portavano costoro poderose mazze ferrate a guisa di pesanti scuri, ma quando salivano a cavallo si mettevano in assetto come gli altri uomini d’arme e non si distinguevano che per la bellezza dei loro cavalli e per l’oro e la porpora di cui erano coperti.

 I cardinali Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere erano ai fianchi del re a cui seguivano immediatamente i cardinali Colonna e Savelli. Prospero e Fabrizioo Colonna e tutti i generali venivano poi con i principi signori di Francia.

Tenevano  dietro all’esercito le artiglierie e, dapprima trentasei cannoni di bronzo lunghi da otto piedi del peso di circa sei migliaia di libbre e del calibro all’incirca di una testa di uomo ; poi le colubrine lunghe da dodici piedi; quindi falconetti dei quali i più piccoli gettavano palle grosse quanto una melagrana. I carri delle artiglierie erano formati, come gli odierni, di due sole ruote, ma per farli camminare vi si aggiungeva un carretto con altre ruote che si adattava davanti e si staccava quando il cannone si collocava in batteria. L’avanguardia aveva cominciato il suo ingresso da Piazza del Popolo a tre ore dopo mezzogiorno e la truppa continuò ad entrare fino alle nove di sera a lume di doppieri e di fiaccole che facevano apparuire l’esercito più feroce e tetro (Sismondi riprendendo da Paolo Giovio precisava  che senza dubbio egli fosse stato presente alla sfilata).

 

DESCRIZIONE DI CARLO VIII

*)  «L’aspetto del presuntuoso Carlo VIII corrispondeva a tanta debolezza di spirito e di carattere; era di bassa statura, aveva grossa testa e corto il collo, il petto e le spalle larghe e sollevate, cosce e gambe lunghe e gracili; fin dalla puerizia fu molto debole di salute e di corpo non sano; piccolo di statura – se gli levi il vigore e la dignità degli occhi – bruttissimo; le altre membra, sproporzionate in modo che pareva più simile a un mostro che a un uomo: non solo non ebbe alcuna conoscenza delle belle arti, ma conobbe appena le figure dell’abicci; aveva animo cupido di imperare, ma abile per ogni altra cosa, perché aggirato sempre dai suoi, non usava con loro né maestà, né autorità; alieno da tutte le fatiche e faccende e in quelle alle quali pure attendeva, povero di prudenza e di giudizio: se pure qualcosa in lui pareva degna di lode, riguardata intrinsecamente, era più lontana dalla virtù che dal vizio; era inclinato alla gloria ma più per impeto che per consiglio; era liberale, ma sconsideratamente e senza modo e regola; era immutabile talvolta nelle deliberazioni, ma ciò era spesso ostinazione mal fondata, anzi che costanza e quelli che molti chiamavano bontà, meritava più convenientemente il nome di freddezza e di remissione d’animo (ripreso da Guicciardini). Tale era l’uomo il quale per virtù si fece conquistatore e dalla fortuna fu carico di gloria che non potesse meritarne» (Sismondi).

**) Nel 1492 siamo a pochi anni dalla fine del secolo, foriero di grandi avvenimenti, come il nuovo che è alle porte. Muore Lorenzo il Magnifico e gli succede il figlio Piero, muore il papa Innocenzo VIII e gli succede Alessandro VI Borgia il quale, dopo soli undici anni di papato,  con i due figli Cesare e Lucrezia, riempie la storia e non solo quella del papato, per tutti i secoli a venire; gli succede Pio III seguito, nello stesso anno (1503), da Giulio II; Isabella di Castiglia cacciava definitivamente i musulmani da Granada; Bajazet II invadeva l’Ungheria; Massimiliano I d’Asburgo succedeva all’imperatore Federico III; Cristoforo Colombo scopriva (1493) il Nuovo Mondo; con il trattato di Todesillas (1494), Alessandro VI divide il mondo nelle due parti assegnate al Portogallo e alla Spagna; Carlo VIII scende in Italia (1494) per conquistare il regno di Napoli e lo stesso anno moriva Ferdinando d’Aragona e gli succedeva il figlio Alfonso II;  Solimano il Magnifico (1494) diventava sultano dell’impero turco; nel 1500 nasceva Carlo V, il suo ricordo è legato alla più grande fortuna che un monarca avesse mai potuto avere in assoluto in tutti i tempi lasciando il solo ricordo di se stesso e della sua immensa fortuna, senza lasciare ai posteri grandi opere d’arte, come il suo rivale Francesco I. 

 

 

 

FINE