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La libagione
è una forma di sacrificio diffusa nelle religioni primitive.
Consisteva nel versare vino o altre bevande sull'altare, sul fuoco
o sulle vittime da sacrificare oppure bevendo dopo aver invocato
la divinità (libamen era il liquido versato goccia
a goccia). Presso i romani libamina erano le offerte sacrificali
e aspersioni fatte con acqua ,vino, latte, miele ecc.. Nell'antica
Grecia si praticava anche per sancire tregue o alleanze, bevendo
vino misto ad acqua.
Le origini di questa forma di sacrificio si fanno risalire, in
base a ritrovamenti, all'età del Bronzo, ma essa era sicuramente
precedente (abbiamo visto quelle dei Sumeri). Andando ad epoche
più recenti (2000 a. C), vediamo che in Oriente era praticata
con recipienti detti situle che assumevano varie forme
in base alle libagioni cui erano destinati; ad esempio, in Egitto
e Mesopotamia per libagioni con il latte le coppe avevano la forma
di mammella.
I Celti, quando uccidevano i propri nemici, usavano conservare
il cranio che ricoprivano d'oro, per servirsene nelle loro libagioni
rituali. Le antiche leggende germaniche, raccontano che i guerrieri
che morivano in battaglia, quando giungevano nel Valhalla-aldilà,
banchettavano con le carni di cinghiale soehrimnir (che non si
esauriva mai) e con l'idromele attinto dalla capra heidrhrun,
serviti dalle bellissime valchirie che avevano il compito
di tenere le coppe sempre piene di birra spumeggiante.
Presso gli Slavi del litorale baltico, si usava sacrificare alla
divinità (Svantovit), i buoi o i montoni (quei popoli praticavano
anche il sacrificio umano) ed il sacerdote chiudeva il rito libando
con sangue delle vittime, seguito dal festino al quale partecipavano
tutti i fedeli.
I sacrifici dei persiani del periodo achemenide (da Achamanisch
700 a C.) si svolgevano nella maniera più semplice. Erodoto
racconta che i sacrifici li facevano senza altari e senza accendere
fuochi, non usavano libagioni, flauti, corone o focacce, ma andavano
in un luogo puro, portandovi una bestia e invocando il dio al
quale volevano sacrificare. Chi faceva sacrifici non poteva chiedere
benefici per se solo ma chiedeva la prosperità per tutti
i persiani e per il re. Sempre Erodoto riferisce una strana usanza
dei persiani i quali pare fossero grandi bevitori: usavano prendere
le loro decisioni dopo essersi ubriacati; ciò che decidevano
in queste condizioni era riesaminato il giorno dopo quando erano
sobri. Se erano soddisfatti della decisione la eseguivano, altrimenti,
d'accordo, la lasciavano perdere. Se invece avevano preso qualche
decisione da sobri, si ubriacavano e ci pensavano su!.
Tra i persiani la libagione fu successivamente introdotta nel
culto parsi (riservata ai soli zoroastriani) e fatta esclusivamente
con haoma; questa era una bevanda inebriante ricavata dalla
pianta hom, considerata sacra (ad essa però Zaratustra
era contrario).
A proposito di bevande inebrianti è da ricordare
la famosa leggenda (XII sec.) del Vecchio della montagna (raccontata
da Marco Polo nel Milione), il quale mandava i suoi adepti (hasciscin-assassini,
coloro che fumavano hascish) che sotto l'effetto della droga,
eseguivano i delitti commissionati dal Vecchio, facendosi ammazzare
o ammazzandosi se non erano in grado di tornare al loro signore.
Il Vecchio li addestrava in modo singolare. Egli, infatti, presso
la sua corte aveva giovani audaci e disposti alle armi, dai dodici
ai vent'anni. Ne prendeva alcuni che faceva drogare facendoli
portare nel giardino che era come un giardino delle delizie, con
donzelle che cantavano e li sollazzavano a tal punto, che quei
ragazzi non volevano più andarsene. Poi, addormentati,
erano riportati nel castello e svegliandosi si meravigliavano
che le belle visioni fossero sparite. Il Vecchio li convinceva
che essi avevano visto il Paradiso, per cui non dovevano temere
la morte, perché morendo sarebbero andati a godere quelle
meraviglie. Per questo essi nel compiere le loro missioni la affrontavano
volentieri in quanto li aspettava il Paradiso!.
Questa leggenda s'inserisce nell'eterna lotta tra ismailiti e
sunniti e la leggenda sarebbe confermata dall'esistenza di alcuni
castelli ismailiti tra i quali famosi erano quelli di Masyaf e
Alamùt; il Vecchio abitava quest'ultimo che si trovava
su un altopiano assolutamente inaccessibile - pieno di verde e
di piante esotiche e, effettivamente doveva essere una specie
di paradiso terrestre. Di questo castello rimangono dei ruderi
e piante oramai inselvatichite tra le quali sono state trovate
delle viti da cui il Vecchio ricavava il vino che con l'hascisc
serviva a drogare i suoi ragazzi per compiere le missioni loro
affidate.
Marco Polo racconta anche che i Tartari adoravano un dio terreno,
Natigai di cui ciascun mongolo possedeva in casa un'immagine fatta
di panno di feltro. Il sacrificio a questo dio era fatto gettando
del brodo davanti alla porta di casa e dopo lo onoravano mangiando
e bevendo del latte di giumenta, ma conciato in modo da sembrare
vino bianco. Questa bevanda ci dice Marco Polo, era chiamata chemisi.
Gli Assiro-Babilonesi (4000 anni fa) nelle loro offerte facevano
uso sia di vino sia di birra
Essi ritenevano (come tutti gli altri popoli), che gli dei avessero
le stesse esigenze degli uomini e quindi offrivano a questi cibi
e bevande di vario genere. Praticavano riti magici con cui imitavano
ciò che volevano avvenisse, ad esempio, se volevano che
piovesse, imitavano la pioggia: vale a dire, su un vaso di terracotta
senza fondo ponevano foglie e frutta e sopra versavano una libagione,
il dio della pioggia era invogliato a ripetere lo stesso atto
e la libagione che egli avrebbe ricambiato era costituita dalla
pioggia.
In Cina, in epoca Chou (primo millennio a C.) nei sacrifici fatti
dall'imperatore a Shang-ti, tra le varie offerte (incenso, seta,
cartoncini con scritti) vi era anche il vino e il sangue di giovenca.
Nell'antico Perù si usava sempre spargere le vivande, come
la Chichia con foglie di coca nelle tombe e sull'ara e le libagioni
erano precedute (l'usanza dura tuttora) dalla particolare forma
di offerta (che si chiamava tinca), che si svolgeva introducendo
tre dita nella coppa da cui si beveva - con un movimento delle
dita - spruzzando le gocce della bevanda verso le montagne o dove
si credeva vi fosse lo spirito da propiziare.
Presso i Greci le libagioni si facevano nelle occasioni più
disparate, come quando stringevano patti. Famoso quello per il
duello tra Alessandro (Paride) e Menelao: gli araldi alteri portarono
i patti fidi degli dei; mescolarono il vino nel cratere versando
acqua sopra le mani del re
e l'Atride traendo fuori il coltello,
tagliò i peli delle teste degli agnelli
disse e tagliò
la gola agli agnelli e li depose a terra sussultanti, privi di
vita e con le coppe di vino dal cratere attingendo, lo gettavano
fuori, pregando gli dei sempiterni (Iliade)
I sacrifici agli dei avvenivano più o meno alla stessa
maniera, come racconta Omero. Si ornavano d'oro le corna di una
giovenca (perché gli dei godessero a vedere l'ornamento),
le si tagliavano i peli del collo che erano gettati sul fuoco
con chicchi d'orzo; dopo averla sgozzata, si tagliavano le cosce
che erano ricoperte di grasso; sul fuoco erano disposte le primizie,
poi versato il vino, poi, quando le cosce erano bruciate, i sacrificanti
mangiavano i visceri, e facendo il resto a pezzi li infilzavano
facendoli cuocere, dopodiché banchettavano (Odissea).
Nella Roma
arcaica le libagioni, contrariamente a quello che si può
pensare, si facevano col latte; ciò però non toglie
che l'uso sacrale del vino non fosse altrettanto antico. L'uso
del latte pare fosse determinato, in quell'epoca, dalla scarsezza
del vino. Romolo, infatti, libava col latte e Numa Pompilio (secondo
re di Roma 715-673) aveva stabilito con una legge di non cospargere
di vino il rogo. Con la stessa legge egli aveva dichiarato empie
le libagioni agli dei, fatte con vino di vite non potata, escogitando
così uno stratagemma per far potare le viti. Queste, infatti,
in alcune zone erano fatte arrampicare sui pioppi, per cui salivano
tanto in alto che i contratti con chi era ingaggiato per la vendemmia
prevedevano anche le spese del funerale e della sepoltura nel
caso di caduta e di morte!.
Proprio perché scarso, l'uso del vino era molto parco,
tanto che il comandante Papirio che si apprestava a combattere
contro i Sanniti, aveva fatto voto a Giove, in caso di vittoria,
dell'offerta di una piccola coppa di vino.
Alle donne, proprio per questa scarsità era proibito berne,
e l'apoteca (dispensa che normalmente era il locale situato nella
parte superiore della casa - stanza riscaldata e fumosa - dove
era tenuto il vino perché maturasse e diventasse bevibile),
era tenuta chiusa sotto chiave. In proposito Plinio ricorda che
una matrona romana, per aver aperto la cassetta che conteneva
le chiavi dell'apoteca, fu costretta dai parenti a morire d'inedia.
I parenti delle donne poi usavano dar loro il bacio (da qui l'usanza
del bacio per salutarsi) soltanto per verificare se sapessero
di temetum (l'antico nome del vino, da cui temulentia l'ubriachezza).
Anche la moglie di Egnazio Metennio, per aver bevuto del vino
di nascosto, fu uccisa a bastonate dal marito il quale, nel processo
per uxoricidio fu assolto da Romolo. E qualche secolo dopo (II
a. C.) il giudice Gneo Domizio aveva condannato all'ammenda della
dote una donna che all'insaputa del marito, aveva bevuto più
di quanto le esigenze di salute richiedessero.
La tradizione vuole che la lupa che aveva allattato Romolo e Remo
si riposasse sotto il ficus ruminalis così chiamato da
Rumina l'antica dea dei lattanti (rumis era il nome della mammella),
alla quale si facevano sacrifici col latte.
Gli Egizi normalmente bevevano birra, che Erodoto chiama vino di orzo, precisando che essi usavano questa bevanda perché nelle loro terre non esistevano viti. Erodoto ignorava che invece in Egitto si produceva il vino che era offerto con vivande ai sacerdoti. La testimonianza è data dal ritrovamento di affreschi, nella tomba di Nakt della XVIII dinastia (1420-1411) con riproduzione della vendemmia e nella tomba di Userhat, regno di Amenofi (1450-1425), con riproduzione della pigiatura e registrazione delle giare.
I sacrifici gli Egizi li facevano accendendo il fuoco e
versando il vino sulla vittima (normalmente si usavano bovini
o, in alcune occasioni, il maiale) uccidendola e invocando il
dio. Era poi tagliata la testa, sulla quale erano fatte imprecazioni.
Queste si eseguivano dicendo che i mali, che potevano ricadere
sui sacrificanti o sull'Egitto, dovevano ricadere su di essa (per
questo motivo gli egiziani non mangiavano mai la testa di alcun
animale). Alla fine del sacrificio, la testa era venduta ai mercanti
elleni (ai quali le maledizioni poco interessavano) o era buttata
nel fiume.
Come abbiamo detto gli animali normalmente sacrificati erano buoi
puri o vitelli, non le vacche che erano sacre a Iside. In alcune
zone dell'Egitto erano invece sacrificate capre, in altre pecore.
Il maiale invece era considerato animale impuro, tanto che se
un egiziano lo sfiorava, doveva immergersi nel fiume con tutte
le vesti per purificarsi. I porcari, poi, erano considerati intoccabili.
Non avevano accesso in alcun tempio e normalmente i matrimoni
avvenivano nella loro cerchia perché nessuno osava sposarne
le figlie.
Gli unici dei a cui venivano sacrificati i maiali, erano Selene e Dioniso e queste erano le sole occasioni in cui gli egiziani ne mangiavano le carni.
La stessa sorte dei porcari toccava, come si sa (dal famoso romanzo di Mika Waltari e film Sinhue l'egiziano), agli imbalsamatori di cadaveri, che vivevano tutta la loro esistenza nelle case dei morti (si sospettava che costoro si accoppiassero con i cadaveri di donne giovani, belle o importanti, per cui esse erano consegnate solo dopo tre-quattro giorni dalla morte).
Dioniso, per
eccellenza il dio del vino, contrariamente a quanto si crede,
era venerato anche in Egitto, anzi, secondo Erodoto, sarebbe stato
Melampo, figlio d'Amitaone a far conoscere ai greci il culto di
Dioniso e introdurre presso gli stessi il rituale della processione
del fallo in onore del dio. Alla vigilia della festa, ogni
sacrificante uccideva un porcellino davanti alla porta di casa
e lo restituiva poi al porcaro che glielo aveva venduto. La festa,
racconta Erodoto, era celebrata alla stessa maniera di quella
dei Greci. A differenza di questi però, che portavano in
processione i falli, gli Egiziani portavano delle statue alte
un cubito (52 cm.) che erano portate attorno ai villaggi da donne.
La processione era preceduta da un flautista seguito da donne
che cantavano in onore di Dioniso.
Tra le varie festività che si celebravano in Egitto, la
più celebre era quella di Bubasti, in onore di Artemide,
dove gli egiziani si recavano in gran numero su imbarcazioni (Erodoto
parla di 700mila partecipanti, però i numeri indicati dagli
storici erano approssimativi per eccesso). Durante la navigazione,
le donne suonavano i crotali, gli uomini il flauto, e altri cantavano
e ritmavano battendo le mani. Passando dalle varie città,
le imbarcazioni attraccavano e le donne schernivano quelle della
città, mostrando loro il sedere. Giunti a Bubasti, si facevano
grandi sacrifici e si consumavano grandi quantità di vino
d'uva.
Nella religione
ebraica, le libagioni erano fatte con vino di pura uva, versando
il vino alla base dell'altare e con offerta dell'agnello (che
doveva essere di un anno ed esente da imperfezioni fisiche) oppure
con fior di farina intrisa di olio vergine.
Nell'abdalà, la particolare cerimonia familiare che segna
il passaggio dal giorno sacro (sabato) a quello feriale, la libagione
è fatta con una coppa di vino puro, accompagnata da un
recipiente contenente spezie profumate o rametti di albero o arbusto
odoroso (mirto, rosmarino) e delle fiammelle luminose e si pronunciano
benedizioni a Dio Creatore del frutto della vite, degli aromi
e delle sorgenti luminose.
Per la cerimonia del sabato, il pasto è preparato nel pomeriggio
del venerdì, poco prima del tramonto, disponendo sulla
tavola due pani interi e vino di pura uva; il capo famiglia, o
chi per lui, solleva il calice del vino nel momento del Kiddush,
all'altezza del petto, e dopo aver recitato le benedizioni, beve
un sorso porgendo il calice agli altri.
La stessa bevanda è spruzzata e bevuta nella Pasqua di
azzime, quando gli Ebrei festeggiano e ricordano l'Esodo (l'uscita
dall'Egitto degli antenati tenuti in schiavitù dal Faraone).
Per la cena pasquale si prepara la mensa in maniera particolare.
Oltre alle candele accese, davanti al posto del capofamiglia,
si trovano il sedano, dell'insalata amara, aceto o acqua salata,
un uovo sodo, uno zampino di agnello e un impasto di frutta secca
triturata e amalgamata con il vino, oltre a tre pezzi di pane
azzimo (la cerimonia è chiamata sèder). Ogni commensale
ha davanti a sé un bicchiere di vino che sarà bevuto
successivamente e sarà riempito solo quattro volte.
La cerimonia, come si è detto, ricorda l'Esodo, vale a
dire la liberazione dalla schiavitù egiziana; le azzime
sono un ricordo del pane della afflizione che avevano mangiato
i padri (durante la fuga non c'era tempo per far lievitare il
pane, da ciò il rito dell'azzima). Il primo bicchiere si
beve alla benedizione d'apertura, dopo aver benedetto il Creatore
del frutto della vite, ricordando i precetti ebraici e l'uscita
dall'Egitto; si lavano le mani, si prende un pezzo di appio (sedano),
si intinge nell'aceto o nell'acqua salata e si mangia dopo aver
benedetto Dio che ha creato i frutti della terra distinti dagli
alberi.
Dopo aver spezzato una delle tre azzime, ha inizio la narrazione
della fuga, poi si versa il secondo bicchiere, segue la fase delle
domande da parte dei figli sul significato delle cerimonie che
si stanno svolgendo. In questa occasione si spruzza con le dita
il vino per scacciare i mali che punirono gli oppressori. Si beve
il secondo bicchiere, si mangiano poi pezzetti di azzima, l'erba
amara (in ricordo della antica schiavitù) che è
intinta nel dolce impasto di frutta (in ricordo dell'antica liberazione;
l'impasto ricorda anche la calce e i mattoni con cui gli Ebrei
lavoravano in Egitto). Si mangia ancora un piccolo pezzo di azzima
e si bevono infine gli altri due bicchieri e, fino al giorno successivo
non si può mangiare altro.
Nella liturgia cristiana è ben noto l'uso simbolico del
vino dell'ultima cena di Cristo.
Vogliamo ricordare però le poco conosciute libagioni che
i paleocristiani facevano ai defunti nella ricorrenza della morte
che per loro era invece dies natalis, della nascita vale a dire
della nuova vita. Durante i banchetti funebri che si svolgevano
nelle catacombe, si brindava con vino riscaldato che, in sintonia
con l'usanza dei tempi, era allungato con l'acqua, in onore del
defunto per il quale era lasciato un posto libero ed imbandito.
Queste le usanze nell'uso del vino, nel mito, nella storia e nelle
religioni. Esse in ogni caso hanno sempre rispecchiato le abitudini
stesse delle popolazioni a seconda che fossero di guerrieri, di
pastori o agricoltori e che da cruente, come è stato nelle
cerimonie sacrificali agli albori della civiltà, erano
diventate non cruente, fino a trasformarsi, in epoche più
recenti, in simboliche.