IL VINO

STORIA - MITI - RELIGIONI

 

MICHELE DUCAS PUGLIA

 

 

PARTE SECONDA 

 

LE LIBAGIONI SACRIFICALI

La libagione è una forma di sacrificio diffusa nelle religioni primitive. Consisteva nel versare vino o altre bevande sull'altare, sul fuoco o sulle vittime da sacrificare oppure bevendo dopo aver invocato la divinità (libamen era il liquido versato goccia a goccia). Presso i romani libamina erano le offerte sacrificali e aspersioni fatte con acqua ,vino, latte, miele ecc.. Nell'antica Grecia si praticava anche per sancire tregue o alleanze, bevendo vino misto ad acqua.
Le origini di questa forma di sacrificio si fanno risalire, in base a ritrovamenti, all'età del Bronzo, ma essa era sicuramente precedente (abbiamo visto quelle dei Sumeri). Andando ad epoche più recenti (2000 a. C), vediamo che in Oriente era praticata con recipienti detti situle che assumevano varie forme in base alle libagioni cui erano destinati; ad esempio, in Egitto e Mesopotamia per libagioni con il latte le coppe avevano la forma di mammella.
I Celti, quando uccidevano i propri nemici, usavano conservare il cranio che ricoprivano d'oro, per servirsene nelle loro libagioni rituali. Le antiche leggende germaniche, raccontano che i guerrieri che morivano in battaglia, quando giungevano nel Valhalla-aldilà, banchettavano con le carni di cinghiale soehrimnir (che non si esauriva mai) e con l'idromele attinto dalla capra heidrhrun, serviti dalle bellissime valchirie che avevano il compito di tenere le coppe sempre piene di birra spumeggiante.
Presso gli Slavi del litorale baltico, si usava sacrificare alla divinità (Svantovit), i buoi o i montoni (quei popoli praticavano anche il sacrificio umano) ed il sacerdote chiudeva il rito libando con sangue delle vittime, seguito dal festino al quale partecipavano tutti i fedeli.
I sacrifici dei persiani del periodo achemenide (da Achamanisch 700 a C.) si svolgevano nella maniera più semplice. Erodoto racconta che i sacrifici li facevano senza altari e senza accendere fuochi, non usavano libagioni, flauti, corone o focacce, ma andavano in un luogo puro, portandovi una bestia e invocando il dio al quale volevano sacrificare. Chi faceva sacrifici non poteva chiedere benefici per se solo ma chiedeva la prosperità per tutti i persiani e per il re. Sempre Erodoto riferisce una strana usanza dei persiani i quali pare fossero grandi bevitori: usavano prendere le loro decisioni dopo essersi ubriacati; ciò che decidevano in queste condizioni era riesaminato il giorno dopo quando erano sobri. Se erano soddisfatti della decisione la eseguivano, altrimenti, d'accordo, la lasciavano perdere. Se invece avevano preso qualche decisione da sobri, si ubriacavano e ci pensavano su!.
Tra i persiani la libagione fu successivamente introdotta nel culto parsi (riservata ai soli zoroastriani) e fatta esclusivamente con haoma; questa era una bevanda inebriante ricavata dalla pianta hom, considerata sacra (ad essa però Zaratustra era contrario).

A proposito di bevande inebrianti è da ricordare la famosa leggenda (XII sec.) del Vecchio della montagna (raccontata da Marco Polo nel Milione), il quale mandava i suoi adepti (hasciscin-assassini, coloro che fumavano hascish) che sotto l'effetto della droga, eseguivano i delitti commissionati dal Vecchio, facendosi ammazzare o ammazzandosi se non erano in grado di tornare al loro signore.
Il Vecchio li addestrava in modo singolare. Egli, infatti, presso la sua corte aveva giovani audaci e disposti alle armi, dai dodici ai vent'anni. Ne prendeva alcuni che faceva drogare facendoli portare nel giardino che era come un giardino delle delizie, con donzelle che cantavano e li sollazzavano a tal punto, che quei ragazzi non volevano più andarsene. Poi, addormentati, erano riportati nel castello e svegliandosi si meravigliavano che le belle visioni fossero sparite. Il Vecchio li convinceva che essi avevano visto il Paradiso, per cui non dovevano temere la morte, perché morendo sarebbero andati a godere quelle meraviglie. Per questo essi nel compiere le loro missioni la affrontavano volentieri in quanto li aspettava il Paradiso!.
Questa leggenda s'inserisce nell'eterna lotta tra ismailiti e sunniti e la leggenda sarebbe confermata dall'esistenza di alcuni castelli ismailiti tra i quali famosi erano quelli di Masyaf e Alamùt; il Vecchio abitava quest'ultimo che si trovava su un altopiano assolutamente inaccessibile - pieno di verde e di piante esotiche e, effettivamente doveva essere una specie di paradiso terrestre. Di questo castello rimangono dei ruderi e piante oramai inselvatichite tra le quali sono state trovate delle viti da cui il Vecchio ricavava il vino che con l'hascisc serviva a drogare i suoi ragazzi per compiere le missioni loro affidate.
Marco Polo racconta anche che i Tartari adoravano un dio terreno, Natigai di cui ciascun mongolo possedeva in casa un'immagine fatta di panno di feltro. Il sacrificio a questo dio era fatto gettando del brodo davanti alla porta di casa e dopo lo onoravano mangiando e bevendo del latte di giumenta, ma conciato in modo da sembrare vino bianco. Questa bevanda ci dice Marco Polo, era chiamata chemisi.
Gli Assiro-Babilonesi (4000 anni fa) nelle loro offerte facevano uso sia di vino sia di birra
Essi ritenevano (come tutti gli altri popoli), che gli dei avessero le stesse esigenze degli uomini e quindi offrivano a questi cibi e bevande di vario genere. Praticavano riti magici con cui imitavano ciò che volevano avvenisse, ad esempio, se volevano che piovesse, imitavano la pioggia: vale a dire, su un vaso di terracotta senza fondo ponevano foglie e frutta e sopra versavano una libagione, il dio della pioggia era invogliato a ripetere lo stesso atto e la libagione che egli avrebbe ricambiato era costituita dalla pioggia.
In Cina, in epoca Chou (primo millennio a C.) nei sacrifici fatti dall'imperatore a Shang-ti, tra le varie offerte (incenso, seta, cartoncini con scritti) vi era anche il vino e il sangue di giovenca.
Nell'antico Perù si usava sempre spargere le vivande, come la Chichia con foglie di coca nelle tombe e sull'ara e le libagioni erano precedute (l'usanza dura tuttora) dalla particolare forma di offerta (che si chiamava tinca), che si svolgeva introducendo tre dita nella coppa da cui si beveva - con un movimento delle dita - spruzzando le gocce della bevanda verso le montagne o dove si credeva vi fosse lo spirito da propiziare.
Presso i Greci le libagioni si facevano nelle occasioni più disparate, come quando stringevano patti. Famoso quello per il duello tra Alessandro (Paride) e Menelao: gli araldi alteri portarono i patti fidi degli dei; mescolarono il vino nel cratere versando acqua sopra le mani del re…e l'Atride traendo fuori il coltello, tagliò i peli delle teste degli agnelli…disse e tagliò la gola agli agnelli e li depose a terra sussultanti, privi di vita e con le coppe di vino dal cratere attingendo, lo gettavano fuori, pregando gli dei sempiterni (Iliade)
I sacrifici agli dei avvenivano più o meno alla stessa maniera, come racconta Omero. Si ornavano d'oro le corna di una giovenca (perché gli dei godessero a vedere l'ornamento), le si tagliavano i peli del collo che erano gettati sul fuoco con chicchi d'orzo; dopo averla sgozzata, si tagliavano le cosce che erano ricoperte di grasso; sul fuoco erano disposte le primizie, poi versato il vino, poi, quando le cosce erano bruciate, i sacrificanti mangiavano i visceri, e facendo il resto a pezzi li infilzavano facendoli cuocere, dopodiché banchettavano (Odissea).

 

LA LEGGE DI NUMA POMPILIO

Nella Roma arcaica le libagioni, contrariamente a quello che si può pensare, si facevano col latte; ciò però non toglie che l'uso sacrale del vino non fosse altrettanto antico. L'uso del latte pare fosse determinato, in quell'epoca, dalla scarsezza del vino. Romolo, infatti, libava col latte e Numa Pompilio (secondo re di Roma 715-673) aveva stabilito con una legge di non cospargere di vino il rogo. Con la stessa legge egli aveva dichiarato empie le libagioni agli dei, fatte con vino di vite non potata, escogitando così uno stratagemma per far potare le viti. Queste, infatti, in alcune zone erano fatte arrampicare sui pioppi, per cui salivano tanto in alto che i contratti con chi era ingaggiato per la vendemmia prevedevano anche le spese del funerale e della sepoltura nel caso di caduta e di morte!.
Proprio perché scarso, l'uso del vino era molto parco, tanto che il comandante Papirio che si apprestava a combattere contro i Sanniti, aveva fatto voto a Giove, in caso di vittoria, dell'offerta di una piccola coppa di vino.
Alle donne, proprio per questa scarsità era proibito berne, e l'apoteca (dispensa che normalmente era il locale situato nella parte superiore della casa - stanza riscaldata e fumosa - dove era tenuto il vino perché maturasse e diventasse bevibile), era tenuta chiusa sotto chiave. In proposito Plinio ricorda che una matrona romana, per aver aperto la cassetta che conteneva le chiavi dell'apoteca, fu costretta dai parenti a morire d'inedia. I parenti delle donne poi usavano dar loro il bacio (da qui l'usanza del bacio per salutarsi) soltanto per verificare se sapessero di temetum (l'antico nome del vino, da cui temulentia l'ubriachezza). Anche la moglie di Egnazio Metennio, per aver bevuto del vino di nascosto, fu uccisa a bastonate dal marito il quale, nel processo per uxoricidio fu assolto da Romolo. E qualche secolo dopo (II a. C.) il giudice Gneo Domizio aveva condannato all'ammenda della dote una donna che all'insaputa del marito, aveva bevuto più di quanto le esigenze di salute richiedessero.
La tradizione vuole che la lupa che aveva allattato Romolo e Remo si riposasse sotto il ficus ruminalis così chiamato da Rumina l'antica dea dei lattanti (rumis era il nome della mammella), alla quale si facevano sacrifici col latte.

 

IL VINO IN EGITTO

Gli Egizi normalmente bevevano birra, che Erodoto chiama vino di orzo, precisando che essi usavano questa bevanda perché nelle loro terre non esistevano viti. Erodoto ignorava che invece in Egitto si produceva il vino che era offerto con vivande ai sacerdoti. La testimonianza è data dal ritrovamento di affreschi, nella tomba di Nakt della XVIII dinastia (1420-1411) con riproduzione della vendemmia e nella tomba di Userhat, regno di Amenofi (1450-1425), con riproduzione della pigiatura e registrazione delle giare.

I sacrifici gli Egizi li facevano accendendo il fuoco e versando il vino sulla vittima (normalmente si usavano bovini o, in alcune occasioni, il maiale) uccidendola e invocando il dio. Era poi tagliata la testa, sulla quale erano fatte imprecazioni. Queste si eseguivano dicendo che i mali, che potevano ricadere sui sacrificanti o sull'Egitto, dovevano ricadere su di essa (per questo motivo gli egiziani non mangiavano mai la testa di alcun animale). Alla fine del sacrificio, la testa era venduta ai mercanti elleni (ai quali le maledizioni poco interessavano) o era buttata nel fiume.
Come abbiamo detto gli animali normalmente sacrificati erano buoi puri o vitelli, non le vacche che erano sacre a Iside. In alcune zone dell'Egitto erano invece sacrificate capre, in altre pecore. Il maiale invece era considerato animale impuro, tanto che se un egiziano lo sfiorava, doveva immergersi nel fiume con tutte le vesti per purificarsi. I porcari, poi, erano considerati intoccabili. Non avevano accesso in alcun tempio e normalmente i matrimoni avvenivano nella loro cerchia perché nessuno osava sposarne le figlie.

Gli unici dei a cui venivano sacrificati i maiali, erano Selene e Dioniso e queste erano le sole occasioni in cui gli egiziani ne mangiavano le carni.

La stessa sorte dei porcari toccava, come si sa (dal famoso romanzo di Mika Waltari e film Sinhue l'egiziano), agli imbalsamatori di cadaveri, che vivevano tutta la loro esistenza nelle case dei morti (si sospettava che costoro si accoppiassero con i cadaveri di donne giovani, belle o importanti, per cui esse erano consegnate solo dopo tre-quattro giorni dalla morte).

 

LA FESTA DI BUBASTI

Dioniso, per eccellenza il dio del vino, contrariamente a quanto si crede, era venerato anche in Egitto, anzi, secondo Erodoto, sarebbe stato Melampo, figlio d'Amitaone a far conoscere ai greci il culto di Dioniso e introdurre presso gli stessi il rituale della processione del fallo in onore del dio. Alla vigilia della festa, ogni sacrificante uccideva un porcellino davanti alla porta di casa e lo restituiva poi al porcaro che glielo aveva venduto. La festa, racconta Erodoto, era celebrata alla stessa maniera di quella dei Greci. A differenza di questi però, che portavano in processione i falli, gli Egiziani portavano delle statue alte un cubito (52 cm.) che erano portate attorno ai villaggi da donne. La processione era preceduta da un flautista seguito da donne che cantavano in onore di Dioniso.
Tra le varie festività che si celebravano in Egitto, la più celebre era quella di Bubasti, in onore di Artemide, dove gli egiziani si recavano in gran numero su imbarcazioni (Erodoto parla di 700mila partecipanti, però i numeri indicati dagli storici erano approssimativi per eccesso). Durante la navigazione, le donne suonavano i crotali, gli uomini il flauto, e altri cantavano e ritmavano battendo le mani. Passando dalle varie città, le imbarcazioni attraccavano e le donne schernivano quelle della città, mostrando loro il sedere. Giunti a Bubasti, si facevano grandi sacrifici e si consumavano grandi quantità di vino d'uva.

 

L'ABDALA'

Nella religione ebraica, le libagioni erano fatte con vino di pura uva, versando il vino alla base dell'altare e con offerta dell'agnello (che doveva essere di un anno ed esente da imperfezioni fisiche) oppure con fior di farina intrisa di olio vergine.
Nell'abdalà, la particolare cerimonia familiare che segna il passaggio dal giorno sacro (sabato) a quello feriale, la libagione è fatta con una coppa di vino puro, accompagnata da un recipiente contenente spezie profumate o rametti di albero o arbusto odoroso (mirto, rosmarino) e delle fiammelle luminose e si pronunciano benedizioni a Dio Creatore del frutto della vite, degli aromi e delle sorgenti luminose.
Per la cerimonia del sabato, il pasto è preparato nel pomeriggio del venerdì, poco prima del tramonto, disponendo sulla tavola due pani interi e vino di pura uva; il capo famiglia, o chi per lui, solleva il calice del vino nel momento del Kiddush, all'altezza del petto, e dopo aver recitato le benedizioni, beve un sorso porgendo il calice agli altri.
La stessa bevanda è spruzzata e bevuta nella Pasqua di azzime, quando gli Ebrei festeggiano e ricordano l'Esodo (l'uscita dall'Egitto degli antenati tenuti in schiavitù dal Faraone).
Per la cena pasquale si prepara la mensa in maniera particolare. Oltre alle candele accese, davanti al posto del capofamiglia, si trovano il sedano, dell'insalata amara, aceto o acqua salata, un uovo sodo, uno zampino di agnello e un impasto di frutta secca triturata e amalgamata con il vino, oltre a tre pezzi di pane azzimo (la cerimonia è chiamata sèder). Ogni commensale ha davanti a sé un bicchiere di vino che sarà bevuto successivamente e sarà riempito solo quattro volte.
La cerimonia, come si è detto, ricorda l'Esodo, vale a dire la liberazione dalla schiavitù egiziana; le azzime sono un ricordo del pane della afflizione che avevano mangiato i padri (durante la fuga non c'era tempo per far lievitare il pane, da ciò il rito dell'azzima). Il primo bicchiere si beve alla benedizione d'apertura, dopo aver benedetto il Creatore del frutto della vite, ricordando i precetti ebraici e l'uscita dall'Egitto; si lavano le mani, si prende un pezzo di appio (sedano), si intinge nell'aceto o nell'acqua salata e si mangia dopo aver benedetto Dio che ha creato i frutti della terra distinti dagli alberi.

Dopo aver spezzato una delle tre azzime, ha inizio la narrazione della fuga, poi si versa il secondo bicchiere, segue la fase delle domande da parte dei figli sul significato delle cerimonie che si stanno svolgendo. In questa occasione si spruzza con le dita il vino per scacciare i mali che punirono gli oppressori. Si beve il secondo bicchiere, si mangiano poi pezzetti di azzima, l'erba amara (in ricordo della antica schiavitù) che è intinta nel dolce impasto di frutta (in ricordo dell'antica liberazione; l'impasto ricorda anche la calce e i mattoni con cui gli Ebrei lavoravano in Egitto). Si mangia ancora un piccolo pezzo di azzima e si bevono infine gli altri due bicchieri e, fino al giorno successivo non si può mangiare altro.
Nella liturgia cristiana è ben noto l'uso simbolico del vino dell'ultima cena di Cristo.
Vogliamo ricordare però le poco conosciute libagioni che i paleocristiani facevano ai defunti nella ricorrenza della morte che per loro era invece dies natalis, della nascita vale a dire della nuova vita. Durante i banchetti funebri che si svolgevano nelle catacombe, si brindava con vino riscaldato che, in sintonia con l'usanza dei tempi, era allungato con l'acqua, in onore del defunto per il quale era lasciato un posto libero ed imbandito.
Queste le usanze nell'uso del vino, nel mito, nella storia e nelle religioni. Esse in ogni caso hanno sempre rispecchiato le abitudini stesse delle popolazioni a seconda che fossero di guerrieri, di pastori o agricoltori e che da cruente, come è stato nelle cerimonie sacrificali agli albori della civiltà, erano diventate non cruente, fino a trasformarsi, in epoche più recenti, in simboliche.

 

FINE

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