a cura di Michele Puglia
E' uno <status>
dovuto non tanto alla <grazia di Dio>, come si diceva e
si credeva un tempo, ma all'intraprendenza di un antenato che,
anche se d'umili origini, per meriti personali, riusciva a raggiungere
un livello sociale così alto da poter avere il privilegio
di essere insignito di un titolo nobiliare (v. Titoli e predicati
nobiliari). Secondo il volere del monarca, il titolo poteva essere
dato anche a chi non aveva genitori, o nonni, o in ogni caso antenati
illustri.
Basti pensare che Carlomagno, quando si rendeva conto di potersi
fidare di qualcuno, anche se questo non era nobile di nascita,
lo nominava conte
con le rimostranze d'Adalberone vescovo
di Laon, il quale lamentava che <gente meschina fosse salita
per merito delle alte cariche fino alla somma nobiltà>.
Altro esempio può esser dato da Luigi XIV, il re Sole,
il quale alle sue molteplici amanti (la Maintenon era povera e
viveva in una stanza della parrocchia di Saint-Eustache, quando
fu aiutata a salire la scala sociale, dai numerosi e ricchi amanti)
concedeva titoli nobiliari, trasmissibili ai figli (v. Favorite
e amanti del Re Sole e di Luigi XV).
Madame de Staal (1), dopo essere stata cameriera della duchessa
del Maine (era uscita però da un convento con un'istruzione
superiore) era diventata baronessa a seguito di matrimonio. La
duchessa dovendo recarsi dal re, nonostante la de Staal fosse
ora baronessa, non l'aveva presa sulla sua carrozza, ma l' aveva
fatta salire su un' altra. M.me de Staal, riferendo il particolare,
aveva commentato:<il sacramento del matrimonio a differenza
di quello del battesimo, non cancella il peccato originale>
(vale a dire le origini!).
In un documento del 1700 si ricordava l'origine delle grandi famiglie
della nobiltà francese, come i duchi di Crussol, che discendevano
da uno speziale; i Bethune, da un avventuriero; i Wignerot da
un domestico, che suonava il liuto presso il cardinale di Fleury;
i duchi di Saint Simon da uno scudiero di Madame de Schoemberg;
i duchi de La Rochefoucolt, da un Jean le Vert, macellaio; i Villeroy
da una pescivendola; i duchi di Noailles da un valletto del visconte
di Turenne; i d'Ancourt e i d'Epernon rispettivamente da un bastardo
del vescovo di Bayeux e da un canonico di Leytour; lo stesso Ugo
Capeto si diceva fosse figlio di un macellaio di Parigi.
Nelle varie epoche monarchiche, la nobiltà era tenuta sotto
controllo, perché il nobile si doveva distinguere dagli
altri non solo per il titolo e la ricchezza (che poteva anche
mancare) ma per il comportamento decoroso, che doveva essere conforme
al titolo. Dallo stato di nobile si poteva decadere, se a seguito
di controlli si accertava che il titolo non era portato con l'adeguata
dignità. Proprio la dignità non consentiva di svolgere
attività che non fossero adeguate a quello <status>.
La nobiltà va distinta in due categorie: quella feudale,
che era collegata ai feudi avuti dal sovrano con il titolo e quella
patrizia, cioè cittadina, come i Medici a Firenze.
I nobili, mentre potevano coltivare la terra (alcuni più
poveri facevano i contadini), non potevano esercitare arti vili
e abiette o attività mercantile. Su quest'ultima attività
è da dire che almeno in Italia era consentita, p.es. a
Venezia, dove i nobili esercitavano attività mercantile,
ma questa era d'alto livello, tanto da potersi considerare commercio
internazionale.
Abbiamo detto che dalla nobiltà si poteva decadere, se
non si aveva la possibilità di mantenere un adeguato tenore
di vita, finendo nella borghesia (v. in Zibaldino).
La nobiltà si misura in quarti, vale a dire risalendo ai
nonni che sono quattro, se costoro sono tutti e quattro nobili
i nipoti avranno i quattro quarti, altrimenti il numero scende.
Se p.es. dei quattro nonni due o tre o uno sono nobili, si hanno
uno, due o tre quarti. E' il caso d'Emanuele Filiberto di Savoia,
figlio di Vittorio Emanuele e di Marina Doria, che è d'origine
borghese: Emanuele Filiberto ha i soli quarti del padre e quindi
ha solo due quarti di nobiltà.
Risalendo alle generazioni precedenti, si passa ai bisavi che
sono otto, e quindi si hanno i quattro ottavi, o secondo l'esempio
precedente due ottavi; i trisavi sedici, e quindi due o quattro
sedicesimi e, ancora più su, trentadue, ecc.. Risalendo
ancora, il numero raddoppia progressivamente fino a diventare
un esercito (per averne un'idea, a Vienna al Castello di Schoembrunn
è esposto l'albero genealogico degli Asburgo: non è
un albero, ma una selva! Basta dare un'occhiata alla Rubrica "Genealogie"
in questa Rivista).
Sull'argomento
regna una gran confusione, un po' per ignoranza è un po'
perché si approfitta della mancanza di un organo di controllo
che, in periodo di monarchia, era la Consulta Araldica.
La Costituzione italiana ha abolito i titoli nobiliari e quindi
lo Stato italiano non li riconosce, ma proprio per questo molti
se ne approfittano, nobili compresi, dai quali molto spesso il
titolo è usato impropriamente, nel senso che, in un gruppo
familiare, sia i maschi sia le femmine usano lo stesso titolo
che invece può essere usato solo dal primogenito maschio,
che ha lo ha ereditato dal padre.
Vediamo come vanno le cose. Per il titolo nobiliare, (più
avanti vedremo quali sono), è sempre valso il principio
(medievale) del maggiorasco, cioè del figlio primogenito
che ereditava feudo e titolo ed era obbligato a mantenere i fratelli.
Erano quindi esclusi dall'eredità gli altri figli maschi
(cadetti), che generalmente se n'andavano in cerca di <ventura>
o abbracciavano la carriera ecclesiastica. Erano escluse dall'eredità
anche le figlie femmine, alle quali si assegnava una dote per
il matrimonio, che però non intaccava il patrimonio immobiliare
che spettava al primogenito. Spesso però le donne erano
mandate, con la dote in danaro, nei conventi che andavano a dirigere
come badesse... ovviamente quelle che non <sentivano la vocazione>
si prendevano tutte le libertà di cui si è andata
ad arricchire la letteratura libertina.
Presso le
famiglie titolate (e ne fa uso Stampa e TV) è invalsa l'abitudine
di chiamare tutti i figli, indistintamente (maschi e femmine)
con il diminutivo del titolo paterno, quindi <marchesini e
marchesine, contini e contessine, baroncini e baronessine>
(Verga in "Mastro don Gesualdo" chiama, o fa chiamare,
il figlio del barone Rubiera <baronello>!).
Questo sistema è assolutamente fuori delle regole, oltre
che rasentare il ridicolo. Al limite, potrà valere per
la servitù ma, per norma nobiliare, quei diminutivi non
esistono.
Quell'uso porta agli abusi, nel senso che tutti poi, da grandi,
sono chiamati (e si fanno chiamare), indistintamente, maschi e
femmine, con il titolo paterno, che, ripetiamo, non spetta. Abbiamo
visto, infatti, che è il solo figlio primogenito (o l'unico
maschio non primogenito, se primogenita è stata una femmina)
ad ereditare il titolo paterno, ma questo può avvenire
solo alla morte del padre. Quindi, in una famiglia nobiliare titolata,
il titolo di <marchese, conte o barone> spetta solo al padre
e madre viventi ...tutti i figli non possono usare il titolo,
ma possono soltanto <indicare> di appartenere alla famiglia
<dei conti o dei marchesi di>, ecc. .
In un cimitero
(che evitiamo di indicare!) - reparto nobili! - si trovano una
serie di lapidi che indicano tutte le nobili defunte, non solo
con i titoli acquisiti con i matrimoni, ma con i titoli paterni
che loro non spettavano, del tipo: contessa tal dei tali, nata
marchesa tal' altra (con il caso della figlia di un marchese,
che pur avendo sposato un conte, contro ogni regola, anche in
vita si faceva chiamare marchesa!). Oppure, baronessa tal dei
tali, nata contessa tal' altra.
E' tutta una mistificazione, perché le nobili defunte non
potevano fregiarsi (o essere state fregiate sulle lapidi) di titoli
paterni che a loro non spettavano! Purtroppo le mistificazioni,
oltre che tra i morti, sono generalizzate anche tra i vivi. Un
principe romano, durante una trasmissione televisiva, si era lamentato
di un suo cugino che avendo lo stesso cognome, usava anche lui
il titolo di <principe> che non gli spettava e non poteva
usare.
Facciamo ora,
per essere ancora più chiari, un esempio pratico. Prendiamo
un <conte Camillo Benso di Cavour> (Benso è il cognome,
Cavour è il predicato, nome del feudo); e ammettiamo che
questi abbia avuto due figli maschi, che chiamiamo Massimiliano
e Rodolfo e due femmine, Elena e Ginevra. Il titolo di conte,
alla morte del padre, è assunto solo dal primogenito, Massimiliano,
che diventerà conte Benso di Cavour, mentre gli altri,
sia Rodolfo sia Elena e Ginevra, non potranno utilizzarlo, ma
potranno utilizzare il predicato. Si chiamerebbero semplicemente
Rodolfo o Elena o Ginevra Benso di Cavour, e potranno indicare
di essere nobili, e quindi usare l' N.H., Nobil Homo o l' N.D.,
Nobil Donna, (di cui se ne fa grande abuso nel Sud negli annunci
funebri). Costoro potranno usare lo stemma e la corona comitale
paterna, ma il titolo, ripetiamo, spetta solo al primogenito.
In Inghilterra, dove non si fanno confusioni, e non si gioca sui
fraintesi, è invalso l'uso di indicare il titolo nobiliare
con il numero delle generazioni che, risalendo alla prima, hanno
usufruito del titolo. P.es.: tredicesimo duca di Bedford, o quindicesimo
duca di Norfolk; vuol dire che il titolo risale a tredici, o quindici
generazioni precedenti. Calcolando tre generazioni per secolo,
dà come risultato che il titolo è stato concesso
quattrocento anni prima al duca di Bedford e cinquecento al duca
di Norfolk, anno più, anno meno!
Vi è
stato un solo caso in cui il titolo era stato concesso singolarmente
e contemporaneamente a ciascuno dei cinque figli maschi. Erano
i cinque figli di Mayer Amshel Rothschild (1743-1812), il fondatore
della dinastia.
A seguito delle guerre napoleoniche, l'imperatore d'Austria, Francesco
I, aveva bisogno d'anticipazioni sulle indennità che doveva
avere dalla Francia. I Rothschild fecero il prestito e in cambio
ebbero il titolo di baroni (l'imperatore voleva concederlo solo
al primogenito, ma il vecchio Rothscild lo pretese per tutti).
La concessione del titolo però non fu tanto semplice. Era
il periodo in cui gli ebrei erano tenuti relegati nei ghetti ed
erano soggetti a discriminazioni, anche se straricchi.
Di Amshel era stato detto <è uno dei banchieri più
facoltosi d'Europa e non ha che un problema: quello d'essere ebreo>.
L'imperatore, in considerazione del fatto che sarebbero sorte
delle gelosie da parte di banchieri cristiani, aveva messo la
questione nelle mani del principe di Metternich, il quale, valutate
le circostanze sul ruolo preponderante che avevano i fratelli
nei finanziamenti, vitali per l'Austria, dette parere favorevole
(1).
La Costituzione
italiana non riconosce i titoli nobiliari, ma ha consentito che
i predicati (cioè il <di Cavour> dell'esempio precedente)
concessi prima del 1922, andassero a formare parte integrante
del cognome, perciò all'anagrafe deve risultare per tutti
i componenti della famiglia, accanto al cognome <Benso>
il predicato <di Cavour>. Il titolo comitale invece nei
registri anagrafici non risulta.
Le donne, riguardo ai titoli nobiliari, come è stato detto,
non hanno alcun diritto all'uso del titolo paterno. Esse possono
usare solo il predicato, che diventa parte integrante del cognome.
In caso di matrimonio con un nobile, esse assumono il titolo del
marito, ma non potranno mai presentarsi con il titolo paterno
(come abbiamo visto per le lapidi cimiteriali).
Ricordiamo un aneddoto raccontato dal Duca di Bedford (autore
de <Il libro degli snob> citato alla v. Snob). Dunque, il
nonno aveva chiamato un'arredatrice per far fare qualche cambiamento
al castello. Questa aveva notato che nella galleria dei ritratti,
vi erano solo tutti i duchi; mancavano le duchesse. L'arredatrice
suggerì di fare una galleria delle duchesse. <Ma mia
cara>, rispose il vecchio duca, <le duchesse non fanno parte
della famiglia!>.
Abbiamo indicato la data 1922 per i titoli che erano concessi
con predicato. Successivamente a tale data, cioè quando
Mussolini volle gratificare i capitani d'industria con il titolo
nobiliare e fino all'esilio del re Umberto II, i titoli erano
rilasciati senza predicato.
Tutti quelli concessi dall'ex re dal momento dell'esilio (non
risulta che ne abbia concessi nel periodo dei quarantacinque giorni
di regno), dai conti di Ciampino in poi, sono da ritenere abusivi
perché rilasciati da ex regnante. Qualcuno potrebbe sostenere
la loro validità per diritto feudale... la tesi è
assolutamente insostenibile!
Si racconta
che Umberto di Savoia, quando si era recato a Ciampino, da cui
stava partendo per l'esilio, era stato accompagnato da un codazzo
di cortigiani, tra i quali si trovavano quelli che avevano richiesto
un titolo nobiliare.
Nella confusione e frastuono delle eliche, l'ex re si stava raccomandando
con il Segretario (contabile) della casa, oramai, ex reale <di
far bene tutti i conti>. Il riferimento era evidentemente per
le spese che erano state sostenute nei giorni precedenti al referendum.
Questa sua raccomandazione però era stata fraintesa e si
era ritenuto invece che per gratitudine nei confronti di quei
fedeli, l'ex re avesse voluto riconoscere loro il titolo comitale
e <farli tutti conti>. Può darsi che si tratti d'agiografia,
ma il racconto si attaglia bene al fatto che Umberto di Savoia,
durante l'esilio, da quanto si diceva, rilasciava titoli nobiliari
che ufficialmente non avevano alcun valore (v. nota 5).
I documenti
(che si chiamano <regie patenti>) sono gli unici che comprovano
la nobiltà della famiglia, e danno la certezza sul titolo
e sul predicato. Ai tempi della monarchia, per la dimostrazione
del titolo, si richiedevano addirittura tre documenti ufficiali
di cui uno <governativo>.
In ogni caso, è pubblicato annualmente un Almanacco Araldico,
che avendo carattere ufficiale dà una garanzia sia sulla
nobiltà delle famiglie ivi indicate, sia sui titoli (per
la nobiltà europea era celebre l'<Almanacco di Gotha>,
pubblicato dal 1763 fino al 1944).
Una signora,
che per le sue testimonianze (documentate da fotografie) aveva
creato un certo subbuglio tra alcuni magistrati partecipanti a
un viaggio gratuito negli USA, in occasione di un premio (offerto
a Bettino Craxi), era spesso indicata col titolo di contessa.
Essendo sorti dei dubbi sul titolo, un giornalista intervistandola,
le aveva chiesto se il titolo fosse vero o inventato. La signora
aveva risposto, come testualmente riferito dal giornalista, <giurando,
che si trattava di un vecchissimo predicato nobiliare di origine
contadina, che non era stato comperato da nessuno> (sic!).
Gli errori in questa dichiarazione (presa a piè pari dal
giornale) sono macroscopici. Innanzi tutto si fa confusione tra
titolo nobiliare (quello di <contessa>) e il <predicato>
al quale si riferiva la signora, che nel caso era inesistente.
Abbiamo visto quali possono essere le differenze. Sull' affermazione
fatta col giuramento, inoltre, vi era poco da giurare, perché
se si ha diritto al predicato, questo fa parte integrante del
cognome e il giuramento non serve. Per il titolo, invece, ammesso
che il padre fosse conte, la signora non poteva farsi chiamare
contessa perché avendo, come risultava, un fratello, a
questo solo sarebbe spettato l'uso del titolo, sempre che n'avesse
avuto diritto!
E' inoltre da aggiungere che non esistono predicati o titoli di
origine contadina. Può anche darsi che un nobile, possa
aver avuto antenati contadini, anzi molti nobili che non se la
passavano bene e avevano delle proprietà, erano essi stessi
a fare i contadini. La spiegazione data dalla signora e riportata
dal giornalista non era per nulla esatta.
In ogni caso, ripetiamo, il titolo nobiliare deve risultare da
documenti (regie patenti), che, certamente, non sono quelli che
molti Istituti, sorti come funghi, utilizzando i computers, mandano
in contrassegno.
Tutti sanno che
l'attore Totò-Antonio De Curtis, quando aveva raggiunto
il benessere economico, si era autonominato <principe>.
E' umano! Le origini di Totò erano umilissime, ma egli
aveva pensato di elevare il livello di quelle origini, facendo
fare delle ricerche genealogiche (di nessun valore storico, era
stato detto, ma lui ci credeva!), dalle quali era risultato che
discendeva addirittura dagli imperatori di Bisanzio (in particolare
dall'imperatore Costantino Focas, v. Intrighi ecc. alla corte
di Bisanzio)!
Per far dare un riconoscimento <ufficiale> a quelle ricerche,
che lo indicavano come diretto discendente di una casata imperiale,
aveva chiesto di entrare nell'Ordine di Malta come <Cavaliere
di onore e devozione> (2).
<Per poter diventare Cavaliere (3), racconta Peyrefitte, erano
richiesti i quattro quarti di nobiltà (v. Nobiltà),
cioè che tutti e quattro i nonni fossero nobili, con dispensa
per i quarti della nonna paterna o materna (che potevano essere
non nobili), se il quarto paterno risaliva a trecento anni.
Totò si era presentato a Palazzo Magistrale di Roma (Via
Condotti), accompagnato da un avvocato, carico di documenti, il
quale aveva sciorinato all'esperto in affari genealogici (il balì
Taccone di Sitizano), i nomi dei vari imperatori che si erano
succeduti dall'anno 610 al 983, non omettendo di indicare come
diretta antenata l'imperatrice Teodora (la seconda, v. articolo
Intrighi, ecc. indicato).
Essendo Totò figlio illegittimo, si faceva notare che non
solo si dava dimostrazione dei quattrocentocinquant'anni di nobiltà
della linea paterna, ma si risaliva addirittura a millecentoquarant'anni
addietro (!).
Il balì Taccone, per evitare contestazioni di carattere
storico, aggirò l'ostacolo facendo invece richiamo ad una
disposizione che negava la nomina di Cavaliere <a chi esercita
arti meccaniche, vili, abiette e interdette>, spiegando che
per <arti vili> s'intendeva la buffoneria, precisando che
l'attore di varietà veniva considerato l'erede di quei
buffoni, pagliacci, mimi che nell'antichità divertivano,
nei loro castelli, proprio gli antenati del signor De Curtis.
Quindi Totò, col suo avvocato, fu licenziato. Ma Totò,
prima di uscire, dopo aver squadrato il balì, con l'aria
dignitosa di un degno discendente degli imperatori di Bisanzio
(ammesso che un simile gesto potesse essere consentito ad un discendente
di una schiatta così illustre), non poté fare a
meno di far uscire dalla sua bocca quel noto rumore che i napoletani
chiamano <pernacchio>.
Il titolo Altezza
reale spetta solo ai principi di una Casa regnante, come p. es.
al principe Carlo d'Inghilterra o al principe Ranieri di Monaco
(non al figlio Alberto).
Si era parlato della prerogativa del titolo di <Altezza reale>,
durante le lunghe trattative per il divorzio, della sfortunata
principessa Diana, che le spettava quando era moglie di Carlo
(Her Royal Highness), titolo che Diana avrebbe voluto mantenere.
Questo titolo avrebbe comportato anche prerogative di rappresentanza
(per le quali aveva mostrato doti superiori a tutti i membri della
stessa casa reale), ma su questo titolo non le erano state fatte
concessioni. Le era stato invece mantenuto, come madre del futuro
re d'Inghilterra (William), il titolo di <principessa di Windsor>.
Al principe Ranieri di Monaco, spetterebbe invece il titolo di
Altezza Serenissima, ma, se qualcuno lo dovesse incontrare e salutarlo,
è sufficiente chiamarlo Altezza.
Al principe Vittorio Emanuele di Savoia non spetta quello d'Altezza
reale, come non spetta al duca e duchessa d'Aosta (5).
Per finire, il predicato non va confuso, come avviene spesso,
con il doppio cognome. Il doppio cognome può derivare da
adozioni, da domanda giudiziale di aggiunta del cognome materno
(gli spagnoli usano parecchi cognomi, perché a ogni generazione
aggiungono al cognome paterno anche quello materno), perciò
il doppio-triplo cognome non è indice di nobiltà.
Come non lo è (generalmente) il <di> o <de>
maiuscoli o minuscoli di un cognome comune.
I signori giornalisti normalmente si compiacciono di attribuire
titoli a chi non ne ha effettivamente diritto (viene fatta passare
per contessa una signora, famosa, ex moglie divorziata di un conte,
ed è risaputo che la moglie divorziata non ha alcun diritto
di usare il titolo dell'ex marito) o di indicare con titoli di
marchesine e contessine giovani figlie di padri titolati, per
le quali vale ciò che abbiamo già detto ripetutamente.
Con le abbondanti <istruzioni per l'uso> che abbiamo dato,
speriamo che essi ora sappiano bene come regolarsi!
Occorre chiarire
che i Savoia dovrebbero portare anche il nome di Carignano, poiché
il ramo principale dei Savoia si è estinto nel 1800 con
Carlo Felice, ultimo fratello di Vittorio Emanuele I (che aveva
avuto quattro figlie femmine e un solo figlio maschio, morto a
due anni).
Costui, nel 1802, era diventato re di Sardegna (dove vi sono ancora
molti sardi, anche diessini, con sentimenti monarchici!), ma nel
1821 aveva abdicato in favore del fratello Carlo Felice (morto
senza eredi e ultimo del ramo principale dei Savoia) il quale
aveva abdicato, a sua volta, in favore di Carlo Alberto (il re
Tentenna del Risorgimento italiano). Costui abdicherà anch'egli
in favore del figlio, Vittorio Emanuele II (che diventerà
re d'Italia nel 1861).
Carlo Alberto apparteneva al ramo Carignano e tra questo e Carlo
Felice vi era una parentela di tredicesimo grado (la legge italiana
riconosce la cessazione del grado di parentela con il sesto grado).
Questo ramo dei Carignano si forma alla fine del 1500 con Tommaso-Francesco
principe di Carignano, settimo e ultimo figlio di Carlo Emnanuele
I (1580-1630). Da Vittorio Emanuele II, Carignano, si formano
tre ulteriori rami, il principale, con Umberto I padre di Vittorio
Emanuele III (v. Anni Venti) detto di Savoia ma, in effetti, di
Carignano, l'altro, dei duchi d'Aosta, e un altro dei duchi di
Genova che si estingue.
Si estingue anche quello principale del duca d'Aosta (il vicerè
d'Etiopia), al quale subentra il fratello Aimone, duca di Spoleto
da cui discende l'attuale Amedeo d'Aosta.
Per questi motivi qualcuno, in occasione delle polemiche sorte
sul voto alla Camera per il rientro dei Savoia (6), si era spinto
a dire che: <i Savoia non rappresentano più un nobile
casato, ma sono semplicemente una famiglia come tante altre>.
Non è esatto! A Cesare quel ch'è di Cesare!
Anche se si tratta di un ramo collaterale, gli attuali, discendono
sempre dal capostipite comune (Umberto Biancamano) e, anche se
si può discutere sul comportamento di alcuni degli esponenti
della famiglia, sulla loro nobiltà, feudale (7) e di sangue
reale (attenzione! non va usato il termine <Casa Reale>,
che non esiste più, ma <ex Casa Reale>), non si possono
fare illazioni di quel genere.
Chi può vantare di discendere da così magnanimi
lombi deve avere soltanto il buon gusto di comportarsi senza boria
e con intelligente umiltà.