Estratto da "Zibaldino"

NOBILTA' *

a cura di Michele Puglia

*) Questa voce (che pubblichiamo per intero) è complementare all'articolo Corone, Blasoni e Nobiltà.

 

E' uno <status> dovuto non tanto alla <grazia di Dio>, come si diceva e si credeva un tempo, ma all'intraprendenza di un antenato che, anche se d'umili origini, per meriti personali, riusciva a raggiungere un livello sociale così alto da poter avere il privilegio di essere insignito di un titolo nobiliare (v. Titoli e predicati nobiliari). Secondo il volere del monarca, il titolo poteva essere dato anche a chi non aveva genitori, o nonni, o in ogni caso antenati illustri.
Basti pensare che Carlomagno, quando si rendeva conto di potersi fidare di qualcuno, anche se questo non era nobile di nascita, lo nominava conte… con le rimostranze d'Adalberone vescovo di Laon, il quale lamentava che <gente meschina fosse salita per merito delle alte cariche fino alla somma nobiltà>.
Altro esempio può esser dato da Luigi XIV, il re Sole, il quale alle sue molteplici amanti (la Maintenon era povera e viveva in una stanza della parrocchia di Saint-Eustache, quando fu aiutata a salire la scala sociale, dai numerosi e ricchi amanti) concedeva titoli nobiliari, trasmissibili ai figli (v. Favorite e amanti del Re Sole e di Luigi XV).
Madame de Staal (1), dopo essere stata cameriera della duchessa del Maine (era uscita però da un convento con un'istruzione superiore) era diventata baronessa a seguito di matrimonio. La duchessa dovendo recarsi dal re, nonostante la de Staal fosse ora baronessa, non l'aveva presa sulla sua carrozza, ma l' aveva fatta salire su un' altra. M.me de Staal, riferendo il particolare, aveva commentato:<il sacramento del matrimonio a differenza di quello del battesimo, non cancella il peccato originale> (vale a dire le origini!).
In un documento del 1700 si ricordava l'origine delle grandi famiglie della nobiltà francese, come i duchi di Crussol, che discendevano da uno speziale; i Bethune, da un avventuriero; i Wignerot da un domestico, che suonava il liuto presso il cardinale di Fleury; i duchi di Saint Simon da uno scudiero di Madame de Schoemberg; i duchi de La Rochefoucolt, da un Jean le Vert, macellaio; i Villeroy da una pescivendola; i duchi di Noailles da un valletto del visconte di Turenne; i d'Ancourt e i d'Epernon rispettivamente da un bastardo del vescovo di Bayeux e da un canonico di Leytour; lo stesso Ugo Capeto si diceva fosse figlio di un macellaio di Parigi.
Nelle varie epoche monarchiche, la nobiltà era tenuta sotto controllo, perché il nobile si doveva distinguere dagli altri non solo per il titolo e la ricchezza (che poteva anche mancare) ma per il comportamento decoroso, che doveva essere conforme al titolo. Dallo stato di nobile si poteva decadere, se a seguito di controlli si accertava che il titolo non era portato con l'adeguata dignità. Proprio la dignità non consentiva di svolgere attività che non fossero adeguate a quello <status>.
La nobiltà va distinta in due categorie: quella feudale, che era collegata ai feudi avuti dal sovrano con il titolo e quella patrizia, cioè cittadina, come i Medici a Firenze.
I nobili, mentre potevano coltivare la terra (alcuni più poveri facevano i contadini), non potevano esercitare arti vili e abiette o attività mercantile. Su quest'ultima attività è da dire che almeno in Italia era consentita, p.es. a Venezia, dove i nobili esercitavano attività mercantile, ma questa era d'alto livello, tanto da potersi considerare commercio internazionale.
Abbiamo detto che dalla nobiltà si poteva decadere, se non si aveva la possibilità di mantenere un adeguato tenore di vita, finendo nella borghesia (v. in Zibaldino).
La nobiltà si misura in quarti, vale a dire risalendo ai nonni che sono quattro, se costoro sono tutti e quattro nobili i nipoti avranno i quattro quarti, altrimenti il numero scende. Se p.es. dei quattro nonni due o tre o uno sono nobili, si hanno uno, due o tre quarti. E' il caso d'Emanuele Filiberto di Savoia, figlio di Vittorio Emanuele e di Marina Doria, che è d'origine borghese: Emanuele Filiberto ha i soli quarti del padre e quindi ha solo due quarti di nobiltà.
Risalendo alle generazioni precedenti, si passa ai bisavi che sono otto, e quindi si hanno i quattro ottavi, o secondo l'esempio precedente due ottavi; i trisavi sedici, e quindi due o quattro sedicesimi e, ancora più su, trentadue, ecc.. Risalendo ancora, il numero raddoppia progressivamente fino a diventare un esercito (per averne un'idea, a Vienna al Castello di Schoembrunn è esposto l'albero genealogico degli Asburgo: non è un albero, ma una selva! Basta dare un'occhiata alla Rubrica "Genealogie" in questa Rivista).

1) Madame de Staal-Delauney: Memorie. Biblioteca Adelphi.
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Estratto da "Zibaldino"

 

TITOLI E PREDICATI NOBILIARI *

*) Questa voce (che pubblichiamo per intero) è complementare all'articolo Corone, Blasoni e Nobiltà.

 

SOMMARIO: LA CONFUSIONE; IL DIMINUTIVO; LE MISTIFICAZIONI; L'ESEMPIO PRATICO; I ROTSCHILD; I PREDICATI; I CONTI DI CIAMPINO; LE REGIE PATENTI; UNA SIGNORA CHE GIURA; IL CASO TOTO'; ALTEZZA REALE; CASA SAVOIA.

 

LA CONFUSIONE

Sull'argomento regna una gran confusione, un po' per ignoranza è un po' perché si approfitta della mancanza di un organo di controllo che, in periodo di monarchia, era la Consulta Araldica.
La Costituzione italiana ha abolito i titoli nobiliari e quindi lo Stato italiano non li riconosce, ma proprio per questo molti se ne approfittano, nobili compresi, dai quali molto spesso il titolo è usato impropriamente, nel senso che, in un gruppo familiare, sia i maschi sia le femmine usano lo stesso titolo che invece può essere usato solo dal primogenito maschio, che ha lo ha ereditato dal padre.
Vediamo come vanno le cose. Per il titolo nobiliare, (più avanti vedremo quali sono), è sempre valso il principio (medievale) del maggiorasco, cioè del figlio primogenito che ereditava feudo e titolo ed era obbligato a mantenere i fratelli. Erano quindi esclusi dall'eredità gli altri figli maschi (cadetti), che generalmente se n'andavano in cerca di <ventura> o abbracciavano la carriera ecclesiastica. Erano escluse dall'eredità anche le figlie femmine, alle quali si assegnava una dote per il matrimonio, che però non intaccava il patrimonio immobiliare che spettava al primogenito. Spesso però le donne erano mandate, con la dote in danaro, nei conventi che andavano a dirigere come badesse... ovviamente quelle che non <sentivano la vocazione> si prendevano tutte le libertà di cui si è andata ad arricchire la letteratura libertina.

 

IL DIMINUTIVO

Presso le famiglie titolate (e ne fa uso Stampa e TV) è invalsa l'abitudine di chiamare tutti i figli, indistintamente (maschi e femmine) con il diminutivo del titolo paterno, quindi <marchesini e marchesine, contini e contessine, baroncini e baronessine> (Verga in "Mastro don Gesualdo" chiama, o fa chiamare, il figlio del barone Rubiera <baronello>!).
Questo sistema è assolutamente fuori delle regole, oltre che rasentare il ridicolo. Al limite, potrà valere per la servitù ma, per norma nobiliare, quei diminutivi non esistono.
Quell'uso porta agli abusi, nel senso che tutti poi, da grandi, sono chiamati (e si fanno chiamare), indistintamente, maschi e femmine, con il titolo paterno, che, ripetiamo, non spetta. Abbiamo visto, infatti, che è il solo figlio primogenito (o l'unico maschio non primogenito, se primogenita è stata una femmina) ad ereditare il titolo paterno, ma questo può avvenire solo alla morte del padre. Quindi, in una famiglia nobiliare titolata, il titolo di <marchese, conte o barone> spetta solo al padre e madre viventi ...tutti i figli non possono usare il titolo, ma possono soltanto <indicare> di appartenere alla famiglia <dei conti o dei marchesi di>, ecc. .



LE MISTIFICAZIONI

In un cimitero (che evitiamo di indicare!) - reparto nobili! - si trovano una serie di lapidi che indicano tutte le nobili defunte, non solo con i titoli acquisiti con i matrimoni, ma con i titoli paterni che loro non spettavano, del tipo: contessa tal dei tali, nata marchesa tal' altra (con il caso della figlia di un marchese, che pur avendo sposato un conte, contro ogni regola, anche in vita si faceva chiamare marchesa!). Oppure, baronessa tal dei tali, nata contessa tal' altra.
E' tutta una mistificazione, perché le nobili defunte non potevano fregiarsi (o essere state fregiate sulle lapidi) di titoli paterni che a loro non spettavano! Purtroppo le mistificazioni, oltre che tra i morti, sono generalizzate anche tra i vivi. Un principe romano, durante una trasmissione televisiva, si era lamentato di un suo cugino che avendo lo stesso cognome, usava anche lui il titolo di <principe> che non gli spettava e non poteva usare.

 

L' ESEMPIO PRATICO

Facciamo ora, per essere ancora più chiari, un esempio pratico. Prendiamo un <conte Camillo Benso di Cavour> (Benso è il cognome, Cavour è il predicato, nome del feudo); e ammettiamo che questi abbia avuto due figli maschi, che chiamiamo Massimiliano e Rodolfo e due femmine, Elena e Ginevra. Il titolo di conte, alla morte del padre, è assunto solo dal primogenito, Massimiliano, che diventerà conte Benso di Cavour, mentre gli altri, sia Rodolfo sia Elena e Ginevra, non potranno utilizzarlo, ma potranno utilizzare il predicato. Si chiamerebbero semplicemente Rodolfo o Elena o Ginevra Benso di Cavour, e potranno indicare di essere nobili, e quindi usare l' N.H., Nobil Homo o l' N.D., Nobil Donna, (di cui se ne fa grande abuso nel Sud negli annunci funebri). Costoro potranno usare lo stemma e la corona comitale paterna, ma il titolo, ripetiamo, spetta solo al primogenito.
In Inghilterra, dove non si fanno confusioni, e non si gioca sui fraintesi, è invalso l'uso di indicare il titolo nobiliare con il numero delle generazioni che, risalendo alla prima, hanno usufruito del titolo. P.es.: tredicesimo duca di Bedford, o quindicesimo duca di Norfolk; vuol dire che il titolo risale a tredici, o quindici generazioni precedenti. Calcolando tre generazioni per secolo, dà come risultato che il titolo è stato concesso quattrocento anni prima al duca di Bedford e cinquecento al duca di Norfolk, anno più, anno meno!

 

I ROTSCHILD

Vi è stato un solo caso in cui il titolo era stato concesso singolarmente e contemporaneamente a ciascuno dei cinque figli maschi. Erano i cinque figli di Mayer Amshel Rothschild (1743-1812), il fondatore della dinastia.
A seguito delle guerre napoleoniche, l'imperatore d'Austria, Francesco I, aveva bisogno d'anticipazioni sulle indennità che doveva avere dalla Francia. I Rothschild fecero il prestito e in cambio ebbero il titolo di baroni (l'imperatore voleva concederlo solo al primogenito, ma il vecchio Rothscild lo pretese per tutti). La concessione del titolo però non fu tanto semplice. Era il periodo in cui gli ebrei erano tenuti relegati nei ghetti ed erano soggetti a discriminazioni, anche se straricchi.
Di Amshel era stato detto <è uno dei banchieri più facoltosi d'Europa e non ha che un problema: quello d'essere ebreo>. L'imperatore, in considerazione del fatto che sarebbero sorte delle gelosie da parte di banchieri cristiani, aveva messo la questione nelle mani del principe di Metternich, il quale, valutate le circostanze sul ruolo preponderante che avevano i fratelli nei finanziamenti, vitali per l'Austria, dette parere favorevole (1).

1) Anka Mulhstein: James de Rothschild. L'uomo che creò dal nulla una dinastia di banchieri. Biografie Bompiani (1983).



I PREDICATI

La Costituzione italiana non riconosce i titoli nobiliari, ma ha consentito che i predicati (cioè il <di Cavour> dell'esempio precedente) concessi prima del 1922, andassero a formare parte integrante del cognome, perciò all'anagrafe deve risultare per tutti i componenti della famiglia, accanto al cognome <Benso> il predicato <di Cavour>. Il titolo comitale invece nei registri anagrafici non risulta.
Le donne, riguardo ai titoli nobiliari, come è stato detto, non hanno alcun diritto all'uso del titolo paterno. Esse possono usare solo il predicato, che diventa parte integrante del cognome. In caso di matrimonio con un nobile, esse assumono il titolo del marito, ma non potranno mai presentarsi con il titolo paterno (come abbiamo visto per le lapidi cimiteriali).
Ricordiamo un aneddoto raccontato dal Duca di Bedford (autore de <Il libro degli snob> citato alla v. Snob). Dunque, il nonno aveva chiamato un'arredatrice per far fare qualche cambiamento al castello. Questa aveva notato che nella galleria dei ritratti, vi erano solo tutti i duchi; mancavano le duchesse. L'arredatrice suggerì di fare una galleria delle duchesse. <Ma mia cara>, rispose il vecchio duca, <le duchesse non fanno parte della famiglia!>.
Abbiamo indicato la data 1922 per i titoli che erano concessi con predicato. Successivamente a tale data, cioè quando Mussolini volle gratificare i capitani d'industria con il titolo nobiliare e fino all'esilio del re Umberto II, i titoli erano rilasciati senza predicato.
Tutti quelli concessi dall'ex re dal momento dell'esilio (non risulta che ne abbia concessi nel periodo dei quarantacinque giorni di regno), dai conti di Ciampino in poi, sono da ritenere abusivi perché rilasciati da ex regnante. Qualcuno potrebbe sostenere la loro validità per diritto feudale... la tesi è assolutamente insostenibile!

 

I CONTI DI CIAMPINO

Si racconta che Umberto di Savoia, quando si era recato a Ciampino, da cui stava partendo per l'esilio, era stato accompagnato da un codazzo di cortigiani, tra i quali si trovavano quelli che avevano richiesto un titolo nobiliare.
Nella confusione e frastuono delle eliche, l'ex re si stava raccomandando con il Segretario (contabile) della casa, oramai, ex reale <di far bene tutti i conti>. Il riferimento era evidentemente per le spese che erano state sostenute nei giorni precedenti al referendum. Questa sua raccomandazione però era stata fraintesa e si era ritenuto invece che per gratitudine nei confronti di quei fedeli, l'ex re avesse voluto riconoscere loro il titolo comitale e <farli tutti conti>. Può darsi che si tratti d'agiografia, ma il racconto si attaglia bene al fatto che Umberto di Savoia, durante l'esilio, da quanto si diceva, rilasciava titoli nobiliari che ufficialmente non avevano alcun valore (v. nota 5).

 

LE REGIE PATENTI

I documenti (che si chiamano <regie patenti>) sono gli unici che comprovano la nobiltà della famiglia, e danno la certezza sul titolo e sul predicato. Ai tempi della monarchia, per la dimostrazione del titolo, si richiedevano addirittura tre documenti ufficiali di cui uno <governativo>.
In ogni caso, è pubblicato annualmente un Almanacco Araldico, che avendo carattere ufficiale dà una garanzia sia sulla nobiltà delle famiglie ivi indicate, sia sui titoli (per la nobiltà europea era celebre l'<Almanacco di Gotha>, pubblicato dal 1763 fino al 1944).

 

UNA SIGNORA CHE GIURA

Una signora, che per le sue testimonianze (documentate da fotografie) aveva creato un certo subbuglio tra alcuni magistrati partecipanti a un viaggio gratuito negli USA, in occasione di un premio (offerto a Bettino Craxi), era spesso indicata col titolo di contessa. Essendo sorti dei dubbi sul titolo, un giornalista intervistandola, le aveva chiesto se il titolo fosse vero o inventato. La signora aveva risposto, come testualmente riferito dal giornalista, <giurando, che si trattava di un vecchissimo predicato nobiliare di origine contadina, che non era stato comperato da nessuno> (sic!).
Gli errori in questa dichiarazione (presa a piè pari dal giornale) sono macroscopici. Innanzi tutto si fa confusione tra titolo nobiliare (quello di <contessa>) e il <predicato> al quale si riferiva la signora, che nel caso era inesistente. Abbiamo visto quali possono essere le differenze. Sull' affermazione fatta col giuramento, inoltre, vi era poco da giurare, perché se si ha diritto al predicato, questo fa parte integrante del cognome e il giuramento non serve. Per il titolo, invece, ammesso che il padre fosse conte, la signora non poteva farsi chiamare contessa perché avendo, come risultava, un fratello, a questo solo sarebbe spettato l'uso del titolo, sempre che n'avesse avuto diritto!
E' inoltre da aggiungere che non esistono predicati o titoli di origine contadina. Può anche darsi che un nobile, possa aver avuto antenati contadini, anzi molti nobili che non se la passavano bene e avevano delle proprietà, erano essi stessi a fare i contadini. La spiegazione data dalla signora e riportata dal giornalista non era per nulla esatta.
In ogni caso, ripetiamo, il titolo nobiliare deve risultare da documenti (regie patenti), che, certamente, non sono quelli che molti Istituti, sorti come funghi, utilizzando i computers, mandano in contrassegno.

 

IL CASO TOTO'


Tutti sanno che l'attore Totò-Antonio De Curtis, quando aveva raggiunto il benessere economico, si era autonominato <principe>. E' umano! Le origini di Totò erano umilissime, ma egli aveva pensato di elevare il livello di quelle origini, facendo fare delle ricerche genealogiche (di nessun valore storico, era stato detto, ma lui ci credeva!), dalle quali era risultato che discendeva addirittura dagli imperatori di Bisanzio (in particolare dall'imperatore Costantino Focas, v. Intrighi ecc. alla corte di Bisanzio)!
Per far dare un riconoscimento <ufficiale> a quelle ricerche, che lo indicavano come diretto discendente di una casata imperiale, aveva chiesto di entrare nell'Ordine di Malta come <Cavaliere di onore e devozione> (2).
<Per poter diventare Cavaliere (3), racconta Peyrefitte, erano richiesti i quattro quarti di nobiltà (v. Nobiltà), cioè che tutti e quattro i nonni fossero nobili, con dispensa per i quarti della nonna paterna o materna (che potevano essere non nobili), se il quarto paterno risaliva a trecento anni.
Totò si era presentato a Palazzo Magistrale di Roma (Via Condotti), accompagnato da un avvocato, carico di documenti, il quale aveva sciorinato all'esperto in affari genealogici (il balì Taccone di Sitizano), i nomi dei vari imperatori che si erano succeduti dall'anno 610 al 983, non omettendo di indicare come diretta antenata l'imperatrice Teodora (la seconda, v. articolo Intrighi, ecc. indicato).
Essendo Totò figlio illegittimo, si faceva notare che non solo si dava dimostrazione dei quattrocentocinquant'anni di nobiltà della linea paterna, ma si risaliva addirittura a millecentoquarant'anni addietro (!).
Il balì Taccone, per evitare contestazioni di carattere storico, aggirò l'ostacolo facendo invece richiamo ad una disposizione che negava la nomina di Cavaliere <a chi esercita arti meccaniche, vili, abiette e interdette>, spiegando che per <arti vili> s'intendeva la buffoneria, precisando che l'attore di varietà veniva considerato l'erede di quei buffoni, pagliacci, mimi che nell'antichità divertivano, nei loro castelli, proprio gli antenati del signor De Curtis.
Quindi Totò, col suo avvocato, fu licenziato. Ma Totò, prima di uscire, dopo aver squadrato il balì, con l'aria dignitosa di un degno discendente degli imperatori di Bisanzio (ammesso che un simile gesto potesse essere consentito ad un discendente di una schiatta così illustre), non poté fare a meno di far uscire dalla sua bocca quel noto rumore che i napoletani chiamano <pernacchio>.

3) Nella gerarchia del Sovrano Militare Ordine di Malta si distinguono i Cavalieri di giustizia, professi, con voto di povertà, castità e obbedienza. Tra costoro è eletto il Gran Maestro. Questa carica è a vita. Cavalieri (e dame) d'obbedienza. Sono vincolati dalla promessa di fedeltà all'Ordine. Cavalieri (e dame) d'onore e devozione; di grazia e devozione; di grazia magistrale.
4) Peyrefitte afferma, ma l'affermazione non è esatta, che Totò, in questo caso, avrebbe potuto avere diritto al titolo di <altezza imperiale> (v. par. che segue). Roger Peyrefitte: Cavalieri di Malta. Parenti Editore, 1957.

 

ALTEZZA REALE


Il titolo Altezza reale spetta solo ai principi di una Casa regnante, come p. es. al principe Carlo d'Inghilterra o al principe Ranieri di Monaco (non al figlio Alberto).
Si era parlato della prerogativa del titolo di <Altezza reale>, durante le lunghe trattative per il divorzio, della sfortunata principessa Diana, che le spettava quando era moglie di Carlo (Her Royal Highness), titolo che Diana avrebbe voluto mantenere. Questo titolo avrebbe comportato anche prerogative di rappresentanza (per le quali aveva mostrato doti superiori a tutti i membri della stessa casa reale), ma su questo titolo non le erano state fatte concessioni. Le era stato invece mantenuto, come madre del futuro re d'Inghilterra (William), il titolo di <principessa di Windsor>.
Al principe Ranieri di Monaco, spetterebbe invece il titolo di Altezza Serenissima, ma, se qualcuno lo dovesse incontrare e salutarlo, è sufficiente chiamarlo Altezza.
Al principe Vittorio Emanuele di Savoia non spetta quello d'Altezza reale, come non spetta al duca e duchessa d'Aosta (5).
Per finire, il predicato non va confuso, come avviene spesso, con il doppio cognome. Il doppio cognome può derivare da adozioni, da domanda giudiziale di aggiunta del cognome materno (gli spagnoli usano parecchi cognomi, perché a ogni generazione aggiungono al cognome paterno anche quello materno), perciò il doppio-triplo cognome non è indice di nobiltà. Come non lo è (generalmente) il <di> o <de> maiuscoli o minuscoli di un cognome comune.
I signori giornalisti normalmente si compiacciono di attribuire titoli a chi non ne ha effettivamente diritto (viene fatta passare per contessa una signora, famosa, ex moglie divorziata di un conte, ed è risaputo che la moglie divorziata non ha alcun diritto di usare il titolo dell'ex marito) o di indicare con titoli di marchesine e contessine giovani figlie di padri titolati, per le quali vale ciò che abbiamo già detto ripetutamente.
Con le abbondanti <istruzioni per l'uso> che abbiamo dato, speriamo che essi ora sappiano bene come regolarsi!

5) A Vittorio Emanuele di Savoia spetta il solo titolo di principe. Nel periodo della <gaffe> sulle leggi razziali sulle quali il principe, in un'intervista televisiva, aveva affermato che <non erano così terribili>, e sulle scuse agli ebrei che il principe aveva detto di non ritenere di dover dare, era stato emesso un comunicato chiarificatore, su lettera che portava l'intestazione di Sua Altezza Reale il principe ecc.. Il titolo di <Altezza Reale> non gli spetta, poiché spetta, come abbiamo visto, solo ai figli di regnanti, e i Savoia non sono più regnanti e Vittorio Emanuele non può usare il titolo di Altezza Reale, perché il padre Umberto non era più regnante.
E' da dire che anche il ramo d'Aosta, che evidentemente non vuol essere da meno dei cugini Savoia (con i quali non corrono molte simpatie), lascia che venga usato il titolo di A.R. .
Infatti, in una trasmissione televisiva alla quale aveva partecipato Silvia d'Aosta, moglie del duca Amedeo, nella didascalia, in cui appariva il nome della duchessa, questo era preceduto dal titolo di S.A.R., che non spetta.
Il titolo d'A.R. (Altezza reale) e A.R.S (Altezza reale serenissima), in Italia era stato previsto da un'apposita legge (R.D.1890) che ne prevedeva l'uso per i figli dei regnanti. Gli attuali Savoia, essendo discendenti di <ex regnanti>, non hanno diritto ad usare quel titolo.
E' noto che il re Umberto era succeduto a Vittorio Emanuele III il 5.6.1944 con il titolo di <luogotenente generale del regno (con diritto al titolo di A.R.)>. Vittorio Emanuele abdicò il 9.5.1946 e Umberto assunse il titolo di Umberto II (Umberto I era stato ucciso nel 1900 a Monza, v. Austria Felix). Il 2 giugno di quell'anno vi fu il referendum e la proclamazione sul referendum fu fatta il 13 successivo. Con la proclamazione della Repubblica, Umberto (chiamato poi il re di maggio) perse tutte le prerogative reali, assumendo il titolo di Conte di Sarre e perdendo sia il titolo di maestà sia il diritto di concedere titoli e onorificenze.
Umberto però riteneva di aver conservato il diritto di concedere titoli nobiliari e, da quanto si sa, ne aveva concessi anche ai nipoti, ma quei titoli non avevano alcun valore giuridico.
Infatti, a Emanuele Filiberto il nonno Umberto aveva concesso il titolo di <principe di Venezia> mai avuto da nessun esponente di Casa Savoia. Questo titolo, non molto ortodosso, piuttosto da operetta, Umberto, non essendo più regnante, non aveva alcuna prerogativa per concederlo neanche ai propri familiari. Oltretutto era stato un abuso nei confronti di Venezia, che non è mai stata né un principato né un feudo di chicchessia, tanto meno dei Savoia.
Forse è il caso di ricordare che, prima della fondazione della Serenissima (VII sec.), la più alta carica era quella del ducem (duca-doge), la cui nomina era data da Bisanzio, e in seguito eletto dal popolo e confermato da Bisanzio. Successivamente, quando Venezia si rese indipendente da Bisanzio, la più alta carica era rimasta quella di doge e <serenissimo principe> era il titolo col quale ci si rivolgeva al doge.
Il rapporto dei Savoia con Venezia deriva dal fatto che essi furono <ascritti> nel libro d'oro della nobiltà veneziana, che costituiva un onore per tutta la nobiltà europea, quali gli Asburgo, Borboni, ecc.. In cambio Vittorio Emanuele III aveva concesso a tutti i <patrizi veneti> (era il titolo usato dai nobili veneziani) il titolo comitale. I nobili veneziani di questa gratificazione certamente non ne avevano bisogno, perché bastava chiamarsi Contarini, Morosini, Pisani, Grimani, Mocenigo, che di per sé era sinonimo di nobiltà. E, se queste grandi famiglie avessero dovuto fregiarsi di un titolo, questo non avrebbe potuto essere che principesco!
Tutto questo, quindi, con il titolo concesso a Emanuele Filiberto non ha nulla a che vedere.
Altra irregolarità riscontrata nell'elenco genealogico dei Capi di Casa Savoia (pubblicato in Internet) è che Emanuele Filiberto sia stato fregiato del titolo di <principe ereditario>, prerogativa che assolutamente non gli spetta, perché il <principe ereditario> è il figlio del re, erede legittimo al Trono, cioè colui al quale spetta il regno per diritto di successione in seguito alla morte del padre. Salvo che, ambiguamente, non si abbiano ancora velleità di aspirare al trono d'Italia!
Insomma principe ereditario era il nonno Umberto, quando regnava il padre Vittorio Emanuele III. Non può esserlo quindi né Vittorio Emanuele, né tanto meno il figlio Emanuele Fliberto.

 

CASA SAVOIA

Occorre chiarire che i Savoia dovrebbero portare anche il nome di Carignano, poiché il ramo principale dei Savoia si è estinto nel 1800 con Carlo Felice, ultimo fratello di Vittorio Emanuele I (che aveva avuto quattro figlie femmine e un solo figlio maschio, morto a due anni).
Costui, nel 1802, era diventato re di Sardegna (dove vi sono ancora molti sardi, anche diessini, con sentimenti monarchici!), ma nel 1821 aveva abdicato in favore del fratello Carlo Felice (morto senza eredi e ultimo del ramo principale dei Savoia) il quale aveva abdicato, a sua volta, in favore di Carlo Alberto (il re Tentenna del Risorgimento italiano). Costui abdicherà anch'egli in favore del figlio, Vittorio Emanuele II (che diventerà re d'Italia nel 1861).
Carlo Alberto apparteneva al ramo Carignano e tra questo e Carlo Felice vi era una parentela di tredicesimo grado (la legge italiana riconosce la cessazione del grado di parentela con il sesto grado).
Questo ramo dei Carignano si forma alla fine del 1500 con Tommaso-Francesco principe di Carignano, settimo e ultimo figlio di Carlo Emnanuele I (1580-1630). Da Vittorio Emanuele II, Carignano, si formano tre ulteriori rami, il principale, con Umberto I padre di Vittorio Emanuele III (v. Anni Venti) detto di Savoia ma, in effetti, di Carignano, l'altro, dei duchi d'Aosta, e un altro dei duchi di Genova che si estingue.
Si estingue anche quello principale del duca d'Aosta (il vicerè d'Etiopia), al quale subentra il fratello Aimone, duca di Spoleto da cui discende l'attuale Amedeo d'Aosta.
Per questi motivi qualcuno, in occasione delle polemiche sorte sul voto alla Camera per il rientro dei Savoia (6), si era spinto a dire che: <i Savoia non rappresentano più un nobile casato, ma sono semplicemente una famiglia come tante altre>. Non è esatto! A Cesare quel ch'è di Cesare!
Anche se si tratta di un ramo collaterale, gli attuali, discendono sempre dal capostipite comune (Umberto Biancamano) e, anche se si può discutere sul comportamento di alcuni degli esponenti della famiglia, sulla loro nobiltà, feudale (7) e di sangue reale (attenzione! non va usato il termine <Casa Reale>, che non esiste più, ma <ex Casa Reale>), non si possono fare illazioni di quel genere.
Chi può vantare di discendere da così magnanimi lombi deve avere soltanto il buon gusto di comportarsi senza boria e con intelligente umiltà.

6) Dopo che il Parlamento Europeo, per la seconda volta aveva respinto la richiesta dei Savoia di poter entrare in Italia, essi se ne erano lamentati promettendo che se ne sarebbero andati negli Stati Uniti. Vittorio Emanuele era finito anche su <Striscia la notizia> perché, alla domanda che gli è puntualmente posta in ogni occasione, se riconosce la Repubblica, mentre stava rispondendo con un secco no, era stato ripreso con discrezione dalla moglie che gli suggeriva una risposta certamente più diplomatica.
Per quanto riguarda la <gaffe> fatta a suo tempo da Vittorio Emanuele sulle Leggi razziali, questo ha finalmente avuto l'opportunità di aderire al perdono richiesto da Fini (sett.2002). La comunità ebraica italiana però non si è dichiarata soddisfatta in quanto <il perdono non cancella la firma>. Ci sembra un po' troppo! La firma alla legge è stata apposta dal nonno di Vittorio Emanuele, nel 1938 e, giuridicamente, un nipote non ha la possibilità di cancellarla! La richiesta di perdono (anche se in ritardo e aderendo a quella d'altra persona) è stata fatta. Sarebbe ora di chiudere la discussione!
Il loro rientro (nov. 2002) darà certamente occasione a stampa e Tv di scatenarsi in servizi, articoli, interviste, Porta a Porta, ecc. (se n'era avuto un saggio alla prima approvazione da parte del Parlamento) e vi sarà certamente un <revival> di pranzi, cene, balli e ricevimenti (già ampiamente preannunciati!) in loro onore.
C'è da augurarsi che il riserbo e la discrezione degli interessati evitino qualsiasi clamore.
7) Gianni Oliva; I Savoia. Novecento anni di una dinastia. Mondadori (1998).

 

FINE

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