a cura di Michele Puglia
secondo Prezzolini
Questa delle manovre, macchinazioni, trame, tradimenti,
complotti, cospirazioni, assassini rientra nella più classica
delle tradizioni italiane, che risale all'epoca dei Comuni, delle
Signorie e aveva raggiunto l'apice nel Rinascimento. Ce ne parla
Prezzolini (*) il quale in proposito scrive:
<Nel periodo delle Signorie, il Signore è sempre perseguitato
dallo spettro del potere raggiunto con la forza o col tradimento.
Perciò la sua vita è piena di sospetti, di dubbi,
di inganni, di insidie, di cospirazioni. Egli non può fidarsi
né di zii, di fratelli e nemmeno dei figli. Ludovico il
Moro scriveva al fratello: <perdonami se di te non mi fido,
benché tu sia mio fratello>. Il suo ministro può
essere una spia, il suo cancelliere un traditore, il suo capitano
al soldo del nemico. Ciò che teme dagli altri egli lo ha
già fatto o si prepara a farlo agli altri. Oliverotto da
Fermo, catturato per tradimento da Cesare Borgia e strangolato,
pochi mesi prima aveva ucciso suo zio e altri parenti, nella stessa
ignobile maniera. Intrighi, macchinazioni, frodi, imposture, stratagemmi
segreti vengono usati continuamente in questa vita di predoni;
simulazione e dissimulazione sono i suoi strumenti più
preziosi>.
Per quanto riguarda la mancata unificazione dell'Italia nel passato,
Prezzolini ci illumina dicendo che <Tutte le volte che uno
degli Stati italiani manifestava l'intenzione di prendere il predominio,
nella penisola si formava una coalizione degli altri per abbatterlo,
o, per timore di questa, veniva chiamato un sovrano straniero,
come fece Ludovico il Moro, tanto che se ne potrebbe cavare una
chiave interpretativa della storia italiana: che gli italiani
preferirono sempre distruggersi tra di loro, o subire il potere
di uno straniero, piuttosto che riconoscere la superiorità
di uno di loro. Ogni Comune cercò di diventare la potenza
dominante della regione limitrofa e così facendo contribuiva
alla formazione di uno dei fenomeni più caratteristici
dell'Italia: il suo regionalismo>.
Ci sembra più che sufficiente per capire che cosa vi sia
nel DNA degli italiani in genere e di quelli che fanno politica
in particolare, e per spiegare i motivi della loro innata litigiosità,
che risale all'epoca dei Comuni <che furono in continuo conflitto
l'un con l'altro, ogni volta che i loro interessi si urtavano,
il che accadeva quasi costantemente>.
Ginsborg
<L'Italia è una repubblica fondata sul pallone>
aveva titolato un servizio-provocazione (ma la provocazione non
si discosta molto dalla realtà!) L'Espresso (n.26/98),
preannunciando la pubblicazione del terzo volume della Storia
d'Italia: <L'Italia del tempo presente>, di Paul Ginsborg
(Ed. Einaudi), nel quale é analizzata (e l'analisi è
molto approfondita) famiglia, società civile e Stato, nel
periodo 1980-1996.
In uno dei paragrafi del capitolo Società e cultura di
massa, Ginsborg prende in esame il rapporto degli italiani con
lo sport nazionale (oramai è entrato anch'esso nel DNA
degli italiani per merito dell'indiscriminato tam-tam dei media
(che vi dedicano ore e ore se si tratta di radio-tv, o pagine
e pagine se si tratta di giornali, ndr). Ginsborg precisa che
<Considerare il calcio come metafora della società italiana
significherebbe correre il rischio di una trasposizione eccessivamente
meccanica. Ma osservare il fenomeno sotto questa angolazione può
far emergere una serie di connessioni e di aspetti suggestivi.
Da un certo punto di vista il calcio è il gioco ideale
per una nazione come l'Italia, in cui la famiglia riveste un ruolo
così centrale, in quanto collega quasi senza sforzo l'infanzia
e l'età adulta, sia nella stessa persona (che nel guardare
la partita di serie A ricorda i propri giochi di bambino o di
ragazzo), sia in ambito familiare, soprattutto per quanto riguarda
il rapporto tra padre e figlio maschio. Allo stesso tempo il calcio
può essere considerato come una delle molte espressioni
di una cultura a forte prevalenza maschile>. Ginsborg esamina
quindi il rapporto con la famiglia italiana, in particolare quello
con le regole dell'arbitraggio considerate come uno specchio dell'
atteggiamento nei confronti dell'autorità.
Dalle reazioni nei confronti dell'arbitro verso il quale vengono
riversati rabbia, disprezzo e di frequente il sospetto di corruzione
non è difficile individuare sentimenti quali diffidenza,
disprezzo, cinismo o addirittura l'odio, che caratterizzano anche
il rapporto degli italiani con lo Stato. E bisogna aggiungere
(ndr), che quella del calcio è diventata una vera e propria
forma di psicosi collettiva, condizionata dalle trasmissioni televisive
che sezionano, vivisezionano, analizzano, setacciano le partite
che da domenicali, sono diventate quasi quotidiane!
… Fallaci.
(da “La Rabbia e l’Orgoglio”)
È un Paese così diviso, l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano.
[…]
Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa, l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani.
Nasce dal loro patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e capito quel che è successo a New York quando Bush è andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che scavando nelle macerie delle due torri cercano di salvare qualche superstite ma non tiran fuori che qualche naso o qualche dito
[…]
Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant'anni e che si appassionano solo per le vacanze all'estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut, ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato, sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene.
L'Italia squallida, imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere, però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco.
L'Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio-temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che sia»).
Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula.
Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver scritto la verità.
Tra una spaghettata e l’altra mi malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro protetti cioè da Usama Bin Laden.
No, no: la mia Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade.
Perché, che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso.
Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.