Melozzo da Forlì - Sisto IV  consegna al Platina

 l’incarico di sistemare la Biblioteca Vaticana

 

CARLO V

TRA RINASCIMENTO

 RIFORMA E CONTRORIFORMA

 

 

   

In ricordo dell’adorato Balk fedele compagno e fonte

d’ispirazione durante le solitarie passeggiate

MICHELE-ENRICO PUGLIA

 

PARTE PRIMA

SEZIONE I

 

 

SOMMARIO: L’UMANESIMO SCONOSCIUTO; I PRE-UMANISTI; DANTE; PETRARCA; BOCCACCIO; POETI E SCRITTORI DEL TRECENTO; SCRITTORI DI CRONACHE; A FIRENZE; A ROMA; A NAPOLI; LA POESIA VOLGARE DEL QUATTROCENTO: IN GERMANIA; IN FRANCIA; IN INGHILTERRA; IN SPAGNA; GLI UMANISTI ITALIANI; E GLI UMANISTI MAGHI; SI DIFFONDE LO STUDIO DELLA LINGUA GRECA (...Sono greche le parole dei nostri pensieri...);  LE POLEMICHE TRA PLATONICI E ARISTOTELICI;

PITTORI DELLA FINE DEL QUATTROCENTO; LA PITTURA IN ITALIA DA GIOTTO A MANTEGNA; PITTORI DELLA FINE DEL QUATTROCENTO DA MELOZZO A CIAMBELLINO; LA PITTURA FIAMMINGA; L’ARCHITETTURA; LA SCULTURA IN ITALIA; LA SCULTURA FRANCO-FIAMMINGA; IN GRAN BRETAGNA E SPAGNA; LE SCIENZE; LE PRIME SCOPERTE GEOGRAFICHE - L’ERRORE DI COLOMBO.

 

 

L’UMANESIMO

SCONOSCIUTO

 

 

U

manesimo deriva da “humanitas” – “educazione” ed è stato un movimento (convenzionalmente ritenuto tale dai grandi storici dell’800), che aveva avuto inizio dalla prima metà del XIII secolo ed era proseguito nel successivo XIV secolo,  precedendo e preparando quello studio delle arti e delle scienze che si svilupperà nel periodo seguente, costituito dalla rinascita di questi studi, e darà luogo al secolo d’oro della Rinascenza o Rinascimento.

l’Umanesimo si era insinuato nell’intera vita culturale dell’Italia dov’era nato, propagandosi in Europa e, riversandosi nel campo dello spirito umano, aveva liberato l’Uomo dalla oppressione della teologia che, ammantata di filosofia aveva preso il nome di “scolastica” – che aveva dominato tutto il medioevo, e aveva comunque avuto il merito di diffondere gli studi nelle scuole delle cattedrali, poi divenute  Università.     

L’Umanesimo aveva visto propagarsi gli studi degli antichi testi latini e greci: “Che cosa mai può esservi di più dolce che conoscere come contemporanee le vicende insigni dei secoli passati. Che di più soave che ascoltare come parole vive i discorsi dei più sapienti ormai da tempo scomparsi”, scriveva il Petrarca, che ad essi aveva dato entusiastico inizio, con la spinta di tanti altri studiosi semi-sconosciuti, che lo avevano preceduto, che consideriamo pre-umanisti.

Gli studi umanistici, compiuti in maniera critica, avevano portato a considerare l’Uomo come il centro del cosmo con tutta la sua dignità: l’Uomo schiacciato dal cristianesimo medievale, si riscatta, e ritrova tutta la sua razionalità, autonomia e la sua libertà d’arbitrio.

FRANCESCO PETRARCA aveva introdotto nuove idee su quella che era stata, come abbiamo detto, la strada tracciata da precedenti studiosi e ricercatori che consideriamo pre-umanisti, seguiti da poeti e scrittori del trecento, in parte sconosciuti.

Merito di Petrarca era stato di aver trasformato in elegante, il decadente latino usato dagli scolastici, e aveva impresso nuovo impulso e nuovo metodo nello studio degli antichi scrittori; e nell’antichità egli ritrova la fonte di ogni  insegnamento morale e  letterario.  

Egli aveva inoltre rivalutato la figura del letterato, non più ristretto nei confini del proprio paese, ma di carattere, che possiamo definire, europeo, avendo intrecciato rapporti con i dotti di ogni paese e fornendo all’Europa, fino allora legata alla teologia, un legame filosofico e letterario di  diversa natura, creando una nuova entità, diversa dalla Chiesa e dallo Stato, alla quale gli Umanisti daranno il nome di  ”Repubblica delle Lettere”  e Carducci considererà Petrarca il suo fondatore.  

Le nuove vie additate da Petrarca e di cui egli probabilmente non aveva avuto neanche la piena  consapevolezza, acquistano, negli studiosi che lo seguono, una sempre più chiara coscienza, fino al rinnovamento di tutta la cultura che, nei c.d. secoli bui del medioevo (dalle invasioni barbariche alle soglie del risorgimento carolingio), si era sempre mantenuta viva, con il fervido lavoro svolto dai monaci amanuensi, nel claustrale silenzio degli “scriptoria”, in cui  erano stati trascritti e moltiplicati i testi degli antichi scrittori.  

 

I PRE-UMANISTI

 

L

a cultura classica dell’Umanesimo e del Rinascimento affonda le sue radici nel pensiero medievale, le cui origini si possono individuare nella “rinascenza carolingia” (v. Articoli: Carlo Magno e l’idea dell’Europa), alla quale avevano partecipato quasi tutti i paesi europei compresa  l’Italia, che si può collegare al  primo viaggio e soggiorno compiuto da Carlo Magno in Italia il quale aveva al suo seguito PIETRO DA PISA, PAOLINO DI AQUILEIA, PAOLO DIACONO.

Nel successivo sec. XI, a Cassino, ALFANO DI SALERNO (1085) autore di opere teologiche e di medicina, era stato promotore del “rinascimento cassinese”.

Nel successivo sec. XII troviamo GIACOMO DA VENEZIA probabilmente originario della Calabria bizantina, al quale si attribuiscono traduzioni di opere di Aristotele, raccolte in Sicilia e a Bisanzio,  quali la Logica Nuova,  comprendente Analitici Primi e Secondi, i Topici, gli Elenchi e i Parva Naturalia.

ENRICO ARISTIPPO (1162) arcidiacono di Catania divulgatore di opere greche e arabe, traduttore del Fedone, Menone e del libro IV dei Meteorologica di Aristotele e di opere di Gregorio  Nazianzeno e Diogene Laerzio. 

Tra questi pre-umanisti, non sono da dimenticare i tanti ricercatori e traduttori di opere sepolte nelle biblioteche capitolari o dei monasteri i cui nomi non ci sono stati tramandati.

A Verona nel sec. XIV GUGLIELMO DA PASTRENGO (1290-?), continuando l’opera di altri suoi coetanei, trasse in luce dalla Biblioteca capitolare, libri rari, tra i quali opere di Plinio il Giovane e di Varrone.

Sono da ricordare alle origini di questo Umanesimo filologico italiano, la ricerca delle fonti del diritto romano compiuta da giuristi e notai tra i quali troviamo a Padova, il giurista LOVATO DEI LOVATI e il notaio, ALBERTINO MUSATTO (v. sotto).

BENZO D’ALESSANDRIA, della prima metà del secolo XIV, precorse col suo metodo critico Petrarca e Poggio Bracciolini (v. in Specchio dell’Epoca, Varietà della Fortuna ecc.) e compilò, tra l’altro una Enciclopedia Storica, avvalendosi di fonti antiche.

A Bologna tra i primi ricercatori  si ricordano il canonista GIOVANNI D’ANDREA (1270/75-?) e il biografo ed espositore di Ovidio,  GIOVANNI DEL VIRGILIO (tra XIII e XIV sec.), insegnava poesia latina, una novità nel medioevo e scrisse le “Ecloghe”; di grande interesse la sua corrispondenza epistolare con Dante.

 

DANTE

 

I

l sec. XIV è stato per l’ Italia un secolo di alta fioritura letteraria che già nel secolo precedente aveva avuto un personaggio come DANTE ALIGHIERI (1265-1321), che tra i poeti del dolce stil novo aveva raggiunto maggior fama e con la sua Commedia (solo successivamente definita “Divina”), si era assicurato l’immortalità per tutti i secoli a venire.

L’insuperabile poema di tutti i tempi, concepito con una struttura fortemente teologica, vera e propria summa della scienza e della teologia medievale, era il frutto delle passioni sprigionate dalla sua forte personalità, dalla sua fervida fede e dal suo intuito profetico.

Appartenente alla fazione dei “Bianchi”, Dante era iscritto alla Corporazione dei medici e degli speziali, vivamente partecipe della vita politica del tempo, membro nei Consigli comunali, ambasciatore della repubblica e priore.

Bandito da Firenze (27 giugno 1302) quando la città ricade in mano alla fazione dei “Neri” (la faziosità che in Italia dura tutt’ora, anche se in forma più diluita, a quei tempi era tale che se si riusciva a non perdere la vita e non si addiveniva a compromessi, si doveva andar via non solo dalla città ma dal territorio da essa dominato), allontanandosi da Firenze e accettando l’esilio per tutto il resto della sua vita.

Dante pur nella sua sventura aveva scritto  la “Vita Nova”, in cui alternando la prosa ai versi aveva narrato in forma allegorica il suo amore giovanile per Beatrice, seguita dal “Convivio”, che costituisce una sua continuazione e sviluppo e tende all’esaltazione della filosofia; il libro fu concepito come un commento a quattordici canzoni fondate sull’amore, in quindici trattati (ma ne furono scritti solo quattro), uno introduttivo e tre con commento di tre canzoni.

Nel “De Vulgari eloquentia”, tratta del volgare italico (che diverrà la lingua italiana)  che allora si stava facendo strada; volgare esaltato nel “Convivio”, sebbene il testo fosse stato scritto in latino; il trattato, doveva essere di quattro libri, ma era rimasto interrotto al cap. XIV del secondo libro.

In latino erano state scritte  anche le “Epistolae”, formulate in aderenza alle regole delle artes dictandi, dieci in tutto (più tre scritte a nome della signora di Battifolle), importanti per la conoscenza del carattere e delle idee politiche del poeta.

Queste idee vennero maturandosi, assumendo forma definitiva nel “De Monarchia”, trattato scritto anch’esso in latino, probabilmente durante gli anni della discesa di Enrico VII in Italia, in cui Dante tende a dimostrare che la monarchia universale è necessaria al genere umano, e deve essere esercitata dal popolo romano per diritto concesso da Dio, e che le due diverse autorità, dell’imperatore e del papa, sono indipendenti, se pur complementari.

Scrisse inoltre, in esametri latini, due “Eclogae”, dirette a Giovanni del Virgilio, maestro di latinità nell’Università di Bologna; una “Quaestio de aqua et terra”, piccolo trattato di fisica, composto in latino, mentre aveva scritto in volgare un considerevole gruppo di “Rime”.

 

 PETRARCA

 

P

ersonalità diversa FRANCESCO PETRARCA (1304-1374), con carattere dubbioso, incline alla melanconia (v. in Articoli: Rinascimento magico alla Corte di Elisabetta II), studioso appassionato della antica classicità, sensibile alla vanità della fama “or attratto dal viver largo e intrigante delle Corti, or dall’isolamento della campagna”.

Credette di assicurare la sua fama a un macchinoso poema eroico in esametri latini: “Africa”, che trae argomento dalla seconda guerra punica, ma la fama la ottenne con l’opera immortale  delle  “Rime sparse” (Canzoniere), dov’egli canta il suo amore per Laura.

Petrarca aveva scritto molte opere in latino che lo avevano reso il vero e proprio iniziatore dell’Umanesimo: il “Carmen bucolicum”, raccolta di 12 ecloghe allegoriche; “Epistolae metricae”, utili per la conoscenza della vita e del carattere del poeta, benché siano poco attendibili, “De viriis illustribus”, “Rerum memorandarum”, “Itineratimn Siriacum”; trattati ascetici: il “Secretum”, “De vita solitaria”, “De otio religiosorum”, il “De remedia utriusque fortunae”; scritti polemici diversi, e moltissime “Epistolae” (Familiares, Seniles, Variae et Sine titulo), che egli stesso raccolse e ordinò e infine  i “Trionfi”, poema allegorico in terza rima.

 

 BOCCACCIO

 

C

ome il Petrarca, ancora legato al medioevo ma già con un principio di distacco da quella età, GIOVANNI BOCCACCIO (1313-1375), dalla mercatura era passato alle lettere in cui aveva mostrato la sua felice creatività, ebbe vita facile, dedita ai piaceri, poi si occupò di cose pubbliche e da ultimo fu preso da crisi religiosa.

Nella giovinezza aveva composto diversi poemi in volgare, di vario genere: “Filostrato”, “Teseide”,  “Ninfale isolano”, ”Amorosa visione”, “Fiammetta”, con sfondo autobiografico e una satira contro le donne: “Corbaccio o Labirinto d’amore”. Compose anche liriche di carattere amoroso, ma di scarso valore poetico; la sua grande opera, “Decameron”, raccolta di cento novelle concatenate da una finzione, tra le quali molte di derivazione dalla novellistica classica e medievale, ma che egli  aveva  ricreato e fatte sue.

Descrivendo situazioni tra il comico e il burlesco che lo divertivano, non senza qualche vena di amarezza, aveva ritratto gustosamente tipi di buontemponi, furbi, gonzi, triviali, e cosi via;. in questo  autentico capolavoro della letteratura si ritrova un mondo trecentesco che usciva dalle nebbie medievali e si affacciava alla vita che rinasceva con un’insaziabile desiderio di vivere, di godere e di sentirsi vitale.

Oltre al “Decameron”  che rimane la sua opera immortale, Boccaccio aveva scritto in volgare la “Vita di Dante” e il “Commento ai primi XVII canti della Divina Commedia”, ma poi sì darà tutto al culto della letteratura antica, e in latino scriverà opere erudite: “De Genealogia deorum gentilium”; “De montibus silvis, lacubus, fluminis”; “De claris mulieribus”; ecloghe, epistole, biografie, che sono la manifestazione di un iniziatore dell’Umanesimo.

 

 

POETI E SCRITTORI

DEL TRECENTO

 

 

I

l Trecento italiano è tutto un rigoglio di poeti e di scrittori, tra i quali troviamo Francesco Stabili detto CECCO D’ASCOLI, (1269-1327), che con “Lacerba” volle denigrare ed emulare la Divina Commedia; FAZIO DEGLI UBERTI (?-1368) autore del “Dittamondo”, poema allegorico che ha un suo particolare valore e accanto al quale si deve ricordare per la comune derivazione dantesca, FEDERICO FREZZI (1346?-1416) autore del “Quadriregio”, ampolloso poema che imita la divina commedia; lirici che risentono a un tempo, del  dolce stil novo e del Petrarca, come i fiorentini MATTEO FRESCOBALDI, SENNUCCIO DEL BENE, CINO RINUCCINI, FAZIO DEGLI UBERTI, BUONACCORSO DA MONTEGNANO, FRANCESCO VANNOZZO, SIMONE SERDINI, CECCO ANGIOLIERI ed altri.

Accanto a costoro vi è un altro gruppo toscani di poeti, borghesi o popolareggianti, quali BINDO BONICHI, ANTONIO PUCCI, FRANCO SACCHETTI (1330-1400) con le Dugento novelle, NICCOLO’ SOLDANIERI, ALESSIO DONATI, PIERO CANTERINOANDREA DE MAGNABOTTI ed altri.

Sulle orme del Boccaccio, troviamo ancora in terra toscana, GIOVANNI DI FIORENTINO (1418-1506?) con le novelle del “Pecorone”  il già ricordato Franco Sacchetti e gli asceti GIORDANO DA RIVALTa (m.1411), fra’ DOMENICO CAVALCA (1270 c.a-1342), JACOPO PASSAVANTI (1302- c.a-1357)), GIOVANNI COLOMBINI (1304-1367), GIOVANNI DELLE CELLE (1310c.a-1394), CATERINA BENINCASA (1347-1380)-; anonimi nascevano i famosi  “Fioretti di san FRANCESCO (1181/82-1236).

 

 

SCRITTORI DI CRONACHE

 

 

A

nche numerosi furono gli scrittori di “Cronache”,  tra i quali sono da ricordare: DINO COMPAGNI (l267?-1354), autore della “Cronica delle cose occorrenti  nei  tempi suoi”, efficace rappresentazione della turbolenta e faziosa vita comunale fiorentina; GIOVANNI VILLANI (m. 1348), che compose la Cronica dalla torre di Babele al 1348”, continuata dal figlio MATTEO sino al 1363 e dal figlio di questo, FILIPPO fino al 1364; dalla fresca prosa, sono gli Ammaestramenti degli antichi”  di frà BARTOLOMEO da S. CONCORDIO (1262-1347) e  i “Fatti di Enea” di GUIDO DA PISA (metà XIII-metà XIV sec.).

Tra gli scrittori di storia troviamo il veneto GUIDO ALBERTINO MUSATTO (1261-1329), autore della “Historia Augusta” nella quale aveva preso come modello Tito Livio, e della tragedia su Ezzelino da Romano, “Ecerinis” (v. in Articoli: Ezzelino, mostro e tiranno ecc. e Schede, Eccerinis ecc.), in cui aveva preso come modello Seneca; FERRETTO FERRETTI (1296c.a-1337), autore di un poema latino in lode di Can Grande della Scala e di una “Historia d’Italia” dal 1250 al 1318.

Il toscano COLUCCIO SALUTATI (1331-1406), si era definito di “gens italicus, patria florentinus, natura et affectione guelphus”; scrittore di “Ecloghe”, e del poema didascalico “De fato et de fortuna”, e soprattutto promotore di studi e ricerche di testi, a lui si deve la chiamata del primo maestro di greco a Firenze, Emanuele Crisolora.

Rappresentò la prima figura di “cancelliere” (della Signoria fiorentina), colto, diplomatico, dalla raffinata eloquenza, era il modello che sarà ricercato da principi e governi del secolo successivo;  dedito ai doveri civici, intesseva una corrispondenza diplomatica “ufficiosa” con appelli alla “libertà italica”, contro il malgoverno dei legati pontifici o contro la tirannide dei Visconti, oppure per porre fine allo scisma della Chiesa, oppure facendo appello “ai tesori della scienza e dell’arte che la barbarie degli avi aveva se non distrutti, nascosti”.

Queste lettere sono raccolte nel celebre “Epistolario”, formato da 325 lettere divise in XIV libri, indirizzate fra gli altri ai papi Bonifacio IX e Innocenzo VII, a Giovanni Boccaccio, a Francesco e Leonardo Bruni, Francesco da Carrara, Francesco Gonzaga ed altri.

Infaticabile ricercatore di testi antichi, aveva scritto in Francia per avere Omero, in Spagna per rintracciare Plutarco, in Germania per richiamare le “Deche” di Tito Livio, a Milano per recuperare Varrone, a Mantova per scoprire Ennio; fu così che scoprì le “Epistolae ad familiares” di Cicerone.

Per la impostazione metodologica che mostra di fronte agli studi dei testi classici, Salutati può essere ritenuto il primo filologo, nel senso moderno della parola, iniziatore della critica dei testi (raccolta dei manoscritti, catalogazione, ecc.).

Tra le altre sue opere: “De seculo et religione”, “De fato, fortuna et casu” in cui viene affrontato il problema della provvidenza e del libero arbitrio, polemizzava sulla astrologia; “De nobilitate legem et medicine”, “De tyranno” e “De laboribus Herculis”.

Tra gli storici, scrittori di cronache, troviamo ancora: LEONGIOVANNI CAVALCANTI, geografo, nativo di Granada; dopo la presa della città (1492) si trasferì in Africa dove moriva (m. 1526), perciò detto l’Africano; aveva scritto le “Vite dei filosofi arabi” e in arabo “Descrizione dell’Africa”, che poi tradusse in italiano; NERI (di Gino) CAPPONI (1388-1457), LUCA LANDUCCI (1437-1516), il suo “Diario Fiorentino” copre il periodo (1450-1516); PANDOLFO COLLENUCCIO (1444-1504), scrisse opere in volgare e latino, tra le principali “Compendio delle istorie del regno di Napoli”;  BERNARDINO CORIO (1459-1519), è nota la sua “Patria Historia” ovvero “Storia di Milano” e “Storia dei Cesari da Giulio a Fedrico Enobarbaro”, e altri, con i quali si chiude la fase umanistica preparatoria del Rinascimento.   

 

 

A FIRENZE

 

F

irenze fu il centro più attivo dell’Umanesimo, per la cui diffusione si erano prodigati gli autori citati, ai quali sono da aggiungere LUIGI MARSILI (1342-1348), presso il quale, nel convento di S, Spirito, si raccoglievano studiosi, come altri presso AMBROGIO TRAVERSARI (1386-1439), in quello di S. Maria degli Angeli e altri ancora nella villa detta “Paradiso degli Alberti”, dove troviamo GIANNOZZO MORETTI (1369-1459), il quale ebbe incarichi di ambasciatore presso governi, papi e infine a Napoli (dove morì) presso Alfonso d’Aragona; oltre a traduzioni dal greco, scrisse la vita di Dante, Petrarca e Boccaccio in italiano e in latino e in questa lingua il “De illustribus longevis”, un trattato sulla dignità dell’uomo, in voga in periodo umanistico, “De dignitate et excellentis hominis libri IV” in cui è esaltata la natura umana e la prima presa di coscienza  dei nuovi valori portati dall’Umanesimo e un trattato pedagogico “De liberis educandis”.

Cosimo de’ Medici fu spinto da Giannozzo Manetti e dalla presenza di Giorgio Gemisto Pletone (v. in Schede Filosofiche: Differenze tra Platone e Aristotele ecc.) a creare la prima accademia, che fu detta “platonica” per  l’indirizzo filosofico  seguito e della quale facevano parte  MARSILIO FICINO, GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA (v. sotto) e CRISTOFORO LANDINO (1424-1504), poeta latino, divulgatore delle dottrine platoniche e commentatore di Dante in volgare.

 

A PADOVA

 

P

resso il celebre “Studio” che seguiva l’indirizzo averroistico-aristotelico (v. Articoli: I primordi dell’Averroismo e la scuola Averroistico-Aristotelica di Padova), troviamo ERMOLAO BARBARO (1453-1493) che in quello studio, per quattro anni, aveva insegnato filosofia aristotelica, e aveva aperto poi a Venezia una scuola privata in cui aveva continuato l’insegnamento aristotelico (v. Articoli: “Primi umanisti e stampatori veneziani); traduttore delle opere dialettiche e retoriche di Aristotele, non terminò il suo disegno di tradurre tutti gli scritti aristotelici; scrisse il poderoso testo “Castigationes Plinianae” dalla erudizione enciclopedica.

Anche PIETRO POMPONAZZI (1462-1525) laureato in medicina nello “Studio” di Padova, vi aveva insegnato filosofia naturale (1495 al 1509), trasferendosi poi all’università di Ferrara e infine a quella di Bologna.

Aautore del  trattato “De immortalitate animae”, si propone di dimostrare che l’anima non è immortale e che il vizio e la virtù hanno in se stessi la punizione e il premio: Questa tesi sollevò parecchie critiche e accuse di eresia, che lo conducevano dritto all’Inquisizione, da cui Pomponazzi riuscì a salvarsi grazie all’aiuto di Pietro Bembo. 

 

A ROMA

 

A

nche ROMA ebbe un’accademia, fondata da POMPONIO LETO (1425-1497), alla quale  appartenne il filologo Bartolomeo Sacchi, detto il PLATINA (1422-1481),  il quale fu incarcerato sotto il pontificato di Pio II per uno scritto polemico contro il papa e poi perché accusato di empietà, panteismo e congiura insieme a Pomponio Leto e Filippo Bonaccorsi.

Oltre alla “Vita di Vittorino da Feltre” e “Opus in vita  omnium pontificum”, scrisse “De Falso et vero bono” in cui vengono criticati l’epicureismo e  lo stoicismo, per affermare che solo Dio è il sommo bene, e “De vera nobilitate”  in cui identificando la nobiltà con la virtù e la sapienza, ne trae lo spunto per esaltare la dignità dell’uomo; a Roma troviamo anche il cardinale BASILIO BESSARIONE  (v. cit. Art. Polemiche umanistiche tra platonici e aristotelici), che nella sua casa aveva aperto una scuola filosofica di indirizzo platonico.

 

 

A NAPOLI

 

A

lla corte del primo Alfonso d’Aragona (1396-1458, v. in Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo P.IV, Il regno di Napoli), a NAPOLI, sebbene i catalani fossero considerati dagli italiani “semibarbari et efferati homines”, ed era noto che i principi spagnoli disdegnassero le lettere: “non convenir le lettere a nobile e generoso uomo”, Alfonso appena vi si stabilì si circondò di letterati e filosofi umanisti come Antonio Beccadelli, detto il PANORMITA (1394-1471), poeta, autore di numerose opere tutte in latino, il quale fondò l’Accademia napoletana, che fu poi detta “Pontaniana”, perchè dopo il Beccadelli la presiedette il poeta GIOVANNI PONTANO (1426-1501), che  usava un latino elegante, liberamente rinnovato, e si era segnalato per una raccolta di poesie erotiche sul modello catulliano; la sua produzione letteraria è stata ampia tra i quali i trattati, “De Fortuna” e  “De Principe” e agli studi astrologici aveva dedicato i tetsi “De rebus coelestibus”; “Commentum in centum Ptolomaei sententis;”: “De Luna”.       

All’ Accademia appartennevano anche il poeta GIANNANTONIO PETRUCCI (1456-1486), IACOPO DE GENNARO (1436-?), lo spagnolo di Barcellona Benedetto Gareth detto il CHARITEO (1450-1514), autore di belle rime; JACOPO SANNAZZARO (1457-1530), LORENZO VALLA (1405/7-1457), ANTONIO DE FERRARIS (1444-1517) detto GALATEO  (il cui nome passò ad indicare il libro di monsignor Della Casa),  autore del trattatello di etica e pedagogia “De Educatione” (rimasto inedito e pubblicato nel 1865), e altre operte.

Il re Alfonso ascoltava estasiato i letterati, e, per le corti, circolava la storiella della mosca che si era fermata sul suo naso, mentre ascoltava estasiato,  della quale non si era accorto per tutta la durata del discorso.

Accanto alla letteratura colta, a Napoli fiorì una notevole produzione di rime e canzonieri, che portò alla fusione delle lingue castigliana e catalana (la lingua castigliana, più dolce e raffinata  rispetto al catalano più rude e gutturale; quella fusione però era rimasta solo nell’ambito del regno di Napoli e non aveva raggiunto la sponda di Spagna (dove troviamo ancora oggi gli insensati catalani gelosi della loro autonomia e della loro lingua, che si sentono estranei al resto del Paese dal quale   vogliono separarsi!).  

 

 

 Lorenzo il Magnifico – Firenze – Uffizi

 

 

LA POESIA VOLGARE

DEL QUATTROCENTO

 

 

L

a POESIA VOLGARE del Quattrocento italiano non era andata al di là di una normale mediocrità; vi furono parecchi imitatori della Divina Commedia, di nessun pregio, mentre tra i petrarchisti si possono ricordare GIUSTO DE’ CONTI (1390-1449), autore di “Bella Mano” un canzoniere di 146 tra sonetti e canzoni; con minori pretese poetiche troviamo, LEONARDO GIUSTINIAN (1388.1446), dotto patrizio veneziano, autore di strambotti e canzonette d’intonazione amorosa popolareggiante.

Così come popolareggianti erano le composizioni delle  rappresentazioni sacre, quasi tutte anonime, dette anche misteri e devozioni, specchio della società del tempo nel loro anacronismo e in  non pochi tratti, novellistici o aneddotici.

Tipico rappresentante di poesia  burlesca, il fiorentino Domenico di Giovanni detto il BURCHIELLO (1404-1449), in cui si ritrova più stranezza che  poesia.

Più vigoroso nella vena satirica Antonio Cammelli detto  IL PISTOIA (1430-1502), il quale però cade nel triviale e nello sconcio.

LORENZO DE’ MEDICI (1449-1492), grande mecenate, con qualità poetiche, ebbe idee di larghissime vedute, amico e protettore di letterati e  artisti, in lui si ritrovano nello stesso tempo vivacità popolare e raffinatezza classica.

In gioventù aveva composto liriche tra il duecentesco e petrarchesco, poi un poemetto filosofico “Altercazione” quindi due altri poemetti mitologico-pastorali: “Corinto” e “Ambra”, e  poi le “Selve” e infine, allegorie amorose.

Di  diversa ispirazione, tra realtà e caricatura, sono Nencia da Barberino”, “I Beoni”, “La Caccia al falcone”,Le Canzoni a ballo”, e i “Canti carnascialeschi”; il Magnifico infine scrisse  “Rime spirituali”  e “Rappresentazioni sacre”.

Artista originale, di finissima e delicata sensibilità, Angelo Ambrogini, detto POLIZIANO (1454-1494). umanista tra i più colti e geniali, che della sua dottrina e acutezza lasciò  una impronta nei “Miscellanea”, nelle “Prolusioni” ai suoi corsi dello  Studio fiorentino, e nei  versi delle famose “Selvae” dove, si dimostra  poeta latino non inferiore al poeta volgare.

Scrisse inoltre la “Giostra”, un poema in ottava,  rimasto  incompiuto  in cui doveva celebrare quella vinta da Giuliano de’ Medici (v. in Specchio dell’Epoca: La congiura de’ Pazzi), tutto pervaso da lieve malinconia come chi rievochi un giovanile sogno d’amore, che costituisce appunto il tema dominante delle sue  liriche, degli strambotti, dei rispetti, delle canzoni e costituisce anche il tema dominante  della “Favola di Orfeo”, un dramma mitologico modellato sullo schema delle rappresentazioni sacre.

Il poeta il cui nome è rimasto legato al poema cavalleresco “il Morgante” di LUIGI PULCI (1432-1484), segna il disfacimento della letteratura cavalleresca, alla quale guarda con nostalgia MATTEO MARIA BOIARDO (1434-1494) che dopo aver composto “il Canzoniere” di intonazione petrarchesca, le “Ecloghe” in latino e italiano  e aver fatto traduzioni dal latino e dal greco, nell’ “Orlando innamorato” cantò nostalgicamente quel mondo scomparso.

Grande prosatore LEON BARTTISTA ALBERTI (1404-1472), menzionato tra gli architetti  (v. sotto par. Architettura), forbito umanista, scrittore latino e ottimo scrittore in volgare nel trattato “Della famiglia”; altro umanista, JACOPO SANNAZZARO (1456-1530), poeta in latino compose con “l’ Arcadia” un poema in prosa e versi piuttosto stucchevole, il cui motivo ispiratore è la natura, ma la natura vista attraverso la mitologia e il mondo classico.

Più fresca la prosa popolaresca di San BERNARDINO DA SIENA (1380-1440), con le laudi e sacre rappresentazioni, autore della “Vita del beato Colombini”; seguace del Boccaccio, Tommaso Guardati detto MASUCCIO SALERNITANO (1420-1500}, autore di cinquanta novelle del “Novellino” che lo pongono su un piano superiore rispetto ai novellieri quattrocenteschi come GENTILE SERMINI, SABBADINO DEGLI ARIENTI (1445 c.a-1510)  e altri.

Alla storia dell’Umanesimo nella sua fase primitiva sono pure legati in Italia i più noti BRUNETTO LATINI (1220c.ca-1294/95), CINO DA PISTOIA (1270-1336), PIETRO D’ABANO, GIOVANNI DI JANDUN, MARSILIO DA PADOVA (per questi ultimi tre, v. in cit. Art. Scuola Averroistica Aristotelica ecc.); a questi si possono aggiungere gli averroisti TADDEO DI ALDEROTTO (1215-1295) e ANGELO D’AREZZO o GUIDO POMPOSIANO; gli arabisti e astrologisti CECCO D’ASCOLI, GUIDO BONATTI, UGO e TOMMASO DEL GARBO (991/2-1033 c.a),  teorico della musica e RESTORO D’AREZZO cosmografo, autore di un trattato enciclopedico, “La composizione del mondo colle sue cascioni” in cui riporta teorie di Aristotele, Tolomeo, Averroé e Avicenna.

Con gli Umanisti italiani contribuirono allo sviluppo della cultura anche gli altri dei Paesi  europei che esaminiamo in rapida carrellata.

 

 

IN

GERMANIA

 

 

N

ella letteratura della Germania, nel corso del sec. XIV, troviamo due non eccellenti poeti: l’austriaco ALBERTO ENRICO TEICHNER ( circa 1380) e il suo contemporaneo e compatriota PIETRO SUKENWIRT che coltivarono la poesia didascalica in componimenti vari e CONRAD D’AMMENHAUSEN compositore di un poema allegorico: “Il libro degli scacchi” (Schachzabelbouch), probabilmente imitato dal poema latino di Jacques de Cessole che ULRICH BONER, un frate predicatore svizzero che aveva svolto la sua attività tra il 1320 e il 1350, scrisse e raccolse, adattando da antichi favolisti e narratori francesi, in un centinaio di apologhi: “La Pietra preziosa” (Der Eldestein).

Una vena di schietta e seducente poesia si incontra soltanto nei numerosi canti anonimi che si dicono popolari, mentre, fiorisce il dramma religioso scritto in volgare tedesco, da autori come MASTRO ECKART (1260-1327) e i suoi continuatori E. SENSE  e JOHANN TAULER, (1300-1361) i più grandi mistici tedeschi.

Non abbiamo notizie di AMOLONIO RATINK il quale cercò, raccolse e fece trascrivere codici greci e latini anticipando Niccolò da Cusa (v. sotto), scopritore di tesori bibliografici.

In epoca più avanzata troviamo SEBASTIAN BRANT (n. 1458) umanista di Strasburgo, autore del poema satirico-didascalico in lingua tedesca “Vascello dei matti” (Narrenschiff), enciclopedia sapienzale che caratterizza i tempi fra Medioevo ed Evo moderno, abbracciando ogni disciplina morale (*), tradotto in latino da J. Locher col titolo: “Stultifera navis, Narragonice perfectionis numquam satis laudata Navis” (Basilea, 1497).

Di questo testo, Google (v. in Schede: La grande biblioteca virtuale di Google), ci ha dato solo l’emozione di vederne la traduzione in francese, fornita dalla Biblioteque Nationale de France sotto il titolo “Le regnars traversant les perilleuse voyaes des folles fiances du monde composées par Sebastian Brand....”, in caratteri gotici, vi dovrebbe essere una versione più leggibile in caratteri moderni (purtroppo ci troviamo nella impossibilità di una segnalazione a Google, negata ai comuni mortali, che, come chi scrive, per le impostazioni burocratizzate ... non hanno la possibilità di accedere!).

Il Narrenschiff divenne poi “Lo Specchio dei matti” (Der Narren Spiegel, Strasburgo, 1519] e, sia sotto questo titolo sia sotto quello primitivo, fu la prima opera di carattere europeo ad avere un grande successo editoriale, con moltissime edizioni e traduzioni in olandese, francese, inglese e in basso tedesco, tutte dalla traduzione latina, ebbe anche per tutto il cinquecento fino all’ottocento, numerosissime imitazioni; celebrata dai contemporanei come “satira divina”, “si rivela nel suo significato storico, come l’ultima voce dell’Umanesimo cattolico tedesco, alla vigilia della Riforma, come la voce di uno che grida nel deserto”.   

  

*) L’autore finge di imbarcare tutti i matti del paese di Cuccagna su un vascello che fa vela per “Narragonien” (Mattagonia), il reame della Follia; rappresentanti di tutte le classi sociali: il clero, i nobili, la giustizia, l’università, i mercanti, i contadini, i cuochi, ecc. prendono posto sul vascello. A ciascun matto viene dedicato un capitolo, cosicché, oltre alla prefazione e all’epilogo, risultano in tutto 112 capitoli indipendenti l’uno dall’altro.

Il contenuto di ogni capitolo è universale ed eterno, poiché rappresenta la caricatura di un determinato vizio umano personificato da un matto, così che abbiamo il Matto della moda, il Matto dell’avarizia, il Matto della discordia, ecc. L’autore inserisce anche se stesso e si dipinge nel primo capitolo come matto dei libri, fra i matti cioè che ammucchiano libri di saggezza senza per questo diventare saggi.

 

IN

FRANCIA

 

Nel sec. XIII in Francia il culto della classicità fioriva con GEROUD (GERARD) D’ABBEVIILLE (1220-1272), RICHARD DI FOURNIVAL (1123?-1260), VINCENT DE BAUVAIS (1190-1264), autore dell’enciclopedia “Speculum Magnus” e numerose altre opere, seguiti, nel secolo successivo dal filologo JEAN DE MONTREUIL, dal latinista NICOLAS DE CLAMANGES ed altri.

Tra il Tre e Quattrocento troviamo il celebre JEAN FROISSART (1337-1410 circa) autore delle “Cronaques”, che nel francese dell’epoca, ci danno una rappresentazione  della civiltà, della vita e costumi del suo tempo, con episodi spiritosi e divertenti aneddoti e  pettegolezzi.

Tra gli altri poeti francesi, non di spicco, troviamo GUGLIELMO DE MACHAULT (1290/95-1377), virtuoso del verso che poco aveva da esprimere o come  EUSTACHE DUCHAMP (1338/49-1415c.a), poeta non di alta levatura, dal realismo truculento, che nei suoi versi narra tutti i propri casi personali e gli avvenimenti del tempo.

In questo periodo pre-umanistico si scriveva un po’ di tutto: romanzi cavallereschi e favole, allegorie religiose e profane, e attraverso questo lavoro la letteratura francese veniva a conoscere Tito Livio, tradotto da PIERRE BERSUIRE (1290-1362), mentre  NICOLAS D’ORESME (1323-1382) traduceva dal latino le opere di Aristotele.

Nel Quattrocento, sono due le personalità che dominano la letteratura francese: Francois de Morcombier che dal nome del proprio maestro prese quello di  FRANCOIS VILLON (1431-1463 c.a), giovane scioperato e disordinato, ma vero e grande poeta che cantò l’ambiguo mondo in cui viveva, in versi immortali; fu per forza e sentimento tra i più potenti poeti di ogni epoca e  da solo rappresenta tutta la poesia del Quattrocento francese,  seguito in chiave  minore da ALAIN CHARTIER (1394-1439), mentre qualche sprazzo di poesia si può cogliere anche nelle rime di  CHARLES D’ORLEANS (1391-1465).

Nella prosa è viva e fresca l’opera di FILIPPE DE COMMYNES (1447-1511c.a), che aveva annotato con acutezza gli avvenimenti del regno di re Luigi XI; esperto nei segreti diplomatici del tempo e ottimo osservatore dell’umanità francese dell’epoca  e non solo francese, seguito da ANTONIO DE LA SALLE, che nel “Jehan de Saintré” con ironia decompone il mondo cavalleresco, preludendo a Cervantes; ma nelle “Quinze Joies de mariage”, e in  “Cent nouvelles nouvelles”, decade in non elegante volgarità; GUILLAUME BUDé (1468-1540) erudito umanista dalla prodigiosa memoria grazie alla quale si formò una vasta cultura nel campo della filologia classica, storia, scienze naturali, diritto, medicina e teologia.

Fu segretario di Luigi XII e come bibliotecario di Francesco I creò la biblioteca che fu poi trasportata a Parigi formando il primo nucleo della Biblioteque Nationale la cui sede centrale sarà portata nel palazzo del cardinale Mazzarino; tra le  opere di vario genere, troviamo: “Annotationes XXIV libros Pandectarum”; “Libri V de asse et partibus eius”; “De contemptu rerum fortuitarum libri III” ; “Dell’educazione del principe”.

 

IN

GRAN BRETAGNA

 

I

n Gran Bretagna nel sec. XIII troviamo il vescovo, collezionista di codici classici, RICHARD DE BURY (1287-1345), autore del  “Philobiblon”, il più antico trattato di bibliofilia; il successivo secolo XIV si chiude con la morte del primo grande scrittore di  lingua inglese GOFFREDO CHAUSER (1340-1400) traduttore del “Roman de la Rose”; dopo un viaggio in Italia (1372) rinnovatosi con gli influssi di Boccaccio, scrisse il poema “Troilo e Criseide” derivato dal Filostrato, e la “Casa della fame” con influssi danteschi; con la “Leggenda delle buone donne”  liberatosi dalle imitazioni, Chaucer scisse il suo capolavoro: “The Canterbury Tales” (I racconti di Canterbury), in cui rappresenta la società inglese del suo tempo.

Decadenti imitatori di Chauser e ultimi rappresentanti della letteratura anglo-normanna, furono JOHN LYDGATE (1430); GIACOMO I di Gran Bretagna e Scozia (1394-1437), autore del poema erotico: “Il Quaderno del re” (per Demonologia v. in. Le streghe di Windsor ecc.); lo scozzese GUGLIELMO DUNBAR (1460-1520?) sviluppa accenti umoristici e satirici nella “Danza dei sette peccati mortali nell’Inferno”.

Un gustoso rifacimento della leggenda del ciclo arturiano  troviamo nel romanzo cavalleresco  “Morte di Arturo” di THOMAS MALORY pubblicato nel 1740.

L’età di Chaucer è una delle più felici della letteratura inglese, quella in cui la lingua volgare acquista definitiva fisionomia; è da ricordare il cronista  HIDEGEN, che verso la metà del Trecento compose in latino una cronaca: “Polychronicon”, che pochi anni dopo un umile curato, JOHN OF TREVISA (1342-1402), tradurrà in volgare, usando l’arcaico dialetto del Sud-Ovest.

Per la formazione della prosa inglese ebbe influenza con la sua fresca e ingenua traduzione, il medico francese JEAN DE BOURGOGNE (1415-1491) nei “Viaggi di Sir John Mandeville”, curioso libro di fantasia, composto a emulazione dei viaggi di Marco Polo, che  nella traduzione inglese ebbe grandissima fortuna; e, da ultimo, tra i molti poemi epici tradotti dal francese o liberamente fioriti in Inghilterra, è da ricordare “Bruce”, il poema nazionale degli Scozzesi, composto tra 1375 e il 1378 da  JOHN HARBOUR, che fu anche scrittore agiografico.

 

IN

SPAGNA

 

 

A

lla Spagna appartengono, JUAN RUIZ (1283-1350), arciprete di Hita, presso Guadalajara, amante del vivere piacevole, comodo e spregiudicato, poeta dalla spiccata personalità, colto e disinvolto, utilizza nella sua opera  quanto apprezza di altri scrittori o poeti.

Scrittore fecondo e originale JUAN MANUEL (1282-1348), nipote di Alfonso X;  non tutte le opere ci sono pervenute, ma tra le molte giunte sino a noi, tra le quali il riassunto della “Cronica general”, noto come “Cronica Abreviada”, l’allegorico “Libro de Estados”; la sua opera maggiore resta “El libro de 1os enziemplos del conde Lucanor o de Patronio”, una specie di corrispondente spagnolo delle Mille e una notte.

Sotto il regno di re Alfonso X il Saggio (1221-84, v. in Specchio dell’Epoca, Corpus Juris Civilis ecc. par. Spagna), videro la luce testi come: “Le sette parti”, riguardante la storia della Spagna; la “Prima cronaca generale”; “La grande storia generale”; “Libri del saper d’astronomia”, in cui furono riassunte sistematicamente le dottrine tolemaiche, ed altre come l’ “Escala de Mahoma”, tradotta dal francese da Bonaventura da Siena, opera conosciuta da Dante che influenzò la Divina Commedia. 

Da ricordare anche RODRIGO YANES, probabile autore del “Poema de Alonso Onceno”, che può esser considerato il punto conclusivo dell’epopea castigliana, sbocciato quando gli antichi “Cantares de gesta” venivano ripresi da giullari e trasformati nei primi “romances”.

 Il rabbino SANTOS infine (fiorito tra 1350 e 1359), con le quartine dei suoi “Proverbi morales”, divulgò precetti della Bibbia, del Talmud e di Avicenna, arricchendo la letteratura didattica spagnola, che proprio in questa età andava fiorendo e si svilupperà nel sec. XV sotto l’influenza della letteratura italiana.

Dante, Petrarca e Boccaccio trovano numerosi imitatori tra i quali PEDRO LOPEZ DE AYALA (1332-1407), che ha lasciato versi ammantati da una dolorosa amarezza  nel “Rimario de Palacio”. ENRIQUE DE VILLENA (1384-1434), noto come negromante per la sua conoscenza dell’occultismo e magia, fu esperto conoscitore della letteratura italiana e tradusse la Divina Commedia, trasmettendo il suo amore per gli scrittori italiani a INIGO LOPEZ DE MENDOZA SANTILLANA (1398-1458), il maggior poeta dell’epoca anche se la sua poesia manca di originalità in quanto è poesia di riflesso in cui si ripete ciò che altri hanno già detto.

Nel campo delle opere umanistiche, la prima fase era fiorita presso la corte di Giovanni II di Castiglia e Leòn (1406-1414) che aveva trasformato la sua corte in accademia da cui uscì il “Cancionero de Stùñiga” compilato dopo la morte di Alfonso V d’Aragona (1458) che illustra la vita guerresca e cortigiana del viceregni di Napoli.

IÑIGO DE LOPEZ (1398-1458) animatore dell’umanesimo spagnolo che aveva trovato la sua espressione nei Cancioneros, quello di Baena (1445) dedicato allo stesso Giovanni II; il “Canzoniere di Stùñiga”, raccolta (1458) fatta a Napoli dopo la morte di Alfonso V; il “Canzoniere di Londra”, raccolta successiva al 1471 di poeti che vissero dopo il regno di Giovanni II, fino a quello di Ferdinando e Isabella.

Il “Canzoniere generale” di Fernando de Castillo scritto nel 1471 fu pubblicato nel 1511; nel 1492 fu la pubblicata la prima “Gramatica de la lengua castellana”; sulla produzione del  “Cancionero de castello” (1511) e del “Canzoniere” (opere scherzose) di JAN FERNANDEZ DE COSTANTINA pubblicato nel 1519 (Carlo V aveva diciannove anni ed era stato appena eletto imperatore; era stato, come vedremo, completamente assente da questo processo culturale).

 

GLI

UMANISTI ITALIANI

 

 

T

ra i molti umanisti che fiorirono in Italia sono da ricordare: LEONARDO BRUNI (1369-1444), traduttore in latino di Platone, Aristotele, Plutarco e Demostene, autore di belle epistole, di una “Storia di Firenze dalle origini al 1401, e delle vite di Dante e Petrarca in volgare; POGGIO BRACCIOLINI (1380-1459) ricercatore di manoscritti antichi, scrittore di un latino chiaro ed elegante; ebbe incarichi presso la curia papale, prima con il papa Bonifacio IX (1389-1404), poi con l’antipapa Giovanni XXIII (1410-1415); dopo un soggiorno in Inghilterra; tornato a Roma con Eugenio IV (1431-1447), a seguito della crisi del concilio di Basilea, fu scacciato e si rifugiò a Firenze e in Emilia. La sua attività filologica lo aveva portato a frequentare i monasteri di Francia, Germania e Svizzera dove aveva scoperto numerosi testi.

Le sue opere sono considerate lo specchio delle tendenze umanistiche: “De nobilitate”, “De infelicitate principum”,” “Contra Ypocritas” “De miseria umanae condicionis”, “De varietate fortunae” (v. in Specchio dell’Epoca: Racconto del viaggio in Oriente del veneto Niccolò ecc.); tra le opere minori “Historia florentini populi” e “Historia disceptativa tripartita convivialis”.

TOMMASO PARENTUCELLIscrittore, divenuto papa col nome di  Nicolò V (1447-1455), sarà il primo dei papi mecenati, rinascimentali e nepotisti, ma il più degno in onestà, di tutti quelli che lo seguirono (v. P. IV: I papi rinascimentali); ENEA SILVIO PICCOLOMINI,  papa col nome di PIO II (1458-1464), non solo mecenate e nepotista,  ma uno dei più vivi scrittori umanisti con i “Commentari Rerum memorabilium”; FLAVIO BIONDO (1388-1463), autore di opere storiche e trattatista di questioni archeologiche, LORENZO VALLA (1406-1457), epicureo in filosofia, precorritore della moderna critica storica e filologo, aveva scritto “Libri elegantiarum latinae linguae”. PIER CANDIDO DECEMBRIO (1399-1477), NICOLO’ DA CUSA o CUSANO (1401-1464), appartiene in pieno al movimento umanistico, con il motivo panteistico che si manifesta nella identità di Dio e del mondo, con il primo che sensibilmente si manifesta nel secondo;  BENEDETTO ACCOLTI il Vecchio (1415-1464) autore della “Vita di Poggio Bracciolini” e di “Elogio degli uomini illustri toscani”, DONATO ACCIAIUOLI (1429-1478), allievo di Argiropulo, eccelleva nella lingua greca e latina traducendo Plutarco e l’Etica di Aristotele, aveva ricoperto diverse cariche politiche.

 

E GLI

 UMANISTI MAGHI

 

M

arsilio Ficino, Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa e Francesco Giorgio,  Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim  e Johannes Reuchlin, influenzarono tutta la filosofia neoplatonica che sfociava nella magia, cabala, numerologia  rinascimentale anche fuori dell’Italia.

Lorenzo il Magnifico aveva dato a Pico l’incarico (1463) di tradurre dal greco in latino il “Corpus Hermeticum”, attribuito ad Ermete Trismegisto, opera che si credeva proveniente dall’Antico Egitto e che concordava con la tradizione pitagorica, platonica, stoica, neoplatonica, con i libri dello Pseudo-Dionigi (confuso con Dionigi di Alicarnasso, discepolo dell’apostolo Paolo, ma in effetti sconosciuto scrittore siriaco del V-VI sec. d.C.).

A seguito di questa traduzione l’opera aveva suscitato vasto interesse non solo in Italia ma anche all’estero, e molti studiosi ne erano rimasti tanto affascinati da dare inizio agli studi sulla magia e sulla cabala.

MARSILIO FICINO (1433-1499), filosofo platonico, umanista, medico e musicista; con la sua opera di riesame filosofico del platonismo e neoplatonismo segna il passaggio dalla fase filologica a quella filosofica dell’Umanesimo, con l’affermazione della centralità dell’Uomo nell’Universo e la rivalutazione della storia umana; aveva tradotto e commentato i “Dialoghi” di Platone e le “Enneadi” di Plotino (considerato “il fido Acate”).

Le sue idee neoplatoniche lo portarono a vedere in un cosmo (forze di natura psichica), avvicinandolo all’astrologia e alla magia, ponendosi con questi studi  accanto  all’amico e sodale Pico della Mirandola.

Egli credeva nella forza magica della preghiera come mezzo curativo (in molti casi efficace per suggestione ndr.) e credeva nell’influenza degli astri.

Aveva scritto: “De Voluptate”, “De christiana religione”, “Theologia Platonica”, molte traduzioni di scrittori e storici greci e il “Liber de vita libri tres”  dedicato a Lorenzo il Magnifico, che comprende tre trattati: “De studiosorum sanitate tuenda”, “De vita longa ad Philippum Valorem” e “De vita coelitus comparanda ad Mathiam Corvinum”, che insieme alla traduzione di opere demonologiche, ebbe larga diffusione e gli procurò l’accusa di magia e negromanzia, dalle quali si difese con l’ ”Apologia”; la sua eredità, ricevuta dagli studi di Platone e dell’ermetismo, fu raccolta da Giordano Bruno (1548-1600).

Ficino col suo discepolo Pico della  Mirandola, sono figli e propugnatori dell’Umanesimo; per essi il platonismo diventa il vero promotore della personalità umana e dell’autonomia dell’uomo in termini di pensiero.

L’uomo è  da costoro posto tra due mondi, quello celeste al quale partecipa con la sua anima immateriale e divina e quello terreno al quale lo congiunge la sua natura corporea e in questo è la vera natura dell’uomo; “la dignità gli consente di forgiarsi da sé, di essere proprio arbitro, artefice e fattore dunque della propria vita, sicché può degenerare verso la  brutalità  o elevarsi verso la divinità”.

GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA (1463-1494), filosofo e umanista, quasi coetaneo di Marsilio Ficino di cui era stato discepolo, aveva avuto una vita avventurosa; dotato di una memoria prodigiosa aveva studiato ebraico e caldaico approfondendo gli studi sulla cabala ebraica, attraverso la quale riteneva si potesse dimostrare l’esistenza di Dio, e sull’astrologia e magia con influssi di tipo occulto ed esoterico come gli inni orfici e gli oracoli caldaici.

Aveva quindi operato una fusione tra la cabala e la magia distinguendo una cabala teoretica e una cabala pratica: quest’ultima egli la considerava magia cabalistica;  sosteneva inoltre che la magia naturale  senza la cabala pratica sarebbe stata priva di significato.

Aveva approfondito gli studi della filosofia aristotelica, attraverso i commentatori greci ed arabi, maturando l’idea che le varie correnti filosofiche si erano sviluppate dalle precedenti, attraverso una concordia tra le varie scuole.   

Aveva quindi scritto le “Conclusiones filosophicae, cabalisticae et theologicae”, preparando novecento tesi, che costituivano un estratto di tutte le filosofie, ma con influssi di magia e astrologia, che avrebbero dovuto essere discusse a Roma.

Alcune di queste tesi avevano però suscitato le reazioni di diversi teologi che convinsero il papa Innocenzo VIII a sottoporre le Conclusiones all’esame di una commissione.

Pico aveva nel frattempo scritto una introduzione al dibattito intitolata  “De hominis dignitate”, trasformata in “Oratio”, quando il dibattito sulle tesi veniva annullato e Pico, resosi conto che le sue tesi erano state prese per altro verso, aveva preparato a sua difesa una “Apologia”, ma questi scritti a nulla valsero a convincere i teologi e il papa che condannarono le tesi incriminate.   

Pico dovette fuggire recandosi in Francia, poi rientrò a Firenze dove visse sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico che lo ospitò in una villa a Fiesole, fino alla morte, prematura in quanto fu assassinato dal poco raccomandabile nipote Galeotto (di nome e di fatto!).

L’opera sulla “Dignità dell’uomo” è da considerare una delle massime espressioni dell’Umanesimo.

In campo religioso Pico era sulle stesse posizioni di Gerolamo Savonarola, del quale aveva scritto una biografia “Vita patris H. Savonarolae”, auspicando una riforma, e in tal senso aveva scritto al papa: “Ad Leonem X de reformandis moribus oratio”.

Tra le altre opere: “De studio divinae et humanae sapientiae”; “Liber de imaginatione”; “Examen vanitatis doctrine gentium et veritatis christianae disciplinae”; “De studio divinae et humanae philosophiae” e infine “De ente et uno”, e le “Epistolae”.

La maggiore tra tutte, è da ritenere  “Heptaphus”, commento in sette libri ai primi 27 versetti della Genesi, in cui Pico sostiene che la Genesi  non doveva essere intesa in senso letterale, ma simbolico e secondo interpretazioni dei quattro mondi: fisico, celeste, intellettivo e dell’uomo;. 

Con il “De ente et uno” egli dimostra la concordanza tra Platone e Aristotele e l’opera non compiuta “Contra fidei christianae septem hostes”, della quale fa parte la “Disputationes in astrologiam divinatricem” in cui polemizza contro l’astrologia ma non in quanto scienza della natura (in questo senso egli dà credito anche alla magia), ma perché si fonda su un determinismo di natura che porta alla negazione della libertà dell’uomo sostenuta da tutti gli umanisti.

Il suo capolavoro è costituito dall’opera “Orazione della dignità dell’uomo” (Oratio de dignitate hominis), per l’irruenza espressiva.

La sua incrollabile fede religiosa lo porta a considerare la inutilità della ragione, affermando che la Rivelazione è l’unica fonte di verità e di salvezza dell’uomo;  condanna quindi la filosofia come anche l’astrologia, ma difende la “magia” e la “cabala” che associa all’ “ermetismo”, ma in maniera fumosa per non incorrere nei rigori della Chiesa.

FRANCESCO GIORGIO (1466-1540) della nobile casata dei Giorgio o de Giorgio (e non dell’altra nobile famiglia dei ZORZI a cui viene di norma collegato), era entrato nell’Ordine dei Minori cambiando il nome Dardi, in Francesco.

Umanista autore di “De armonia mundi” (tradotto in francese nel 1578 da Guy Le Fevre de la Boderie), in cui cerca di conciliare la Sacra Scrittura con il neoplatonismo e la cabala, così come nell’opera “Scripturam Sacram Problemata”; ambedue le opere furono messe all’Indice.

Studioso di ebraismo, aveva approfondito gli aspetti  della “cabala cristiana”, e nel “De armonia mundi” riprende le tesi cabalistiche ponendosi (in Italia) accanto a quelle di Pico della Mirandola, che ne era stato il fondatore, di Marsilio Ficino, e di Johannes Reuchlin e alla tradizione  numerologica pitagorico-platonica, elaborata da Enrico Cornelio Agrippa von Nettesheim, in Germania, e  John Dee in Inghilterra (v. sotto).

Giorgio mette in relazione le gerarchie angeliche (v. in. Schede di Filosofia: Sfere celesti e Gerarchie Angeliche ecc.) con i pianeti, e i loro influssi (senza annullare il libero arbitrio), dando una classificazione degli “umori” planetari riscontrabili nell’individuo e un metodo magico, per contattare gli angeli corrispondenti.

Non era incorso nei rigori della Inquisizione, solo perché si era dichiarato  sottomesso alla Chiesa, sostenendo “che i suoi errori non nascevano da animo indocile e ribelle, ma da una fanatica prevenzione per gli autori studiati”.

ENRICO CORNELIO AGRIPPA di Netteshein (1486-1535)  considerato a torto il principe della magia nera e degli stregoni; autore del “De occulta philosophia” e “De incertitudine et vanitate omnium scientiarum et artium” (1527), nel quale però ritratta tutto ciò che aveva affermato nel libro precedente (che aveva fatto pubblicare dopo per non incorrere nelle maglie della Inquisizione!).  

Il “De occulta philosophia” è il testo fondamentale della magia e della cabala, espressione della filosofia magica del Rinascimento, influenzata dall’Ars Magna dello spagnolo Raimondo Lullo (1232-1316).

Agrippa ritiene che l’Universo sia una formula matematica (l’algoroitmo? v. nota sotto in par. Le Scienze), in cui si esprime Dio: essa è libro e parola di Dio, è armoniosa musicalità divina.

Matematica, grammatica e musica sono aspetti della logica universale, cioè della espressione divina; nel “De incertitudine et de vanitate scientiarum” che ebbe una grandissima diffusione (fu tradotto in italiano, inglese e tedesco), Agrippa mette in discussione tutto il sapere dell’Uomo che ritiene non abbia alcun valore, e che non si può conoscere nulla e in nulla vi può essere certezza; egli ripudia completamente la sua antica fiducia nella razionalità universale, per fermarsi allo scetticismo che costituiva la base per rifugiarsi nella fede.

Agrippa, aveva ritenuto distinguere la magia che utilizzava la cabala in magia naturale, costituita dalla manipolazione degli elementi delle forze del mondo, attraverso la manipolazione delle simpatie occulte che le percorrono, dalla magia matematica che appartiene al mondo celeste intermedio.

Quando un mago conosce la magia naturale e la magia matematica, conosce le magie intermedie che ne derivano come l’aritmetica, la musica, la geometria, l’ottica, l’astronomia, le arti meccaniche, seguite dalla numerologia pitagorica; sull’armonia del mondo e sulla fabbricazione dei talismani, può compiere cose meravigliose; mentre la magia religiosa consente, con i riti magici, la evocazione degli spiriti.

JOHANN von REUCHLIN (1455-1522) fa parte del gruppo dei teorici della “cabala cristiana” (v. Giorgi); egli  mirava a dimostrare che la cabala provava le verità del cristianesimo; dimostrava infatti che il nome Gesù, con la manipolazione delle lettere ebraiche – traducibili in numeri – corrispondeva al nome del Messia, trovando   anche delle corrispondenze tra la gnosi ebraica e la dottrina di Ermete Trismegisto alla quale veniva data una interpretazione cristiana.

Lo studio della cabala, della magia e dell’ermetismo ebbero influenza sul neoplatonismo rinascimentale e sui movimenti riformisti, sia protestanti (Riforma), sia cristiani (Controriforma).  

Autore “Dell’arte cabalistica” (De arte cabalistica), pubblicato nel 1517, con dedica a Leone X, Reuchlin, col nome di “Cabbala” (“tradizione”), intende la dottrina esoterica o mistica riguardante Dio e l’Universo, trasmessa per rivelazione dai tempi più antichi a eletti santi, e preservata da pochi privilegiati sotto forma di tradizioni empiriche, finché Pitagora e i Pitagorici non la avessero riorganizzata, dandole quel carattere speculativo di “filosofia simbolica” che è alla base della sapienza antica.  

Reuchlin dichiarava di voler contribuire alla rinascita di Pitagora, riferendo obiettivamente ciò che era stato esposto in dotte conversazioni umanistiche, a Francoforte, tra l’ebreo SIMONE, dotto in Cabala, FILOLAO, pitagorico, e MARRANO, maomettano, che seguiva una interpretazione cristiana della Cabala, al centro della quale era posta la Messianologia.

L’arte cabalistica consisteva  nella ‘interpretazione simbolica delle lettere, delle parole e del contenuto della Scrittura; la Cabala è quindi filosofia e teologia simbolica. Reuchlin non dava alcuna importanza al lato pratico e magico, della Cabala, ciò che fece invece il suo contemporaneo Cornelius Agrippa.

Il trattato di Reuchlin si conclude con un appello al Pontefice,  ma quest’opera fu attaccata, specie dall’inquisitore Jacob Hochstraten, che contribuì alla persecuzione che amareggiò tutto il resto della vita di Reuchlin (una puntuale esposizione del trattato si trova nel pregiato Dizionario delle Opere  Bompiani (*).

JOHN DEE (1527-1608) in Inghilterra  proponeva l’armonia universale sulla base del “De Architectura” di Vitruvio.

Uno degli umanisti inglesi che avevano dato lustro al regno di Elisabetta I; la sua mente acuta e potenza intellettiva, gli permisero di spaziare dagli studi dell’antichità alle discipline scientifiche (geometria, astronomia, matematica e numerologia, geografia) e per le sue ricerche alchemiche ed esoteriche.

Faceva parte del gruppo dei cabalisti cristiani (Reuchlin e Agrippa) che lo fecero considerare un evocatore di diavoli (mentre, per mezzo della cabala, era evocatore di angeli ... ma come spiegherà Freud a proposito della schizofrenia, è questa che dà luogo ai relativi fenomeni delle voci che si avvertono e, attualmente, di coloro che si ritengono rapiti dagli extraterrestri!)).

Pur avendo contribuito con i suoi studi a far brillare la cultura elisabettiana, e pur avendo fedelmente servito la regina Elisabetta, da essa non ottenne alcuna gratificazione e morì povero e isolato; mentre alla regina Maria aveva proposto di raccogliere tutti i manoscritti esistenti in Inghilterra e i libri che si trovavano presso i monasteri; molti dei suoi scritti sono ancora inediti.

Tra le sue opere stampate: “A supplication to Queen Mary for the Recovery and Preservation  of Ancient Writers and Monuments” (Supplica alla regina Maria per la custodia e conservazione degli antichi scritti e monumenti.); “De Monade Hierogliphica” (tradotta in francese nel 1925) “De Trigono”, riportato nella introduzione agli “Elementi di Euclide” pubblicati nel 1570 e “A True & Faithful Relation of wath passed for many Years between Dr. J.D. and Some Spirits” in cui parla di ciò che era accaduto per diversi anni tra lui ed alcuni spiriti  (pubblicato da  Casaubon nel 1659).

Dee essendo esperto in arti meccaniche,  considerate arti magiche, come d’altronde erano considerati maghi e stregoni i sacerdoti egiziani che (secondo le descrizioni di Ermete Trismegisto) costruivano statue parlanti e semoventi e si diceva, con lo spirito dei demoni, aveva costruito uno “scarabeo meccanico” in occasione di una rappresentazione teatrale (al Trinity College di Cambridge).

Questa aspirazione dell’uomo a creare esseri a lui somiglianti è antica e risale d Erone di Alessandria (I sec. a.C.), celebre inventore di automata, sistemi meccanici e pneumatici (descritti nei libri: “Sul teatro automatico” e “Pneumata”), che imprimevano il movimento alle statue e le facevano parlare nei templi e nei teatri e considerate opere di magia.

Da tutte queste esperienze si giunge alla vita artificiale del Golem-Homunculus (con tutti i tentativi di ricrearlo!), e con lo sviluppo della scienza, si giunge, da una parte alla creazione dei robot e dall’altra alla manipolazione genetica (del DNA) dei nostri tempi.

Relativamente all’arte meccanica è da dire che essa con l’Umanesimo era stata rivalutata e innalzata ai fasti, in quanto fino a quel momento era ritenuta arte vile e abietta

 

*) E Dizionario degli Autori di Bompiani, che con l’insostituibile e preziosa Enciclopedia Pratica, Anno XVI E. F. e II dell’Imp., ci hanno accompagnato nel presente lavoro).

 

 

SI DIFFONDE

LO STUDIO DELLA

LINGUA GRECA

(...”Sono greche le parole

dei nostri pensieri”...)

 

 

F

u il grande momento di fioritura dello studio della lingua greca; la ricerca e lo studio dei classici e specialmente, della filosofia, che comportavano la conoscenza del latino e del greco come strumenti d’indagine e di cultura; e mentre la tradizione culturale della latinità non si era mai spenta e occorreva soltanto portare l’uso del latino a maggior perfezione (operata da Petrarca), per il greco bisognò cominciare dalla base, e anch’esso costituì parte del patrimonio culturale umanistico.

La improvvisa comparsa della cultura greca ha veramente del magico e crea grande stupore la circostanza del suo apparire quando gli altri popoli dell’Occidente indossavano le pelli e usavano la clava, ed esplodeva all’improvviso, già sviluppata, come se fosse giunta da un altro mondo:- Nel campo della letteratura, con i due grandi  poemi apparsi sotto il simbolico nome di Omero (chiunque possano esserne stati gli autori), dell’Iliade e dell’Odissea (nati già prima della scrittura e trasmessi prima oralmente e poi trascritti); nel campo della filosofia, con i sette sapienti; del teatro con la loro possente drammaturgia di Eschilo (525-456), Sofocle (496-406) ed Euripide (485-406/7), che ponevano problematiche psicologiche che sarebbero state studiate (con Freud) dopo quasi una ventina di secoli; e nel campo dell’architettura con i templi, della scultura con le statue e della pittura con gli affreschi.

Come abbiamo accennato a proposito di Pletone, Giacomo Leopardi nell’elogiare il suo stile classico nella scrittura, si era espresso sulla eccellenza della letteratura e della civiltà greca, ritenendo “mirabile la nazione greca che era stata insuperabile nello spazio di ventiquattro secoli e si era propagata in Asia e Africa e, conquistata, la comunicò ai popoli d’Europa; e la sua fioritura si era sviluppata in  tredici secoli, conservandola nei successivi undici secoli nel mondo barbaro”.

E’ stato scritto (in Comunicato stampa di Alessandra Magliaro del 9.2.2018, Internet, con allegato Dizionarietto) in occasione della “Giornata mondiale della lingua greca” (ci piacerebbe fosse accomunata al latino!) “Sono greche le parole dei nostri pensieri... in ogni ambiente del sapere e dell’esperienza e come nessun’altra lingua, dopo millenni è vivente in tutte le lingue europee... L’italiano ne è più ricco delle altre perché ha assorbito la cultura greca fin dalle origini, attraverso il latino”.

In tale occasione è stato pubblicata la traduzione de “Gli Argonauti”, della la studiosa di greco Andrea Marcolongo.

Era giunto a Firenze (1397) per insegnare lingua e lettere greche MANUELE CRISOLORA (1350-1415), ambasciatore a Venezia dell’imperatore Manuele II   Paleologo, il quale per gli studiosi italiani scrisse la prima grammatica greca (Erotemata), stampata alla fine del sec. XV a Firenze e a Venezia, e il libro “Syncrisis”, in cui metteva a confronto Bisanzio e Roma.

I dotti greci venuti in Italia tradussero varie opere dal greco in latino, e altre dal latino in greco; tra costoro troviamo TEODORO GAZA (1400?, morto a Salerno nel 1478), che a Mantova aveva imparato il latino e aveva insegnato greco a Ferrara dove fu eletto Rettore.

Gaza tradusse opere greche in latino ed anche opere dal latino in greco, tra queste il “De oratore” e “De senectude” di Cicerone e i “Commentari” di Cesare; scrisse anche la “Grammatiké eisagogé” (Introduzione alla grammatica greca) che comprendeva la sintassi ed ebbe traduzioni fino all’inizio del XIX secolo; in qualità di polemista aveva acceso una miccia esplosiva relativamente alla Polemica sulle differenze tra Platone e Aristotele (v. in Schede F. i due art. su: Polemiche Umanistiche ecc.); gli aveva risposto Bessarione con il libro “Contra calumniatoren Platonis”, il cui originale era stato donato con tutti gli altri suoi libri, alla Marciana (*).

La invenzione di Gutemberg (1400?-1468) aveva consentito, attraverso la stampa, la diffusione delle idee (v. in Articoli: Primi umanisti e stampatori veneziani), e in Italia le prime tipografie nella seconda metà del sec. XV, sorgevano ad opera dei tedeschi KONRAD SWEYNHEYM e ARNOLD PANNAERTZ  i primi a introdurre i caratteri mobili in Italia con la prima tipografia  (1463/’64) a Subiaco e la seconda (1467) a Roma, ciò che favorì la diffusione e l’incremento della cultura.

Dalla Grecia in occasione del Concilio di Ferrara (nel 1438 dove scoppiava la peste,  il Concilio fu trasferito a Firenze nel 1439), in cui si trattava la fusione della Chiesa latina e di quella greca.

Vi giunse, accompagnando l’imperatore Giovanni VIII Paleologo e il principe Demetrio, la delegazione di dotti bizantini (di settecento persone!) tra i quali GIOVANNI ARGIROPULO, il Cardinale BASILIO BESSARIONE (discepolo di Pletone), GIORGIO GEMISTO detto PLETONE, GIORGIO DI TREBISONDA-TRAPEZUNZIO,  e GIORGIO GENNADIO SCOLARIO; questi ultimi quattro, coinvolti nella indicata Polemica (cit. due articoli in Schede F.), mentre Scolario se ne tornava a Costantinopoli e, dopo aver ricoperto la carica di patriarca, si ritirava in convento da dove sobillava i greci a non accettare l’Unione della Chiesa ortodossa a quella cattolica, decisa al Concilio; gli altri tre, rimanevano in Italia e ad essi si univano  DEMETRIO CALCONDILA e COSTANTINO e GIANO LASCARIS.

Dove non era riuscita la religione che, attraverso il Concilio, doveva avvicinare gli spiriti, vi aveva provveduto la cultura; partito l’imperatore col suo seguito, la maggior parte dei bizantini, rimanendo in Italia, contribuirono alla diffusione della cultura greca.

In particolare, GIORGIO GEMISTO PLETONE (1355?-1450, v. i due Art. cit.  “Differenze tra Platonici e Aristotelici” ecc,) aveva invogliato Cosimo de’ Medici a fondare l’Accademia platonica fiorentina, mentre lo stesso Cosimo chiedeva a Argiropulo di rimanere a insegnare a Firenze, e, dalla sua cattedra, GIOVANNI ARGIROPULO (1415 c.a-1487) dava allo studio del greco una sterzata con un nuovo indirizzo dato alla cultura e all’insegnamento che prima di lui languivano a causa degli insegnanti, che costringevano gli allievi a studiare fino alla vecchiaia cose inutili e senza senso.

Il metodo di insegnamento di Argiropulo era basato sulla “continuità” dei filosofi, iniziando da ZOROASTRO e dai presocratici, autori di una filosofia “oscura e poetica”, proseguiva con Socrate “che spingeva gli uomini alle scienze, attraverso la morale”, con Platone “divino, perfettissimo in ogni ramo del sapere, sommo poeta, di tutti il più eloquente, filosofo morale, naturale, matematico e sopratutto speculativo, il quale non dette, a somiglianza di Socrate, un ordinamento sistematico del sapere”, e Aristotele “per ventun anni allievo di Platone che elaborò un perfetto ordine delle scienze nell’unità del sapere e della ricerca”.

 

 

LA POLEMICA

TRA PLATONICI

E ARISTOTELICI

 

 

N

el corso del XV secolo interviene la indicata, lunga e vivace polemica tra platonici ed aristotelici (v. cit. Artt.), che in fondo era da considerare importante e proficua in quanto aveva operato una rivoluzione, che aveva caratterizzato l’Umanesimo dal punto di vista filosofico, portando all’avvento del pensiero moderno.

La polemica era iniziata con LEONARDO BRUNI (1374?-1444) il quale scrivendo (1439) la “Vita di Aristotele” si era lasciato andare a un semplice e naturale confronto tra le diverse personalità di Platone e Aristotele;  ma era intervenuto  GIORGIO GEMISTO PLETONE (1355 c.ca-1452) il quale, nell’intento di rivalutare Platone, aveva alzato di tono la polemica, che diveniva sempre più aspra e velenosa, con la pubblicazione (1439)  “Della differenza tra la filosofia platonica e l’aristotelica” (*) (v. cit. Artt. in Schede F.). 

Sebbene Pletone con la sua  personalità si fosse affermato  tra gli altri umanisti che frequentava a Roma  (tutti uniti attorno al cardinale Bessarione), la sua influenza sul platonismo italiano è da considerare piuttosto trascurabile; probabilmente aveva fatto una certa impressione su Cosimo de’Medici inducendolo a spingere il Ficino a tradurre Platone; ma era stato volutamente messo nell’oblio (lo si trova ricordato qualche volta da Ficino e da Pico), in quanto la sua religione politeista non poteva essere accettata in un Paese dove vigeva la religione “cattolica” con l’Inquisizione messa a sua guardia ... e dopo tutto il genocidio di eretici dei secoli precedenti!

Lo aveva invece rivalutato Giacomo Leopardi, degno filosofo oltre che poeta (che si collegava alla tradizione araba dei filosofi-poeti), il quale però anch’egli si era guardato dal toccare il compromettente argomento della religione, limitandosi a dire di Pletone che “esaminate le religioni di quei tempi, riprovata la maomettana...non fu soddisfatto neanche della cristiana, e cento anni prima della Riforma sperò e predisse lo stabilimento di nuove credenze e pratiche religiose, più confacenti al bisogno delle nazioni” (Pletone ellenista, era ritenuto politeista, in quanto chiamava il suo Dio, Zeus, e aveva dichiarato di aderire alla religione di Zoroastro, coincidente con la filosofia di Pitagora e Platone ndr.), limitandosi a elogiarlo per lo stile classico della sua scrittura, come abbiamo innanzi riferito.

In realtà in Italia l’interesse per Platone e i platonici, era anteriore a Pletone e si collegava piuttosto alle tendenze platonizzanti sempre vive in varia forma nel pensiero medievale.    

 

*)  Pletone sognando un ideale Stato platonico con una universale religione platonica, ne aveva delineato le basi teoriche nel suo scritto “Le leggi”.

Il libretto sulla differenza dei due massimi filosofi antichi, conteneva una critica ad Aristotele, sminuito nella importanza che aveva avuto nella storia del pensiero umano; infatti, Pletone riteneva che la sua metafisica, la sua psicologia, la sua etica, fossero prive di qualsiasi valore; egli considerava Aristotele, ignorante e ingiusto, in quanto non aveva saputo che criticare, a torto coloro che lo avevano preceduto, tanto più grandi di lui; né, d’altra parte, Pletone si spiegava la fortuna e l’influenza che aveva avuto presso i cristiani (Aristotele era stato il principe indiscusso della Scolastica), quando in lui mancava il concetto di creazione, dell’immortalità dell’anima, mentre il suo Dio “motore immobile” non era che la più alta delle intelligenze celesti e nulla aveva a che fare col Dio cristiano.

Gli rispondeva il suo Maestro Bessarione (v. secondo degli Artt. cit. in Schede F.).    

**) Non risulta che la celebre Biblioteca Marciana, si sia resa promotrice della pubblicazione dei propri testi tramite Google (meritevole di questo mastodontico lavoro, v. in Recensioni, “La Biblioteca Virtuale di Google”), e preferisce essere solitaria e gelosa custode dei propri testi (ci riferiamo in particolare al patrimonio dei testi storici veneziani), tenendoli sepolti nei propri archivi anziché farli rivivere con la loro pubblicazione, seguendo l’esempio di altre biblioteche italiane (Napoli, Roma e Firenze), ed estere (la Biblioteque National de France, di Baviera e le Biblioteche Universitarie degli USA che, in particolare hanno messo a disposizione tutto il patrimonio dei testi in lingua italiana)  e hanno consentito a Google di scannerizzarli e pubblicarli in Internet.

 

 

 

 

Anonimo del XIV sec. Trionfo di Amore

Firenze – Museo Horne

 

 

LA PITTURA IN ITALIA

DA GIOTTO A MANTEGNA

 

 

N

ella pittura italiana  con l’affermarsi di GIOTTO DI BONDONE (1267/76-1337) si effettua un netto distacco dal passato e si muovono i primi decisi passi verso la pittura moderna; partito da influssi bizantini, negli affreschi della cappella Scrovegni. dipinti in Padova (dal 1303 al 1305), si rivela già totalmente libero da queste influenze e in possesso di una sua piena personalità.

Attraverso il percorso trecentesco il giottismo subisce una evoluzione con il senese SIMONE MARTINI (1283-1344) in cui troviamo ricchezza di decorazione con reminiscenze gotiche e bizantine, nella decorazione del Palazzo Comunale di Siena  (1315), e negli affreschi della chiesa inferiore di S. Francesco ad Assisi. Martini  fu seguito dai fratelli PIETRO e AMBROGIO LORENZETTI (notizie dal 1318 al 1348) appartenenti anch’essi alla scuola senese.

Attraverso un percorso di pittori minori con influssi giotteschi e senesi di scuola  romagnola, marchigiana e  padovana, si giunge al periodo umanistico.

Come il pensiero umanistico aveva elevato l’uomo al centro dell’universo, cosi 1’umanesimo, in arte, elevò l’uomo al centro della natura, facendolo primeggiare  nella pittura, nella scultura e nell’architettura.

L’aver messo l’uomo al centro della natura, comportava nuovi  studi che sfociavano nella prospettiva da un lato, e, dall’ altro, per la ricerca delle proporzioni, nell’ anatomia.

L’Italia fu la culla di quell’arte che si propagò in tutto il mondo civile.

La maggiore delle conquiste dell’Umanesimo, è stato il rinnovamento pittorico che ha avuto il suo centro in Firenze, da dove le nuove forme si diffusero in tutta Italia.

In Firenze, infatti sono  superati il giottismo e le preziosità senesi trecentesche, da un gruppo di artisti geniali e di vario temperamento.

Essi furono: LORENZO MONACO (aveva lavorato tra il 1370 il 1425), il quale aveva  diffuso elementi gotici ed elementi senesi, che incominciano a dissolversi nel suo allievo, il mistico fra’ Giovanni da Fiesole detto  BEATO ANGELICO (1378-1455), così detto perché le sue figure ieratiche sembra vivano in un mondo ultraterreno.

Beato Angelico rompe col linearismo gotico e si apre alla ricerca prospettica e spaziale adottata da altri artisti toscani  come MASOLINO da Panicale (1383-1440), che precorre Masaccio, Paolo Uccello e Piero della Francesca.

MASACClO (1401-1428), come era chiamato Tommaso di ser Giovanni Guidi; aveva portato a termine nei suoi pochi anni di vita l’opera di Masolino, nella Cappella Brancacci (Chiesa del Carmine di Firenze). PAOLO UCCELLO (1397-1415\,  avverte anche lui il senso della natura e della ricerca prospettica con finalità cromatiche più che spaziali, che si ritrovano nelle Battaglie e nelle Storie del Vecchio Testamento  nel Chiostro di S. Maria Novella a Firenze.

Questo senso cromatico si ritrova nei dipinti di DOMENICO VENEZIANO, che fu maestro di PIERO DELLA FRANCESCA (1416-1492), tra le cui opere troviamo, il giovanile “Battesimo di Cristo” (Galleria Nazionale, Londra.); “Pandolfo Malalesta inginocchiato dinanzi s S. Sigismondo” (Tempio Malatestisano di Rimini), ritratti di “Federico da Montefeltro” e di “Battista” e la “Flagellazione”.

Conclude le ricerche di questi artisti ANDREA DEL  CASTAGNO (1423-1457), mentre seguono in qualche modo il cromatismo di Paolo Uccello e la tipicità di Piero della Francesca, ANTONIO POLLAIOLO e ANDREA DEL VERROCCHIO, i quali trasportano nella pittura i caratteri della loro scultura e preferiscono il movimento alla statica.

In questo eccelle LUCA SIGNORELLI (1441-1523), discepolo di Piero della Francesca, e poco dopo i trent’anni si sottrae a ogni influenza de1 maestro, riuscendo a dare ad  ogni sua figura, profondità psicologica e mobilità di movimento.

Tra le sue opere: “Profeti e angeli musicanti”;  “Episodi della vita di Mosè” nella Cappella Sistina e decorazioni della Cappella Brizio di Orvieto.

Nella seconda metà de] sec. XV, tra artisti nei quali non esistono condizionamenti di ricerca in quanto dipingono con scioltezza aneddotica narrativa, scene sacre e personaggi tratti dalla cronaca cristiana, collocati  in ambienti  ad essi circostanti o in paesaggi irreali e fiabeschi, troviamo frà FILIPPO LIPPI  (1406-1469), BENOZZO GOZZOLI (1420-1480) (e il citato Beato Angelico).

Un nuovo senso a questa corrente introduce Alessandro Filipepi detto SANDRO BOTTICELLI (1445-1510), il quale non solo rompe la tradizione  del soggetto sacro, sostituendolo con quello mitologico-profano, ma soprattutto per l’affiatamento delle forme, la fantasia ambientale, la cura sapiente del particolare, che  portano a stupefacenti  risultati di grazia  non disgiunta da un velo di melanconia, come appare nella più che famosa “Primavera” (Uffizi a Firenze) e dagli altri suoi capolavori (salvati dalle ire distruttive di Girolamo Savonarola!)..

Domenico Bigordi, detto il GHIRLANDAIO (l449-1494) il quale compendia in sé e affina tutte le qualità dei predecessori, rivelando un attaccamento alla realtà, senza alcuna preoccupazione spaziale; egli è attento narratore, della realtà che lo circonda, senza alcuna percezione del divino; per questo tutti i suoi affreschi sono rappresentazioni di vita quattrocentesca, qualunque sia il soggetto narrativo, come le “Esequie di S. Fina”, “La vocazione dei figli di Zedebeo, le “Storie di S. Francesco” e le “Storie della Vergine”.

Con minor potenza espressiva troviamo FILIPPINO LIPPI (1457-1504), figlio di Filippo (1406-1469), che in gioventù sentì l’influenza del padre e pure prepotente quella di Masaccio ma che approdò poi a esasperazioni della  grazia e  del linearismo di Botticelli.

Ma la pittura italiana del Quattrocento non è tutta rappresentata solo da questi fiorentini, a fianco dei quali troviamo LORENZO DI CREDI (1459-1537) COSIMO ROSSELLI (1438-1507), anche se la ricerca cui essi pervennero si diffuse in tutta Italia.

Anche a Siena la  pittura si mantiene entro le linee delle precedenti intonazioni mistiche proprie dei senesi, e si esprime con maggior fusione e armonia coloristica in un ambito prevalentemente narrativo, come in Stefano di Giovanni detto SASSETTA  (1392-1450), nel più forte DOMENICO DI BARTOLO (1400-1449) in SANO DI PIETRO (1406-1481),  in MATTEO DI GIOVANNI (1435-1485), in GIOVANNI DI PAOLO (1404?-1482).

E in Umbria troviamo, GENTILE DA FRABIANO (1360-1428) che segna il trapasso dalle forme gotiche al naturalismo al quale è decisamente informata l’arte di  FIORENZO DI LORENZO  (1440-152l) e soprattutto quella di Pietro Vannucci detto il PERUGINO(1446-1524) il quale, subendo l’influenza dei fiorentini rinnova le tradizioni del misticismo pittorico umbro; e se le sue figure hanno ancora  un carattere ideale tipico e quasi immobile, freschi e ariosi sono gli sfondi di paese in cui esse campeggiano, e i ritratti animati da espressioni veristiche: “La consegna delle chiavi di S. Pietro” nella Cappella Sistina; l’ “Apollo e Marsia” al Louvre, il “Ritratto di Francesco delle opere” agli Uffizi; i suoi spunti naturalistici (l’avevano seguito negli atteggiamenti mistici di Giovanni di Pietro detto lo Spagna e Andrea Luigi d’Assisi detto l’Ingegno) sono svolti da Bemardino di Betto, detto PINTURICCHIO (1454-15I3) con intenti prevalentemente decorativi.

A Padova gli influssi fiorentini si ritrovano in FRANCESCO SQUARCIONE  (1303-1474) esaltati in ANDREA MANTEGNA (1431-1506) che dà all’arte Italiana lo  “scorcio” cioè la visione dal basso e fa progredire la prospettiva, applicandola al corpo umano.

Le sue creazioni con effetti coloristici, psicologici e rappresentativi ci danno opere come le “Storie di S. Cristoforo e S. Giacomo”, e la “Pala di S. Zeno”, “S. Giorgio” (Galleria dell’Accademia, Venezia) e il celebre “Cristo morto” (Brera), gli affreschi di Palazzo Gonzaga a Mantova, il “Trionfo di Cesare” a  Hampton Court (Inghilterra). 

Con questo genere pittorico si entra nel Cinquecento.

 

 

PITTORI DELLA FINE

DEL QUATTROCENTO

DA MELOZZO A CIAMBELLINO

 

D

al Mantegna derivano pittori come MELOZZO DA FORLI’ (1438-1494) col dipinto di Sisto IV, il quale aveva dato incarico al Platina di riordinare la Biblioteca Vaticana (Pinacoteca Vaticana, riproduzione nel presente capitolo), influenze che saranno abbandonate.

A Ferrara in questo periodo lavorano pittori figurativi come COSMÈ TURA (1430-1495), forte costruttore di figure; FRANCESCO del  COSSA (l435-1489), aperto alle correnti classiche e naturalistiche, ERCOLE DE ROBERTI (l430 c.a-1496) e LORENZO COSTA (1460-l535), notevoli per una loro grazia che ingentilisce il vigore degli altri ferraresi; quest’ultimo lavorò molto a Bologna, influenzando Francesco Raibolini detto  il FRANCIA (1450-1517), che a contatto con influenze umbre cadde nel lezioso.

In Lombardia, subendo influssi padovani, troviamo VINCENZO POPPA (dal l427 al 1511), mentre altri come il BUTINONE e B. ZENALE, aperti anche a influenze fiamminghe e Ambrogio da Fossano, detto il BERGOGNONE (1450/680-1523), risente di forme del Bramante.

“Una grande pittura con caratteri suoi propri e con proprie ricerche e conquiste, molto lontana dallo spirito e dalle forme dell’arte che abbiamo visto trionfare in Toscana, sorge a Venezia; questa pittura veneziana nel rispecchiare la verità obiettiva, tende  al profano raffigurato con venature sentimentali.

Risultato di queste aspirazioni è la cura posta nella rappresentazione degli ambienti esterni, che diventa il vero protagonista del dipinto, e vi primeggia con la luce, l’aria e il colore; quindi i risultati sono soprattutto, coloristici, e generano una vera e propria poesia del colore”.

Antonio Pisano, detto il PISANELLO (1397?-1455), che fu un grande medaglista, fu anche il pittore che influì più decisamente sul rinnovamento della pittura veneziana con il suo naturalismo. E quando gl’influssi che derivano  dalla sua arte si incontrano con quelli che in Venezia lasciò Gentile da Fabriano, confluendo con quelli padovani, essi agiscono su ANTONIO VIVARINI (1430 c.ca-1491), JACOPO BELLINI (1395-1470) e CARLO CRIVELLI (c.a1430-1493), la pittura veneziana redime il proprio tradizionalismo, accostandosi al senso della forma, rinnovato dall’Umanesimo”.

La pittura di GENTILE BELLINI (1429-1507), trova la sua vera via nei caratteri innanzi accennati e comincia a diventare una poesia di colore fatta progredire da VITTORE CARPACCIO (dal 1478 al 1522), che porta i colori a raffinatezze impensate e negli anni tardi subisce le influenze di ANTONELLO DA MESSINA (1430 c.ca-l479), formatosi in patria sotto influssi di derivazione fiamminga, che svilupparono in lui le vaste visioni prospettiche di paesaggi.

Più tardi, a contatto di toscani certamente, mutò orientamento alla sua arte, e le ricerche volumetriche lo portarono a creare quell’insuperabile “S. Sebastiano” (Galleria di Dresda), nel quale tutte le sue esperienze si assommano comprese quelle coloristiche tipicamente veneziane.

Influssi di Antonello  agiscono su ALVISE VIVARINI (dal 1461al l503), ma non al punto da soffocarne il minuto realismo; mentre su ALBERTO BELLINI detto GIAMBELLINO (1430-1516) questi influssi agiscono come stimolo per superare il verismo di Antonello e conquistare quella sintesi di forma-colore che era la più intima ricerca dei Veneziani”.

 

 

LA PITTURA FIAMMINGA

 

 

N

ei primordi della pittura fiamminga troviamo nomi sconosciuti, ma nel primo trentennio del ‘400 troviamo esponenti che delineano l’intero secolo con l’ ”Adorazione dell’Angelo” dei fratelli   UBERT (c.a 1370-1426) e  JAN VAN EICK (1390-1461), dei quali sono pervenuti: il “Calvario e il Giudizio Universale”, “La Madonna in chiesa”,  la “Vergine van der Paele” la “Madonna Rolin” e vivissimi ritratti come i “Coniugi Arnolfini” .

Allievo dei van Eyck fu ALBERTO VAN OUWATER, olandese autore della “Resurrezione di Lazzaro”, che  fu  a  sua volta maestro di THERRYB BOUTS (1415-1475), autore, tra l’altro della “Deposizione”, “Ritratto di Giovane” dei celebri “Quadri di Giustizia”, “Deposizione”,”Storie della Vergine”, “L’altare della passione”; egli ebbe anche due figli pittori: DIRK II e ALBERT.  

Con RUGGERO VAN DER WEYDEN. detto anche Roger de la Pasture (1400 c.ca -1464), che ebbe come maestro ROBERTO CAMPIN (1375-1444), chiamato Maestro di Mérode, dalla omonima raccolta di Bruxelles, o di Flémalle, dalla omonima abbazia, la pittura fiamminga acquista grazia e ricercatezza di senso religioso e drammatico come mostrano la sua  “Deposizione” (all’Escuriale) e i dipinti  che si conservano a Monaco e a Berlino.

UGO VAN DER GOES (1482) dipinse, tra l’altro, una “Natività” (negli Uffizi a Firenze) che ebbe influenza su Lorenzo di Credi e sul Ghirlandaio.

Il più squisito dei pittori fiamminghi fu  HANS MEMLING (1430-1494),  riassume in se tutte le qualità degli artisti del suo paese.

Con GERARD DAVID (1460-1523) con “Calvari” l’ “Inchiodamento alla Croce”, “Madonna col Bambino”, “Trittico della “Vergine” l’”Adorazione dei Magi”, e  QUENTIN MATSYS (1466-1530) le influenze italiane cominciano a farsi sentire nella pittura fiamminga

 

FRANCESE

 

I

n Francia. la pittura di questo periodo sottostà a influenze fiamminghe e italiane come  dimostra l’opera del maggiore artista del tempo: GIOVANNI FOUQUET (1420-1481), autore di  ritratti e di quaranta squisite miniature dipinte per il libro: “Le ore di Stefano il cavaliere” (Museo Condé a Chantilly) con gli stessi caratteri che si ritrovano in altri artisti dello stesso periodo  quali Nicola Froment, Giovanni Perrel, ecc. .

Nel campo delle miniature sono da ricordare HENNEQUIN (Jean Bondol 1340-1400) e i fratelli HERMAN (1380/90-1416)  e PAUL DE LIMBURG  (1380/90-1416), di origine fiamminga, che avevano operato (nei primi decenni del ‘400) prima presso la corte borgognona  di Filippo l’Ardito e  poi in Francia presso il duca di Berry.

Insuperabili sono le “Belles Heures” (Metropolitan N.Y.) le “Heures de Ailly” (Parigi, collez. Rothshild) e le “Tres riches heures du Duc de Berry” (Museo Condé, Chantilly) e le “Heures à l’usage de Rome” (Collez. conte Seilern, Londra).

 

 E TEDESCA

 

I

n Germania si ha un solo nome certo di pittore: STEFANO LOCHNER ( 1451), autore della famosa “Adorazione dei Magi” del Duomo di Colonia: composizione piena di sentimento e di ieratica religiosità, con chiare derivazioni dai miniaturisti fiamminghi.

Nella seconda metà del sec XV, con predominanti influenze realistiche fiamminghe, fiorirono a Colonia alcuni notevoli artisti anonimi, che gettarono le basi di una personalità artistica tedesca. Ma per parlare di un’autentica arte tedesca occorre attendere il sec. XVI, ricordando MARTINO SCHONGAUER (1450-1491), che fu soprattutto grande incisore.

 

 

L’ARCHITETTURA

 

 

C

on l’Umanesimo, l’architettura abbandona tutti gli elementi medievali, che furono tipici del gotico, “con un nuovo senso dell’equilibrio, che trova nelle proporzioni fra parti che sostengono e le parti che sono sostenute; con i frontoni triangolari, compaiono gli ordini architettonici classici, finestre e porte architravate e più raramente centinate e sopratutto le parti sono regolate attraverso una distribuzione che nettamente distingue i pieni della parete e i vuoti dei vani, adeguando le forme al senso ritmico dell’arco a tutto sesto e alla sua spazialità regolare nelle varie dimensioni”.

È un ritorno ai romani, ma con una sensibilità tutta nuova., come dimostrano le opere di FILIPPO BRUNELLESCHI  (1377-1446), nelle quali coesistono forme gotiche, con forme classiche e poi il trapasso dalle prime alle seconde, finché queste ultime raggiungono una loro autonomia.

Brunelleschi aveva cominciato come scultore (“Il Sacrificio di Isacco” e il “Crocifisso” in S. Maria Novella), e più tardi  giunse all’architettura;  nel 1419 fu iniziato su suo disegno, il portico dell’Ospedale degli Innocenti, dove permane  il ricordo di una nostalgia gotica con la dinamica leggerezza delle esili colonne corinzie, da cui si slanciano le arcate.

Dal 1420 al 1436 attese alla costruzione della Cupola di S. Maria del Fiore, con sezione a sesto acuto, con doppia calotta, costoloni esterni, richiamanti la nervatura della volta a crociera; seguita dalla “Sagrestia di S. Lorenzo”, dalla “Cappella de’ Pazzi” (dal 1429 al 1451) dalle linee classiche e dalla “Chiesa di S. Spirito” (iniziata nel )1436 e terminata dopo la sua morte); a lui si deve la struttura organica di “Palazzo Pitti”.

Sulla linea del Brunelleschi, operano parecchi architetti tra i quali si ricordano: MICHELOZZO MICHELOZZI (1396-1472), con la facciata della “Chiesa di S. Agostino” a Montepulciano), e GIULIANO DA MAIANO (1432-1490), che aderisce agli elementi classici che si ritrovano nella “Porta Capuana” a Napoli, mentre suo fratello, BENEDETTO DA MAIANO (1442-1497), esaspera le linee dell’arco del Brunelleschi  nel “Portico di S. Maria delle Grazie” in Arezzo e crea il proprio capolavoro con la facciata del fiorentino “Palazzo Strozzi”, poi completata nel cornicione e nel cortile da SIMONE DEL POLLAIOLO, detto il CRONACA (1457-1508), il quale si riallaccia meno spiccatamente al Brnnelleschi e tenta, in fondo, quella sintesi delle varie correnti architettoniche quattrocentesche, che solo il sec. XVI riuscirà a realizzare.

GIULIANO DI SAN GALLO (1445-1516),  in ogni sua opera, sia nell’interno della “Chiesa di S., Maria delle Carceri” a Prato (1485-1494), sia nella “Sagrestia in ottagona di S. Spirito” (1489) sia nel contemporaneo “Palazzo Gond”i rivela l’aspirazione verso il più vivo classicismo di Brunelleschi, aspirazione ben visibile anche nel fratello ANTONIO detto IL VECCHIO (1455-1534).  

Si  giunge quindi all’altro grande caposcuola del Quattrocento: LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472), che presenta caratteri ben diversi e opposti alla architettura del Brunelleschi. Di ampia personalità, dai molti aspetti, vero figlio dell’Umanesimo, lo ritroviamo anche nella letteratura.

“Appassionato studioso di Vitruvio egli ama le costruzioni con membrature possenti e grandiose e ossature monumentali, gli archi poggiati su solidi pilastri, le colonne ricondotte a funzione decorativa, vani e  ornati distribuiti con parsimonia con predominio del  pieno sul vuoto e col trionfo del più puro classicismo”.

Tra le sue opere il paganeggiante ed esoterico “Tempio Malatestiano” di Rimini (progettato nel 1449), dove sono evidenti i ricordi dell’Arco d’Augusto ed è ripreso il motivo del Mausoleo ravennate di Teodoro; “Palazzo Rucellai” (14016-14’51), a Firenze e il capolavoro di armonia della facciata di “Santa Maria Novella” (1450-1470),  cosi le molte altre opere da lui eseguite o disegnate che raggiungono quasi sempre l’eccellenza per robustezza e classicità, che ne distinguono le forme architettoniche.

L’indirizzo dell’Alberti ebbe notevoli seguaci in: BATTISTA BERNARDO GAMBARELLI, detto il ROSSELLINO (1409-1464), ricalcante il maestro AGOSTINO DI DUCCIO (1418-1498), che segue fedelmente; LUCA SIGNORELLI (1430-1495), ne realizzò molti disegni.

LUCIANO LAURIANA (1420-1479) dà alla romanità delle linee dell’Alberti maggiore scioltezza e agilità, tanto nel napoletano “Arco di Alfonso d’Aragona” (1451), quanto nel “Palazzo ducale” di Pesaro e negli ampliamenti di quello d’Urbino; mentre FRANCESCO DI GIORGIO MARTINI (1439-1502), fu buon artista di costruzioni religiose, militari c civili.

In Lombardia  il classicismo dei toscani risente ancora vivo il gusto romanico-gotico,  dando luogo all’architettura  lomharda, nella quale predominanti elementi medievali si intrecciano con elementi classici, come si può notare nell’ “Ospedale Maggiore” di Milano, iniziato (1457) da ANTONIO AVERULINO detto il FILARETE (1400-1469) e continuato da GIUNIFORTE SOLARI (1429  c.ca-1481).

Tra gli architetti lombardi il più accreditato è da ritenersi  GIOVANNI ANTIGONIO AMADEO (1477-1522), cui si deve la “Cappella Colleoni” a Bergamo (1479-1485), nell’esterno tutta fiorita di ornati. A lui fu affidata la direzione dei lavori della “Certosa” di Pavia. Anche il “Tiburio” del Duomo di Milano è opera sua, ma poi  egli subisce influenze bramantesche e attenua le caratteristiche delle linee  lomhardesche  così seguite da altri architetti lombardi quali GIOVANNI BATTAGIO, GIAN GIACOMO QUADRI detto DOLCEBUONO (1445-1510), CRISTOFORO SOLARI (1468-1524) e ALESSIO TARAMELLI.

Influssi lombardi si diffusero nel Veneto, come si può notare nel Palazzo del Concilio di Verona, progettato da FRA’ GIACOMO GIOCONDO  e nel1a “Loggia del  Consiglio” di Padova di ANNIBALE MAGGI. L’architettura veneziana è anch’essa figlia della lombarda, ma con accenti propri d’influsso gotico e romanico che si riscontra nella famiglia dei LOMBARDO, costruttori della “Chiesa di S. Maria dei Miracoli”, “Palazzo Vendramin-Calergi”, “Scuola di s. Marco”, “Procuratie Vecchie”, ed altro, in alcune delle quali  ebbero come collaboratore il bergamasco MORO CODUCCI (1433-1504), che personalmente attese alla costruzione di “Palazzo Corner-8pinelli” e della “Torre  dell’Orologio”.

Più deboli furono gli influssi lombardi nell’Emilia: a Ferrara essi si intrecciano, e non sempre felicemente, con derivazioni classiche toscane che si armonizzano in BIAGIO ROSSETTI 1447 c.ca-1557), esecutore del piano regolatore della città al tempo di Ercole I d’Este, del “Palazzo dei Diamanti” e di altre notevoli costruzioni.

A Bologna, dove lavorano PAGNO di LAPO PORTIGIANI (1406-1470), ANDREA DA FORMIGGINO e ARISTOTELE FIORAVANTI, le influenze toscane sono dominate da quelle gotiche, mentre in Romagna predominano le forme toscane con MASTRO GIORGIO FIORENTINO E MATTEO NUTI.

Altrove il passaggio verso le forme classiche e l’intrecciarsi di queste con forme preesistenti è ancora in ritardo e assente; nel ‘Mezzogiorno d’Italia il classicismo toscano penetra a Napoli solo con gli Aragonesi, importato e poi seguito da GIOVANNI DI NOLA che esegue la parte superiore di “Porta Capuana”, e da GIAN FRANCESCO NORMANDO.

Fuori d’Italia l’architettura si mantiene fedele ancora alle forme del tardo gotico, e l’influenza delle nuove linee italiane non vi si farà sentire se non nel sec. XVI.

 

LA SCULTURA

IN ITALIA

 

 

I

n Toscana si era avuto lo stesso rinnovamento che si era avuto nella  architettura diffusasi poi in Italia: LORENZO GHIBERTI (1378-1455), con i “Commentari” si può considerare l'iniziatore della storia dell'arte.    

Nella Seconda porta bronzea del Battistero di Firenze, egli narrava i fatti della vita di  Gesù e descriveva Profeti e Evangelisti; pur essendo figlio della tradizione gotica, già nelle statue di Giovanni Battista, di san Matteo e di santo Stefano in  Orsammichele, rivive reminiscenze classiche che meglio sin evidenziano nella Terza porta bronzea del Battistero, in cui narrava fatti del Vecchio Testamento.

Suo contemporaneo è JACOPO DELLA QUERCIA (1371-I438) con le opere: “Tomba di Ilaria del Carretto” in S. Martino a Lucca (1406), la “Porta gaia” a 8iena con le grandiose figure di Virtù che l'adornano; la sua vera opera la troviamo  nella “Porta principale di S. Petronio a Bologna”, dove se  la statua di S. Petronio evidenzia ancora elementi gotici; della “Madonna col Bambino”, e “Fatti della Genesi e dell'infanzia di Gesù”.

DONATO DI NICOLO' DE BARDI, detto DONATELLO (1382-1466), il maggiore degli scultori del XV sec., il cui talento artistico mette in evidenza il rilievo anatomico.

Tra le sue  opere “san Giovanni Evangelista” (Duomo di Firenze), “Statue del Campanile di S. Maria del Fiore”, “Banchetto di Erode” (Fonte battesimale di Siena), “Cantoria del Duomo” (Museo dell'Opera), “busto del Brontolone” (Bargello), “Bassorilievi dell'altare della Chiesa di s. Antonio” (Padova)

Per alcune delle sue opere Donatello ebbe collaboratori gli architetti  PAGNO DI LAPO, PORTIGIANI e MICHELOZZO MICHELOZZI e nei lavori padovani  BARTOLOMEO BELLANO e negli ultimi anni fiorentini, da  BERTOLDO DE' GIOVANNI, che ultimò i due pulpiti in san Lorenzo.

Seguono o traggono spunti dalle varie opere di Donatello AGOSTINO DI DUCCIO,  ricordato come architetto; DESIDERIO DA SETTIGNANO (1428-1464), mitiga la  nervosa e tormentata anatomia”; MINO DA FIESOLE (1430-1484); ANDREA BREGNO, ebbe come dicepolo nel napoletano MINO DEL REAME; e, infine ANTONIO ROSSELLINO (1427-1478).

Dal filone naturalistico di Ghiberti e di Donatello deriva LUCA DELLA ROBBIA (1400-1482),  al quale si debbono molte belle terrecotte, smaltate con un procedimento che se non riuscì ad ottenerlo lui, fu portato a perfezione  dal nipote ANDREA (1435-1525), che lo segui nell'indirizzo artistico, perfezionando lo stile, che il figlio GIOVANNI porterà a livello veristico.

Sulla linea dei Della  Robbia si svolge pure la scultura di Benedetto da Maiano, già ricordato come architetto, e di MATTEO CIVITALI (1436-1501), mentre ANDREA POLLAIOLO (1429-1498), “partendo da esperienze donatelliane, giunge ad impossessarsi autonomamente di tutte le ricerche anatomiche, messe a nudo dalle masse muscolari che preannunciano Benvenuto Cellini”.

“Sulla stessa linea, e con risultati di superiore armonia”, troviamo ANDREA DEL VERROCCHIO (1435-1488), nell’eroico monumento equestre a Bartolomeo Colleoni in Venezia in Campo san Zanipolo.

 Le influenze degli scultori fiorentini, che avevano lavorato un pò dappertutto in  Italia, seguendo il gusto donatelliano si trovano nel senese LORENZO DI PIETRO il VECCHIETTA (1412-1500); a Roma, il lombardo FILARETE (ricordato tra gli architetti), il quale scolpisce le porte bronzee di S. Pietro, e nella stessa città creano monumenti sepolcrali e cibori ISAIA DA PISA e il figlio GIAN CRISTOFORO ROMANI; nel Mezzogiorno troviamo il dalmata FRANCESCO LAURANA, fratello del ricordato architetto, sul quale non agirono le influenze toscane. Con lui lavorarono a Palermo i membri  di una famiglia di artisti genovesi, i GAGGINI, le cui opere si trovano  anche a Genova.

In Lombardia, aderenti alle  linee dell'architettura lombarda, troviamo IACOPO  MANTEGAZZA, BENEDETTO BRIOSCO e i fratelli RODARI; a Venezia, ANTONIO RIZZO (1430-1498), che partendo da spunti gotici, giunge alle espressioni tipiche del secolo; uno dei Lombardo, TULLIO, è l’autore della Statua giacente di Guidarello Guidarelli (Museo d’arte di Ravenna); nell'Emilia a Bologna troviamo NICOLO' DELL' ARCA (1414?-1494), sul quale agirono anche influenze nordiche o francesi, mentre FRANCESCO DI SIMONE FERRUCCI (1440-1498) introduceva in Romagna il gusto toscano seguito da TOMASO FIAMBERTI (nativo di Campione d’Italia), dal milanese LORENZO DA BREGNO, dal dalmata GIACOMO BIANCHI, nei quali si trovano tracce di   GIOVANNI DA TRAU’ (1440-1515), che lavorò in Roma.

 

LA SCULTURA

FRANCO-FIAMMINGA

 

A

l secolo XIV si deve far risalire l'inizio di quello che si può chiamare Rinascimento franco-fiammingo; la Corte francese infatti, al tempo del re Carlo V il Saggio (1337-1380), aveva chiamato numerosi artisti, e altrettanto aveva fatto il fratello duca di Berry.   

Molti artisti fiamminghi si erano così trasferiti in Francia, e vivevano a Parigi, dove, a contatto della finezza francese avevano ingentilito la loro arte; questi artisti, a causa degli sconvolgimenti bellici della Francia passarono in Borgogna nel primo ventennio del sec. XV.

Quivi era già giunto, alla fine del sec. XII, uno scultore fiammingo, CLAUS SLUTER (m.1406), e vi aveva creato dei capolavori di realismo con accenti psicologici, sia  al  Porlale della Certosa di Champmol, presso Digione', sia nel  Pozzo  dei Profeti, elevato tra il 1396 e il 1402 nel Chiostro della stessa Certosa; le statue dei Profeti che attorniano la base sono  lavori di grande effetto con accenti di aperto realismo.

L'arte di Sluter fu proseguita dal nipote CLAES VAN DER WERKE (1439), i cui “Piangenti sulla tomba di Filippo l'Ardito”, gareggiano con i “Profeti” dello zio e maestro.

Dallo Sluter e dal Van der Werke data un vero e proprio rinnovamento della produzione statuaria francese, anche se le reminiscenze gotiche vi si mantengono vive e si rintracciano ancora alla fine del secolo nella bella Tomba di Filippo Pot al Louvre. Un influsso delle esperienze italiane si rinviene invece nella famosa Tomba di Solesme, dove il sopravvivere della tradizione gotica nella composizione e nei tipi non riesce a soffocare fresca spontaneità dell'espressione.

Il primo artista aperto alle esperienze italiane, mentre l'arte di GIACOMO MOREL di Lione, di ETIENNE BOBILLET e di  PAOLO MOSSELMAN di Ypres, resta legata alle suggestioni di Sluter; è MICHEIE COI.OMBE (1431-1512), che nelle  tombe di Francesco II di Bretagna e di Margherita di Foix nella cattedrale di Saintes, mostra questi influssi, particolarmente negli ornamenti dei pilastri e nelle statue degli apostoli.

Nei paesi nordici, invece, la scultura in pietra, pur restando aperta alle correnti veristiche, non dava segno di rinnovamento, mentre nel reame venne coltivata da GIACOMO DI GERINES, del quale sono eccellenti le statuette con cui adornò (1455) la Tomba di Luigi di Male, in Nostra Signora della Treille a Lilla.

Fioriva pure in quei paesi la scultura in legno che dalla metà del sec. XV in poi divenne una vera caratteristica dei paesi flamminghi e brabantini: GIOVANNI BORMAN di Bruxelles  può ritenersi il maestro di questa tecnica, che amava la policromia e la doratura e giungeva a singolari contaminazioni  tra pittura e scultura.

Altrove, nei paesi dell'Impero Germanico si svolgèvano le ultime esperienze gotiche: in Alsazia,  NICOLA DI LEIDA infondeva spiritualità nel ritratto scolpito; nella Svevia HANS MULTSCHER vivificava il gotico con la naturalezza e la soavità, e JORG SYRLIN nei bei busti che decorano gli stalli della Cattedrale di Ulm raggiungeva toni di classica verità psicologica.

In  Alto Adige MICHELE  PACHER creava figure di una monumentalità che già trascendeva le forme gotiche.

 

   IN GRAN BRETAGNA

 E SPAGNA

 

L

a Gran Bretagna rimaneva chiusa nelle sue forme gotiche già raggiunte, e non mostrava alcun segno di rinnovamento.

La Spagna, concependo la scultura come un mezzo per colmare il vuoto delle chiese, dette vita a monumenti di enormi proporzioni, grevi per la moltitudine di figure scolpite, eccessivi per la fastosa ornamentazione.

La compostezza che aveva cercato d'insegnare agli artisti spagnoli, nel 1409 YANIN LOMME (di Tournai)  con la Tomba di Carlo il Savio e il Calvario di Pamplona, non ebbe seguaci: GIL de SILOÈ (14490-1501), nel polittico di Miraflores e DIEGO DE LA CRUX in quello di Valladolid, portarono all' estremo limite questa tendenza di splendore fastoso, benché l'eccessivo policromismo non riesca ad offuscare i pregi costruttivi delle opere.

 

LE SCIENZE

 

L

e scienze in epoca medievale erano molto lontane dall’idea maturata in epoca moderna, tanto da essere considerate come “filosofia naturale”, che aveva la sua origine nell'antica civiltà greca.

Per altre vie, in periodo umanistico si ridesta l'interesse per la natura  e si pongono così i presupposti della  scienza sperimentale moderna.

L'uomo medievale è spontaneamente enciclopedico perché ignora una possibile divisione delle varie scienze, e tutte le opere scientifiche di questo periodo sono  enciclopediche, come il "Trésor" e il  "Tesoretto" di BRUNETTO LATINI (1220-1294?) il “De natura rerum” dell'inglese ALESSANDRO NEKAM (1157-1217) o lo “Speculum Maius” di  VINCENZO DE BEAUVAIS (1190 c.a-1264).

D'altronde, ogni indagine trova la sua ufficiale fusione nella teologia, protetta dall'alone del dogma, convogliata (come la Scienza e Filosofia unificate), nella Scolastica, uno dei più  importanti sistemi culturali del tempo, creato dalla Chiesa, per mantenere una unità di indirizzi e un potere accentratore e dominatore.

Gli Arabi erano stati i grandi cultori e divulgatori delle scienze, trasmesse all’Occidente (v. Articoli: La scienza araba alle origini della cultura europea), unitamente ai loro  studi dei testi greci, che avevano saputo assimilare e sviluppare; erano stati gli arabi, infatti, a ricostruire la geometria, e più ancora, la nuova forma  data al calcolo con l'uso delle cifre arabe (di provenienza indiana), e la creazione dell'algebra, e dell’algoritmo (*), oltre ad aver posto le prime basi della chimica moderna.

Essi inoltre ricercarono, commentarono e tradussero le opere dei celebri medici e naturalisti come Ippocrate, Galeno e Dioscoride; e vaste furono  le loro conoscenze nel campo dell'astronomia: molti concetti e termini in uso nella scienza moderna e nel linguaggio sono stati da loro ereditati (come i termini: chimica e alchimia, alcali, alcool, alchermes, elisir, sciroppo, algebra, logaritmo, algoritmo, zero, zenit, nadir, astrolabio, azimut, ammiraglio e altri termini della navigazione e così via).

Nel  campo geografico, infine, agli arabi  l'Occidente deve la conoscenza  delle opere geografiche  di TOLOMEO, che ebbero larghissima diffusione nel Medio Evo e di cui essi fornirono la traduzione col nome di "Almagesto".

Ed erano stati gli arabi a comporre i nuovi trattati geografici, come quello di EDRISI DI CENTA (Abū 'Abd Allāh Muhammad ibn Muhammad ibn 'Abd Allah ibn Idrīs al-Sabti) detto anche Idrīsī, Edrisi,,el Edrisi, Ibn Idris, Hedrisi o al-Idrīsī (1099-1165).

I suoi viaggi lo portarono in molte parti d'Europa, tra cui la Grecia, Creta, Rodi, il Portogallo, i Pirenei, la costa atlantica francese, l'Ungheria, e York, in Inghilterra, e dopo tutti questi viaggi si era stabilito a Palermo (attorno al 1145), alla corte di Ruggero II, per il quale aveva eseguito la Tabula Rogeriana, una delle più avanzate del mondo medievale (ol cui originale in argento massiccio, era stato depredato).

Edrisi compilò un compendio di informazioni geografiche con il titolo Kitab nuzhat al-mushtaq fi'khtiraq al-'afaq, vale a dire "Il libro dei piacevoli viaggi in terre lontane" oppure “Per chi si diletta a girare il mondo”,  noto con il nome de "il Libro di Ruggero” (Kitāb Rugiār, o in latino: Liber ad eorum delectationem qui terras peregrare studeant ) finito di scrivere verso il 1154.

 

 

*) L’ algoritmo che prende il nome dal suo inventore Muammad ibn Mūsā al-Khwārizmī (780-850), è il procedimento col quale attraverso una formula matematica si risolve un problema posto da una idea o un concetto; vale a dire che traducendo  il concetto in formula matematica e sviluppando questa formula, si ottiene lo sviluppo e la  soluzione del problema posto dal concetto.

L’algoritmo sembra sia stato inventato (IX sec.!) pposta per l’informatica, e per la programmazione dello sviluppo sia del software, sia dell’hardware: pertanto un programma, codificato in un algoritmo con formula matematica, può essere svolto dal calcolatore (computer).

 

 

LE PRIME  SCOPERTE

GEOGRAFICHE

L’ERRORE DI COLOMBO

 

 

E

ra stato il piccolo Portogallo ad avventurarsi nell’Oceano ed esplorare il Mare Tenebroso, scendendo a sud e costeggiando la costa occidentale dell’Africa. L’avventura era cominciata nel 1415 con una crociata contro gli infedeli musulmani della Mauritania, iniziata dai figli di Giovanni I, Edoardo, Pietro ed Enrico poi detto il Navigatore.

Nel 1434 il Capo Bojador al 24° parallelo Nord, è superato, giungendo poi al Capo Bianco; le esplorazioni vengono effettuate da navigli di mercanti privati che portano in patria pelli, resine, polvere d’oro e schiavi, arricchendo la Corona alla quale versano un quinto delle loro mercanzie.

Nel 1469 il commercio portoghese offre oro e schiavi, scambiati con l’oro: Alfonso V (1448-1481) concede in appalto a un mercante di Lisbona per 300mila milreis (10mila lire oro) tutto il commercio della costa dalla Segambria alla Baia di Biafra.

Il suo successore, Giovanni II (1455-1495) per stimolare la ricerca della via delle Indie, promette il godimento di tutte le terre che verranno scoperte e si giunge al Congo, che diventa Regno sotto il suo protettorato.

Mentre Bartolomeo Diaz (1450-1500) viene mandato per cercare il passaggio ad Est dalla costa Occidentale, altri due portoghesi: Pedro de Corvilham e Alfonso de Paiva,  sono mandati al Cairo, uno per  visitare la costa indiana del Malabar e l’altro per esplorare navigando la costa orientale dell’Africa da Nord a Sud; al ritorno dalla spedizione di Diaz e Corvilham, il sogno dell’India era quasi raggiunto.

Sarà Vasco de Gama a realizzarlo con la circumnavigazione dell’Africa (1497) attraverso il Capo di Buona Speranza, giungendo in India (1498). 

Nel 1484 la regina Isabella di Castiglia si era assicurata le isole Canarie sulle quali avevano messo gli occhi i portoghesi fin dal tempo di Enrico il Navigatore, dichiarando la sovranità della Castiglia.

Tutte queste scoperte erano state figlie degli studi umanistici, anche se Cristoforo Colombo (1451-1506) non può essere considerato uomo rinascimentale, ma medievale.

Su di lui e sulle sue origini, vale a dire sulla sua italianità, si continua ancora vanamente a discutere, non sulla base di documenti ma di indizi e ipotesi: un fatto può essere dato per certo; anche se genovese di nascita, la sua patria è stata la Spagna dove (a parte le opposizioni e le invidie dei cortigiani), aveva trovato la regina Isabella che per finanziarlo aveva impegnato i propri gioielli, nell’indifferenza dell’avido e avaro Ferdinando che non aveva partecipato al finanziamento. 

Si continua ancora a discutere sulla “scoperta” cercando di sminuirla con i precedenti viaggi dei Vikinghi che avevano raggiunto Terranova e avevano posto un primo insediamento (Vinland), o di carte geografiche pre-colombiane che indicavano la esistenza di terre; tutto ciò non toglie a Colombo nessun merito sulla scoperta  perseguita con tenacia, in quanto aveva seguito la sua idea, che navigando verso Ovest avrebbe raggiunto le Indie.

La sua caparbietà era stata assistita anche dalla fortuna in quanto studiando le carte di Paolo Del Pozzo Toscanelli (1397-1483), morto prima della notizia dell’impresa di Colombo, che gli avrebbe confermato le sue supposizioni, e sulla base della errata circonferenza terrestre del geografo Marino di Tiro (I sec. d.C.), ripresa da Tolomeo e Toscanelli, Colombo aveva calcolato cinque-seimila chilometri invece di ventimila, il percorso fino alle coste dell’Asia; la sua fortuna era stata l’America ... che si trovava nel mezzo del percorso!

Egli partendo da Palos (3.8.1492), era sbarcato a san Salvador, un atollo delle Bahamas (il 12 ottobre), raggiungendo poi Cuba, che pensava fosse un lembo di costa dell'Asia e Hispaniola (Haiti) dove il fratello Bartolomeo fonderà la città si Santo Domingo.

Nel 1498 Colombo raggiungerà la foce dell'Orinoco; era stato il primo approdo sul continente americano, che egli continuava a ritenere facente parte dell'Asia e che, oltre la foce, vi fosse la costa del Giappone, la leggendaria terra del Cipango (Zipangu di Marco Polo).

Purtroppo la sua scoperta fu causa del genocidio di quelle popolazioni e tutte le scoperte successive avevano portato a un fenomeno esclusivamente rinascimentale: il “colonialismo” che non possono essere a lui attribuiti, ma alla malvagità e avidità dell’uomo, come già abbiamo avuto modo di scrivere sulla umanità violenta e sopraffattrice (v. in Schede S. Israeliani e Palestinesi).

Solo Vasco Nuñez de Balboa (1515) raggiungendo la costa dell'Oceano Pacifico, nel 1515 si rese conto che era stato scoperto un altro continente.

Dopo la circumnavigazione dell'Africa ad opera di Vasco de Gama, i portoghesi espandono le loro attività commerciali nelle Indie Orientali, insediandosi in punti strategici delle coste indiane.

Nel 1505-12 Magellano, con l'ammiraglio Albouquerque conquista Sumatra e Malacca, acquisendo il controllo dello stretto dove sorge Singapore, che costituiva passaggio obbligato per tutto il traffico che dall'Oceano indiano si dirigeva in estremo Oriente, e con Francisco Serrao (1511) sbarcò nelle Molucche.

Tra il 1519 e 1521 Magellano compì l'impresa della circumnavigazione dell'America meridionale, uscendo nell'Oceano Pacifico che nessuno immaginava così immenso; quindi, raggiunse le Marianne e poi le Filippine, alle quali il nome fu dato successivamente in onore di Filippo II.

Cortés dopo aver conquistato il Messico con la completa sottomissione degli imperatori Maya (1522) era stato nominato luogotenente del re nella Nuova Spagna, mentre Pizarro conquistò il Perù.

Valdivia, Garay Martinez de Irala, Jimenez de Quesada, conquistano l'Araucania, Colombia, Paraguay, le province del Plata.  Alvarado, luogotenente di Cortés, conquista (1523-24) il Guatemala e s. Salvador. Almagro, luogotenente di Pizzarro (1536-41) inizia la conquista del Chile, terminata da Valdivia (1540-41).

 

 

FINE