I  MILLE ANNI

DELL’IMPERO

BIZANTINO

TRA  INTRIGHI

COMPLOTTI E

COLPI DI STATO

 

                         MICHELE DUCAS-PUGLIA

Basilio II – Miniatura da Salterio

Biblioteca Marciana  - Venezia

 
   

 

               

 

           

CAP.VII

 

PARTE SECONDA

 

sommario: zoe e costantino vii porfirogenito; l’usurpatore romano i lecapeno; costantino vii al centro del movimento umanistico del x secolo: sue realizzazioni;  romano ii e la dissoluta teofano;  niceforo ii focas e le disavventure di liutprando;  giovanni i zimisce e l’onnipotente eunuco basilio; basilio ii bulgaroctono e costantino viii e i colpi di stato dei generali focas e sclero; basilio uscito dalla giovinezza si dedica al regno e alle armi; la morte di basilio chiude un’epoca: sue realizzazioni; feudalita’ e ladifondo;

 

 

ZOE E COSTANTINO VII

PORFIROGENITO

 

 

S

alito al trono all’età di sette anni (912) il giovane Costantino, settimo di quel nome, detto “Porfirogenito”, si trovò sotto la tutela del collegio dei tutori presieduto dal patriarca Nicola nominato dallo zio Alessandro.

L’impero stava attraversando un periodo poco favorevole in quanto i confini erano minacciati da forze esterne che un ragazzo non poteva affrontare, per cui alcuni dei cittadini più in vista e lo stesso patriarca Nicola, non ancora a conoscenza della nomina ricevuta, inviarono un messaggio a Costantino Ducas gran  domestico della guardia (figlio del duca Andronico), che per diversi anni aveva difeso i confini asiatici e  ritenuto l’unico capace di poter difenderel’impero minacciato,  invitandolo a raggiungere Costantinopoli per prenderne lo scettro. 

Costantino giunse immediatamente a Costantinopoli con alcuni dei suoi ufficiali e penetrato di notte in città si recò all’ippodromo; quivi giunto, alla luce delle torce e delle fiaccole si era raccolta una folla che lo aveva salutato imperatore; non avendo  le guardie voluto aprirgli le porte, si reca alla porta Chalcé penetrando nel palazzo, ma viene bloccato da uno dei tutori, Giovanni Heladas che aveva riunito una compagnia di guardie di palazzo e di marinai; Ducas nel dare una speronata al suo cavallo per farlo avanzare, questo  scivola sul selciato e prima che Ducas potesse farlo rialzare viene ferito e un soldato con un colpo di spada gli taglia la testa, subito portata dall’imperatore Costantino che si trovava nella sala dorata.

I tutori di Costantino presero l’iniziativa di spegnere nel  sangue la rivolta e lo stesso patriarca si mostrò spietato: tremila partigiani di Ducas tra i quali molti patrizi furono decapitati, molti altri mutilati; la moglie di Costantino Ducas fu tonsurata e il figlio Stefano fu evirato e ambedue mandati in Paflagonia.

Molti si erano rifugiati in chiesa, ma furono tirati fuori e, condotti per le strade a colpi di frusta, alcuni furono accecati, altri evirati, altri tonsurati finirono nel convento di Studion, altri uccisi; la riva del mare e le strade che conducevano al palazzo, riferisce il cronista, erano piene di cadaveri appesi alle forche tra i quali si videro molti senatori e ufficiali.

Questi tutori (scrive Zonaras) governavano secondo la propria volontà, ognuno disfacendo ciò che faceva l’altro, senza alcuna autorizzazione dell’imperatore e senza che i giudici li dissuadessero da queste temerarie imprese.

Il giovane imperatore richiese la presenza della madre esiliata da Alessandro ed essi furono costretti a farla tornare.

Zoe appena tornata a palazzo prese immediatamente e arditamente in mano le redini del governo e per prima cosa chiamò il patriarca dandogli l’ordine di occuparsi solo degli affari della Chiesa; licenziò gli altri tutori, tranne  Giovanni Heladas, “di carattere fragile (scrive il cronista) il quale non potendo sopportare di essere semplice strumento nelle mani di Zoe, morì di  mestizia”.

L’imperatrice affidò quindi le alte cariche dello Stato a suo fratello Anastasio e a quattro favoriti, ma essendo una donna  energica e virile  era lei a condurre gli affari di Stato.

Come detto, i confini dell’impero erano minacciati, da una parte dalle bellicose popolazioni russe, ungheresi e bulgare e dall’altra dagli arabi dell’Africa (917). Contro i bulgari fu mandata un’altra tribù altrettanto bellicosa, quella dei peceneghi (o pazinaci v. Scheda S.) che occupava le contrade poste tra il Don e il  Dnjepr.  

Per poter far fronte ai primi, fu firmata con gli arabi una pace poco onorevole con pagamento di un tributo annuo di ventiduemila pezzi d’oro, compensato però da un altro trattato più redditizio firmato con il califfo di Bagdad; vi era stato infatti uno scambio di prigionieri cristiani con saraceni e questi erano più numerosi dei cristiani, per di più il califfo sborsò una differenza in danaro di centoventimila pezzi d’oro.

Non ci addentriamo nelle operazioni militari (che di norma non apprezziamo e preferiamo tralasciare) che dovettero essere affrontate, in particolare nei confronti dei bulgari, ma ne accenniamo soltanto per porre in evidenza le figure dei comandanti che se ne occuparono quali Leone Focas figlio di Niceforo e domestico delle legioni,  Costantino l’Africano, Giovanni Bogas e Romano Lecapéno drungario della flotta, sul quale ci soffermeremo in quanto avendo avuto la stessa idea di Costantino Ducas, ma miglior fortuna, si impadronì dell’impero.

 

L’USURPATORE

ROMANO I LECAPENO

 

U

na serie di circostanze favorevoli gli spianarono la strada verso il potere: Apprezzato da Zoe per le sue fattezze fisiche, fu promosso generale della guardia; il capo degli eunuchi, il ciambellano Costantino lo introdusse a Corte dove ebbe l’aiuto del gran ciambellano Teodoro istruttore dell’imperatore Costantino.

Romano aveva così iniziato la sua scalata al potere con la sola opposizione di Leone Focas il quale pensò di intervenire appellandosi alle truppe d’Asia e andando a porre il proprio accampamento fuori delle mura di Costantinopoli; ma Romano gli fece scrivere una lettera da Costantino che lo disabilitava e Leone abbandonato dalla truppa  finì accecato.

A palazzo Romano si dimostrò poco riconoscente nei confronti dell’imperatrice che sospettata di averlo voluto avvelenare fu tonsurata e relegata nel convento di santa Eufemia. Lo stesso ciambellano Teodoro, primo autore della sua fortuna, fu mandato in esilio.  

Romano diede come fidanzata a Costantino la figlia Elena e poi li fece sposare e come suocero dell’imperatore, si fece riconoscere prima il titolo di basilopator,  poi quello di cesare e dopo due mesi, non solo si fece incoronare imperatore (920) ma fece incoronare la sua donna, Teodora che prese  il titolo di augusta.

L’anno seguente associò suo figlio Cristoforo, facendolo dichiarare imperatore e così faceva successivamente con l’altro figlio Costantino (927), mentre il vero imperatore Costantino passava al terzo posto nella linea di successione. Poco tempo dopo Teodora moriva e il titolo di augusta fu assegnato alla moglie del figlio Cristoforo.

A seguito di un trattato che segnava la fine delle guerre con i bulgari, Romano per confermare il trattato aveva dato in sposa una sua nipote, Maria, figlia di Cristoforo, a  Pietro, figlio di Simeone re dei Bulgari.

Anche sul versante ecclesiastico Romano fece sentire la sua ambizione: essendo rimasta vacante la sede patriarcale con la morte di Stefano successore di Nicola, non avendo il figlio Teofilatte ancora raggiunto la maggiore età, fu nominato patriarca il monaco Trifone con l’impegno che decorsi tre anni avrebbe  rinunciato alla carica lasciandola a Teofilatte.

Scaduti però i tre anni  Trifone non volle saperne della rinuncia; l’imperatore rimase sorpreso di questo atteggiamento in quanto il monaco-patriarca veniva meno alla parola data, ma intervenne un cortigiano  che riuscì a raggirare la semplicità del monaco.

Il cortigiano, conoscendolo, gli disse che l’imperatore stava cercando il modo di rovinarlo ma non trovava il crimine di cui accusarlo e poterlo destituire. “Quelli che vi sono contrari sono forzati a dire di non avere altro di cui accusarvi - gli disse - che non sapete leggere, ma per contrastare questa accusa calunniosa, basta che in presenza di testimoni  prendiate una carta e scriviate il vostro nome e la carica pontificale e la scrittura sarà portata all’imperatore che non avrà più motivo di accusarvi”.

Il buon uomo ubbidì a questo suggerimento e in presenza di testimoni scrisse le parole suggerite su un foglio bianco: “Trifone, per la misericordia di Dio arcivescovo di Roma nuova e Patriarca Generale”; il documento fu portato all’imperatore il quale lo fece completare con la rinuncia e a questo modo il figlio fu nominato patriarca.

Teofilatte”, raccontano i cronisti, “conosceva il culto dei piaceri invece di quelli della religione e per scacciare la noia, al posto degli uffici religiosi, introdusse cori, balletti e inni profani”. Teofilatte amava il lusso e i cavalli dei quali ne aveva duemila e spesso interrompeva i servizi religiosi per andarli a visitare.

I  cavalli furono la causa della sua morte... perché amava spronarli in riva al mare e finì col fracassarsi le ossa contro le rocce; morì dopo essere rimasto infermo per due anni.

Romano Lecapeno dopo venticinque anni di regno ormai vecchio, aveva perso le forze; il figlio Stefano nell’intento di assumere il potere, spinto dai cortigiani, organizzava contro il padre una cospirazione, mentre il fratello Costantino aveva in un primo momento rifiutato di partecipare, ma quando viene a sapere del suo successo, accorre per avere la sua parte!  

Romano  era stato prelevato dalla sua camera e avvolto in una coperta era stato portato in un monastero nell’isola di Prote dove era stato tonsurato e vestito dell’abito monastico:  egli accetta filosoficamente e con rassegnazione la nuova condizione; l’unico rimpianto lo aveva avuto nei confronti dei figli, dei quali si era lamentato per averli generati e allevati e in cambio era stato ridotto in quelle condizioni!

I due fratelli Stefano e Costantino faranno anch’essi la stessa fine del padre perché il Porfirogenito rientrato nei suoi poteri organizza una festa durante la quale li fa arrestare e tonsurare, unitamente a Michele, un figlio di Cristoforo (945).

Essi sono mandati in isole diverse e moriranno prima del padre: Zonaras ci fa sapere come:  Costantino dopo essere stato portato in diverse località per aver tentato la fuga, in Samotracia aveva avvelenato il capitano della guardia, ma inseguito e preso dalle guardie è fatto a pezzi, mentre Stefano dopo nove anni  di prigionia moriva nell’isola di Lesbo.  

 

COSTANTINO VII

AL CENTRO

 DEL MOVIMENTO UMANISTICO

DEL DECIMO SECOLO:

SUE REALIZZAZIONI

 

S

iamo finalmente al momento in cui Costantino VII Porfirogenito dopo venticinque anni di disinteresse del governo dell’impero, prende il potere e regna da solo senza interferenze altrui.

Se la sua figura può essere apparsa scialba e senza carattere nei confronti di coloro che gli avevano usurpato il potere verso il quale egli aveva mostrato il più assoluto disinteresse, tutt’altra personalità aveva mostrato con le sue realizzazioni nel campo della cultura, con le quali aveva illustrato l’impero.

Le sue  realizzazioni infatti andranno al di là del ristretto periodo della sua vita e andranno oltre il suo secolo (Xmo); le ripercussioni si avvertiranno nelle correnti umanistiche e rinascimentali che si svilupperanno in Italia e nei paesi occidentali nei sec. XVmo e XVImo e anche oltre, per non parlare del principio della “dignità dell’uomo” che costituirà il fondamento degli umanisti occidentali, mentre a Bisanzio aveva trovato applicazione nelle disposizioni penali del XII sec., contenute nell’editto  denominato Tipucito  (v. Cap. VII La riorganizzazione  della Legislazione) e successive disposizioni del Codice penale che divenne più rispettoso della vita dei criminali, con la applicazione della pena di morte che andò man mano diminuendo fino al regno di Giovanni Comneno (1118-1142) durante il quale non fu applicata neanche una volta.

Costantino Porfirogenito si era reso creatore e animatore del movimento letterario e scientifico che si era sviluppato sotto la sua direzione, al quale aveva collaborato anche con una propria produzione.

Al tempo di Giustiniano l’Università di Costantinopoli fondata da Teodosio (425) aveva ventotto professori pagati dallo Stato per la letteratura greca e latina, uno per la filosofia, due per il diritto, in seguito altri per la teologia; altre erano sorte a Berito poi trasferita a Sidone, rinomata per il diritto; quella di Atene, celebre per il diritto, filosofia e belle lettere; a Edessa vi era una Università siriaca o persiana.

Purtroppo Giustiniano oltre alle grandi realizzazioni (v. Capp. III e IV), aveva commesso degli errori dettati da integralismo religioso e (oltre alle stragi dei non ortodossi v. cit. Cap.), aveva chiuso la celebre Scuola di Atene (529) perché ritenuta pagana. Successivamente vietava l’insegnamento del diritto (533), per accentrarlo nella capitale, in tutte le Università in cui era insegnato, ad eccezione appunto di Costantinopoli e Berito.

Questo provvedimento determinò la decadenza delle Università di Alessandria (dove si insegnavano tutte le materie innanzi indicate, oltre alla teologia e medicina), e di Cesarea scomparsa già al tempo di Giustiniano; poi scomparvero Berito e Antiochia e rimase solo quella di Costantinopoli.

La rinascita degli studi umanistici (a cui aveva dato impulso Eraclio) era stata  incrementata dal cesare Bardas (sotto Michele III v. sopra e Cap. VI), che aveva ricostituito, come è stato già detto, l’insegnamento pubblico alla Magnaura e aveva avuto come personaggio di punta Fozio; aveva quindi ripreso maggior vigore con Costantino Porfirogenito e si era sviluppato in maniera organica e di metodo, nel senso che le singole materie erano state affidate a singoli insegnanti guardando alla formazione degli studenti, come vedremo tra breve, in maniera mirata.

Costantino aveva ricostituito l’insegnamento delle scienze, vale a dire l’aritmetica, la musica, l’astronomia, la geometria, la stereometria (la scienza che studia la misura dei solidi) e la madre di tutte, la filosofia.

Per ognuna di esse aveva affidato l’insegnamento a maestri  illustri che si erano distinti in ciascuna di esse; si conoscono anche alcuni nomi di questi insegnanti: la scuola di filosofia che con Bardas era condotta da Leone il Matematico,  era stata assegnata a Costantino il Protospataro;  per la geometria vi era Niceforo il Patrizio; per l’astronomia Gregorio il Segretario, per la retorica Alessandro metropolita di Nicea; non si conoscono invece gli insegnanti di aritmetica, musica, grammatica, dialettica, diritto e medicina.

Tutti gli insegnati portavano il titolo di Rettore (kategetai); più tardi saranno riportati nelle liste dei funzionari con il titolo di principe dei Rettori e Console dei filosofi: quest’ultimo titolo fu assegnato a Michele Psello che con Anna Comnena troveremo nella fase finale della rinascita bizantina.

L’Università tendeva a preparare uomini di Stato; l’insegnamento di Menandro tendeva a creare ambasciatori; quello di Polieno a formade dei tattici: erano le uniche scuole al mondo, eccettuata la Cina (v. in Articoli: P. Matteo Ricci e la sua opera scientifica in Cina), in cui la formazione di dottrina era unita a quella dei funzionari, per ottenere  funzionari di alto livello culturale.

Costantino invitava gli studenti a palazzo, li invitava alla sua tavola, donava loro del denaro e li incoraggiava con le sue parole e la sua saggezza  ed essi dopo aver appreso le scienze e le arti più elevate  erano scelti come giudici, generali  e vescovi; a questo modo le scuole umanistiche di Bisanzio avevano anticipato di alcuni secoli quelle occidentali.

Appassionato di architettura Costantino costruì magnifici edifici, restaurò costruzioni di precedenti imperatori che avevano bisogno di restauri, soprattutto quelle ricche di mosaici e ornamenti preziosi; provvide a far restaurare, sotto la sua direzione, il Triclinio dei diciannove letti  dove spiccava un pergolato scolpito sotto il soffitto dipinto al naturale  da cui pendevano grappoli rossi,  che aveva suscitato la  meraviglia di Liutprando (v. sotto).

Costruì inoltre il palazzo di Erìa e quello per suo figlio Romano II, ornò il portico del Bucoleon di statue portatevi da altri posti; restaurò la Chiesa dei SS. Apostoli (costruita da Teodora v. Cap. IV) e fece costruire quattro obelischi che ornavano l’ippodromo e potevano rivaleggiare con il Colosso di Rodi.

Amava anche la pittura ed egli stesso senza aver avuto maestri, dipingeva  quadri molto ammirati; amava la musica e formava dei cori ai quali assegnava direttori ed egli stesso era tra i primi cantanti e componeva canti, scriveva poesie e si occupava anche di arti tecniche alle quali fece fare progressi: i marmisti, carpentieri, orefici, argentieri, fabbri, erano personalmente spinti a far meglio, dalle sue incitazioni.

E’ probabile che si sia occupato della compilazione di testi di arti tecniche che sono andati perduti; aveva lavorato per le porte d’argento del Triclinio d’oro e costruito un tavolo attorno al quale faceva sedere i suoi ospiti; nella parte del Sacro Palazzo riservata al Corpo di guardia che aveva rivestimenti in porfido, fece fare una scultura che era un vero capolavoro: su un getto d’acqua vi era un’aquila d’argento che negli artigli stringeva un serpente; conosceva anche come si dovevano costruire le navi da guerra, quale legno impiegare, quali proporzioni dovevano essere osservate tra le diverse parti!

In storia e politica scrisse o fece scrivere numerosi libri; fece scrivere la monumentale Collezione degli Estratti storici in cinquanta volumi, purtroppo andata perduta mentre ci sono rimasti frammenti di Polibio, Diodoro, Dione Cassio, Strabone, Nicola da Damasco ed altri, e le Metafrasi di cui resta solo una parte  nella continuazione di Teofane sull’Immagine di Edessa (vale a dire dell’immagine di Cristo di cui si ebbero diversi esemplari in circolazione), oltre ad alcune centinaia di vite di santi e omelie, oltre alle Collezioni di agraria (Geoponica), Collezione zoologica (Ippiatrica) e Collezione medica.

Tra  i suoi lavori troviamo la Biografia di Basilio I, scritta in onore del grande avo, Il Libro delle Cerimonie, il Trattato dei temi (di cui si è parlato nel cap. V par. Eraclio riforma lo Stato); e Trattato sull’amministrazione dell’impero che documenta la potenza politica, economica e diplomatica dell’impero nel sec. X e in campo legislativo la revisione dei Basilici e il coordinamento delle pandette di Giustiniano, Basilio I e Leone VI di cui si è già detto.

Lo scopo delle opere che egli ordinava avevano di mira la formazione di uomini di Stato, generali, ambasciatori, funzionari di ogni specie, mentre i tre testi da lui scritti su Basilio, le Cerimonie e l’Amministrazione erano indirizzati alla formazione di un monarca e in particolare erano indirizzati a suo figlio Romano (che come vedremo, farà poco onore agli insegnamenti del padre).

Aveva scritto ancora un libro di presagi per prevedere il bel tempo, la pioggia i fulmini, i tuoni, i terremoti, relativamente al quale aveva annotato: “è un libro che ho scritto con cura avendo consultato molte opere, io Costantino imperatore dei romani, in Gesù Cristo imperatore eterno”, oltre alle lettere, che sono  un modello di oratoria e di arte retorica e ogni sorta di poesie.

La sua cultura era vastissima, ed era versato nelle lingue delle quali lo stesso Fozio, il più colto del secolo (e suo maestro), non conosceva né il latino né l’ebraico; nel libro sull’Amministrazione indica l’etimologia di termini scandinavi e slavi e anche la derivazione di parole serbe, croate, russe e polacche .

Costantino, amato dai sudditi, finiva i suoi giorni anzitempo in quanto Teofano, moglie del figlio Romano (paragrafo che segue), per anticipare la successione del marito (se ciò  non è provato, ambedue per la vita che conducevano hanno lasciato adito a tali sospetti)  gli presentò una coppa avvelenata; la coppa cadde, ma troppo tardi perché Costantino aveva già  bevuto; era seguita una “malattia di languore” e Costantino si era recato in Bitinia per riprendersi con la cura termale e per consolazione spirituale presso gli anacoreti che vivevano sulla sommità del monte Olimpo, ma lo riportarono morente a Costantinopoli  dove spirò (959) all’età di cinquantacinque anni.

Alle esequie celebrate nella Chiesa grande, dopo che il clero i grandi, i patrizi, il senato avevano salutato la salma, il maestro delle cerimonie pronunciò la frase “Esci, imperatore, il Re dei re, il Signore dei signori ti chiama”. 

 

ROMANO II E

LA DISSOLUTA TEOFANO

 

R

omano II  ventenne,  debole e corrotto, era alto, dritto come un fuso, con spalle larghe, di bella carnagione, gli occhi scintillanti,  il naso lungo e aquilino;  fu sposato che era ancora ragazzo a Berta, figlia illegittima di Ugo di Provenza re d’Italia (v. Articoli: Storia sconosciuta dei primi re d’Italia), che morta poco tempo dopo (949) lo lasciava vedovo.

Romano si era innamorato di Teofano figlia di un bettoliere, “donna di bassa estrazione, di animo virile, dissoluta e di costumi depravati, ma bella come un miracolo della natura”.  Il suo regno aveva avuto il pregio di essere durato poco perché moriva tre anni dopo essere salito sul trono, alcuni avevano ritenuto per i vizi, altri che fosse stata Teofano a fargli  bere la stessa bevanda che aveva dato da bere al suocero Costantino.

Nonostante avesse avuto una educazione di alte qualità con gli intrighi dei suoi adulatori e i vizi della sua donna si era dedicato a una vita corrotta e di piaceri: circondato di buffoni e cortigiane, passava le sue giornate al circo o giocando a pallacorda o andando a caccia del cinghiale, stand tra il popolo al quale offriva regali, mentre le serate erano dedicata ai piaceri della musica e della danza.

Per sua fortuna l’impero era difeso dal fratello Leone e da Niceforo che aveva riconquistato l’isola di Creta e impadronitosi di Aleppo aveva scacciato i saraceni oltre l’Eufrate (962).

Romano II aveva avuto da Teofano due figli, Basilio (poi Basilio II) e Costantino (poi Costantino VIII) e due figlie Anna e Teofano che andarono in moglie, la prima, al granduca Vladimiro di Russia, la seconda (971) all'imperatore Ottone II di Germania.

La giovane Teofano andata sposa a Ottone II (972) aveva portato nella barbara Germania una ventata di oriente e di civiltà; nella corte germanica e in Occidente (anche nei secoli successivi)  le abitudini di pulizia personale erano assolutamente sconosciute e nei monasteri considerate peccaminose, tanto che una pia monaca, per questo,  immaginerà Teofano finita direttamente nell'Inferno; è’ noto che introdusse in Germania l’uso della forchetta (a Venezia invece la forchetta fu introdotta da sua cugina Maria Argiro moglie del doge Giovanni Orseolo, poi  propagatasi in tutta Italia); tale uso fu stranamente disapprovato da Pier Damiani!

Teofano madre, alla morte di Romano II si trovò con i due figli di cinque e due anni e si rese conto di non poter partecipare alla gestione del potere imperiale (nelle mani del parakoimomeno Basilio), per cui ricercò un protettore, trovando l'uomo giusto in un generale proveniente da una famiglia illustre, valoroso per imprese militari ma deforme nel fisico, Niceforo Focas (963-969) che finirà per essere assassinato e sostituito, nel letto dell’imperatrice e nell’impero da Giovanni  Zimisce.

 

NICEFORO II FOCAS

E LE DISAVVENTURE

DI LIUTPRANDO

 

 

L

’imperatore Niceforo ci è stato descritto dal vescovo Liutprando da Cremona con una buona dose di gusto sadico e liberatorio, per aver dovuto subire sofferenze e patemi nel corso dell’ambasceria presso di lui.

Liutprando era al suo terzo viaggio a Costantinopoli, il primo fatto per motivi di studio, per  imparare il greco (949);  appena tornato fu inviato da Berengario re d’Italia (950) come ambasciatore presso Costantino Porfirogenito il quale lo accolse degnamente, invitandolo a cena nella più bella sala di tutto il Sacro Palazzo,  la sala dei diciannove letti (v. in Schede di S.: Cerimoniale e cariche alla Corte di Bisanzio),che ne era rimasto tanto  sbalordito da lasciarci delle pagine memorabili.

Durante questa cena Liutprando oltre alle meraviglie tecnologiche (v. in cit. Cerimoniale ecc.) aveva assistito a uno spettacolo da cui era rimasto stregato: “una musica armoniosa, delle danzatrici eleganti, numerosi cori, delle cortigiane voluttuose, delle pantomime licenziose variavano e prolungavano il piacere; ...un tale portava sulla fronte un palo senza l’aiuto delle mani lungo ventiquatttro piedi o più, furono introdotti due fanciulli, nudi ma campestrati (con cinto ai fianchi) i quali salirono sulla pertica, vi fecero acrobazie e discesero a capo in giù mantenendolo immobile come se fosse infisso al suolo, quindi dopo la discesa di uno, l’altro che vi era rimasto, fece esercizi da solo”.

Liutprando aveva ammirato i due che si mantenevano in equilibrio senza far oscillare il palo; ciò che invece lo aveva lasciato strabiliato era il giovanetto rimasto solo (mi rese attonito e ancor più di grande meraviglia): “Si era esibito in vari esercizi mantenendosi in equilibrio e senza che il palo tenuto sulla fronte dell’altro subisse spostamenti”.

Quando il fanciullo scese dal palo egli dicendogli che gli era sembrato thaumastòteron (in italiano dal punto di vista grammaticale non corretto “più meraviglioso”) aveva chiesto come avesse potuto farlo e il fanciullo gli aveva risposto che “non lo sapeva neanche lui”.

Nel suo terzo viaggio Liutprando inviato dai due imperatori Ottone I e II, giunge a Costantinopoli durante il regno di Niceforo II (il 4 giugno del 968) che così aveva descritto, rivolgendosi ai suoi imperatori: “Dopo essere stati ricevuti con disonore per far ingiuria a voi, fummo trattati male e vergognosamente”.

L’arrivo a Costantinopoli: Quando Liutprando giunse con i suoi accompagnatori, fu lasciato davanti alla porta della città (Carea): “Pioveva e aspettammo l’arrivo dei cavalli fino all’ora undecima (circa le quattro e mezzo del pomeriggio); Niceforo non ritenendoci degni di cavalcare, ci ordinò di andare a piedi e giungemmo alla casa marmorea  odiosa, senz’acqua, aperta ai quattro venti... per di più il palazzo imperiale era così distante  da mozzarci il fiato...alla nostra disgrazia si aggiunse il fatto che il vino dei greci è miscelato con pece, resina e gesso e per noi era imbevibile”.

“Alla vigilia di Pentecoste (6 giugno) fummo ricevuti dal fratello dell’imperatore, Leone, kuroplate e logoteta, alto e falsamente umile, col quale ci siamo logorati in una lunga contesa in quanto per spregio vi  indicava con il titolo reale (rega) e non imperiale (basilea); avendogli risposto che il concetto era il medesimo sebbene i termini fossero diversi, esclamò che ero venuto non per far pace ma per litigare e alzatosi adirato, per disprezzo, ricevette le vostre lettere non dalle nostre mani ma per mezzo dell’interprete”.

Alla presenza dell’imperatore: Il giorno seguente Liutprando fu condotto alla presenza dell’imperatore: “Essere mostruoso, un pigmeo dal capo grosso che pareva una talpa per la piccolezza degli occhi, imbruttito da una barba corta, larga, spessa e brizzolata, col collo lungo un dito, un vero Iopa (chiomato aedo, allievo di Atlante) per la lunghezza e densità della chioma, un etiope per colore della pelle con il quale non vorresti imbatterti nel cuor della notte, obeso nel ventre, secco nelle natiche dalle cosce lunghissime in rapporto alla breve statura, dalle gambe corte, i piedi palmati con addosso un vestito da contadino ma troppo invecchiato  e fetido e scolorito a forza di portarlo; di lingua procace, un carattere di volpe, un Ulisse per spergiuri e menzogne”.

A cena dall’imperatore: Alla precedente terribile esperienza, si aggiunge un invito a cena ben diverso da quello che gli era stato offerto da Costantino Porfirogenito: “Non mi ritenne degno di precedenza e sedetti al quindicesimo posto, senza tovaglia; nessuno dei miei compagni era stato invitato. Durante quella cena turpe e stomachevole, secondo le usanze degli ubriachi unta di olio e aspersa  di un cero liquido di pesce (il garum dei romani*) ....dopo avermi chiesto di voi, alla mia risposta mi disse: “Tu menti, i soldati del tuo padrone non sanno andare a cavallo, sono inesperti di combattimenti a piedi; tra le altre cose mi disse con oltraggio, voi non siete romani, ma longobardi...al che sebbene mi avesse fatto cenno di tacere gli risposi:  Il fratricida Romolo da cui prendono il nome i romani fu un pornogenito (nato da un adulterio)  e fece un asilo in cui ricevé una certa quantità di uomini del genere e li chiamò  romani;  da questa nobiltà  sono discesi quelli che voi chiamate kosmocratores, imperatori che noi longobardi, sassoni, franconi, bavari, lorenesi, svevi, borgognoni, disprezziamo e chiamiamo i nostri nemici “o romano”; con questa parola vogliamo comprendere tutto ciò che di ignobile vile, lussurioso, mendace, insomma ogni vizio”.

Dopo diversi giorni l’imperatore per farsi perdonare, “per lenire il mio dolore, mi mandò il più raffinato dei suoi cibi, un grosso capretto che egli stesso aveva gustato, farcito di aglio cipolla e porri, irrorato di salsa di pesci marinati (garum*). Desiderai che questo piatto si trovasse alla vostra mensa  affinché voi, che credete che non siano felici le delizie del santo imperatore, possiate crederlo, avendo visto almeno queste”.

Liutprando che aveva temuto per la sua stessa vita, termina il suo racconto, (rivolgendosi ai suoi monarchi) con un liberatorio: “O miei signori, imperatori augusti, sempre belli ai miei occhi, quanto più belli mi siete sembrati da allora”.

Niceforo professava  sentimenti religiosi di carattere quasi ascetico, portava il cilicio, praticava il digiuno, aveva un parlare untuoso, palesava anche l’intenzione di ritirarsi in convento, ma si riteneva fossero tutti mezzi per nascondere la sua sfrenata ambizione.   

Tramite il patriarca Polyeucte era riuscito a farsi affidare il comando assoluto degli eserciti d’Oriente e non appena si sentì sicuro della loro fedeltà, d’accordo con Teofano, marciò su Costantinopoli, uccise tutti i suoi nemici, e senza deporre i figli di Teofano, si fece incoronare imperatore. 

Niceforo volle celebrare il matrimonio con Teofano, ma il patriarca Polyeucte che lo aveva aiutato a prendere la corona, si rifiutò di celebrarlo perché essendo padrino dei pargoli imperiali era da considerare un parente di Teofano; ma in religione, per favorire i grandi, si trovano sempre delle scappatoie e facendo ricorso a spergiuri e sotterfugi per far tacere il clero e il popolo, il matrimonio fu finalmente celebrato.

Niceforo era un ottimo generale e spesso si assentava per le campagne militari; i russi che dopo aver occupato la Bulgaria e attraversati i Balcani, si erano riversati sulle città della Tracia (970), miravano a raggiungere Costantinopoli; egli non aveva potuto resistere alla loro forza, ma lo aveva fatto un altro generale suo degno epigono, che sbarrò loro la strada: era Giovanni Zimisce.

Niceforo, tutto preso dalle attività militari, trascurava l’ordine e la giustizia in seno al suo entourage che compiva vessazioni e spoliazioni di ogni genere e da un’altro canto, molti erano gli alti personaggi, ufficiali e funzionari in disgrazia, privati dei loro incarichi che tramavano contro di lui; tutti costoro detestavano l’imperatore che non aveva favoriti e non era circondato da cortigiani e intriganti; per la sua avarizia era detestato anche dai monaci; in ogni caso le sue vittorie militari avevano portato come conseguenza il frutto della miseria: per questo “si era reso odioso al popolo, ai suoi compagni e a Teofano”.

In un giorno di festa l’imperatore incappò in un eremita che gli consegnò un biglietto e scomparve senza essere ritrovato nonostante fosse stato cercato; esso diceva: “Sono solo un verme sulla terra; la Provvidenza mi ha rivelato che morirai nel tredicesimo giorno del prossimo mese di settembre”.

Niceforo aveva preso severe misure per salvaguardare la sua vita e non solo aveva fatto costruire le mura attorno al Sacro Palazzo, ma aveva fatto fare lavori al Bucoleon da  renderlo come una fortezza. Durante la costruzione delle mura una notte si era sentita una voce: “Niceforo, Niceforo, potrai elevare mura fino al cielo ma non potrai sfuggire al destino che è in te e non potrai sfuggirgli” Niceforo fece ricercare per lungo tempo e inutilmente questo lugubre e fantasioso premonitore.

Non mancarono gli avvertimenti del cielo: nel mese di dicembre (968) vi era stata una eclisse di luna, spaventosi uragani e  terremoti avevano atterrito la popolazione; Niceforo preso da profonda tristezza era divenuto taciturno forse per essersi accorto dei tradimenti erotici di Teofano; non dormiva più nella camera imperiale ma per terra in un angolo in fondo a un appartamento nascosto del Bucoleon, su un tappeto rosso e una pelle di pantera, avvolto in un manto monacale ricavato da una pelle d’orso; ma  non sfuggirà ai pugnali dei suoi assassini (969).

 

 

*) Il garum era la salsa usata a gocce dai romani, ma prima dagli stessi greci, probabilmente usata al posto del sale; costosissimo e non facilmente reperibile, si mettevano a macerare in recipienti non molto grandi per due-tre mesi pesci minuti: alici, sardine, aringhe, interi con teste e interiora; a questi si aggiungevano  pezzi di sgombri e ricciole, completi di teste e interiora;  si aggiungeva sale pari alla metà della quantità di  pesce ed erbe aromatiche. Per il processo di fermentazione i recipienti si mettevano prima in un locale riscaldato e poi in un locale fresco. Quando la fermentazione era a buon punto si inseriva un cestello nel  recipiente in modo da far affiorare il liquido. Il fondo veniva utilizzato mescolandolo ai pesci e costituiva il cibo degli schiavi, oppure si vendeva come salsa a poco prezzo (alleo).

Il garum era venduto in anforette a carissimo  prezzo (circa 500 sesterzi al congio), quello di prima qualità; vi era poi una seconda qualità “liquamen” e una terza, l’alleo non disdegnato da Apicio (De Re Coquinaria), il quale lo usava sia come sale sia per la cottura di funghi, tartufi e animali attualmente non più commestibili come ghiri, fenicotteri e pavoni. Apicio usava anche dolcificarlo con miele e inasprirlo con aceto o aromatizzarlo con erbe fini o in composizione con la salsa verde con cui si condiva la cacciagione.

Il garum era considerato un toccasana universale... per curare le più svariate malattie: ulcera, bruciature, otite, angina, cataratte, emorroidi, e come disintossicante, depurativo e per lenire i dolori articolari...ma  non si conoscono gli esiti! Qualcosa di analogo al garum si trova nella cucina del Viet-Nam (nuoc-mam) e  anche in Tailandia.

 

 

GIOVANNI I ZIMISCE

E L’ONNIPOTENTE

EUNUCO BASILIO

 

 

T

eofano non si risparmiava gli amanti e tra costoro ve ne era  uno di origine armena, Giovanni (969-974), il quale pur avendo  un fisico ben fatto era di statura inferiore alla media (in armeno “pantofolina” inteso come “minuto, piccolo” Zimisce), ma  forte e prode generale.

Inviso al fratello dell'imperatore Leone, Zimisce da generale era stato mandato in esilio a dirigere le poste; su di lui si erano posati gli interessi erotici della imperatrice Teofano, che per sua intercessione fu trasferito a Calcedonia da dove, attraversando tutte le notti il canale del Bosforo, si recava a trovarla segretamente. “La nuova Messalina (era stato scritto) stanca di questi incontri misteriosi che avversava e le generavano piaceri criminali, convinse il suo amante a impadronirsi del trono”.

E così fu decisa l’uccisione di Niceforo: I congiurati si nascosero nella parte del palazzo occupato dalla imperatrice, Niceforo era stato avvertito che sarebbe stato assassinato e gli assassini erano nascosti, nel gineceo. Egli mandò la guardia a controllare ma o per caso o per complicità degli eunuchi non fu trovato nessuno; nel cuor della notte Zimisce con qualche ufficiale, aiutato con corde e panieri dalle donne dell’imperatrice, superate le mura, penetra nel palazzo unendosi ai congiurati.

Niceforo dormiva nella sua pelle d’orso e non fa a tempo a svegliarsi per i rumori che è colpito alla testa con una scimitarra da Leone soprannominato Valente o il Forte,  mentre Zimisce imprecava contro di lui e Niceforo invocava il nome di Dio, fu trapassato da una lancia; fuori del palazzo si stava raccogliendo la popolazione ma con la luce delle torce è mostrata la testa sanguinante dell’imperatore e la popolazione inorridita si disperse.

Zimisce era vedovo della sorella del generale Barda Sclero e sposando Teofano (figlia di Costantino Porfirogenito), è proclamato  nuovo imperatore come tutore di Basilio (poi II) e Costantino (poi VIII), col nome di Giovanni  I (969).

Pur avendolo incoronato, il Patriarca lo aveva accusato di essere regicida e aver macchiato le sue mani di sangue; per scolparsi avrebbe dovuto liberarsi dei congiurati e in segno di pentimento avrebbe dovuto separarsi da una complice altrettanto colpevole, Teofano!

 Zimisce dopo aver indicato come assassini Leone Valente e Teodoro il Nero, accoglie il suggerimento del patriarca, e si sbarazza subito dell'amante mandandola in esilio nel monastero di Damis in Armenia (paese considerato barbaro), che egli aveva fatto costruire, probabilmente perché originario di quel luogo. 

Teofano prima di partire, presa da rabbia, rinfacciò a Zimisce l’ amore che lei aveva nei suoi confronti, ricambiato con la sua ingratitudine, i suoi crimini, la sua elevazione  e avendo vicino l’eunuco Basilio, si scaraventò contro, apostrofandolo come  barbaro scita” (con riferimento alla madre, v. sotto).

Qualche storico moderno ha ritenuto voler riabilitare la figura di Teofano (giustificandola per i diversi mariti), in considerazione del fatto che “doveva salvare il trono per i figli”, e sostenendo che non poteva aver avvelenato il suocero e tantomeno il marito e per questo lei si era concessa a Niceforo e Zimisce.  

Osserviamo che si possa pur essere d’accordo sui non provati assassini, visto che i cronisti non avevano prove e su questi due assassini avevano fatto delle supposizioni; ma per quanto riguarda piaceri che lei si concedeva, i cronisti ci dicono che Teofano non solo aveva avuto tre mariti, ma si era concessa a Niceforo quando viveva ancora il marito; non solo, ma aveva avuto (secondo i cronisti) altri amanti ed era stata presentata come “novella Messalina” o come una “nuova Teodora”.

Una rivalutazione in questi termini non avrebbe alcun senso (a meno che beninteso non emergano documenti coevi da cui possa  risultare una eclatante manipolazione storica, come si è verificato p. es. per un Nerone o un Giuliano l’Apostata), perché queste donne dedite al libero amore non solo si sono mostrate libere, ma anche di talento (sia stato esso fasto o nefasto) che hanno saputo usare tutta la loro intelligenza per l’affermazione della propria personalità; si pensi p. es. alla regina Elisabetta I d’Inghilterra che oltre ad essere stata una grande amatrice è stata una grande monarca!

Insomma, questi personaggi che hanno lasciato un segno nella storia, si sono imposti per la loro poliedrica personalità, fuoriuscita da tutti gli schemi particolarmente morali, specie se sono stati personaggi che abbiano commesso atrocità o delitti efferati, come si suppone sia avvenuto nel caso di questa Teodora (e ancor più della più famosa prima Teodora!), personaggi, nel bene o nel male consegnati alla Storia, che suscitano ancora vivo interesse (ben diverso dalle morbosità che oggigiorno suscitano i noti e altrettanto squallidi fatti di cronaca).

Zimisce, tornando dalla Siria aveva osservato che un gran numero di palazzi e di terre, le più fertili delle nuove province conquistate, erano possedute dagli eunuchi e una buona parte dal suo ciambellano Basilio, e si era sfogato dicendo: “E’ dunque per arricchire  un vile eunuco che il popolo spende il suo denaro  e versa il suo sangue; e che gli imperatori espongono la loro vita ai pericoli delle guerre?.

Questo sfogo che aveva fatto ridere i cortigiani, gli costerà la vita: sulle labbra di Basilio,  (v. sotto), era apparso un falso sorriso (secondo alcuni era presente, secondo altri quelle parole gli furono riferite); sta di fatto che aveva corrotto con molti doni (secondo Zonara) il coppiere che gli servì del vino avvelenato, non di pronto effetto.

L’imperatore infatti non era morto immediatamente, ma si era sentito male e fu portato a Costantinopoli, dove però i medici non riuscirono a salvarlo (976): il suo regno era durato sei anni e Zimisce può essere considerato uno di quei “fausti usurpatori” indicati da Diehl, sia come ottimo generale sia come abile monarca.

Egli aveva infatti ingrandito e reso più sicuro l'impero (i saraceni che volevano riprendere Antiochia erano stati sconfitti); aveva inviato contro i russi che minacciavano l’impero, le legioni d’Oriente; aveva mandato un abile generale, l’eunuco Nicola contro gli arabi che furono sconfitti (970)); aveva lottato contro i ricchi latifondisti (v. sotto), particolarmente appartenenti alla casta militare (gli stratioti), che si appropriavano delle terre militari.

Durante il periodo di regno di Zimisce, sempre assente dalla capitale per le sue imprese guerresche, reggeva il regno il potente parakoimòmeno Basilio, indicato come  fratellastro di Costantino VII,  in effetti di parentela molto più diluita in quanto era figlio di Romano Lecapèno (suocero di Costantino VII, v. sopra),  nato da una concubina sciita (russa o bulgara) e castrato da bambino perché  non potesse avere aspirazioni imperiali.  

Aveva ingegno e “dotato della tipica scaltrezza bizantina e di avidità” (Ostrogorskiy), con la sua alta statura e la nobile prestanza e avvenenza avrebbe ben potuto aspirare all’altissima dignità.

Come figlio naturale di imperatore aveva avuto una educazione principesca ed era stato preso a ben volere e assunto come favorito da Costantino VII che gli aveva affidato considerevoli funzioni che lo avevano destinato ai più alti incarichi di Corte (aveva già ottenuto le cariche di “parakoimomeno e di “proedros  (la più alta carica del Senato che comunque era solo rappresentativo della classe dei potenti e non aveva più le precedenti funzioni legislative) e  di patrizio (944) e aveva rivestito la carica di eparca di Heteria (vale a dire capo della guardia barbara), e pur essendo insolito per il suo stato, aveva la stoffa del guerriero, era stato uno dei grandi generali delle guerre asiatiche e aveva battuto i saraceni (958); era caduto in disgrazia alla morte di Costantino Porfirogenito in quanto si era fatto strada un suo concorrente, Bringas che lo aveva rimpiazzato nella carica di parakoimomeno.

Ma sarà reintegrato nella sua carica da Niceforo Focas che egli seguirà fino al suo assassinio (farà parte di quei congiurati) e seguendo il regno di Zimisce, non solo, come detto, aveva mano libera nelle cure del governo durante le lunghe assenze  dell’imperatore impegnato nelle guerre,  ma aveva provveduto alla sostituzione di tutti gli alti funzionari civili e militari dell’impero insediati da Niceforo; ciò nonostante, segnerà il destino dell’imperatore,  facendolo avvelenare.

Lo ritroveremo ancora  accanto a Basilio II.

 

            BASILIO II E COSTANTINO VIII

      E I COLPI DI STATO

       DEI GENERALI FOCAS E SCLERO

 

I

due pargoli imperiali Basilio e Costantino, porfirogeniti,  avevano appena passato la fanciullezza durante il regno di Zimisce, ambedue incoronati (le loro date di nascita non si conoscono esattamente ma sono state individuate in base alle incoronazioni avvenute, per Basilio a tre anni nel 960, nato quindi nel 957 e  Costantino incoronato in fasce e nato quindi nel 960/61) e sotto la tutela della madre Teofano, che, mandata, come abbiamo visto, in esilio da Zimisce, fu richiamata a corte.

Alla morte di Zimisce (976) Basilio aveva diciannove anni e Costantino sedici e  l’onnipotente ministro Basilio (contro il quale, come abbiamo visto, Teofano furiosa si era avventata) si guardò bene dall’affidare a Teofano responsabilità dell’impero.

In questo periodo (la ribellione di Sclero era iniziata nel 976 e l’anno precedente era apparsa una cometa portatrice di sventure!), il ministro Basilio convocato il generale Barda Sclero, che aveva il comando delle migliori forze dell’esercito e avrebbe potuto tentare qualche avventura (si conoscevano le sua aspirazioni a impadronirsi del trono), è nominato duca del thema di Mesopotamia ed è mandato a parare eventuali attacchi del Califfo di Bagdad.

Basilio inoltre nomina Michele Bourtzes (per gli arabi al-Bourdgi, vincitore di Antiochia sotto il regno di Niceforo e uno dei suoi assassini), partigiano dichiarato di Sclero, per separarlo dal suo capo, duca di Antiochia (pur essendo un’alta carica in quanto comprendeva le funzioni di magistrato e corrispondeva a quella di un viceré, si trovava all’altra estremità del thema d’Asia).

All’altro generale, altrettanto famoso per le vittorie, lo stratopedarca Pietro Focas, nipote di Niceforo, in rapporti di familiarità con Basilio, gli è affidato il comando delle truppe d’Asia, incarico di gran lunga più prestigioso.

Sclero scontento e offeso per l’incarico di minor prestigio ricevuto, si recato presso le sue truppe e conoscendo l’arte di parlare ai soldati, li convince che l’impero non può essere governato da un eunuco tiranno e due fanciulli e proclamato imperatore, indossa la porpora; dopodiché si allea con i saraceni e assoldando tremila arabi, rimane in attesa degli eventi.

Pietro Focas gli muove contro, ma tradito da una guida corrotta, è battuto alle frontiere della Cappadocia dove le truppe imperiali si danno alla fuga.

Sclero si impadronisce di Antiochia che affida al governo del saraceno Abdallah, riporta ancora una vittoria sui generali Leone Melisseno e Giovanni il Patrizio, facendoli prigionieri; più sfortunato in mare, la sua flotta fu battuta da quella imperiale.

A questo punto, per la prima volta si parla del primo Comneno che prelude alla futura dinastia imperiale. Si tratta di Manuele, prefetto o comandante d’Oriente, che si oppose a Sclero e per condurlo a buoni consigli, gli offre tutto ciò che potesse desiderare, eccetto il diadema: Sclero non accetta e pone l’assedio a Nicea dove si era rinchiuso Comneno.    

Dopo lunga resistenza Comneno si trova in grande difficoltà e privo di viveri, ma lo aiuteranno la fortuna e l’astuzia. Gli viene inviato da Sclero un messaggero per chiedergli di arrendersi; Manuele rifiutaa dicendo che poteva resistere all’assedio e per convincerlo gli  mostra i magazzini  pieni di grano; in effetti aveva fatto riempire i sacchi con della sabbia coperti da un leggero strato di grano; riuscì così a ottenere per gli abitanti una capitolazione onorevole e l’assedio fu tolto.      

Il giovane Basilio (pressappoco ventenne) si rende conto di non potersi difendere contro un sì potente e ambizioso personaggio e pensa di mandargli contro uno che fosse alla sua altezza: fa uscire dal convento Barda Focas e dopo averlo fatto giurare sulla sua assoluta fedeltà, gli affida  l’armata d’Asia e lo manda contro Sclero.

Le due armate stanno per scontrarsi nella piana di Pankalia (979); Focas provoca Slero a uno scontro singolo: i due personaggi si eguagliano per audacia e forza d’animo; lo scontro tra le truppe si ferma; con un colpo di spada Sclero taglia l’orecchio del cavallo di Focas e questo sferra un colpo alla testa di Sclero che cade sulla testa del cavallo e poi cade per terra; i soldati di Sclero si precipitano a prendere il corpo del loro comandante, il cavallo di Sclero fugge insanguinato; la truppa alla vista del cavallo del capo, ha un momento di sbandamento e Focas approfitta della confusione per spingere l’assalto. Sclero, aiutato dai suoi, non ha altra risorsa che quella di rifugiarsi dal califfo di Bagdad, ma l’imperatore gli verserà dell’oro affinché il califfo trattenga il ribelle come prigioniero.

Anche a Barda Focas venne la tentazione di appropriarsi dell’impero e in Cappadocia con l’aiuto del collega Leone Melisseno (987) indossa la porpora; Focas si scontra con l’imperatore aa Abidos (989) sfidandolo a singolar tenzone preferendo una morte gloriosa a una vergognosa disfatta e si scaglia al galoppo contro l’imperatore, ma all’improvviso egli si abbatte al suolo colpito da congestione.

 

BASILIO USCITO DALLA

GIOVINEZZA

SI DEDICA

AL REGNO E ALLE ARMI

 

B

asilio II Porfirogenito, dopo aver provato i piaceri della giovinezza, sentendosi più maturo volle prendere  in mano le redini del governo e delle truppe (981) e si prepara a partire contro Samuele principe dei bulgari.

Questa sua idea di regnare attivamente, se aveva suscitato buone speranze nel popolo, aveva allarmato i grandi del regno che preferivano imperatori non impegnati nel governo e uno dei cortigiani volle tentare un tiro contro il giovane imperatore.

Recandosi dall’imperatore gli riferisce perfidamente che il generale Leone Melisseno  (era stato lasciato da Basilio in retroguardia accampato in prossimità di Filippopoli) aveva lasciato il suo posto e con le truppe si era recato a Costantinopoli per farsi incoronare.

Basilio si ritira precipitosamente e lasciando accampamento e bagagli in preda ai bulgari, giunge a Filippopoli dove trova Leone fedele e tranquillo al suo posto; l’imperatore, dopo aver preso per la barba il delatore, avergli calpestato i piedi e ricoperto di rimproveri, gli risparmia la vita e se ne torna a palazzo senza gloria e senza successo.

Poiché non approfondiremo l’argomento delle guerre contro i bulgari che avevano impegnato quasi tutto il regno di Basilio, lo limitiamo alla vittoria conseguita da Basilio contro Samuele nell’ultimo sanguinoso e noto combattimento (1014) della battaglia di Cimbalongou (Kleidion presso il fiume Strimone e intorno al  monte Belathista) che comunque non fu l’ultimo scontro in quanto la pace definitiva sarà raggiunta quattro anni dopo (1018).

I bulgari erano in ventimila, furono circondati e non solo vi fu una carneficina (è in questa occasione che a Basilio fu dato il soprannome di Bulgaroctono), ma ne furono fatti prigionieri circa quindicimila: l’ordine raccapricciante, inaudito e disumano di Basilio fu di farli accecare (anche se questa pena a Bisanzio era contemplata per un’ampia categoria di reati e sostituiva la pena di morte), lasciando ogni cento accecati un soldato con un occhio perché gli altri potessero seguirlo e recarsi dal loro principe.

Samuele nel vedere questo scempio (siamo al 14 giugno) svenne e morirà dopo alcuni mesi di crepacuore; gli succede il figlio Gabriele, detto Romano che sarà ucciso dallo zio Ladislao il quale prenderà il potere.

In Italia le cose si svolgono diversamente perché la sorella di Basilio, Teofano che aveva sposato Ottone II (972),si comporta anch’essa in maniera degna del sanguinario fratello: invece di suggerire la pace tra i cognati, sobilla il marito a impossessarsi dell’Italia!

Ottone segue il consiglio e dopo essere stato a Ravenna si impossessa di Salerno da dove  pensa di conquistare l’Italia, ma Basilio ricorre ai saraceni capeggiati da Abulcasem dal quale Ottone riceve una grave sconfitta (982).

Recatosi a Roma, muore lo stesso anno (ricordiamo che Roma aveva un clima pestifero che decimava chi non era abituato a quel clima e alle zone malariche), perdendo tutte le conquiste, con la Puglia e la Calabria che tornano all’impero greco, mentre i principi longobardi riconoscono la sovranità dell’impero d’Oriente e l’imperatore procede alla nomina di un magistrato con pieni poteri denominato Catapano.

Il Catapano Giorgio, appoggiato dal doge Piero Orseolo, aveva vinto i saraceni cacciandoli dall’Italia (1003); mentre all’interno dell’impero Barda Focas al comando delle truppe di Asia, sconfigge i saraceni e costringe l’emiro di Aleppo a concludere la pace.

Durante tutto il periodo della giovinezza di Basilio, come abbiamo visto, il parakoimomeno Basilio, gli aveva fatto assaporare una esistenza voluttuosa, con tutti i piaceri della giovinezza fatta di banchetti, vino e copule. Ma quando il giovane imperatore divenuto più maturo (a venti anni all’epoca si era già maturi) aveva deciso di prendere in mano le redini del regno, si veniva a porre il problema personale di Basilio.

Il giovane imperatore, non sopportando più di vederlo primeggiare ed essergli sempre secondo (anche nella statura), gli tolse l’incarico e lo allontanò dalla Corte: Basilio per il dispiacere ebbe un ictus che lo paralizzò totalmente annebbiandogli il cervello e poco dopo morì.  

Da questo momento Basilio II diviene più attivo, temperante, laborioso, ma si mostra orgoglioso, sospettoso, malinconico e inflessibile: si converte a una vita severa, tanto - si sussurrava - da mettere la tonaca sotto il mantello e l'armatura e aver fatto voto di castità.

Il califfo di Bagdad che doveva affrontare un attacco da parte dei persiani e aveva in prigionia il generale Sclero, lo libera per mandarlo a combattere contro i persiani. Sclero libera tremila prigionieri greci, li arma e sconfigge i persiani, ma invece di tornare a Bagdad entra nell’impero con l’intenzione di abbattere Focas e l’imperatore oppure a sottomettersi a chi dei due lo avesse vinto.

Scrive quindi una lettera a Focas offrendogli di secondarlo e nello stesso tempo manda suo figlio Romano da Basilio come ostaggio e a garanzia della sua sottomissione. Focas, promettendogli una parte dell’impero lo convoca per un incontro, ma lo arresta e lo imprigiona e marcia su Costantinopoli.

Una parte dell’armata di Focas era comandata dal generale Calocyro che fu battuto, preso e impiccato (989); le due armate di Focas e Basilio si incontrano, Focas si precipita con con il suo cavallo, con furore contro l’imperatore con la lancia abbassata, ma nel mezzo della corsa  si arresta, indietreggia, si ferma vicino a un tumulo scende da cavallo si accascia per terra e rende l’ultimo respiro: chi dice che fosse stato colpito da apoplessia (vale a dire infarto), chi avvelenato (!); Costantino, fratello dell’imperatore, presente si vantava di essere stato lui a colpirlo con una freccia... ma il corpo non presentava nessuna ferita!

La giornata era stata sanguinosa ed era costata la vita a Focas; i prigionieri furono portati al circo su asini; la vedova di Focas, per vendicare la morte del marito, fa liberare Sclero che raccoglie il resto dei ribelli, ma Basilio gli offre la carica di curoplate  che  Sclero accetta e si sottomette.

Sclero nel restituire il manto imperiale e il diadema, aveva dimenticato di restituire gli stivaletti di porpora e Basilio glielo fa notare senza corruccio e facendolo sedere alla sua tavola  perdonò generosamente lui e i suoi complici.

Appesantito dalla vecchiaia, dalle amarezze, da un gran numero di ferite, con l’occhio vacillante, camminava davanti all’imperatore accompagnato da due scudieri. “è questo l'uomo che abbiamo temuto  per tanto tempo? Ieri credeva di governare l’impero, oggi non può reggersi senza l’aiuto di qualcuno”, era stato il commento dell’imperatore.

 

 

L’impero lasciato da Basilio II

 

 

LA MORTE DI BASILIO II

CHIUDE UN’EPOCA:

SUE REALIZZAZIONI

 

B

asilio inaugura il primo quarto del nuovo millennio (†1025), in cui si preparano nuovi e rivoluzionari avvenimenti, che porteranno notevoli cambiamenti nella società e una evoluzione nella vita e nello spirito umano.

Il fanatismo e la gloria cavalleresca si preparavano a invadere il Medio-oriente spinti dai racconti sullo stravagante califfo d’Egitto al-Hakem (Abu-Alì al Mansur 996-1021, di madre cristiana di nome Maria sorella del patriarca Oreste, da non confondere con l’altro al-Mansur del regno di Cordoba vissuto quasi nello stesso periodo), considerato il Nerone d’Egitto, che perseguitava i cristiani sottoposti alla sua autorità aumentando i balzelli, ribaltando le chiese e, si diceva, avesse anche  chiamato i giudei per far ricoprire di insulti i cristiani; e infine, aveva dato disposizioni al suo luogotenente Ramleh di Siria di distruggere (1009) la chiesa della Resurrezione a Gerusalemme precedentemente ricostruita dal patriarca Modesto (la cui distruzione era avvenuta nel 969); la stessa verrà successivamente ricostruita in seguito ad accordi presi dall’imperatore Costantino VIII  (1027) con il figlio al-Zahir (v. Cap. VII, P. 3).

Pietro l’Eremita tornando dal pellegrinaggio carico di questi racconti (risalenti a oltre cinquant’anni prima!), si reca dal papa ed eccita gli animi per la liberazione del Santo Sepolcro ... ma quella che doveva essere la liberazione del Santo Sepolcro si tramuterà in occupazione e spartizione tra i crociati dell’intero territorio che sarà assoggettato alla disciplina feudale.

Così il fanatismo trasforma la Terra santa (allora come ora (v. in Scheda S. Israeliani e Palestinesi) in Terra di sangue, di massacri e di dolore: un Inferno, con una occupazione di duecento anni!

Il riverbero delle crociate era stato positivo per l’Occidente: non limitato alla importazione della melagrana, come aveva ironizzato Voltaire (oltre all’arricchimento di genovesi e veneziani!), le crociate avevano reso possibile  la liberazione dei servi della gleba, divenuti uomini liberi; l’Europa fa un passo avanti nel grado di civiltà in cui primeggia la figura del mercante che porterà denaro e benessere.

Bisanzio con la dinastia dei Comneno conoscerà l’ultimo periodo della Rinascenza (1081-1204) dell’impero d’Oriente, poi giungeranno i “fratelli latini (“barbari” per Anna Comnena), con la loro fame predatoria e di saccheggio: Con l’impero latino d’Oriente ne segnarono il destino che si realizzerà con la presa di Costantinopoli da parte di Mehemet II (1453).

 

*  *  *

 

I

l regno di Basilio II era stato contrassegnato dalle guerre che, da una parte avevano portato il popolo alla esasperazione, dall’altra avevano arricchito generali come p.es.  Sclero che aveva ammassato una ricchezza degna di un sovrano o dell’arconte Eustachio Maleinos che in Cappadocia nelle sue estese proprietà aveva ospitato con munificenza Basilio II; tutta questa ricchezza era stata accumulata a spese dello Stato con l’aiuto dell’eunuco Basilio; l’imperatore ospitato con munificenza, ne era stato tanto colpito che aveva portato con sé Maleinos tenendolo semiprigioniero a palazzo...da farlo morire di dispiacere ... e dopo la sua morte gli confiscava tutte le sue ricvchezze!

Basilio II si era rivelato un grande monarca come d’altronde lo erano stati gli altri della dinastia macedone, portando l’impero al massimo del suo splendore; morendo egli lasciava un impero forte e solido, con le frontiere arretrate e rinforzate, che da nord a sud andavano dal Danubio all’Eufrate, chiuse a ovest dal Mediterraneo e a est dal mar Nero;  il suo luogotenente Ducus gli aveva conquistato la tanto celebrata Tauride (989), ribattezzata Chersoneso (Crimea), conquista preannunciata da un’aurora boreale apparsa nello stesso anno; tutti gli avversari erano vinti e sottomessi; le casse dello Stato  erano rigurgitanti di 220milioni di bisanti-iperperi (per un valore, secondo Schlumberger, di un miliardo di lire oro!).                                            

La sua fortuna aveva fatto pervenire dall’Occidente richieste di matrimonio da parte del muovo imperatore di Germania, Ottone III (figlio di  Ottone II e di Teofano) e anche di Ugo Capeto per suo figlio Roberto, ma le principesse bizantine erano merce preziosa e  venivano concesse in matrimonio a stranieri solo in casi eccezionali.

Era stato accontentato il principe di Kiev, Vladimiro, il quale, per avergli prestato aiuto con seimila Variaghi richiesti da Basilio per difendersi da Barda Focas, in cambio, chiese in moglie la sorella  Anna; Basilio II, aveva ritenuto inaudito che una principessa bizantina sposasse un barbaro,  ma non potendola rifiutare, impose la conversione dei russi.  

La giovane principessa abituata alle delicatezze e raffinatezze del  gineceo ornato di preziosi marmi,  in cambio di un rustico palazzo di legno con  il letto di pelli: “Vado come schiava presso i pagani, diceva, e non voleva partire”; i fratelli la consolavano “è per te che Dio porterà la nazione russa alla penitenza e salverà l’impero greco da una fine crudele; hai visto come la Russia ha già fatto male ai greci e ne farà ancora se non parti;  e Anna abbracciati tutti i parenti,  salì sul vascello e salpò “e il giorno dopo il suo arrivo (988)  si ammalò e solo un miracolo riuscì a strapparla alla morte” (avvenuta nel 1011).

 

 FEUDALITA’ E LATIFONDO

 

L

a ricchezza delle grandi famiglie civili e militari dell’impero bizantino era costituita dalle immense estensioni di terre, il latifondo, che si era ritenuto parificare ai feudi   sviluppati in Occidente (v. in Articoli: Carlomagno e l’Idea dell’Europa e Il disfacimento dell’impero Carolingio; alla Feudalità dedicheremo uno  specifico articolo), in riferimento a un feudalesimo bizantino che si era inizialmente sviluppato con lapronoia” introdotta da Alessio I Comneno (come vedremo nel prossimo capitolo).

Ciò che distingueva i feudi dalle proprietà terriere orientali, era il giuramento che in Occidente i vassalli prestavano al monarca,  mentre in Oriente questo particolare legame vassallatico era del tutto inesistente; vale a dire che mancava il legame feudale di sottomissione col giuramento, estraneo ai bizantini.

L’istituzione dei feudi (fia) sarà trapiantata dai franchi con l’impero latino (anche con le Crociate nel regno di Gerusalemme, v. in Genealogie, Genealgia. dei re di Gerusalemme, Le Assise), ma lo spirito orientale era incompatibile con una mutua fede feudale. “Lo stato feudale in Oriente era stato introdotto per il solo tempo della occupazione latina che scomparve con essa: i despoti non vollero assolutamente comprendere l’idea di una obbligazione feudale” (Zacariae de Lingenthal: Droit privé greco-romain Paris 1869).

Diverso, sarà il caso dell’organizzazione militare della “pronoia, che sarà istituita nel secolo successivo e che sarà a suo tempo illustrata.

I latifondi secondo la distinzione romana-bizantina si dividevano in politai-civili e stratiotai-militari: la prima alimentava i contributi allo Stato, la seconda dava assistenza militare

Questa distinzione nell’impero greco era divenuta ereditaria nelle mani delle grandi famiglie militari (stratiokòs *) o civili (politikòs-oikos-arconti-potenti e ricchi-dunatoi).

L’ordine militare non era chiuso e veniva concesso dall’imperatore in base ai meriti e alle preferenze (vi era anche intercambiabilità tra le cariche civili e quelle militari); chi accettava il feudo militare  ne accettava gli obblighi tra cui il principale era il reclutamento delle legioni.

Ciò che accomunava il latifondo al feudo e aveva determinato la scomparsa della piccola proprietà e dei piccoli proprietari, era la voracità dei ricchi e le spoliazioni operate nei confronti dei poveri, e a causa delle vessazioni dei ricchi nei loro confronti e consequenziali rinunce dei piccoli proprietari alle loro proprietà.

Gli imperatori che si erano succeduti da Basilio I (v. P. I cap. VII) fino a Basilio II, mostrando una maggiore sensibilità sociale, avevano combattuto il latifondo e i loro famelici proprietari i quali, disprezzando le leggi dell’impero, depredavano i poveri e piccoli proprietari appropriandosi delle loro terre a vil prezzo (indifferentemente anche delle terre ecclesiastiche), che si facevano assegnare in donazione o concedere in locazione con promessa di un buon affitto... che non veniva corrisposto.

Niceforo Focas e Zimisce, appartenenti alle grandi famiglie latifondiste (come lo erano Barda Focas e Barda Sclero) erano intervenuti in favore del latifondo; in particolare Niceforo  aveva favorito il latifondo in generale, bloccando quello altrettanto immenso in mani ecclesiastiche e monastiche (con  una legge del 964), in quanto la crescita di questi latifondi danneggiava le terre più produttive e nello stesso tempo, per motivi religiosi e morali  perché,  accumulando ricchezze, “i monaci dimenticavano i voti e disonoravano il nome di Cristo”: Fu quindi proibita la creazione di nuovi monasteri; chi voleva fare lasciti poteva aiutare  le vecchie fondazioni in decadenza, non era consentita la donazione di terreni, ma essi dovevano essere venduti (a un potente)  e il ricavato offerto al monastero.

 

 

*)  Gli strtateghi dell’Asia minore (se ne contavano venticinque), avevano un rango superiore a quelli dei themi europei dei quali i più importanti erano quelli di Macedonia e Tracia. Sotto Leone VI gli strateghi  dell’Anatolia, Armenia e Tracesion ricevevano annualmente ciascuno quaranta libbre d’oro (calcolate da Ostrogorsky (1963) in 44.480,40 franchi oro); quelli di Ospikion, Brucellari e Macedonia, trenta libbre;  quelli di Cappadocia, Charsianon, Paflalagonia e Colonea  venti libbre; gli altri dieci e cinque libbre.

A metà del sec. X, chi aveva il titolo di patrizio riceveva dodici libbre d’oro e un abito da cerimonia; coloro che avevano il titolo di magistros, ventiquattro libbre e due abiti da cerimonia e al drungario, quarantotto libbre e quattro abiti da cerimonia.

 

 

FINE

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segue

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