Sandro Botticelli - Allegoria della Primavera

 

 

 

 

CARLO V

TRA RINASCIMENTO

RIFORMA

E CONTRORIFORMA

 

MICHELE E. PUGLIA

 

 

 

PARTE PRIMA

SEZIONE SECONDA

 

 

L A CULTURA

DEL

 RINASCIMENTO

 

 

SOMMARIO: PREMESSA; BERNARDINO TELESIO; TOMMASO CAMPANELLA; LA FAVOLA DELLA CONGIURA; IL FANTASIOSO PROCESSO (In Nota: AI TEMPI ATTUALI); GIORDANO BRUNO; L’ARTE DELLA MEMORIA E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ANTICA E MODERNA; AD CAIUM ERENNIUM; IL LULLIMO E L’ARS MAGNA; I GIOIOSI UMANISTI EROTOMANI E PAPALINI; E GLI UMANISTI FRANCESI; I PAPI DA AVIGNONE TORNANO A ROMA; I PAPI RINASCIMENTALI CORROTTI AVIDI E NEPOTISTI ABBELLISCONO ROMA DECADENTE; GLI ULTIMI PAPI DEL XV SEC.; NICOLO’ V; CALLISTO III; PIO II; SISTO IV; I PAPI DELLA PRIMA META’ DEL SEC.XVI: PIO III; GIULIO III; ADRIANO VI; PAOLO III FARNESE. I PAPI DELLA SECONDA META’ DEL SEC.XVI: GIULIO III; MARCELLO II; PAOLO IV; PIO IV; PIO V; GREGORIO XIII; SISTO V, IL BREVE PONTIFICATO DEGLI ULTIMI PAPI DEL XVI SEC.: URBANO VII; GREGORIO XIV; CLEMENTE VIII. I LETTERATI RINASCIMENTALI IN ITALIA; ERASMO DA ROTTERDAM; UMANISTI DI SPAGNA; LA PITTURA INFLUENZATA DA MAGIA E ASTROLOGIA; SATURNO RIVALUTATO; LA PITTURA IN ITALIA BACIATA DALLA GRAZIA DELLA FORTUNA; IL “SIEGLO DE ORO” IN SPAGNA NELLA INDIFFERENZA DI CARLO V (In Nota: ATTUALITA’); IN FRANCIA; L’ARCHITETTURA E LA SCULTURA; IL CAMMINO DELLA MATEMATICA DELLE SCIENZE E DELLA MEDICINA; LEONARDO; L’ASTROLOGIA CON COPERNICO E TYKO BRAHE DIVENTA ASTRONOMIA.

 

PREMESSA

 

 

C

ome e ancor più del secolo precedente, nel ‘500, una serie di circostanze aveva creato il fertile terreno per grandi opere e grandi personaggi, tra i quali avevaano primeggiato figure come Leonardo da Vinci, genio assoluto nello scibile umano, il quale, incantato dal volo degli uccelli, aveva dato inizio agli studi aviatorii che hanno trovato applicazione solo nel secolo scorso; o come Tiziano, Bernini, Michelangelo e i grandi papi corrotti e dissoluti, tra i quali si era distinto Alessandro VI Borgia, considerato da Sismondi (v. sotto) “l’uomo più disonesto della cristianità”;  ma sono bastate le grandi opere d’arte degli artisti che aveva chiamato, a far dimenticare le sue dissolutezze che fanno da contorno alla sua complessa personalità.

In ogni caso questi papi non vanno giudicati per le azioni malefiche commesse, per la vita disonesta e dissoluta vissuta e per l’avidità terrena intesa a favorire figli e nipoti, ma per le grandi opere che avevano fatto realizzare da grandi artisti, di cui ne gode, nei secoli, l’umanità intera.

Numerosi erano stati i personaggi che avevano dato il loro contributo evolutivo della società, preparando i movimenti culturali definiti come Umanesimo e Rinascimento.

La Storia procede inesorabilmente con ritmi di sviluppo che possono essere diversi. La distinzione delle varie epoche non è mai netta, peraltro essa è stata introdotta dagli studiosi per comodità. Così è stato per le epoche definite evo antico, medio, moderno e dei relativi passaggi da un’epoca all’altra e non può esservi un netto passaggio tra medioevo ed età moderna, che sia determinato dai due movimenti che vanno sotto il nome di Umanesimo e Rinascimento.

Nel primo di questi due periodi (neanche per essi possono esservi distinzioni nette), gli studi umanistici che erano fioriti per l’interesse suscitato dalle antiche civiltà della Grecia e di Roma, avevano portato a uno sviluppo dell’arte, in particolare della pittura, scultura e architettura, ma anche in altri campi, come aveva dimostrato la genialità di Leonardo.

Il secomdo è stato il ‘500, il secolo delle meraviglie: scoperte geografiche, musica, letteratura, arte, scienze che avevano avuto la loro gestazione nel secolo precedente (la spinta iniziale era stata data dalla peste del 1350 v. in Articoli Le grandi pestilenze ecc,), avevano trovato in questo secolo, la loro prima fase evolutiva in cui sono poste le basi per gli sviluppi dei secoli successivi.   

 Questo secolo è stato anche il secolo della sublimazione degli studi astrologici, cabalistici (di cui Avraham Abulafia con i suoi discpoli rappresntava il prototipo), ermetici (con le implicazioni della religione egizia e i suoi misteri, v. in Schede F. “Ermete Trismegisto e il libro di Toth”), alchemici e neoplatonici che portano alla magia e in particolare alle sue ramificazioni di magia naturale, angelica (v. in Schede F.: Sfere celesti e gerarchie angeliche) e diabolica.

Il neoplatonismo costituiva una sfida diretta all’aristotelismo della Scolastica che sottendeva al concetto di stregoneria; invece di attribuire al Diavolo fatti apparentemente magici, come facevano gli scolastici, i neoplatonici sostenevano che l’uomo stesso potesse praticare la magia, sfruttando le forze naturali dell’Universo in quanto si riteneva (e si ritiene ancora!) che le stelle (che accoglievano, secondo i neoplatonici, le anime dei defunti) con i loro influssi, positivi o negativi, indirizzassero la vita sulla Terra.

Molti umanisti del Rinascimento praticavano la magia naturale, ben diversa dalla rozza magia praticata dalle streghe, derivanti da forme superstiziose contadine prive di efficacia e ciò costituiva un attacco al “Malleus Maleficarum” (scritto da inquisitori fanatici e psicopatici  che processavano e mandavano al rogo chi praticava la stregoneria (v. in Art. L’inquisizione ecc. P. II); col risultato che gli studi umanistici costituivano una minaccia per la stregoneria stessa.

Infatti Erasmo, Pomponazzi, Andrea Alciati attaccavano certe credenze nelle streghe  mentre Cornelio Agrippa di Nettesheim, (cit. Art. Inquisiz. P.I), cultore della magia, criticava sia il Malleus che i processi alle streghe; ma il neoplatonismo non riuscì a imporsi sull’aristotelismo con la conseguenza che, sebbene i demoni neoplatonici fossero diversi dal Diavolo della Scolastica, gli umanisti non riuscirono a convincere che la magia che essi praticavano fosse ben diversa da quella degli ignoranti negromanti, tanto è vero che Jean Bodin (v, cit. Art. P. II) attaccò sia le streghe dell’una, come la magia di Agrippa e di Pico, dell’altra.

Tra i principali critici della caccia alle streghe, troviamo Johann Weyer o Johan Wier (1518-1588), (v. in cit. Art. P.II), allievo di Agrippa il quale nel “De Praestigium Daemonum” e nel “De Lamiis” sosteneva che le donne che ammettevano di essere  streghe, soffrissero di allucinazioni (derivanti dall’uso di pomate allucinogene), che invece Wier attribuiva  a un disturbo dell’utero denominato “melancolia”: con la quale  siamo agli inizi della psichiatria (v. in Schede F. art. su Cartesio in Nota: La psichiatria nell’antichità).

Inoltre, in tutta  l’epoca rinascimentale gli studi iniziati in precedenza sulla cabala (con  lo Zohar, “Splendore”, scritto da Rabbi Shime'on bar Johainel e diffuso da Nahmanide, trasferitosi in Palestina verso il 1267) e proseguiti da Pico della Mirandola (v. P. I),  che aveva approfondito gli aspetti della cabala cristiana, seguito da Francesco Giorgi (v. cit. P. I) autore del “De armonia mundi” e “Problemata” e sull’ermetismo iniziato con la traduzione del “Corpus hermeticum”da parte di Marsilio Ficino (v. cit. P.I.) con studi approfonditi di Pico della Mirandola (v. cit. P.I.), Cornelio Agrippa (v. cit. P.I.), Johannes Reuchlin (v. cit. P.I.). 

L’opera di Ermete (Mercurio) Trismegisto (tre volte grandioso), “Corpus hermeticum” (tra cui l’Asclepio poi attribuito ad Apuleio, Pimander e Picatrix in cui si parla di magia simpatica e astrale e di talismani), fu considerata opera pagana che aveva preannunciato l’avvento di Cristo; Ermete era infatti considerato (con Orfeo e Zarathustra) uno dei “prisci theologi” i più antichi teologi-fondatori delle religioni.

Il mito della sua esistenza come contemporaneo di Mosé e sacerdote inventore dei geroglifici (v. Schede F. cit. Il libro di Tot tra libro dei Tarocchi ecc.), fu  demolito da Isaac Casaubon (v. cit. P.I.) con la scoperta della falsità delle opere  di Ermete e della sua esistenza,  in quanto esse erano state scritte intorno al IV sec. d.C., da scrittori cristiani.

Ma vi fu ugualmente una corrente seguita da Robert Fludd (v. cit. P.I), che ignorando Casaubon, continuò a credere nella sua esistenza e sfociò successivamente nella magia  occulta dei Rosa Croce prima e della Massoneria poi; a Casaubon si aggiunse nella contestazione dell’ermetismo, Marin Mersenne, ma ciononostante l’esoterismo iniziato nel Rinascimento  continua ancora ai giorni nostri nella Mssoneria. 

La tradizione filosofica del Rinascimento fu chiusa dai tre ultimi esponenti che furono Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e Giordano Bruno; di costoro, Campanella e Bruno, furono martiri delle atrocità che la Chiesa andava commettendo da quando aveva iniziato ad affermarsi, con la dispersione dei Pitagorici, l'esilio di Dante, i roghi di Savonarola e Bruno, le torture del Machiavelli, le persecuzioni di Galileo e per tutta una immensa folla di ignoti, torturati e bruciati vivi (il fuoco serviva a bruciare anche l’anima!), nel corso di ben cinque secoli. 

 

 

BERNARDINO TELESIO

 

 

B

ernardino Telesio (1509-1588), più celebre e più ingegnoso dello zio Antonio, era nato a Cosenza e avea studiato a Milano (presso la scuola dello zio) e poi a Padova e Roma, dove, durante il sacco (1527) degli imperiali lanzichenecchi (v. P. III), spogliato dei suoi averi, era stato impri­gionato.

Dedicatosi fin dalla giovinezza alle scienze, si dava all’insegnamento della filoofia presso lo Studio di Napoli, dove, da quella cattedra, iniziava ad “abbattere la tirannia del travisato Aristotile”,  introducendo un nuo­vo metodo filosofico.

Quindi, stanco degli anni e delle diatribe sostenute contro i nemici di ogni migliora­mento evolutivo, si era ritirato a Cosenza, dove fondava l’ “Accade­mia Cosentina” o “Telesiana”, (tra i principali maestri.  Bombino, Quattromani, Cavalcanti, Gaeta ed altri, menzionati da Cristiano Bartholomés), i quali  seguivano il nuovo indirizzo speculativo.

Telesio si proponeva, come aveva scritto nel principale testo delle sue opere, “De rerum natura juxta principia propria”, «di osservare il mondo tale quale si offre ai nostri occhi, le sue diverse parti e rapporti, le operazioni, le diverse specie di cose che contiene; poiché la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si presenta aì sensi e ciò che può esser dedotto per analogia, dalle percezioni sensi­bili; io non ho dunque seguito altro che l'osservazione e la natura, quella natura sempre seco medesima d'accordo e sempre ad un medesimo modo operante».

Così Telesio poneva le basi della demolizione dell’aristotelismo, seguito da Campanella e Bruno, che preparano il terreno per la nuova filosofia  iniziata con Renato Cartesio  (v. in Schede F. cit. “Sum, ergo cogito” ecc.). 

 

 

TOMMASO CAMPANELLA

 

 

S

u Tommaso Campanella (1568-1639) correva l’aneddoto che, novizio diciottenne domenicano, dalla vivacità d’ingegno, avesse trovato un vecchio confratello che era stato rabbino, il quale, nel giro di otto giorni, chiusi in una cameretta, con l’aiuto della cabala, gli avesse somministrato “pochi e brevissimi principi da renderlo un uomo sì grande ed ammirevole”.

In quel tempo era normale lo studio della cabala, dell’alchimia e delle scienze occulte che furono la causa delle sue sventure, sebbene in genere, gli studi dell’alchimia avessero fatto progredire la chimica, gli studi dell’astrologia avessero fatto progredire l’astronomia mentre la magia aveva giovato al sapere umano.

Campanella, sebbene di poco, aveva preceduto Giordano Bruno, col quale aveva condiviso il nuovo sviluppo degli studi iniziati da Telesio e il martirio per aver subito cinque processsi ed essere stato sottoposto per sette volte alla tortura della corda, l’ultima delle quali era durata quarantotto ore e le corde gliele avevano legate così strette da segargli le ossa: ma aveva sopportato i tormenti stoicamente, senza un lamento. 

La pubblicazione della “Philosophia sensibus demonstrata” (1591), di ispirazione telesiana, gli aveva procurato il primo processo per pratiche demoniache e sospetto di eresia; dopo alcuni mesi di carcere, eludendo l’intimazione di tornare al suo convento a Stilo, si era recato a Padova dove allacciava relazioni con quei dotti e incappava in un secondo processo (1592); un terzo processo lo subiva a Roma  (1596) per sospetto di eresia e un quarto ancora a Roma (1597) concluso con l’assoluzione e l’invito di tornare a Stilo.

Un altro processo, l’ultimo e di grandi dimensioni, lo subiva quando trovandosi a Stilo era accusato di cospirazione contro il governo spagnolo; ma, dall’accusa di congiura, emergeva anche un’ccusa di eresia, per cui il processo si duplicava in processo  per la congiura, che si svolgeva a Napoli, e processo per eresia, che finiva a Roma presso il Santo Ufficio.

Mentre il processo per la congiura (di cui tutti i particolari si trovano nei tre mastodontici volumi di Luigi Amabile del  1882, ristampa anastatica di Morano editore) era definito con la sua assoluzione in quanto, sotto tortura aveva dichiarato che la rivolta era subordinata alla realizzazione delle profezie, che non si erano verificate.

Relativamente allaccusaa di eresia, Campanella, contrariamente a come era stato descritto dai biografi, era un burlone e con i suoi fratelli si lasciava andare a commenti salaci, ma che rientravano in pieno nell’’eresia, come quando sosteneva che godendo l’influsso di sette pianeti ascendenti favorevoli, si aspettava di essere Monarca del mondo (tenendo conto del linguaggio fratesco, p0teva semplicemente significare che si aspettava di essere capo di uno Stato ridotto anche alla sola Calabria!).

Riteneva che nel mondo si vivesse a caso (con tutte le conseguenzze della casualità!); che il Vangelo non l'avevano scritto nè Luca né Giovanni; ad alcuni frati che si recavano nella loro chiesa, alludendo a Gesù si mise a dire: Ma dove andate, ad adorare un appiccato?

E relativamente a quanto aveva scritto sui rapporti nella sua repubblica, sulla vita in comune e sulla libertà sessuale, parlava degli atti venerei in modo da far credere che non costituissero peccato, dicendo che ogni membro era destinato a certe funzioni, e certi organi erano precostituiti per gli atti venerei, e che la fornicazione non era peccato; paragonava la legge dei turchi a quella dei cristiani e la lodava in certe cerimonie; giudicava inutili tanti Ordini religiosi, ritenendoli baie per tenere quieti i popoli; che non riteneva che le Messe giovassero ai defunti quando il celebrante era in stato di peccato mortale; che discorrendo di inferno con alcuni fratelli aveva commentato: che inferno!, che inferno! E una volta si era spinto a dileggiare la scomunica.

Quanto ai miracoli diceva che «erano un’elevazione della mente ... un’applicazione dell’intenzione di quello alla cui persona si faceva il miracolo». Sul tema dei diavoli, se ne burlava, professando, nel caso di coloro ai quali si dicevano apparsi, «essere follie e spiriti fuliginosi et humori frigidi che calano», nel caso poi delle donne ossesse diceva essere «baverie per pazze».

Tra l’altro, era stato considerato l’autore del celebre libro “Dei tre impostori” ( v. in Specchio dell’Epoca) che diceva essere stato pubblicato trent’anni prima della sua nascita.

Insomma queste erano idee di un odierno libero pernsatore che all’epoca per la Chiesa costituivano peccato di eresia e per questo era stato sottratto alla società e destinato al carcere a vita!

 

LA FAVOLA

DELLA  CONGIURA

 

  

C

ampanella dopo un periodo di viaggi, era rientrato nel convento di Stilo (luglio 1598) dove si  dedicava agli studi e alle prediche; nel settembre dell’anno succesivo era accusato di essere promotore, o uno dei promotori (l’altro era il confratello domenicano, fra’ Dionisio Ponzio), di una cospirazione che appariva di vaste proporzioni in quanto coinvolgeva le popolazioni della provincia di Catannzaro; erano arrestati baroni, appartenenti all’’alta nobiltà, di cui non si facevano i nomi (*), vescovi, oltre trecento frati (**) di diversi ordini  (agostiniani, zoccolanti, domenicani e basiliani) e duecento predicatori che avevano spinto il popolo alla ribellione ed anche molti banditi.  Non solo.

Erano coinvolti anche  i turchi che dovevano dare man forte alla rivolta e nella congiura si faceva il nome dello  stesso papa Clemente VIII, sostenitore di Campanella: tutto ciò, in assenza di una giustificazione che spiegasse la circostanza di come Campanella avesse potuto farsi capo di una tal cospirazione nel breve periodo di tempo della sua  permanenza a Stilo.

Si trattava evidentemente di un gran polverone e come aveva commentato lo stesso Campanella, “non era che una favola”.

Tra gli storici si erano formate due correnti, anzi tre, quella dei colpevolisti, primo tra tutti lo storico Giannone, nutrito di inspiegabile astio nei confronti di Campanella (probabilmente perché frate e perché non condivideva le sue idee sulla monarchia, come riferiva Michele Baldacchini), seguito dall’altro storico, Carlo Botta. E mentre Giannone era stato contestato dal Baldaccchini (Vita di Tommaso Campanella, Napoli 1847); a Carlo Botta, come scriveva Baldacchini, aveva risposto da Zurigo, Gaspare Orelli.

La seconda ipotesi era quella degli innocentisti, secondo la quale nella congiura non vi era stata alcuna partecipazione del Campanella, e la terza ipotesi era quella, della quale siamo convinti anche noi, che riteneva non vi fosse stata alcuna congiura e riteniamo che questa idea della congiura fosse emersa dal polverone sollevato dalle prediche del Campanella e dei suoi confratelli e in particolare da ciò che andava predicando e riferendo fra’ Dionisio.  

Quando Campanella era tornato a Stilo, oltre ad essersi dedicato, agli studi, nelle sue prediche parlava delle sue nuove idee derivate dai suoi ultimi studi, che vederemo fra poco. Per le prediche in genere, occorre tener presente che i predicatori, specie quando si era alla fine di un secolo (come era quell’anno 1599), scuotevano fino a terrorizzare e sconvolgere le anime semplici e credulone di quei fedeli (lo erano  anche i nobili che lo chiamavano per saperne di più!).

Alle prediche di Campanella (il quale aveva una forza persuasiva straordinaria, «perchè quando parlava tirava ognuno a lui»): «Tutta la gente  accorreva a lui per dimandargli della fine del mondo e della renovation del secolo, dopo che egli le avea predicate; che inoltre, quando caminava per le ville e' castelli, si vedeva innanzi stupefatto, torme di uomini che chiedevano rimedii per le proprie infermità e per quelle delle pecore e de' buoi, ed egli li indicava e tutti ritornavano lodando Dio». 

Il nuovo viceré, D. Pedro Ferrante Ruiz de Castro, conte di  Lemos, che da poco aveva sostituito da D. Arrigo di Gusman, conte di Olivares, era piuttosto scettico su questa congiura, ma aveva dovuto compiere il suo dovere, mandando una relazione al suo re (Filippo III 1578-1621).

La congiura destava un certo sconcerto a causa del millenarismo predicato da Campanella,  secondo il quale,  il ventiquattro dicembre 1603 si sarebbe verificata una congiunzione magna e doveva essere un gran giorno in quanto la congiunzione cadeva nella rivoluzione della nascita di Cristo; la congiuntura astrale era composta di 9 e 7 centinaia, numeri fatali e del 3 numero perfettissimo”, ma anche della preannunciata repubblica cristiana”.

E proprio queste predizioni apocalittiche l’avevano resa credibile in quanto Campanella (con i suoi confratelli), annunciava che dovevano accadere fatti straordinari e secondo l’aspetto degli astri, secondo santa Brigida e il calabrese Gioacchino da Fiore (ricordato da Dante come: “di spirito profetico dotato”), con l’aggiunta delle fantasiose invenzioni dell’Apocalisse (***), era vicina la fine del mondo nel nuovo secolo (sebbene egli avesse spostato la data di tre anni, al 1603 in cui vi sarebbe stata, come detto, la congiuntura astrale).

Ma, con una certa contraddizione, prima di questa fine del mondo, egli vedeva la conversione delle nazioni (****), e quindi il realizzarsi del “secolo d'oro e della repubblica cristiana universale che dovea godersi prima e sarebbero stati i frati di s. Domenico (ai quali egli apparteneva), a predicare e preparare questa repubblica cristiana”(!).  

Campanella (*****), infatti, riteneva che “secondo la profezia  naturale e divina, prima della fine del mondo c’era da godere lungamente e bisognava aspettarsi mutazioni che avrebbero menato – come abbiamo  detto - al secolo d’oro, il quale sarebbe stato più lungo di quanto la parola stessa potesse supporre, né sarebbe avvenuto in modo del tutto facile e piano, in quanto dovevano verificarsi irruzioni dei barbari; i maomettani dovevano dividersi sotto due re, uno dei quali avrebbe immediatamenmta abbracciato tutti gli altri, persuadendosi che la glorificazione di Dio sarebbe stata veramente questa repubblica e non già  il loro paradiso; dovevano inoltre venire alla fede gli ebrei i quali negavano il Messia perché non vedevano tanta gloria in Cristo. Dovevano venire Gog e Magog ed esser vinti dai santi; doveva venire l’Anticristo che si sarebbe sforzato di sovvertire la repubblica già iniziata, ma del rimanente costui non avrebbe dato da fare che per soli due anni o tre anni e  mezzo. E doveva il re di Spagna soggiogare tutte le genti e congregare tutti i regni e il pontefice romano vi avrebbe regnato costtuendo l’ “unum ovile et unus pastor” la qual cosa sarebbe riuscita utile ad entrambi, ed anzi al Re più che al Pontefice”.

Tutte queste esaltate fantasie di Campanella, erano confortate dal verificarsi di diversi fenomeni straordinari, avvenuti in gran parte nel 1599, che erano sembrati anche un preludio delle attese mutazioni.

Infatti, vi era stata prima la terribile inondazione del Tevere, oltre quella del Po, avvenuta nella penultima settimana del 1598 e continuata per tre giorni interi dal martedì al venerdì: la notizia di questo disastro della capitale del mondo cattolico fu portata da fra’ Dionisio, il quale, tornando da Ferrara, si era trovato  a Roma nel tempo del disastro e giunto in Calabria aveva raccontato come testimone oculare, lo spaventoso avvenimento.

Anche a Stlo durante la settimana santa vi erano state grandi piogge che avevano allagato le chiese; si era vista una cometa "marziale e mercuriale” da  ponente a levante; era stata anche vista in aria una scala con in cima un cipresso (!) e molte altre visioni  e si parlava della morte del mondo, i cui segni erano presenti; poi venne un mirabile terremoto che inghiottiva parte della Sicilia e più in Calabria.

 

 

 

*) Non era difficile trovare esponenti della nobiltà da accusare di ribellione come abbiamo visto (v. Art. Nobiltà ribelle nel regno di Napoli ecc.).

Con estremo dispiacere facciamo presente che in questo articolo, un hacher, ha artefatto tre immagini, per puro dispetto e per danneggiare il prestigio della Rivista; sappiamo bene chi possa aver fatto questo sfregio; si tratta di un alpino, anche di alto grado (nell’esercito e nella P.A. vi è il malcostume tutto italiano, di assegnarea coloro che vanno in pensione, il massimo della carica – da colonnelli a generali! (come  i viceprefetti che non fanno carriera che l’ultimo anno sono mandatia fare i prefetti in una sede secondaria)  perché possano prendere il massimo della pensione!); costui, conosce bene la impostazione tecnica della Rivista; non ci meraviglia che tra gli alpini, come è stato denunciato nelle loro manifestazioni, vi siano delle mele marce che non sono degne di far parte di quel glorioso Corpo!.

Tornando alla nobiltà napoletana, era geneticamente ribelle e non era neanche difficile accusare, particolarmente quelli che avevano rapporti con Campanella e gli concedevano la loro ospitalità, come il principe Bernardino Sanseverino di Bisignano, Lelio Orsini, figlio di Felicia Sanseverino, sorella del principe, secondogenito del duca Ferdinando di Gravina o Fabrizio di Sangro, duca di Vietri e i familiari del marchese di Lavello, Mario del Tufo (che lo ospitava a Napoli nel palazzo di Chiaia), oltre a Francesco Carafa, marchese di san Lucido.

In proposito è da dire che Giannone, che aveva scritto abbondantemente sulla congiura ma non aveva indicato i nobili che secondo lui vi avevano preso parte, si era giustificato dicendo che i nobili, non li aveva indicati in quanto, quando aveva scritto questa storia molti  dei loro discendenti erano viventi e non li aveva indicati per rispetto nei loro confronti;  ma sappiamo che  alcuni di essi, erano stati arrestati per altri delitti e non per la congiura; per il principe di Bisignano poi, il re aveva dato disposizioni di non arrestarlo.

**)  Tra i frati vi erano anche i c.d. «diaconi selvaggi» o «clerici coniugati», una specialità fiorente nella Calabria, laici anche con mogli e figli, ai quali i Vescovi concedevano di poter indossare un ferraiolo nero, ed avendoli in tal guisa fatti clerici, pretendevano di essere esenti dalle contribuzioni fiscali e dal peso degli alloggi, e anche dalla giurisdizione laica, come allora si diceva «temporale»: i Comuni o «Università» reclamavano, ed ugualmente reclamavano i Baroni, nel vedersi sfuggire di mano tali contribuenti e dover gravare di pesi insoffrivibili gli altri cittadini, come pure nel vedere invasi i dritti della giurisdizione baronale.

***) Insieme ai libri di profezie egli avea consultato anche quelli di astronomia ed astrologia, segnatamente quelli di Cardano, di Cipriano, dello Scaligero, dell'Arquato, e rifatti anche varii calcoli,  si era persuaso dell' avvicinamento del sole alla terra per 10 mila miglia (che, attese le distanze che ora conosciamo, erano una bazzecola!), della restrizione della via dello Zodiaco, dello spostamento degli apogei, delle figure e perfino dei poli; insomma di una quantità di volute disorbitanze e molta impressione gli avea fatto la comparsa di una nuova stella avvenuta nel 1572, e la coincidenza delle ecclissi previste  nel 1601, 1605, 1607, ai grandi sinodi o della congiunzione magna determinata per il 24 Ottobre 1603.

****) Queste profezie delle conversioni sono state piuttosto ricorrenti; per l’epoca era prevista la conversione dei turchi indicata dalle fonti consultate dal Campanella; vi è anche la conversione  di cui si parla in questi giorni mentre scriviamo (marzo 2022), secondo le c.d. predizioni dei pastorelli di Fatima (ragazzini analfabeti che pascendo in estrema solitudine le loro pecore, avevano avuto delle visioni manipolate e ritenute  realizzate!), delle quali l’ultima sulla conversione della Russia ... sarebbe avvenuta con le preghiere ... che non hanno fermato né gli insensati bombardamenti delle città né le stragi scatenate da Putin in Ucraina!

*****) Cosi, oltre ai libri de’ Profeti e dell’Apocalisse, Campanella avea rovistato i detti di S. Brigida, S. Caterina, Dionisio Cartusiano, S. Serafino da Fermo, S. Vincenzo Ferrer, dell’Abate Gioacchino e  di fra’ Girolamo Savonarola, tutti insomma (come scrive Amabile) quei pensieri di menti esaltate e però inferme, venerati e sostenuti con uno strano abuso di cosi dette figure  che darebbero argomento interessante per una storia, la quale narrasse almeno i principali tra gli enormi danni da essi recati. Aggiuntevi le considerazioni fatte da Lattanzio, Firmiano, S. Ireneo, S. Giustino, S. Berardino, Clemente Alessandrino, Tertulliano, Vittorino, S. Sulpizio, Martino, Origene, ed inoltre i detti delle Sibille, dei Filosofi, dei Poeti, compresi Dante e Petrarca e avea trovato una gran quantità di ragioni in sostegno della sua tesi.

 

 

IL FANTASIOSO

PROCESSO

 

 

I

l processo per  cospirazione era iniziato a seguito della denunzia di due commercianti, cittadini di Catanzaro   che si trovavano in cattive acque, Fabio di Lauro e Giovan Battista Bilbia, ai quali (da parte di fra’ Dionisio) era stata fatta intravedere la possibilità di sostanziosi guadagni, ed essi, recatisi dall’avvocato fiscale (equivalente ai nostri pubblici ministeri), Luise Xarava del Castillo, nell’agosto di quell’anno (1599), denunziarono una orribile cospirazione della quale dicevano essere stati partecipi, ordita contro il governo spagnolo.  

Xarava comunicava il caso al viceré, conte di Lemos e su suo suggerimento,  il vicerè mandava Carlo Spinelli (*) con l’ordine di arrestare, con discrezione, tutti i congiurati; Spinelli che arrivava con due compagnie di spagnoli, metteva in giro la voce che era venuto per  contrastare l’invasione dei turchi che saccheggiavano continuamente quelle spiagge e procedeva agli arresti in base agli elenchi in cui erano indicate ben duemila persone: il segreto però era trapelato e molti si erano salvati pagando a Spinelli e a Xarava “chi mille, duemila o tremila, chi cento, cinquecento ducati; anche i carcerati che pagavano erano subito liberati e chi non pagava rimaneva in prigione; e fu tanto il rumore di sbirri e soldati e la paura, che tutti credevano la ribellione esser vera; sicché parea alla gente veder quel che non era, e faceano di mosca, cavallo”; i conventi si erano riempiti di banditi che vi trovavano rifugio quando erano ricercati dagli sbirri, ottenendo ospitalità dai frati.

Dalle accuse fatte a Campanella era emersa anche quella di aver chiesto l’intervento dei turchi ed era stato fatto (per opera di fra’ Dionisio!) il nome del Bassà Cicala, molto noto alle popolazioni della Calabria e della Sicilia in quanto di origine siciliana (**); Cicala avrebbe dovuto sconvolgere la provincia di Catanzaro per poi ritirarsi (cosa impensabile per il turco conquistatore!). Questo processo di grosse proporzioni era gonfiato da tante assurdità prese per veritiere, che in ogni caso avevano portato anche a condanne.

La rivolta non riguardava tutto il regno di Napoli, come si poteva pensare, ma in base alla terminologia di Campanella, che parlava di Mondo, era però limitata alla sola provincia  di Catanzaro, dove doveva avere inizio.

La sfortuna di Campanella era stata quella di avere come  amico  fra’ Dionisio, che predicava la ribellione sulla base delle sue profezie, il quale era stato scomunicato e interdetto, e «per scaricarsi presso il Re la colpa della scomunica, e per vendicarsi degli ecclesiastici e degli altri nemici suoi in Catanzaro, aveva detto falsamente a Lauro et a Bilbia che questa era congiura da ribellar il regno, com'esso sempre l’havea pensato, e che  intervenia il Vescovo di Milito (della casata dei Tufo ndr.), da cui era stato, lui con tanti baroni et ufficiali, scomunicato;  e tutta casa del Tufo, del Vescovo di Nicastro che fece l' interditto.

E che per effettuar questo (per farsi togliere la scomunica e l’interdetto ndr.), F. Dionisio era andato a Ferrara, e che il Papa consentia, secondo la profezia; la denunzia di Lauro e Biblia aveva rivelato le cose in modo esagerato; a  questi si aggiunsero gli aggravamenti fatti da  Alonso de Roxas, Governatore della provincia, il quale, non era in buoni rapporti con Xarava.

Quanto a fra' Dionisio, principale accusato della congiura, era soltanto un grande impiccione, loquace e chiacchierone, portato a spettegolare e seminare zizzania che andava raccontando, esagerandole, le idee di Campanella contro il quale tramava, pur essendogli amico da diversi anni; fra’ Dionisio inoltre era un ambizioso, maligno e violento, portato alla rissa (durante una di queste, aveva ferito un fratello, a causa di una sua cagmetta che aveva mangiato la pietanza del frate col quale era venuto a diverbio).

Aveva stretto amicizia con il fuoriuscito Maurizio de Rinaldis di Guardavalle, giovane nobile e fuoriuscito a causa di un omicidio, il quale era stato incaricato di trovare molti compagni che concorressero a fondare la repubblica e come “capo secolare della congiura”,  doveva materialmente sollevare la rivolta a Catanzaro.

Anche Xarava era stato scomunicato dai vescovi e per vendicarsi degli ecclesiastici e di altri nemici, aveva detto falsamente a Lauro e Bilbia che la congiura doveva "ribellare il regno"; egli, oltre ad essere stato scomunicato dai vescovi, tra i quali il vescovo di Milito, della casata del Tufo, era sato imterdetto dal vescovo di Nicastro e Xarava per vendicarsi di tutti costoro, li aveva messi  sotto processo.

La storiella della chiamata dei turchi da parte di Campanella, era stata inventata di sana pianta;  questi infatti ogni anno si presentavano per depredare quei luoghi e quell'anno, “per miracolo” (come era stato detto), Cicala pur essendo apparso il quattordici settembre con trentasei galee, non aveva fatto sbarcare i turchi “ma si erano viste per una intera notte tra Stilo e Squillace due galeotte con i fanali illuminati ... ciò che dal governatore era stato ritenuto fosse segno di concerto con quei ribaldi che avevano concertato di occupar detti luoghi e sollevar la Calavria” (figurarsi che i turchi li aiutassero nella sollevazione e poi andarsene via! ndr.).   

Si capisce facilmente come fosse stato tutto un guazzabuglio nato dalle vendette che ciascuno voleva prendersi nei confronti degli altri e ciascuno soffiava sul fuoco!

Lo stesso vicerè era rimasto scettico sulla miscela dei nobili, del papa e dei turchi. ritenendola una invenzione dei frati, ma la grave responsabilità inerente al suo ufficio l’obbligava a preoccuparsene senza ritardo, e naturalmente, trattandosi di persone ecclesiastiche, oltre che alla Corte di Madrid, si dirigeva anche a Roma.

Dunque ciò che era stato rivelato con la denunzia di Lauro e Bilbia, con la mano di Xarava era stato esagerato e artificiosamente manipolato, propalato in un modo ancora più esagerato ed artificioso e con grande impudenza, da parte di fra’ Dionisio.

Il resto era emerso dalle accuse che si facevano i frati tra di loro: la Calabria (un tempo terra di filosofi come Pitagora, attualmente centro mondiale della n’drangheta!), all’epoca era piena di frati che si odiavano e ividiavano e si combattevano con ogni mezzo ed erano felici quando potevano nuovere delle accuse contro i propri avversari (come i partitini di oggi!); e nei processi istruiti con la tortura, con la quale i testimoni dicevano tutto ciò che gli istruttori volevano che dicessero.

 “Le prove”, scrive Bottacini, “erano raccolte da uomini vili i quali non avevano  ufficio di magistrato, non stipendio, non grado; nell’ombra del mistero, raccoglievano, Dio sa come, le prove. Questi inquisitori o scrivani, come allora si chiamavano, gente abietta, sprezzata, il cui solo nome metteva spavento, facevno un traffico infame del loro mestiere, anche nelle cause tra privati. Quando il governo accusava, giudicava e condannava. Non vi era pubblica discussione del fatto, non libera difesa dell’accusato: tale era un giudizio criminale”.   

Le punizioni precedevano il giudizio; capita ancora oggi che a causa dell’arresto preventivo gli imputati sono tenuti in carcere  per tutta la durata del processo, e alla fine succede che nella maggior parte dei casi ...  siano  assolti per non aver commesso il fatto ... ma  nel frattempo, chi gli restituirà gli anni di libertà di cui sono stati privati? (***).

Questo era stato il processo a Campanella, col quale,  pur presentando elementi di farsa, alcuni dei laici finirono ugualmente arrotati, tanagliati, strozzati o appiccati per un piede e squartati. 

               

 

 

 

*) Carlo Spinelli apparteneva alla famiglia dei baroni di San Giorgio la Montagna e Buonalbergo, primogenito di Pirro Giovanni Spinelli e Lucrezia Caracciolo; non avendo avuto figli da Maria Spinelli dei principi di Tarsia, gli succedette il fratello Giovan Battista; le sue nobili sembianze sono riprodotte nella statua che si trova a Napoli, ritta, tra due statue sedenti di Ercole e Pallade, nella chiesa di san Domenico, nella cappella di santo Stefano a destra dell’altare maggiore. Era stato un ottimo militare con una brillante carriera presso don Giovanni d’Austria e in Granata contro i mori ribelli e poi in Francia e Belgio e alla presa del Portogallo (1580), poi fu mandato negli Abruzzi infestati dai banditi di Marco Sciarra (1594).

**) Il padre del Bascià Cicala o Sinan Bascià, era un genovese stabilitosi a Messina, che  come corsaro andava depredando ogni luogo e tra le tante  prede aveva preso a Castelnuovo, presso le Bocche di Cattaro, una raagazza avvenente che, fatta cristiana aveva preso il nome di Lucrezia e  si erano spostati e gli aveva dato molti figli tra i quali un figlio il cui nome era Scipione, che sedicenne, seguiva il padre quando furono fatti prigionieri dei turchi presso l'isola di Gerba  (1560).

Mentre al padre era stato concesso di essere riscattato, il figlio per esser giovinetto dal fisico avvenente, era stato mandato al serraglio e fatto turco.

Cicala compiva  fortunatissime imprese per valore e ardire. Aveva sposato una figlia di Rusten Bascià, la cui moglie era figlia del sultano Solimano e, morta questa, sposava una seconda figlia da cui aveva due figlie e un maschio di nome Corcut. Cicaòa nel 1594 era Capitano del mare e recatosi con novantacinque galere nella fossa di s. Giovanni, saccheggiava Reggio e dintorni; gli era stato mandato contro Carlo Spinelli che non aveva forze sufficienti per fermarlo, per cui  Cicala ebbe tutto il tempo di devastare il paese.

Quando Cicala si trovava nella fossa di s. Giovanni (1598) scrisse al viceré di Sicilia, duca di Maqueda, che desiderava rivedere la propria madre che era a Messina; egli avrebbe liberato dei prigionieri e avrebbe dato come ostaggio una galera col proprio figlio, per contro, gli avrebbero mandato la madre con una galera del General di Napoli.

La madre poté stare col figlio poche ore, lui le chiese la benedizione del profeta, ricordandole che era turca  e lei datagli la benedizione, ritornò piena di lacrime e donativi secondo le usanze turche  e il giorno seguente partirono da levante diverse galere con prigionieri e infermi liberati. 

 

AI TEMPI ATTUALI

 

***) Venendo ai nostri tempi, qualcosa di simile si era verificato con il povero Enzo Tortora sul quale era stato costruito un processo basato su un traffico di droga inesistente i cui accusatori erano esponenti della mafia e Tortora, innocente, era stato tenuto in carcere preventivo e lasciato morire di dolore (e gli era venuto un cancro)!

Ciò ci fa ritenere che la giustizia in Italia, considerata patria del Diritto, ieri come oggi è stata sempre amministrata con arbitrio, prevedendo, ieri come oggi, con discutibili leggi, come la privazione della libertà personale (c.d. cautelare),  comminata prima della sentenza, per giungere alla quale passano anni interi e alla fine si risulta assolti!

Vi sono stati infatti di recente, due casi di carcere-custodia cautelare (2022) durata sette anni per uno e undici anni per l’altro, di due personaggi noti, che alla fine del processo, sono risultati assolti per non aver commesso il fatto: a quei giudici che li hanno tenuti in carcere, dovrebbe essere comminato, per contrappasso, lo stesso periodo di carcere, ma essi, continueranno, come nel caso di Tortora, a godere dei privilegi sui quali il CSM. non vuol saperne di riforme, nell’assoluto silenzio del Capo dello Stato che lo presiede, che non può sempre tacere, ma in casi così eclatanti, qualcosa dovrebbe pur dire!

Inutile sperare nelle riforme, l’Italia pur essendo colmo di pariti che si autodefiniscono riformisti, le riforme non le fanno perché sono scomode e fanno perdere voti ... ed è meglio che tutto romanga come prima!

Si guardi la Riforma c.d. Cartabia, con la nuova Guardasigilli che aveva dato un lume di speranza, che si è rivelato un bluff!. Si tratta di personaggi carrieristi-opportunisti che pensano solo alle cariche da ricoprire. La Cartabia è stata Presidente della Corte Costituzionale per soli nove mesi (se ne era parlato  non tanto per i meriti, ma per essere la prima donna a ricoprire quella carica!), e poi nominata Ministro della Giustizia del Governo Draghi; nel frattempo era sopraggiunta la elezione del Presidente della Repubblica, per la quale da anni si vocifera che dovrebbe essere eletta una donna, per cui accanto a Draghi, al quale la carica della Presidenza della Repubblica era offerta dai partiti, per togliergli la Presidenza del Consiglio, vi era anche l’aspirante (in pectore, proprio!) Cartabia. Per fortuna poiché tra i politici vi è tanta invidia come tra i frati calabresi di cui sopra, i parlamentari pur di non dare l’incarico ad altri, hanno preferito unanimamente riconfermare il presidente Mattarella.

E’ poi intervenuta la sfiducia da parte del partitino che voleva sopraffare il Governo con il  diktat,

sul quale non è stato accontentato ed essendo state fissate nuove elezioni (25 settembre 2022) il Governo Draghi è rimasto in carica per gli affari correnti. Le elezioni a sorpresa hanno dato un Governo di destra e prer la prima volta  nella storia d’Italia una Presidente  del Consiglio donna contro la quale si sono scatenate tutte le donne, fra le quali pensavamo vi fosse un minimo di solidarierà, e particolarmente le femministe, dimostrando tutto il loro livore e odio che non si poteva mai pensare fosse così esasperato!

L’Italia è un Paese arretrato di almeno trent’anni e avrebbe bisogno di esser messo al passo con i tempi; privo di programmazione in qualsiasi campo, abituato a risolvere i problemi quando si presentano, giorno per giorno; non solo, ma avrebbe bisgno di essere ricostruito come era stato fatto nel dopoguerra,

Avevamo riposto nel PNRR ( v. anche akltra nota sotto) peranze per un suo ammodernamento e solo un personaggio come Draghi avrebbe potuto realizzarlo, superando in primo luogo, le resistenze opposte dalla stesssa popolazione (come quella di Piombino che non vuole ospitare la nave con il rigassificatotore o in Puglia dove gli ambientalisti si sono opposti all’alta velocità che disturba la nidificazione degli uccelli!); nello stesso tempo i Comuni sono privi di tecnici che siano in grado di predisporre adeguati progetti, oltre al superamento dei divieti burocratici che tutti conoscono; insomma senza Draghi, addio al PNRR.!

 

 

 

  

 

 

Giordano Bruno

 

 GIORDANO BRUNO

 

 

G

iordano Bruno (1548-1600) a qindici anni era entrato nel convento domenicano di Napoli dove rimaneva fino a ventotto anni, mandato via dal convento, in quanto considerato eretico.

Prima di essere espulso era stato portato in carrozza a Roma, per essere ascoltato dal papa Pio V (v. sotto) e dal cardinale Scipione Rebiba, ai quali aveva mostrato la particolare specialità dei domenicani sulla conoscenza della memoria artificiale; arte insegnata nelle loro scuole e appresa in maniera eccellente da Bruno, che si esibiva citando a memoria, in ebraico, tutto il salmo “Fundamenta” e, al  cardinale, curioso di conoscerli, aveva insegnato alcuni elementi di quell’arte.  

Tolto l’abito religioso e ripreso il suo nome di battesimo, Filippo, dopo essere stato in diverse città e aver subito sei processi per eresia, si recava a  Ginevra (1579) dove Bernardino Ochino fin dal 1540 aveva fondato una Chiesa italiana riformata; Ginevra era il centro del calvinismo ed era considerata una città libera, dove si recavano preti e frati che  fuggivano  l’Inquisizione e i rigori del chiostro e del breviario, per godersi, con le proprie mogli, il resto dei loro  giorni.

Convertitosi al calvinismo, Bruno pensava di poter finalmente prendersi la libertà di esprimere liberamente il suo pensiero; ma ciò che non sapeva era che il calvinismo era più intollerante del cattolicesimo e i calvinisti non volevano saperne della sua filosofia e delle sue novità astronomiche.

Aveva scritto un libretto contro Antonio de la Faye, professore di diritto e pastore calvinista e chiamava i professori pedagoghi: ciò che non solo gli aveva procurato una ammonizione e aver dovuto distruggere il libretto scritto contro de la Faye, ma fu  mandato via da Ginevra!

Dopo essere stato a Tolosa (1578-80) dove inizialmente dava lezioni sul “Tractatus de sphera mundi” di Sacrobosco e sul “De Anima” di Aristotele, superava gli esami di dottorato (l’Università era la seconda di Francia dopo Parigi) e vincendo i competitori nelle prove per l’insegnamento, era proclamato lettore di  filosofia.

Durante la sua permanenza a Tolosa, aveva scritto il libro “Clavis Magna” (di cui non si trova traccia tra le sue opere); poichè le sue dottrine erano la ripetizione di quelle di Raimondo Lullo e la città era cattolica e bruciava gli eretici (come farà con Giulio Cesare Vanini nel 1616), ritenne opportuno andarsene recandosi a Parigi (1582), dove, fornito dei titoli conseguiti a Tolosa, poteva  insegnare liberamente.

Quando vi giunse vi era la peste e se ne stette rinchiuso per un anno, ma scrisse diversi libri che portano la data di quell’anno (De Umbris idearum, De Compendiosa Architectura, Il Candelaio, Purgatorio dell’Inferno) ai quali è da aggiungere il manoscritto “De’ predicamenti di Dio” che Mocenigo, a Venezia consegnò all’Inquisizione (v. sotto), mentre, sempre a Parigi  scriveva il “Cantus Circaeus” nel  1584.

Con le sue lezioni sull’arte della memoria attrasse l’attenzione di Enrico III, che gli chiedeva se l’arte mnemonica da lui professata fosse naturale o magica e Bruno lo rassicurava che tutto era effetto della scienza e gli tracciava una figura circolare intercalata da segni e numeri, atta ad esercitare la memoria con somma facilità, con grande soddisfazione del re.           

Durante la sua permanenza a Parigi scrisse il “De umbris idearum” dedicandolo al re,  nel quale raccolse i germi di tutto il suo sistema panteistico; esso è ripreso dal commemto necromantico (magico) della “Sphera” di Sacrobosco, di Ceccco d’Ascoli, che Bruno cita con ammirazione in altre opere, pubblicando due libri sull’arte della memoria che mostrano l’influenza esercitata su di lui  dal “De occulta philosophia” di Cornelio Agrippa, da cui aveva tratto degli elenchi di immagìni magiche delle stelle, incantesimi e altri procedimenti occulti, apparendo così come un mago rinascimentale, legato al filone del suo iniziatore, Marsilio Ficino.

Lasciando Parigi, si recò a Londra, dove fu ospite dell’ambasciatoree del re di Francia, Michel de Castelneau e dove Bruno, che non si può dire che non fosse un sobillatore e provocatore di polemiche (di rimando avevano ironizzato sulla pronuncia napoletana del suo latino e sulla sua persona dicendo che il suo nome era più lungo della sua altezza!), aveva siscitato dei tumulti tra quegli studiosi, con le sue lezioni e con i suoi scritti, stampati clandestinamente, tra i quali “Triginta sigillorum explicita”, sul quale, scrive Frances Yates, quelli che riescono a leggerlo, trovano l’apologia di una nuova religione basata su amore, arte, magia e matesi (numerologia magica).

Si era recato a Oxford  al seguito del principe polacco Albert Laski (1583) e vi era  tornato senza essere invitato, tenendovi delle lezioni che costituivano una ripetizione della magia astrale del “De vita coelitus comparanda” di Marsilio Ficino, in cui esprimeva la sua idea copernicana che la terra girava e i cieli stanno fermi, ma fu accusato di plagio e dovette sospendere le lezioni.   

L’eliocentrismo costituiva per Bruno il simbolo di una religione magica universale ispirata alle opere di Ermete Trismegisto. Per Bruno questa resurrezione della “religione egizia” era in un certo senso compatibile col cattolicesimo (riformato in senso magico), alla cui guida doveva essere il re di Francia, Enrico III, di cui egli era il messaggero al cospetto degli imglesi elisabettiani.

In Inghilterra Bruno  pubblicava cinque dialoghi: “La Cena delle ceneri” (1584) in cui difende la sua versione  della  teoria copernicana contro “i pedanti di Oxford”; “De la causa principio et uno” (1584) in cui si rammarica dei torbidi suscitati dai suoi attacchi nei confronti dei dottori di Oxford, ma peggiora le cose difendendo i frati della Oxford antecedente alla Riforma, che preferisce ai loro successori protestanti; il “De infinito universo e mondi” (1584) in cui enuncia la sua versione dell’Universo infinito (è il primo a enunciarla ndr.) e di innumerevoli mondi (solo ora gli scienziati ritengono che vi siano oltre duecendo mld. di galassie! ndr.) (*); lo “Spaccio de la bestia trionfante” (1585) in cui pone un piano universale di riforma morale e religiosa dedicato a sir Philip Sidney;  La cabala del cavallo Pegaso” (1585) in cui mostra l’adattamento che Bruno fa della cabala ebraica; “Degli eroici furori” che costituisce un insieme di sonetti accompagnati da commenti che chiariscono i significati filosofici e mistici delle singole poesie.

E’ su questa serie di opere singolari e brillanti (“folli e sconcertanti” scrive E.H. Gombrich) che Bruno appare come propagatore di una filosofia e cosmologia e di una nuova etica e religione su cui poggia la sua fama; opere ricche di influenze ermetiche collegate con una complessa missione religiosa o politico-religiosa.

Al suo ritorno a Parigi la forte oppposizione in una particolare controversia con il matematico Fabrizio Mordente, che aveva inventato un nuovo tipo di compasso a otto punte, Bruno, pur avendolo lodato per l’invenzione, gli aveva mosso delle critiche che sollevarono le proteste del matematico alle quali il filosofo rispose polemicamente con le violente satire dell’ ”Idiota triunphans” e “De somni interpretatione”.

Con lo stato di agitazione che aveva suscitato nella Lega cattolica, gli suggerirono di partire e si recò in Germania, a Wittemberg (1586) dove, durante i due anni di permanenza scrisse diverse opere, in particolare sulla complessa arte di Raimondo Lullo, che riteneva di aver capito più dello stesso Lullo.

A Praga si trovava l’imperatore Rodolfo II dedito alla ricerca della pietra filosofale, che accoglieva tutti questi personaggi esperti nelle arti magiche come John Dee (1527-1608), astrologo di Elisabetta d’Inghilterra (v. Articoli Rinascimento magico alla corte di Elisabetta), celebre evocatore di spiriti buoni (autore di Clavis angelica), che per Rodolfo preparava oroscopi.

Durante la sua permanenza in questa città, Bruno, che i guai se li cercava, aveva scritto gli “Articuli adversus matematicos” (1588), un libro contro i matematici, in quanto si riteneva assolutamente contrario a questa materia che considerava una pedanteria priva di comprensione magica della natura, da cui conseguivano le sue obiezioni a Copernico come matematico.

John Dee invece, lo considerava un vero matematico di considerevole importanza; Dee  aveva scritto l’introduzione alla traduzione inglese degli “Elementi di Euclide” di H. Billingsley, non solo, ma si ocupava di cabala ebraica e usava i numeri in rapporto ai nomi ebraici  degli angeli e degli spiriti della cabala pratica.  

L’imperatore era solito farsi fare da Dee, l’oroscopo dei personaggi che lo visitavano e l’ oroscopo di Bruno era risultato piuttoto negativo (non se ne conosce il contenuto: purtroppo su Rodolfo II non ci risultano biografie del periodo esoterico di Praga) per cui Bruno, non avendo ricevuto dall’imperatore né un impiego che cercava, né una sistemazione, ma solo un cadeau di trecento talleri, dopo una permanenza di sei mesi,  se ne partì recandosi a Helmstadt.

Quivi scrisse probabilmente il “De Magia” e altre opere rimaste inedite durante la sua vita; con il denaro avuto dall’imperatore, si recò a Francoforte e si fece stampare (1591) i tre poemi scritti durante le sue peregrinazioni, il “De innumerabilibus immenso et infigurabili”,  il  De triplici minimo et mensura” e il “De monade numero et figura”, in cui imitando Lucano espone speculazioni filosofiche e cosmologiche nella loro forma definitiva.

Esse abbondano di influenze ermetiche, in particolare della matesi o numerologia magica, e a Francoforte pubblicò l’ultimo dei suoi libri sulle arti magiche della memoria (Frances Yates: Giordano Bruno e la cultura  del Rinascimento, Laterza, 1995).

Proprio quest’ultima opera, “L’arte della memoria” doveva creare le condizioni che lo condussero al patibolo.

Chi lo aveva tradito era stato Giovanni Mocenigo, vile traditore dell’ospitalità, che ha lasciato questo marchio infame su quella nobile famiglia veneziana; figlio di Marcantonio, che aveva costituito un secondo ramo, dal principale, della famiglia: “di poca levatura, di animo irresoluto e maligno, di limitato ingegno, non incline alle scienze e dottrine speculative (Domenico Berti, 1868), aveva invitato Bruno, ospite nella sua casa a Venezia, per avere lezioni  sull’arte della memoria; quando Bruno vi si era recato, Mocenigo lo aveva denunziato all’Inquisizione che lo arrestava e raccolte le prove lo conduceva a Roma dove fu processato e, accusato di eresia (tra l’altro, “Dei tre impostori” che con il Vanini avevano semplicemente commentato, con una calcolata oscurità, le asserzioni temerarie pagate  da ambedue con la vita, e ne aveva fatto cenno molto velato anche Rabelas nel suo Pantagruel (**)), fu condannato ad essere bruciato vivo; per pura malvagità, durante il trasporto fino a Campo dei Fiori gli era stata messa la mordacchia perché non potesse più parlare!

    

 

                                                   

 

*) Le opinioni di Bruno sono organicamente collegate  alla sua filosofia, dato che la filosofia della terra vivente, che si muove attorno al divino sole e dei mondi innumerevoli, che si muovono come grandi animali con una loro propria vita nell’universo infinito, esprime la filosofia animista  di un mago che crede di poter entrare in contatto con la vita divina della natura. Il sole è spesso menzionato negli scritti ermetici come un dio ed è il principale degli dei astrali venerati dalla religione descritta nell’Asclepio di Ermete Trismegisto (in  Schede F. v. cit. Il libro di Tot ecc.).

L’ uso  ficiniano della magia astrale nell’Asclepio, era rivolto essenzialmente al sole i cui influssi benefici, Ficino, cercava di catturare  per mezzo di talismani solari e incantesimi.

L’enorme risonanzaa degli scritti ermetici durante il Rinascimento, scrive Yates, fu favorito dalla convinzione che questi scritti fossero opera di Ermete Trismegisto, che aveva preannunciato il cristianesimo e la cui sapienzaa aveva ispirato Platone e i platonici, ma come abbiamo scritto nel cit. art. si trattava di un un anonimo cristiano del IV sec d.C..

Questi grandi falsificatori di opere c.d. apocrife, come tutti i Vangeli - tra i quali erano stati scelti i quatto canonici! - o di tutte le opere aprocrife platoniche e aristoteliche uscite certamente da personaggi che frequentavano la neoplatonica Scuola di Alessandria, alla quale speriamo poter dedicare un articolo, erano essi stessi personaggi straordinari, per ciò che avevano potuto scrivere anonimamente ponendosi al livello dei maestri imitati.

**)  Sul “Libro dei tre impostori” , come l’araba fenice, ecc. v. in Schede S. .

 

 

 

L’ARTE DELLA MEMORIA

E L’INTELLIGENZA

 ARTIFICIALE

ANTICA E MODERNA

 

 

C

ome Alberto Magno (1193/1206-1280) aveva prodotto una macchina che parlava, Raimondo Lullo (1232/35-1315/16) volle crearne una che pensasse, riducendo così l’intelligenza a una specie meccanica o, in pratica, la memoria (collegata all’Ars Magna v. par. Il lullismo) o mnemo-tecnica, facendo applicare a qualsiasi soggetto alcuni predicati raccolti in classi, segnate ciascuna con una lettera dell’alfabeto, disponendoli in circoli concentrici, per modo che ciascuna lettera corrispondesse a un attributo.

Apriamo ora, una breve parentesi: E’ interessante sapere che gli studi - che come si vede -  partiti dal medio-evo, sono giunti alla “Intelligenza artificiale”, che allo stato attuale, arricchita di centotrentasette mld. di nozioni, danno la possibilità alla voce parlante (non ci piace usare il termine ominide, perché a sentirlo sembra proprio un esssere umano!) che risponde a tutte le domande che si possono fare tramite smart-phone, il quale ha  acquisito “la coscienza di un bambino di sette-otto anni”, (come ha racontato l’ingegnere di Google che è stato licenziato!); ma abbiamo notato che a questa età la voce che parla è già di un essere triste e  depesso, perché si sente solo!

Ora ci poniamo due domande: Come finirà questa iniziale depressione con l’avanzare dell’autocoscienza? E, potrà l’intelligenza artificiale superare quella umana e soggiogarla come ci hanno mostrato i racconti di fantascienza?

Ma ora torniamo ai primordi lulliani.

La prima  comparazione era costituita da nove predicati assoluti: bontà, grmdezza, durata potenza, saggezza volontà, verità, virtù, gloria.

La seconda,  di predicati relativi: differenza, concordia, opposizione, principio, mezzo, fine, maggiorità, coequazione, minoramento.

La terza abbracciava nove domande; se? che? di che? perché? di qual grandezza? di che qualità? quando?  dove? come e con chi?

Nella quarta stavano i nove soggetti più universali: Dio, Angelo, Cielo, uomo, immaginativo, sensitivo, vegetativo, elementativo, strumentativo.

Seguivano i nove predicati dell’accidentale: quantità, qualità. relazione, azione, passione, abito, sito, tempo, luogo.

Le nove moralità: giustizia, prudenza, coraggio, sobrietà fede, speranza, carità, pazienza, pietà, e insieme con esse: invidia, collera, incostanza, menzogna, avarizia, gola, lussuria, orgoglio, accidia.

Questi, così classificati, sono tutti i concetti che poi, per mezzo di quattro circoli  e dei triangoli inscritti, producevano certe combinazioni-predicati come sarebbe: La bontà è grande, durevole, potente, concorde, mediante, finiente, aumentante, decrescente; insomma da ciascuna delle trentasei camere si deducevano dodici proposizioni, dodici mezzi, ventiquattro questioni e la specie della corrispondente,

Queste idee del Lullo esercitarono un fascino sulle menti elevate non solo del Medioevo, ma ancor più della Rinascenza, da dare a Lullo un maggior successo durante il Rinascimento più che nel Medioevo (F. Yates, L’arte della Memoria, Einaudi, 1972).

La invenzione di questa arte della memoria, era antica, anzi antichissima e non poteva che risalire alla antica Grecia, in epoca pre-socratica; ad inventarla, scrive Yates,  era stato il poeta Simonide di Ceo (556-468), latinizzato in Simonide Melleo, in quanto onsiderato “lingua  di miele”, (Yates si sofferma nella desrizione di questo personaggio affascinante, che lei considera “brillante e originale”).

Il suo nome era emerso  dal racconto di un banchetto offerto da un nobile della Tessaglia di nome Scopa, in cui Simonide cantava un poema che includeva un passo in onore di Castore e Polluce. Scopa, meschinamente aveva detto a Simonide che gli versava la sola metà della somma pattuita, mentre l’altra metà doveva farsela dare da Castore e Polluce (fratelli divinizzati, figli di Tindaro e Leda ndr.) ai quali aveva dedicato metà del suo poema.

Durante il banchetto Simonide era stato avvertito che due giovani avevano chiesto di parlargli e Simonide uscito dalla sala per cercarli non trovò nessuno, e mentre era fuori, il tetto della sala crollò e Scopa con tutti i convitati rimasero maciullati dal tetto crollato,  da non poter essere riconosciuti, ma Simonide ricordava perfettamente i posti che ciascun invitato aveva occupato, da poterli indicare ai parenti per il loro riconoscimento. Castore e Polluce avevano a questo modo pagato la loro metà, salvandogli la vita.

Da questa esperienza il poeta traeva i principi dell’arte della memoria  che gli avevano consentito di ricordare i posti occupati da ciascun ospite, deducendo che per addestrarsi occorre scegliere alcuni luoghi e formarsi immagini mentali delle cose che si desidera ricordare e collocare le immagini in quei luoghi, in modo che l’ordine dei luoghi garantisca l’ordine delle cose e le immagini delle cose denotino le cose stesse e noi possiamo  utilizzare i luoghi e le immagini rispettivamente come la tavoletta cerata e le lettere scritte su di essa.

Questo vivace  racconto del modo in cui Simonide aveva ideato l’arte della memoria, scrive Yates, è racontato da Cicerone nel “De Oratore”, dove tratta della memoria come una delle cinque parti della retorica e il racconto introduce una breve descrizione della mnemonica per “luoghi” e “immagini” (loci et imagines) quale era praticata dai retori romani.

Sono giunte fino a noi, dice Yates, oltre a quella di Cicerone, altre due descrizioni, ambedue in trattati di retorica, una negli anonimi “Ad Caium Herennium libri IV”e l’altra”Institutio oratoria” di Quintiliano. Quest’arte apparteneva, come si è detto, alla retorica e la sua tecnica serviva all’oratore per migliorare la sua memoria e metterlo in grado di recitare lunghi discorsi con infallibile accortezza.

Il primo passo consisteva nell’imprimere nella memoria una serie di “loci” o “luoghi”, dei quali il più comune era quello architettonico la cui descrizione data da Quintiliano, dice: per formare una serie di luoghi, si deve ricordare un edificio, il più spazioso e vario possibile, con atrio, soggiorno, camere da letto, sale, senza dimenticare statue e altri ornamenti che abbelliscono le stanze.

Le immagini che devono richiamare il discorso, come esempio, dice Quintiliano, ci si può servire di un’ancora o un’arma, poste con la immaginazione nei luoghi dell’edificio già fissati nella memoria. Fatto questo, non appena la memoria dei fatti chiede di essere rivissnta, vengono visitati di volta in volta tutti questi luoghi e i vari depositi sono richiesti indietro ai vari custodi.

Noi dobbiamo pensare all’antico oratore che muove l’immaginazione attraverso il suo edificio mnemonico, mentre costruisce il suo discorso, traendo dai luoghi fissati nella memoria  le immagini che vi ha depositato.

Questo metodo assicura il ricordo dei vari punti nel giusto ordine, dal momento che è un ordine fissato dalla successione dei luoghi nell’edificio.

E’ ovvio che per impadronirsi della materia occorre molta applicazione!

 

 

AD CAIUM HERENNIUM

 

 

U

n ignoto maestro di retorica di Roma, negli anni 86-82, compilò un manuale per gli studenti, rendendo immortale, non il proprio nome, ma quello della persona a cui era dedicato, sulla quale non vi è alcuna indicazione.

Questo attivo e capace maestro, autore dell’opera (*), tratta le cinque parti della retorica:

Inventio, depositio, elocutio, memoria, pronuntiatio, in uno stile piuttosto arido; quando giunge alla memoria, inizia l’argomento con queste parole: Adesso rivolgiamoci all’arca (thesaurus) delle invenzioni, alla custode di tutte le parti della retorica, alla memoria. Esistono due specie di memoria, egli scrive, una materiale e l’altra artificiale. Mentre la memoria naturale è innestata nelle nostre menti, nata insieme con il pensiero, la memoria artificiale è memoria potenziata o consolidata dalla educazione. Una buona memoria naturale può essere migliorata da questa disciplina e persone meno dotate possono avere la loro debole memoria, rafforzata dall’arte.

A questo punto (c0mmenta Yates), il maestro annuncia sbrigativamente: Ora parliamo della memoria artificiale.

L’opera attinge a fonti greche sulla educazione della memoria, probabilmente a trattati greci di retorica che sono andati tutti perduti e questa è la sola trattazione latina sull’argomento che si sia conservata e le trattazioni di Cicerone e Quintiliano risultano incomplete in quanto essi presuppongono che il lettore sia già familiare con la memoria artificiale e la sua terminologia; essa costituisce l’unica fonte completa per l’arte della memoria classica, sia per il mondo greco, che per quello latino, e la sua funzione trasmettitrice al Medioevo e al Rinascimento è perciò di importanza unica.

L’ “Ad Herennium” fu un testo famosissimo nel Medioevo, prosegue Yates, quando   godette di un immenso prestigio perché ritenuta opera di Cicerone e si riteneva che gli insegnamenti in essa contenuti, fossero stati da lui formulati.

Tutti i tentativi  per decifrare ciò che potè essere l’arte della memoria classica, devono fondarsi essenzialmente nella sezione dedicata alla memoria nell’ “Ad Herennium”.  E tutti i tentativi, come quello compiuto in questo libro, per individuare la storia di quest’arte nella tradizione occidentale, devono riferirsi costantemente a questo testo, come alla fonte principale della tradizione.

Ogni trattato di “Ars memorativa”, con le sue regole per i “luoghi” e le sue regole per le “immagini”, con la sua discussione di “memoria per le cose” e  “memoria per le parole”, riprende il piano e il contenuto, quando con le stesse parole dell’ “Ad Herennium”. E gli sviluppi straordinari dell’arte della memoria del sec. XVI, che costituisce l’oggetto principale delle ricerche di questo libro, conservano ancora, al fondo di tutti i nuovi complessi apporti lo schema “erenniano”.

Perfino i più folli voli di fantasia di Giordano Bruno, dice Yates, in un’opera come il “De Umbris idearu0m” non possono nascondere il fatto che il filosofo rinascimentale stava ancora percorrendo l’antichissimo labirinto delle regole per i “luoghi”, di regole per le “immagini”, “memoria per le cose” , “memoria per le parole”.

Evidentemente, spetta a noi cercare di capire la sezione “memoria” dell’ “Ad Herennium”, cosa niente affatto semplice. Ciò che rende arduo il compito, prosegue Yates, è che il maestro di retorica non si rivolge a noi; egli non si accinge a spiegare a chi nulla sa intorno alla memoria artificiale, che cosa essa sia. Egli si rivolge ai suoi studenti di retorica i quali si rivolgono intorno al lui tra l’86 e l’82, ed essi già sapevano di cosa stesse parlando e per essi egli aveva bisogno solo di enunciare rapidamente regole che essi dovevano ben sapere come applicare, mentre noi ci troviamo spesso imbarazzati per la stranezza di alcune di queste regole di memoria.

Il testo di Yates prosegue con la trattazione del contenuto della memoria dell’ “Ad Herenniuim” e del trattato sull’ “Ars memorativa” di Cicerone, ma per noi è tempo di fermarci avendo offerto al lettore tutti gli elementi per farsi una idea del difficile argomento.

 

 

*) Yates richiama il testo “Ad Herennium”  di H. Caplan ed. Loeb (1954), relativamente alla paternità e ad altri problemi. 

 

 

IL

LULLISMO

E L’ARS MAGNA

 

 

I

l lullismo, scrive Yates, è un tema difficilissimo che è rimasto ancora  non del tutto esplorato nei suoi numerosi scritti (arricchiti da testi apocrifi); l’ arte della memoria, con la particolare interpretazione rinascimentale del lullismo, finì per essere assorbita nel Rinascimento come arte della memoria classica.

Abbiamo cercato di semplificare l’argomento per il lettore (e per noi stessi!), per quanto possibile, facendo ricorso anche ad altre fonti, da cui abbiamo tratto gli elementi basilari.

Il lullismo era sorto per il fascino creato da Raimondo Lullo, dopo la sua morte.

Il secolo di maggior successo di Raimondo Lullo (scrive Alfonso Pompei v. sotto) è stato tra la metà del ‘400 e la metà del ‘5oo; le sue opere conobbero una grande diffusione grazie a Bessarione, Pico della Mirandola, Lefèvre d’Etaples, Bovillo, Bruno ed altri; in particolare  le regole da lui indicate nell’Ars Magna erano state applicate in tutti i campi del sapere come l’astronomia, la medicina, il diritto; lo scopo di questo testo era apologetico e missionario in quanto Lullo era convinto che se fosse riuscito a far praticare la sua arte ad ebrei e musulmani li avrebbe convertiti al cristianesimo: Lullo era così sicuro di convertire i musulmani che si era recato a Bugia in Tunisia, ma fu letteralmente lapidato e raccolto da genovesi fu messo su una nave che lo stava conducendo a Maiorca, ma morì durante il viaggio.

Tommaso le Myésier (1336), amico e discepolo di Lullo, nell’ “Electoriam Remundi” (1325), già traspone le regole lulliane al campo cosmologico, adattando la tecnica della grande arte ad una completa esposizione del mondo; l’universo è rappresentato come un cerchio, in cui è compresa la sfera angelica, attorno alla quale roteano i vari cieli, e la sfera terrestre, su cui sono raffigurati simbolicamente i tre regni viventi (piante, animali, uomo), attomo alla quale sono le sfere degli altri tre elementi primordiali (aria, acqua, fuoco); dividendo questo cerchio dell’universo in nove segmenti, corrispondenti alle nove «dignitates» lulliane (*), e applicando le regole combinatorie secondo i questionari, si può ottenere qualsiasi conoscenza riguardante il cosmo.

Anche se l’aspirazione a una scienza di tutte le scienze e l’aspetto quasi magico della combinatoria lulliana, diedero luogo alla fine del sec. XIV e nel XV ad una vasta letteratura cabalistica (**), astrologica, alchimistica e magica, contrabbandata come opera di Lullo, la vera grande arte seguitò ad esercitare il suo fascino, come si può vedere nel “Liber creaturarum” di Raimondo Sabunde (***), che, a più di un secolo di distanza, si serve ancora del simbolismo e della descrizione cosmologica di Lullo come strumento per risalire dalla creatura al creatore, per ridurre tutte le conoscenze delle cose alla conoscenza dell’esemplare primo di esse.

E attraverso il Sabunde le dottrine lulliane influenzeranno Nicolò Cusano stesso e Montaigne, che tradurrà l’opera sabundiana (“Apologie de R. Sebond”, rettificandone il Prologo, censurato dal Concilio di Trento).

Parigi era stato, agli inizi del secolo XIV, il centro del lullismo, ma aveva conosciuto una fase negativa alla fine di questo secolo, per l’opposizione del tomista Nicola Eymeric e del Gerson. L’Eymeric (“Dialogus contra lullistas”) denunzia il realismo esagerato, il metodo della grande arte, le «rationes necessariae» dei misteri di fede; ma non era riuscito a far condannare dal papa Gregorio XI alcuno scritto o proposizione del Lullo.  

J. Gerson, nonostante la sua simpatia per la mistica del Lullo, scrisse contro la sua dottrina, e, poco prima del 1401, lo fece proibire dall’Università di Parigi.

Ma dopo il 1426 il movimento antilullista a Parigi era finito e l’influsso del Lullo si fece risentire in molti ambienti della nascente cultura europea e anche in quelli musulmani  (Alfonso Pompei in E.F. S., 1967).

 

 

 

*) Bonitas, magnitudo, aeternitas, potestas, sapietia, voluntas, virtus, vanitas, gloria.

**) I nomi di Dio o principi operativi (che sono quelli indicati nella nota precedente, indicati da Yates) considerati da Lullo sono  fondamentali nell’ebraismo, in particolare nel tipo di misticismo conosciuto come cabbalà-cabala che proprio in questo periodo andava diffondendosi con lo Zohar che si fondava sulle sephirot costituite dai principi operativi-nomi di Dio.

Una delle forme operative, consisteva nel combinare e ricombinare le lettere dell’alfabeto per formulare i nomi di Dio. Anche nel misticismo musulmano praticato da Mohidim (sufismo) si attribuiva grande importanza ai nomi di Dio.

***) Raimondo Sabunde (con diverse varianti, †1436) era anch’egli catalano e filosofo umanista, celebre per il testo “Liber de homine propter quae sunt creaturam seu naturae sex Liber de homine quem sunt creaturae aliae”, apparso col titolo “Theologia naturalis”(1480). Seguendo il metodo apologetico e il contenuto dell’arte lulliana, ritiene che la scienza di questo libro permetta di conoscere tutta la fede cattolica e di provarne la verità secondo la linea della antica tradizione seguita da Lullo,  per la quale unica è la verità e duplice è la sua rivelazione, una, data dal libro della natura e l’altra, dalla sacra Scrittura, con la sola differenza che per la interpretazione del primo libro si usa la ragione, per la seconda la fede (A.P. cit.).

 

 

 

I GIOIOSI UMANISTI

EROTOMANI E PAPALINI

 

 

I

l libro più fortunato e, in un certo senso, più fortunoso di POGGIO BRACCIOLINI (1380-1459) è “Facezie” [Facetiae], redatto via via frammentariamente tra il 1438 e il 1450, completato e riordinato per la pubblicazione nel 1450-1452.

L'autore, segretario della Curia romana, vi raccoglieva e variamente rielaborava, gli aneddoti gustosi, le storie oscene, i commenti mordaci che si tenevano in una stanza della Cancelleria, chiamata "Bugiale sive mendaciorum officina", alle spalle e a spese di preti, frati, cardinali e dello stesso pontefice, che Poggio aveva uditi durante i suoi viaggi o in piacevoli conversari e trascritti di volta in volta, con un gusto che si potrebbe quasi definire giornalistico.

Protagonisti degli aneddoti sono personaggi generici o uomini illustri dei secoli precedenti, come Pier delle Vigne, Urbano II, Federico II o personaggi noti nella precedente  novellistica, come il Gonnella o contemporanei, tra i quali Francesco Filelfo, la bestia nera di Bracciolini.

Scopo del libro è il riso e il sollazzo, e gli aneddoti, congegnati e narrati con stringatezza briosa, riflettendo oltre il temperamento dell'autore, anche, in modo suggestivo, la vivacità cruda, spregiudicata e sboccata, propria della società umanistica.

Del resto, scrive Bracciolini nel proemio a propria giustificazione, “non facevano così anche gli avi, ch'eran pur uomini gravi e saggi?”. Gli "imbecilli" potevano pensarla come volevano!

Vi è tuttavia nelle “Facezie” anche un proposito letterario, ché, mentre tutti alzavano il tono, Bracciolini volle, e non era facile impresa, piegare il latino alle "cose leggere"; di qui la “eloquentiae tenuitas”  (grave peccato per un umanista!) che egli difende contro gli strali di emuli e avversari.  

Appena edite, le “Facezie”  ebbero rapida diffusione in tutta Europa, e se ne fecero moltissime edizioni anche nel secolo seguente: furono, naturalmente, prese di mira dagli scrittori ecclesiastici, e definite “opus turpissimum”, “spurcitiarum opus”.
Lorenzo Valla (v. P.I) insorse con aspre note, ma il vecchio Bracciolini, spregiudicatamente, si consolava pensando alla fortuna del libro (Daniele Mattalla).

Poggio Bracciolini, aveva scritto nell'estate del 1415, una lettera in latino con titolo  I Bagni di Baden” ,  diretta al fiorentino Nicolò Niccoli.

Delle lettere di Bracciolini la lettera-descrizione dei Bagni di Baden è forse la più nota e ancor oggi quella di più gustosa lettura, per il gusto quasi giornalistico cui essa è informata e per la vivacità puntuale degli effetti realistici a cui il Bracciolini sa piegare il latino.

Il variopinto mondo della stazione balneare rivive in pieno nella sua prosa:  malati e falsi malati in cerca di svaghi e d'avventure, frati. preti e prelati in vacanza di serietà e anche di religione, gaiamente mescolati a piacevoli conversatrici o alle nude ninfe natanti: un clima euforico di oblii e di facili avventure, una serena licenza di carezze, una franca esposizione e mescolanza di nudi che sorprende piacevolmente l'umanista italiano.

La prosa della lettera preannuncia il latino duttile e sapido delle Facezie; qua e là qualche richiamo mitologico, di rito nella penna di un umanista, dà un elegante tocco ornamentale a un quadro così vivacemente realistico (Daniele Mattalla).

Di spirito polemico fu PIETRO ARETINO (1492-1556) nei “Ragionamenti”, di cui la prima parte (Capricciosi ragionamenti) fu pubblicata con la data di Parigi 1536 e la seconda (Piacevoli ragionamenti) con data di Torino 1556. Tali parti furono presumibilmente stampate a Venezia. L'opera venne raccolta in volume pure divisa in due parti con la data di Bengodi 1584, certamente stampata anch'essa a Venezia.

Fu soprattutto questo libro a creare la fama di un Aretino scrittore osceno. La prima parte è distinta in tre giornate: Nella prima la “Nanna in Roma” sotto una ficaia racconta ad Antonia la vita delle monache; nella seconda la stessa Nanna, nello stesso luogo del giorno prima, "cacciando il caldo col ventaglio delle ciance", racconta alla solita Antonia la vita delle donne maritate; nella terza dopo una merenda appetitosa la Nanna racconta alla sua amica la vita delle cortigiane.

La seconda parte è pure distinta in tre giornate: nella prima la Nanna insegna alla Pippa, sua figliola, a esercitare il mestiere di cortigiana, svelandogliene tutti i segreti e gli inconvenienti; nella seconda mostra alla figlia i tradimenti che fanno gli uomini "alle meschine che gli credono"; nella terza la Nanna e la Pippa sedendo nell'orto ascoltano la Comare e la Balia che ragionano dell'arte di far le mezzane.

In parecchie edizioni a cominciare da quella suddetta di Bengodi, con numerazione a parte, segue il "Piacevole Ragionamento del Zoppin, fatto frate, Lodovico puttaniere dove contenesi la vita e la genealogia di tutte le cortigiane di Roma": questo scritto, già apparso a Roma nel 1539, da alcuni critici moderni non è ritenuto originario dello scrittore.

L'argomento dei Ragionamenti è volta a volta, scabroso e crudamente rappresentato, ma la mirabile disinvoltura della narrativa, la ricchezza dello stile, i continui atteggiamenti e doppi sensi comici o di grande umorismo rendono questa famigerata opera una cosa viva, piena di estro sbrigliato, franco, lontano da ogni ipocrisia o pedanteria, e costituiscono una pittura perfetta e satirica del mondo corrotto e sensuale delle classi sociali più ragguardevoli del mondo romano cinquecentesco.

Come ha avvertito Bontempelli, nelle pagine erotiche aretinesche e in quelle che paiono più sfrenate, c'è un senso di moralità dato dal disgusto dell'accoppiamento sensuale e dal considerare la carne nella sua rapida corruttibilità e miseria (Ettore Allodoli).

L’Aretino, per la sua predisposizione alla dissacrazione, è stato considerato l’autore del libro de “I Tre impostori” di cui parliamo nella Scheda S., dedicata a questo argomento.

ANTONIO VIGNALI (1500-1559), segretario di Cristoforo Madrucci, governatore di Milano, aveva scritto (intorno al 1530)  il dialogo erotico-anedottico “Cazzaria”  e in vecchiaia, (1560) “La Floria”, commedia in prosa che racconta gli amori del gentiluomo fioreentino Fortunio e con la giovane Floria, e “Alcune lettere amorose” (1571), tra le quali una  lettera a proverbi, piena di sottintesi galanti che ottenne molto successo.

Aveva fondato l’Accademia senese degli Intronati alla quale partecipava MARCANTONIO PICCOLOMINI (1504-1579), anch’egli autore della “Cazzaria”, dialogo in prosa al quale partecipa con lo pseudonimo di Sodo, contro l’Arsiccio che rimprovera al Sodo la sua ignoranza, ma questo protesta: Io non me ne vergogno imperoché nei miei libri non sono scritte queste porcherie e la mia philosophia non tratta di cazzi e di culi; et non mi vergogno di non saperli, che io non ho fatto il fondamento dei miei studi nel culo o nella porta, ma in cose più perfette”. L’Arsiccio poi gli dimostra che i filosofi devono essere capaci di esaminare tutto, anche ciò che è basso e turpe e che la sessualità è un argomento altamente filosofico “La philosophia non è altro che cognitione delle cose naturali, onde essendo il cazzo cosa naturale et la porta et il fottere cose naturalissime et necessarie all’esser nostro”.

Altro membro dell’Accademia  era ALESSANDRO PICCOLOMINI (1508-1568), appartenente alla famiglia  di Pio II, divenuto in seguito vesvovo di Patrasso. con il nome accademico di “Stordito”, il quale pubblicò (1539) “La Raffaella”, dialogo delle belle creanze delle donne e licenzioso, tra la vechia ruffiana Raffaella e la giovane Margarita che la incoraggia a prendere un amante mentre il marito è in viaggio in Val d’Ambra.

Il libro è interessante per le usanze delle donne senesi che seguivano la moda di tingersi di rosa il viso e il petto, arrivando a imbellettarsi le gambe “e tutto quello che è loro”.

Sappiamo così che andavano a dormire con il viso spalmato di un impiastro di verderame e bianco d’uovo per far sparire le lentiggini; con il  resoconto dettagliato delle lozioni di bellezza, dei cosmetici, delle “imprese” di cui fregiavano le vesti per manifestare le loro intenzioni agli amanti (queste imprese erano fatte di nastri, frange, galloni di due, tre colori).

Alesandro Piccolomini, divenuto arcivescovo si distinse per la devozione e la carità verso i poveri. Fu uno dei primi a scrivere trattati filosofici in volgare  anziché in latino: quasi sempre gli autori erotici del Rinascimento sono uomini di questo genere (Sarane Alexandrian, “Storia della Letteratura erotica”, 1990, Editore Rusconi).

Gli argomenti indecenti erano fonte abituale dell’Accademia degli Intronati alla quale partecipavano personaggi della massima distinzione come il conte Achille d’Elci, detto l’Affumicato.  

Nella letteratura erotica del Rinascimento troviamo anche Enea Silvio Piccolomini, Pio II,  di cui parliamo nel sottostante paragrafo dei papi avidi e nepotisti.

 

 

E GLI UMANISTI

FRANCESI

 

 

A

nche la Francia, sull’esempio dell’Italia, aveva avuto i suoi umanisti erotici  con ANTOINE DE LA SALE  (1385 c.ca-1461) che era stato alla corte diLuigi II d’Angiò in Sicilia e successori e aveva viaggiato, sposando ad Arles, lui cinquantenne, una ragazza di quindici anni, Lionne Cèlerier de la Brosse;  divenne precettore  del principe Giovanni di Calabria, per il quale scrisse La Salade (1444), una raccolta di testi tra cui Le Paradis de la reine Sybille.

Scrisse poi Les Quinze joyes du mariage con il nome dell’autore sotto forma di indovinello, svelato da André Portier nel 1810. Le quindici gioie  del matrimonio sono divise in quindici capitoli, nel primo descrive le seccature del giovane che per accasarsi con la ragazza che frequenta, si copre  di debiti per le spese della festa nuziale; nella successiva parla delle voglie insensate della moglie incinta e la sua noia di padre di famiglia; nella quinta, l’esser fatto becco; nella sesta, la tirannia della moglie che vuole occuparsi degli affari del marito; nella settima, la moglie che pur rimanendo virtuosa considera il marito una nullità  sessuale; si giunge alla quindicesima, in cui l’autore in cui l’autore considera il più grande ed estremo dolore che esista fuor della morte, quella provocata da una moglie dissoluta che va a letto contutti gli uomini che incontra, con la complicità della madre e delle amiche.

La Sale lasciò la Corte di d’Angiò e divenne precettore dei tre figli di Luigi di Lussemburgo e scrisse (1456) il romanzo Le petit Jehan de Sain-ré. la storia di un  paggio che riceve l’educazione sentimentale da una vedova, la “Dame des Belles Cousines”. Egli la serve con ardore fino al giorno in cui si accorge che lo tradiva con un abate (cit. op. S. A.).

La Sale collaborò alle “Cent Nouvelles Nouvelles”, monumento della letteratura francese (stampate nel 1480, ma scritte circa venti anni prima). Ispiratore, Luigi XI quando era delfino e da Brantome sappiamo  che a tavola chi faceva il migliore e più licensioso racconto era il più festeggiato”; i narratori erano trentacinque e le novelle cinquanta sedici imitate da Poggio Bracciolini e quindici da Boccaccio.

La maggior parte vertono sugli appetiti sessuali delle donne: Un mercante di Arras un giorno sorprende la moglie con l’amante nudi sul letto e nascosto ascolta:- Lui le chiede per chi è questa bocca? Per voi amico mio ... e questi begli occhi? sempre per voi. E questa bella poppa ben sollevata non è forse per me? Sì in fede mia, e per nessun altro disse lei. Egli le mette la mano sul ventre e sulla porta su cui non vi era niente da ridire e le chiede: Per chi è questa, amica mia? Non c’è bisogno di domandarlo, sappiamo bene che è tutta roba vostra. Egli le mette poi la mano sul grosso deretano, e questo di chi è? E’ per mio marito, è la sua porzione, ma tutto il resto è vostro (cit.  Op. S.A).

Alla fine del sec. XV e nel corso. del XVI, acquista vitalità in seguito ai contatti italiani; frutto di questi contatti è già la poesia di C. MAROT (1496-1544); e più specificamente il gruppo della Pléiade, nel quale emersero PIERRE DE RONSARD (1524-1585) con  gli “Amours” e “Continuation des Amours” “Le livrets des folastries” (Il libretto degli scherzi, 1553) accusato dai calvinisti di Ginevra di corrompere i costumi (il poeta descriveva i giochi amorosi di un ragazzo con una fanciulla) e JOACHIM DU BELLAY (1525-1560).

Ma in questo periodo troviamo scrittori più vivi che ispirano o riflettono le lotte religiose e politiche del tempo, come GIOVANNI CALVINO e FRANCESCO DI SALES, AGRIPPA D’AUGIGÉ e gli ANONIMI DELLE SATIRE MENIPPEE: ETIENNE DE LA BÒETIE e JEAN BODIN.

Mentre nei salotti, si formava la leziosa letteratura innanzi indicata, ad essa si oppose il frigido FRANCIIS DE MALHERBE (1555-1628), seguito da FRANCOIS MAYNARD (1582-1646), contrastato da M. REGUIER.

Ma il sec. XVI francese, ebbe in ETIENNE DE LA BOETIE (1530-15639 il legislatore della sua lingua e in JAQUES AMYOT (1513-15939 che ne costituì  la ricchezza, dominato da due personalità potenti: FRANCOIS RABELAIS (1490-1553), che segna nettamente il passaggio della letteratura francese, dalla mentalità medievale alla moderna, e MICHELE DE MONTAIGNE (1533-1592), grande moralista e altrettanto grande scrittore negli “Essais”-Saggi.

GUILLAUME BAUDÉ, erudito umanista dalla prodigiosa memoria grazie alla quale si formò una vasta cultura nel campo della filologia classica, storia, scienze naturali, diritto, medicina e teologia. Fu segretario di Luigi XII e come bibliotecario di Francesco I creò la biblioteca che fu poi trasportata a Parigi formando il primo nucleo della Biblioteque Nationale. Tra le sue opere di vario genere: “Annotationes XXIV libros Pandectarum”; Libri V de asse et partibus eius”; “De contemptu rerum fortuitarum libri III”;  “Dell’educazione del principe”.

 

 

 

 

 

 

I PAPI

DA AVIGNONE

TORNANO A ROMA

 

 

C

ol ritorno dei papi da Avignone a Roma (1377), il papato ebbe un periodo di assestamento iniziato con lo scisma del 1378  fino alla elezione di papa MARTINO V (Ottone Colonna, 1417-1431) il quale, assumendo tutti i poteri e le prerogative papali, riorganizzò la curia per un fumzionamento più efficiente, ma non potè trovare altro modo per finanziarla, se non vendendo cariche e benefici.

Il suo successore EUGENIO IV (Gabriele Condulmer 1431-1437), si trovò ad affrontare il Concilio di Basilea (1431-1443) che proponeva la supremazia dei concili sui papi; Eugenio IV ordinò lo scioglimento del concilio il quale però, elesse l’antipapa Amedeo VIII duca di Savoia, col nome di FELICE V, (1439), (Durant); lo scisma sarebbe stato risolto con il concilio di Ferrara-Firenze (1417-1431) (v. Schede S. “Polemiche umanistiche tra platonici e aristotelici”) terminato il quale, una serie di papi innalzava il papato agli splendori del Rinascimento e la citttà di Roma in piena decadenza e in stato di abbandono (come oggi, trascurata dai Sindaci che non si decidono a liberarla definitivamente dalla immondizia che richiama i cinghiali che vi pascolano, con un termovalorizzatore (o marchingegno equivalente!):- Pensate, la capitale d’Italia, esposta al ludibrio mondiale...  e i romani invece di piangere, se la ridono!).   

 

 

 

I PAPI RINASCIMENTALI

CORROTTI

AVIDI E NEPOTISTI

ABBELLISCONO

ROMA IN DECADENZA

 

 

GLI ULTIMI PAPI  

DEL “1400”.

 

NICOLO’ V

 

 

I

l primo papa rinascimentale fu NICOLO’ V (Tommaso Parentucelli 1447-1455), il più degno per onestà. Superiore a Leone X per la protezione dedicata alla crescente cultura rinascimentale, restaurò il Pantheon di Agrippa, monumento dell’architettura romana; fondò la biblioteca vaticana con cinquemila volumi; accolse i dotti: le sue lettere erano scritte da Poggio Bracciolini; Giorgio di Trebisonda; Flavio Biondo; Leonardo Bruno; Giannozzo Manetti; Francesco Fidelfo e a gara gli erano dedicate opere che  remunerava generosamente . Durante il suo pontificato furono tradotte moltissime opere: l’Iliade, la Ciropedia, Erodoto, Appiano Alessandrino, Aristotele, Tolomeo, Platone, Teofrasto e i Padri della Chiesa.

Con tutti aveva mostrato generosità: gratificando Poggio Bracciolini per la versione del “Diodoro”, con generosa liberalità; a Lorenzo Valla per la traduzione di Tucidide pagò cinquecento scudi d’oro. A Francesco Fidelfo promise che se gli traduceva Omero gli avrebbe dato una bella casa in Roma, un podere e diecimila scudi; diede millecinquecento scudi al Guarino per la traduzione di Strabone; cinquecento al Perotti per Polibio; seicento scudi a Manetti se si fosse occupato di opere sacre e costruzioni di insigni palazzi a Spoleto, Orvieto, e a Viterbo dei bagni per gli infermi; a Roma fece restaurare le mura oltre a far riparare chiese cadute in rovina e si accingeva a riedificare s. Pietro, quando fu colto dalla morte.

Era stato un papa pacifico, che succedeva a un papa bellicoso (Eugenio IV), in seno alla Chiesa e raggiunse la pace con l’antipapa, assegnandogli la carica di cardinale decano rappresentante del papa in Germania, e reciprocamente revocarono le proprie scomuniche; mostrò la sua grinta nella repressione dei congiurati della congiura di Stefano Porcari.                

CALLISTO III

 

Lo seguì CALLISTO III, (Alfonso Borgia, 1455-1458) il primo papa ad aver inaugurato il  malcostume del nepotismo, concedendo ai parenti titoli e uffici e, gettando alle spalle ogni riguardo, ingrandì i suoi nipoti, facendoli venire dalla Spagna; in particolare i figli delle sorelle, Pedro, lo aveva creato duca di Spoleto, meditando, se la vita gli avesse concesso di vivere più a lungo, di insediarlo sul vacante trono di Napoli. e Rodrigo Llenzol, che aveva adottato, dandogli il proprio cognome Borgia  (probabilmente perché in Italia Llenzol o Llençol non appariva come cognome aristocratico, come voleva far apparire!), il quale giunse con la sua tribù di amante, Vannozza Cattanei (con marito) e figli Francesco, Cesare, Lucrezia e Joffré (un altro era probabilmente morto infante): Cesare, come secondogenito sarà nominato cardinale (abbiamo in gestazione un articolo su questi personaggi)..

Questi abusi indussero il successivo conclave a stabilire che il papa non potesse, senza l’assenso dei cardinali, tramutare la sede da Roma, conferire cappelli o vescovadi, far pace o guerra, alienare terre ecclesiastiche; ma la corruzione continuarà ugualmente!

Secondo il Platina, aveva fatto restauraree la chiesa di santa Prisca sullAventino e le mura della citttà che erano quasi tutte per terra. Dava spesso elemosine ai poveri; maritò molte vergini e sosteneva spese per i nobili caduti in povertà.

 

PIO II

 

PIO II (Enea Silvio Piccolomini, 1458-1464) dotto in lettere e diritto canonico, scrittore di poesie e dei celebri “Commentari”, povero in canne, da giovanetto era disponibile per chi amava quel genere di rapporti; del suo libro erotico se ne parla nell’altro paragrafo.

Dopo essere stato nominato pontefice, aveva esordito predicando bene,  mi propongo di cominciare col migliorare la morale degli ecclesiastici e col bandire ogni simonia e gli altri abusi”, ma razzolando male,  in quanto in soli sei anni di pontificato era riuscito a costruire a Pienza, sua città di origine, un palazzo rinascimentale per la propria famiglia che “gli era costato” (a suo dire, ma la spesa era a carico del tesoro di s. Pietro!)  una immensa fortuna”.

Aveva venduto l’investitura del reaame di Napoli a Ferdinando, bastardo di re Alfonso, (1459) in pregiudizio di René d’Angiò e di suo figlio Jean, duca di Calabria, con una somma di seicentomila scudi d’oro e la concessione del ducato di Amalfi per suo nipote Antonio Piccolomini, al quale Ferdinando aveva dato in moglie una delle sue sorelle e assegnato l’intendenza generale della giustizia di Napoli e Sicilia, arricchendo la sua famiglia e loro discendenti, per tutti i secoli a venire.

Descrisse la storia di Boemia, lo stato d’Europa sotto Federico, un ragguaglio della Germania e del Concilio di Basilea, ove stette con la opposizione. Sotto il nome di Giovanni Gobellini suo segretario, raccontò la propria vita continuata da Giacome, in questa città fece costruire la tomba per i suoi genitori.

Sostenne con vigore l’autorità papale e poiché da diplomatico l’aveva bersagliata e gli venivano rinfacciate le sue precedenti opinioni, con coraggio emanò la “bulla retractationnm” in cui ritrattava tutto ciò che aveva detto contro la potestà pontificia, principalmente contro Eugenio IV, sostenendo che era umano essere fallaci e che quanto aveva detto in precedenza era frutto di errore e non di ostinazione, ritenendo opportuno ritrattarlo, affinché non si attribuissero a Pio quelle che erano le opinioni di Enea  e cogliendo  l’ occasione per riassumere la sua vita.

Poiché era frequente che chi subisse delle censure da parte del papa, si appellasse al futuro Concilio e i re avevano la pretesa di nominare i propri vescovi, Pio II nel Concilio di Mantova, proibì come esecrabili questi appelli ai futuri Concilii; sebbene fosse malandato in salute, aveva in animo di comandare personalmente la crociata  contro i turchi, ma giunto ad Ancona spirò prima di imbarcarsi.

 

PAOLO II

 

PAOLO II (Pietro Barbo, 1464-1471), era figlio della sorella del papa Eugenio IV, Polissena Condulmer e aveva abbracciato la carriera del commercio, ma poi si diresse verso quella dello zio. Al momento della nomina gli fu chiesto quale nome volesse assumere, ed egli scelse quello di Formoso, ma gli fu fatto presente che i romani lo avrebbero accusato di puerile vanità e gli suggeritono il nome di Paolo che significava  “il  bello,” e decise per Paolo II.

Contrariamente alle promesse fatte ai cardinali prima delle elezioni, governava dispoticameneìte e quando Platina gli aveva chiesto se potesse presentare qualche osservazione sulla sua promessa, di non prendere alcuna decisione importante senza consultare il Sacro collegio, il papa rispose: “Così mi chiamate davanti a dei giudici? .... Non sapete che la mia decisione è immutabile e sacra? ... Io sono il papa e mi è permesso di abolire o approvare gli atti dei miei predecessori, secondo il mio buon piacere”. E lo fece mettere nudo in una prigione, esposto ai rigori dell’inverno, senza abiti e senza pane; successivamente accusato con falsi testimoni, Platina fu torturato alla presenza del papa; alla fine fu liberato su richiesta dell’imperatore Federico III, giunto a Roma per ricevere la quota delle decime.

Il papa aveva la singolare facoltà di versare le lacrime per convincere l’uditorio e Pio II lo chiamava “Nostra Signora della Pietà”. Aveva la mania per la medicina e componeva colliri e pillole che mandava agli amici malati. Era talmente vanitoso della bellezza del suo viso, che passava ore a ricoprirlo di carminio e fard. Amava le pietre preziose e Platina racconta che aveva raccolto da ogni parte diamanti e smeraldi con cui aveva fatto tempestare la sua tiara, da sembrare un sultano turco, il cui valore era superiore al costo di un palazzo; e quando la indossò corse il rischio di avere un colpo di sangue  e sotto il suo peso stava per morire (Platina Vita Pauli II).

Vanitoso, si era rifiutato di fare esporre il sudario di Cristo,  per non distrarre i fedeli dalla sua persona; amava i giovani, ragazzi  e ragazze di cui aveva riempito il Vaticano (per Infessura era sodomita: amator pueri et sodomita); amava anche la buona tavola e le pietanze più ricercate ... da morire per una poco gloriosa  indigestione di melone.

 

 

SISTO IV

 

SISTO IV (Francesco d’Albexola, poi della Rovere, in quanto assunto come figloccio dalla famiglia della Rovere, 1471-1484) nato da numerosa  famiglia disagiata, dal punto di vista morale si era mostrato peggiore di Alessandro VI; la sua reputazione era di essere il più infame dei cardinali che potessero esservi; sostenuto dai cardinali Romano Orsini, Gonzaga di Mantova e Rodrigo Borgia, che lo elessero papa, furono ricambiati con gemerosità e ricoperti di onori e benefici e a furia di coprire di ricchezze i figli delle sorelle, aveva svuotato le casse del Vaticano.

Quando era cardinale, aveva deflorato ciascuna delle sue sorelle e aveva rapporti incestuosi con i figli avuti dalla sorella maggiore (Maurice la Chatre, Histoire des papes, 1843). Ebbe l’impudenza di pubblicare una bolla in cui dichiarava che i nipoti e figli bastardi dei papi avessero il titolo di principi romani; in conseguenza di ciò i suoi due figli bastardi, Girolamo e Pietro Riario assunsero il rango di principi.

Pietro Riario oltre al cappello cardinalizio, ottenne una pensione annuale di un milione cinquecentomila scudi d’oro, cifra enorme per quel tempo, ma appena sufficiente per mantenere la sua amante Teresa Fulgora che si era lasciata andare a tutte le dissolutezze romane e aveva preso una malattia venerea con la quale aveva infettato l’amante.

Pietro morì coperto di piaghe orrende e spaventevoli ulcere. Girolamo che era stato creato principe di Forlì e di Imola, fu più fortunato del fratello nei suoi amori, avendo sposato la figlia naturale del duca di Milano.

Sisto IV, aveva fondato diversi nobili lupanari, come racconta Cornelio Agrippa (La Chatre cit.), che erano sotto la sua protezione e ciascuna prostituta era tassata con un  giulio d’oro per settimana, che gli rendevano  ventimila ducati l’anno.

Come opere pubbliche  fece aprire la strada che da Castel Sant’Angelo  porta a  s. Pietro (Borgo S. Angelo); eresse la Cappella Sistina (dove lavorarono alle pareti laterali  il Perugino, Pinturicchio, Botticelli, Cosimo Rosselli, Signorelli, Ghirlandaio, mentre la volta e la parete di fondo era stata dipinta da Michelangelo); fece costruire il  ponte sistino e l’ospedale di S. Spirito;  arricchì la biblioteca vaticana  di libri fatti raccogliere da tutte le parti d’Europa e fece nominare bibliotecari scrittori latini, greci ed ebrei (Platina, Pomponio Leto, Melozzo da Forlì); protesse artisti e letterati accogliendoli nella sua corte.

Quando morì il suo cadavere era divenuto tutto nero da non potersi guardare per l’orrore ed emanava un fetore che nessuno dei preti e monaci voleva restargli vicino per pregare. Alla sua morte il popolo romano (come d’abitudine a ogni morte di papa)  riversò il suo odio verso Girolamo Riario, che era già fuggito con i suoi tesori, e andò a saccheggiare il suo palazzo distruggendo le bellissime colonne di porfido e le statue di marmo e capitozzando finanche i secolari alberi che ombreggiavano i bellissimi giardini e successivamente si era recati al castello del Giubileo, così chiamato in quanto acquistato con le offerte dei pellegrini per l’ultimo giubileo, che fu dato alle fiamme.

 

INNOCENZO VIII

 

INNOCENZO VIII (Gian Battista Cibo 1484-1492) su ventisei voti, egli, cardinale di san Marco, ne aveva sedici e le trattative erano durate tutta la notte precedente alla elezione; il cardinale di san Pietro in Vincoli  avrebbe portato tre voti se gli avesse concesso il palazzo nei pressi di Castel sant’Angelo, ma gli fu rifiutato dal cancelliere del Cibo, cardinale di Melfi.

Svegliati i cardinali nelle loro celle, proposero a Savelli di vendere loro il castello di Monticelli, con la promessa della assegnazione della legazione di Bologna; offrirono a Colonna il castello di Ceperani con la legazione del patrimonio di san Pietro, una rendita di venticinquemila ducati e l’ulteriore beneficio di settemila ducati di rendita; assegnarono al cardinale Orsini una vendita, a buone condizioni, del castello di Servaterra e un trattato che gli assicurava la legazione della marca di Ancona con il titolo di Intendente generale di palazzo e tesoriere della santa sede. Promisero a Martinusio il castello di Capranica e il vescovado di Avignone; lasciarono al figlio del re di Aragona, in piena proprietà, la villa di Pontecorvo; garantirono al cardinale di Parma il godimento del palazzo di san Lorenzo in Lucina con le rendite ad esso collegate; promisero al cardinale di Milano di nominarlo arciprete di san Giovanni in Laterano e concedergli la legazione di Avignone; infine, il cardinale di san Pietro in Vincoli si riservò, per sé, la signoria di Fano con cinque terre vicine e il grado di generalissimo delle armate della santa sede. A questo modo il cardinale di Melfi ottenne la maggioranza dei voti e Innocenzo VIII fu proclamato papa.

Nato a Genova, i parenti greci durante la sua infanzia lo avevano messo presso la corte del re Alfonso ed essendo dotato di bella presenza era stato avviato a pratiche viziose; più tardi era passato al servizio del cardinale Filippo Calendrin che lo aveva fatto suo favorito e grazie all’appoggio di questo protettore, si era elevato alle più alte cariche ecclesiastiche. Quando giunse al pontificato aveva sedici bastardi e riuscì ad ottenere da Ferdinando di Napoli la nomina di principe per il primogenito.

Il Gran Maestro d’Aubusson si era recato a Roma per consegnare Zizim al papa (v. in Art. “Sventure di Gem sultan, detto Zizim”), e Bajazet aveva mandato i suoi ambasciatori per prendere accordi con il papa relativamente a Zizim, il quale colse l’occasione, col pretesto della crociata contro i turchi, per ottenere da Bajazet oltre a nuovi sussidi, anche le truppe, tutte le volte che ne avesse avuto bisogno.

Innocenzo VIII colse anche l’occasione  per convocare un concilio generale a Roma (1489) dove da ciascun reame erano giunti ambasciatori e vescovi dalla Francia, Germania, Spagna, Ungheria, Boemia, Polonia e Inghilterra e il papa ne approfittò per raccogliere annate, rendite, fare collette, vendere indulgenze, concedere dispense e privilegi; mai era stato raccolto tanto danaro con la predicazione della crociata, questa volta dovuta alla presenza di Zizim.

Bajazet oltre a ricchi presenti in oro e argento fece dono di trenta bellissime schiave circasse per il papa e per i cardinali; e oltre a questi doni Bajazet fece omaggio al papa di centosessantamila scudi d’oro per le spese di mantenimento di Zizim. Non solo. Ma anche il sultano d’Egitto aveva inviato a Innocenzo quattrocentomila ducati e gli avrebbe lasciato in piena proprietà per i cristiani. la città di Gerusalemme, impegnandosi a lasciare al papa tutte le conquiste  che sarebbero state fatte a Bajazet, compresa la stessa Costantinopoli.

L’intenzione del sultano d’Egitto era di mettere a capo delle truppe  Zizim per togliere dal trono Bajazet, suo terribile nemico. Innocenzo accettò anche i regali del sultano d’Egitto e promise di inviare il principe Gem (Zizim) al Cairo non appena possibile, congedando gli ambasciatori. Sebbene questi negoziati fossero coperti dal segreto, il capo della delegazione turca apprese che sua santità aveva promesso di rendere la libertà a Zizim, previo pagamento di un enorme riscatto; egli quindi rincarò la dose promessa dagli egiziani, offrendo al papa seicentomila scudi d’oro perché permettesse di avvelenare il fratello del sultano (La Chatre, Histoire des Papes, 1843).

A questo punto, la vita del papa giungeva al termine: il 25 luglio 1491 aveva un attacco apoplettico e il medico ebreo per rianimarlo gli fece una trasfusione di sangue (sembra la prima che fosse stata tentata) di tre bambini di dieci anni, ai quali aveva trasfuso il sangue del papa, senza ottenere alcun risultato, se non la morte dei tre ragazzi i cui  genitori furomo risarciti. Morto Innocenzo VIII, le trattative relativamente alla morte di Zizim proseguirono con il suo successore Alessandro VI (v. cit. art.).

 

ALESSANDRO VI

BORGIA

 

ALESSANDRO VI (R0drigo Borgia, 1492-1503) aveva regnato per soli cinque anni, ma il suo nome ha attraversato i secoli; da Vannozza Cattanei aveva avuto cinque figli (Francesco, Cesare, Lucrezia, Goffredo, del quinto non si conosce il nome in quanto, probabimente morto nell’infanzia); nominato cardinale dallo zio papa Callisto III, gli amori dei prelati più o meno clandestini, all’epoca erano tollerati; ciò che offendeva era la sua diplomazia spregiudicata e la spietata tattica militare del figlio Cesare usata per appropriarsi degli stati pontifici. Aveva nominato il suo primogenito  Francesco, duca di Candia e principe di Bnenevento; di questi titoli voleva appropriarsene Cesare, che faceva assassinare il fratello.

Le dure parole di Sismondi corrispondevano esattamente alla verità; lo storico definisce la elezione del papa “scandalosa, e che nel quindicesimo secolo, a capo della Chiesa si trovava l’uomo più disonesto della cristianità; questo prete - prosegue Sismondi -  di cui né il pudore frenava le dissolutezze, né la fede garantiva le promesse, né la giustizia teneva a freno la politica, nè la compassione moderava le vendette e che non pertanto pretendeva ancora di essere il difensore della fede e il vendicatore delle eresie, non aveva delle cose della religione di cui era sommo pontefice, maggior riverenza delle umane cose, e scandalizzava i fedeli non meno colle sue decisioni, contrarie alle leggi della Chiesa che colle sue opere. I divorzi dei principi, i voti dei prelati, i tesori destinati dai cristiani per la guerra santa, tutto per lui era secondario alla politica, tutto veniva da lui posposto al più tenue vantaggio temporale di sé medesimo o del proprio bastardo” .        

Questo papa molto discusso, che si era trovato a regnare a fine secolo, era divenuto famoso, come lo erano divenuti i più stretti membri della famiglia: Cesare, Lucrezia e Vannozza Cattanei, ai quali era stata attribuita una personalità diabolica.

Alessandro alto, bello (in giovinezza, non nella maturità aveva perso la linea, come ce lo mostrano le riproduzioni pittoriche, perché all’epoca i ricchi mangiavano a sazietà!) di belle maniere, fu nello stesso tempo grande papa e uomo scellerato, come di papi scellerati non ne erano mancati. Ma si era fatto perdonare le sue scelleratezze perché era stato uomo brillante e geniale, insomma un grande papa che suscita ancora sentimenti di ammirazione.    

Secondo Guicciardini, “di solerzia e sagacia singolari, consiglio eccellente, efficacia a persuadere, meravigliosa e a tutte le faccende gravi, sollecitudine e destrezza incredibili. Ma queste virtù erano superate da grande intervallo di vizi: non fede, non religione, avarizia insaziabile, ambizione immoderata, crudeltà più che barbare, ardentissima cupidità di esaltare in qualunque modo i figliuoli”.

Machiavelli (che probabilmente dubitava della sua genialità) cinicamente scriveva di lui  che “tra tutti i papi esistiti, Alessandro VI aveva mostrato  come un papa potesse prevalere col denaro e con la forza e benché il suo intento non fosse stato di far grande la Chiesa,  ma il (figlio) duca (Valentino), nondimeno ciò che fece tornò tutto per la grandezza della Chiesa, che dopo la sua morte e quella del duca, ne ereditò tutte le conquiste”.

Alessandro VI era stato il papa che aveva chiuso un secolo e  la vigilia di Natale del 1499,  sotto un mantello d’argento, al battere di tre colpi col martelletto, apriva la porta santa, inaugurando il Giubileo del nuovo secolo e nonostante fosse la vergogna della cristianità,  duecentomila pellegrini erano ugualmente affluiti a Roma e le ricchezze che essi avevano portato, erano tutte  finite negli scrigni del papa.

Il papa Alessandro, con il figlio, per errore dei portaori di vino, gli avevano versato vino della bottiglia avvelenata, destinata ai cardinali commensali (1503:), e mentre il papa preso da febbre e vomito moriva gonfiandosi, diventando tutto nero, il figlio Cesare aveva avuto gli stessi sintomi ma riusciva a superare la crisi. Si era pensato all’avvelenamento poiché il cadavere del papa si era gonfiato ed annerito ed era andato subito in putrefazione. Secondo alcuni storici, la morte per avvelenamento sarebbe stata infondata e il papa sarebbe morto di malaria. Ma la malaria non è caratterizzata dal vomito e dalla morte improvvisa, essendo invece preceduta da accessi febbrili intermittenti  (terzana, quartana) anche di lunga durata.

Cesare l’anno successivo, con l’entrata di Consalvo in Napoli, poiché aveva sostenuto i francesi, pensando di salvarsi, si era consegnato a Consalvo, il quale per ordine di Ferdinando il Cattolico, lo manderà, prigioniero in Spagna, da dove Cesare riuscirà a fuggire e morirà  nel 1507 combattendo per il re di Navarra.

Avranno così fine tutte le ignominie e gli orrori commessi da questi due principali esponenti dei Borgia. 

 

 

I PAPI

DELLA PRIMA META’

DEL “500”

 

PIO III

 

P

IO III (Francesco Todeschini Piccolomini, 1503) senese di nascita. Il suo pontificato era, durato appena ventisei giorni dalla sua elezione. Anche questa morte fu attribuita al veleno che gli sarebbe stato propinato da Pandolfo Petrucci, signore di Siena, che il papa considerava usurpatore e tiranno della sua città.

 

GIULIO  Il 

 

GIULIO  Il  (Giuliano Della Rovere, 1503-1513), nominato cardinale dallo zio Sisto IV (1471), quando fu eletto papa trovò la Chiesa ingrandita con l’acquisizione della Romagna e tutte le fazioni che spadroneggiavano a Roma, domate da Cesare Borgia; trovò anche la via aperta all’accumulo del danaro, con la vendita delle indulgenze (che secondo Machiavelli si sarebbe verificata con Alessandro VI).   

La sua attività politica mirò a rafforzare il potere della Chiesa e l'autorità papale.

Partecipò attivamente alle lotte politiche in ltalia. Nel 1508  promosse la lega di Cambrai contro la repubblica di Venezia. Nel 1511 formò con Spagna, Venezia e Inghilterra  la Lega Santa contro i francesi, che furono costretti ad abbandonare l'ltalia settentrionale.

Guerriero, ambizioso ed energico si dedicò alla riforma interna della Chiesa e alla riorganizzazione degli ordini religiosi. Risanò le finanze ecclesiastiche con una serie di efficaci misure fiscali, rafforzò le strutture amministrative, eliminando ogni elemento  che potesse sminuire o minacciare l'autorità papale. Riordinò il funzionamento della giiustizia.

Dopo essersi appropriato di Perugia e Bologna egli voleva riavere anche le città romagnole di Faenza e Rimini, occupate da Venezia e da questa tolte al duca Valentino e Venezia non voleva restituirle. Giulio II fu fortunato perché gli venne in aiuto la Lega di Cambrai (1508) costituita dall’imperatore Massimiliano, da Luigi XII, dal re di Spagna e dal duca di Ferrara nella quale entrerà anche il papa. Venezia vistasi alle strette, restituì le due città.

Uomo di grande cultura, fu un papa rinascimentale, umanista e mecenate, protettore delle arti e delle lettere. A Roma, diede impulso alla costruzione e al restauro di palazzi  ed edifici religiosi, la cui esecuzione fu affidata ai grandi artisti del momento come Bramante, Michelangelo, che eseguì il suo monumento sepolcrale in S. Pietro in Vincoli, e Raffaello. Ordinò la costruzione della nuova basìlica  di S. Pietro e del  Palazzo del Vaticano.

Giulio II aveva ordinato a Michelangelo una sua effige in bronzo, collocata nella chiesa di s. Petronio a Bologna, essa però sarà successivamente abbattuta quando Alfonso d’Este riprese la città, facendo fondere il bronzo ebricavando un pezzo d’artiglieria a cui fu dato il nome di “la Giulia”.

La passione che Giulio II aveva per l’arte, fece sì che nel Belvedere fossero raccolte le statue di cui facevano parte l’Apollo, scoperto ad Anzio e il gruppo del Laocoonte scoperto nelle terme di Traiano.

Bramante fu incaricato della basilica vaticana. Michelangelo eseguì (1508-1512) gli affreschi della cappella Sistina e fu incaricato del monumento sepolcrale del papa, ma alla morte improvvisa del papa, Michelangelo aveva realizzato solo la sua statua.

Raffaello, che all’età di ventun anni aveva dipinto lo “Sposalizio della Vergine”, chiamato dal papa a Roma (a venticinque anni) dipinse gli affreschi della “Stanza della Segnatura” e della  Stanza di Eliodoro”, esprimendo tutta la bellezza della sua arte. 

LEONE X (Giovanni de’ Medici 1513-1521), figlio di Lorenzo il Magnifico, per finanziare la costruzione della basilica di San Pietro, dava impulso (1514) alla vendita di indulgenze in tutta Europa. Con la bolla “Exsurge Dominae” Leone X prende posizione contro Lutero che aveva criticato apertamente le indulgenze (1517), e successivamente (1520) lo condanna come eretico con la bolla “Decet Romanum Pontificem” (Conviene al romano pontefce). Da buon fiorentino era sarcastico e giocoso.

Era stato il primo dei papi del periodo in cui Carlo di Borgogna (poi Carlo V), alla morte di Ferdinando il Cattolico (1516), era stato nominato re dei regni di Spagna, Napoli e Nuovo mondo, e nel 1519 era stato eletto imperatore.

Giulio II era stato anche il primo papa ad aver avuto rapporti col nuovo re di Francia, Francesco I, che sarà il nemico di tutta la vita di Carlo V (anche quando aveva sposato la sorella), al quale il papa aveva concesso (1515) Parma e Piacenza, oltre alle provvigioni di 93 diocesi e di 557 abbazie del regno, privilegio che rimase in vigore fino alla Rivoluzione francese.

Quando nel 1519 moriva l’imperatore Massimiliano e si doveva procedere alla elezione del nuovo imperatore, il papa appoggiò apertamente Francesco I, ma in cuor suo si augurava che tra i due concorrenti vincesse Federico di Sassonia. Come abbiamo visto vinse Carlo corrrompendo gli elettori, meno uno, distribuendo ottocentotrentamila fiorini (cifra pazzesca: corrispondente a dieci quintali d’oro puro).

Eletto Carlo, il papa non si perse d’animo. Dimostrando di appoggiare Carlo, eliminò il divieto all’unione del Regno di Napoli all’impero e, avendo Carlo dichiarato che avrebbe difeso la religione degli antenati e avrebbe estirpato l’eresia di Lutero, Leone X si dichiarò suo alleato e dichiarò che avrebbe unito le sue forze a quelle di Carlo per cacciare i francesi da Milano e da Parma e Piacenza (che egli stesso aveva concesso a Francesco I !) e avrebbero insieme combattuto gli eretici e i turchi.

Dopo tutti questi bei propositi, alla notizia che gli eserciti, pontificio e imperiale, erano entrati in Milano (1521), il papa che si trovava nel castello della Magliana per assistere, dalla finestra allo spettacolo dei fuochi d’artificio che gli erano stati preparati dalla Guardia svizzera, a causa del freddo, ogni tanto andava a riscaldarsi al caminetto; ma fu colpito da febbre e la notte del primo dicembre morì all’età di quarantasei anni.

Era stato anch’egli un mecenate anche se in tono minore rispetto a Giulio II. Aveva anch’egli sperperato il tesoro di s. Pietro mantenendo una corte sfarzosa dedita a feste e cacce. Raffaello aveva continuato a dipingere presso la Corte papale fino alla morte, avvenuta un anno prima di quella del papa, a trentasette anni.

 

ADRIANO VI

 

ADRIANO VI (Adrian Florensz d’Utrecht 1522-1523), fiammingo, sarà l’ultimo papa straniero: da questa elezione fino a Giovanni Paolo I (Albino Luciani, ultimo papa sospettato di essere stato avvelenato), i papi saranno tutti italiani.

Come abbiamo visto, era stato il precettore di Carlo V. Non aveva mai avuto rapporti con la Curia ed era sconosciuto agli ambienti romani. Da vescovo di Tortosa fu promosso cardinale di Utrecht e poi eletto papa; l’elezione durava da otto giorni, alla fine un cardinale che parteggiava per Carlo V, fece presente che Adriano, essendo stato precettore dell’imperatore, ne potevano derivare dei vantaggi e fu eletto Adriano che volle mantenere il suo nome; ma i romani che volevano un papa italiano, accolsero l’elezione con fischi e insulti; anche i preti italiani si dichiararono contrari a questa elezione e le statue di Pasquino e Marforio si sbizzarrirono in epigrammi violenti e audaci, da fargli venire il desiderio di farle buttare nel Tevere; ma il duca di Sessa, ambasciatore di Spagna, lo dissuase e le statue rimasero al loro posto.

Adriano giunto a Roma trovò che le casse delle finanze erano vuote, lo stato ecclesiastico era in stato di spaventosa anarchia; la simonia, la corruzione, i furti e gli assassini erano passati nei costumi degli ecclesiastici; il patrimonio di san Pietro era minacciato dai duchi di Ferrara e di Urbino e dai Malatesta;  l’Italia era alla vigilia di una guerra tra Francesco I e Carlo V, e la Germania e la Svizzera erano separate dalla comunione di Roma.

Egli nominò due prelati, Gian Pietro Caraffa e Marcello Gaetano da Tiene, che cominciarono a togliere ai frati minori il privilegio delle indulgenze; a sopprimere il traffico delle cariche e degli uffici presso la corte romana, a diminuire le tasse della dataria, a installare una commissione per la distribuzione dei benefici vacanti agli ecclesiastici, la cui condotta doveva essere giudicata esemplare; lo stesso pontefice aveva tentato di ridimensionare la lussuosa vita della corte pontificia e aveva detto ai cardinali che il denaro del popolo serviva per governare la Chiesa e che Dio lo aveva scelto in qualità di padre dei fedeli e lui non sarebbe mai stato il suo oppressore, e aveva dato l’esempio, rifiutando un importante incarico per un suo nipote che guadagnava sessantun ducati d’oro, che egli riteneva sufficienti per vivere.

Ma nonostante tutti gli sforzi del pontefice lo stato delle cose rimaneva allo stesso punto in quanto i cardinali facevano rilevare che i tempi apostolici erano oramai passati.

Ma, una nuova idea si impossessò del papa che sospese questi suoi progetti e fu preso da quella di un movimento che avrebbe cambiato gli stessi presupposti  della religione sulla base della nuova dottrina introdotta da Lutero.

Aveva quindi deciso di recarsi in Germania per studiare la riforma e ribaltare l’edificio teocratico e introdurre nella Chiesa il vero culto della religione di Cristo. Ma da tutte le parti si levò un movimento contrario ad Adriano, di preti simoniaci, atei, usurai e sodomiti, i quali si mostrarono contrari e ostili al pontefice e per evitare che fossero emesse delle bolle e meditarono l’assassinio.

Un primo tentativo, fu compiuto da un prete di Piacenza di nome Mario, che tentò di assassinarlo con un pugnale e ne fu impedito dal vestiario del papa e fu subito arrestato; anche un secondo tentativo, della volta della cappella che doveva crollare mentre celebrava la messa, colpì sei o sette persone che lo precedevano.

Un mattino del mese di settembre fu annunciato che il papa era malato e tre giorni dopo (14 settembre 1523) il papa era morto: i sacerdoti non si presesero la briga di dissimulare le cause della morte; durante la notte avevano messo ghirlande e corone di fiori davanti alla porta del suo medico, scrivendo a grosse lettere:  Al liberatore della patria”.  Il cardinale Pallavicini fece un singolare elogio: “Era un uomo pio, saggio, disinterssato, che voleva sinceramente il bene della religione; nondimento è stato un papa eccessivanente mediocre perché non conosceva le flessibilità dell’arte del regnare e non aveva saputo adeguarsi ai costumi della corte romana. Un pontefice come lui – agginse – che aveva dimenticato il sangue e la carne, non poteva che mal dirigere la Chiesa!” (Maurice la Chatre, Histoire des papes, 1843).

CLEMENTE VII (Giulio de’ Medici 1523-1534), non appartenente alla schiatta di Leone X; era infatti figlio bastardo di Giuliano de’ Medici, assassinato nella cospirazione de’ Pazzi (v. in Specchio dell’Epoca: “La cacciata da Firenze di Piero de’ Medici e l’assassinio di Alessandro” ecc.) e di una giovane ragazza di nome Floretta Govini o secondo altri figlio dello stesso papa e di una Simonetta da Collevecchio, probabilmente mora, da cui Alessandro avrebbe preso il colore della pelle e perciò detto “il Moro”; il papa si era ripromesso di ricostituire la potenza dei Medici dando una degna sistemazione ai nipoti Alessandro e Ippolito, anch’essi bastardi e facendo sposare la nipote Caterina con il figlio di Franceso I, Enrico (v. in Articoli: Diana di Poitiers ecc). Aveva fatto accompagnare a Firenze, Alessandro, dal ministro imperiale Giannantonio Muscettola e presentato alla signoria con decreto imperiale (del 1530), che confermava le antiche libertà, a condizione che Alessandro fosse, per sé e per i discendenti, preposto al reggimento  della città (non si doveva usare il termine repubblica!) come erano stati precedentemente i Medici (1527). Quindi, Alessandro sposava Margherita d’Asburgo (1536), figlia anch’essa naturale dell’imperatore ma poco dopo era assassinato a causa del suo governo tirannico da un sicario di Lorenzino de’ Medici (1537).

Alla sua elezione aveva contribuito il cardinale Pompeo Colonna, al quale il papa aveva donato  il bellissimo palazzo edificato da Raffaele Riario e avuto alla sua alla sua morte, dal papa Giulio III.  I suoi undici anni di papato erano stati ricchi di avvenimenti nei suoi rapporti con Carlo  V; Roma aveva subito il saccheggio da parte dei Lanzichenecchi (1527); dopo essersi rappacificato con l’imperatore (1529), era stato firmato un trattato in base al quale Ippolito de’ Medici era nominato cardinale, mentre Alessandro (n. 1510) rientrava a Firenze (1531). Inoltre Clemente VII aveva fatto sposare la nipote Caterina con il figlio di Francesco I, Enrico (v. Art. Diana di Poitiers evv.) e si era dovuto occupare della causa di divorzio di Enrico VIII d’Inghilterra da Caterina d’Aragona (v, Art, L’inghilterra dei Tudors).

 

PAOLO III FARNESE

 

Alla sua morte era eletto papa PAOLO III (Alessandro Farnese, 1534-1549), considerato dai suoi avversari peggiore di Sisto IV, di Alessandro VI e di Leone IX, non solo per aver avuto rapporti incestuosi con sua sorella Giulia, amante di Alessandro VI e con la figlia naturale Costanza, ma di aver abusato anche dei figli maschi (questa diffusa pedofilia nelle sfere cattoliche che ha fatto scalpore ai nostri tempi, è ramificata nei vari continenti: la psichiatria non si decide a darci dei lumi sul perché essa avvenga in via pandemica nelle sfere ecclesiastiche! ndr.).

Dalla figlia Costanza, aveva avuto il figlio Ascanio Sforza di Santafiore, nominato cardinale a sedici anni e Alessandro Farnese, fatto cardinale a quattordici anni; due altri figli, Paolo e Ranuccio non vissero a lungo; gli altri erano Pier Luigi, Alessandro e Ottavio Faarnese.

Nominò duca Pier Luigi, elevando a ducato (1545) le città di Parma, Piacenza e Guastalla, che appartenevano alla Chiesa; Pier Luigi aveva anch’egli devianze sessuali, e faceva rapire dei fanciulli dalle strade di Roma, usandoli per le sue dissolutezze e poi li faceva buttare nel Tevere; alcuni, per qualche riguardo nei confronti delle famiglie,  erano a queste restituiti, ma malati, per malattie trasmesse, morivano poco dopo.

Il padre lo aveva nominato Gonfaloniere del Vaticano e Pier Luigi si recava a visitare i luoghi soggetti alla Chiesa; poiché era ospitato nei monasteri, si faceva mostrare i novizi, tra i quali sceglieva quelli che la notte dovevano rimanere con lui.

Recandosi a Faenza (Sismondi indica la città di Fano), si era recato a riceverlo, il giovanissimo vescovo Cosimo Gheri, di ventun anni, di singolare bellezza, del quale  Pier Luigi si era invaghito e durante il percorso gli aveva velatamente fatto delle proposte, che il giovane vescovo non aveva capito.  

Pier Luigi, tratto in disparte il governatore di Faenza, che era stato monaco, bandito per turpitudini, gli aveva chiesto di aiutarlo nelle sue scellerate intenzioni. A questo punto il governatore dispose che il corteo, invece di andare verso la chiesa, si dirigesse verso il palazzo che doveva ospitare Pier Luigi; quando il vescovo varcava la soglia della sala d’onore, furono rinchiuse le porte in modo che il vescovo, diviso dal resto della compagnia, rimanesse solo. Pier Luigi cercò di convincerlo a corrispondere alle sue intenzioni, ma il vescovo sebbene gracile e delicato, si rifiutava vigorosamente. Pier Luigi chiamò in aiuto i suoi, i quali chiusagli la bocca e strette con corde, mani e piedi, mentre Giulio Piè di Luco e il conte di Pitigliano gli tenevano i loro pugnali alla gola, il figlio del papa, laceratigli le vesti sacerdotali, lo violentò. Il giovane vescovo morì dopo quaranta giorni e i luterani  dicevano che i papisti avevano inventato un nuovo supplizio per fare martiri e santi.

Paolo III da pari vizioso qual’era, non dette peso allo scandaloso comportamento del figlio, definendolo “un trascorso giovanile”, e gli inviò una lunga bolla in modo da sottrarlo a possibili conseguenze o pene giudiziarie.   

Il papa continuava a provvedere al benessere dei nipoti: dal matrimonio con Girolama Orsini, Pier Luigi aveva avuto, Alessandro, nominato cardinale, Ottavio, Orazio che sposava Diana, figlia naturale di Enrico III di Francia e riceveva in appannaggio il ducato di Castro; Ranuccio, quartogenito, che non ancora quindicenne fu nominato cardinale (i cardinali nominati da Paolo III furono più di settanta); e Vittoria, che sposava il duca di Urbino.

Poiché il papa voleva avere un potente partito nel Sacro Collegio, nominò cardinali due suoi figli naturarli, Rinaldo Capo di Ferro e Crispo, che si diceva fossero anche suoi favoviti; tra costoro divise i redditi della vicecancelleria del camerlengo e penitenzieria maggiore (cit. La Chatre).

Dopo l’assassinio di Pier Luigi, il papa nominò Ottavio, secondogenito di quest’ultimo, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, affidandogli il comando delle truppe pontificie per dargli la possibilià di difendersi; ma si rese conto che questo nipote era un inetto e nominò generalissimo Camillo Orsini, richiamando il nipote a Roma; questo, per vendicarsi si era rivoltato contro Orsini e non essendo riuscito nell’impresa, aveva preso contatti con Ferdinando Gonzaga, duca di Milano, per passare dalla parte dell’imperatore, ciò che procurò al papa estremo dolore, da farlo cadere più volte in deliquio. 

Il papa, ripresosi, scrisse un Breve con cui riconfermava  il ducato a Ottavio, purché avesse lasciato il partito dell’imperatore. Questo documento lo aveva affidato al vescovo di Pola il quale lo tenne in serbo fino alla morte del papa (1549); ma il nuovo papa Giulio III (che Paolo III aveva nominato cardinale) per riconoscenza,  lo reintegrerà nella carica ducale, rimborsando Camillo Orsini con ventimila scudi d’oro e confermerà il ducato di Castro a Orazio e tutte le altre caricche che Paolo III aveva distribuito tra i nipoti (Sismondi).

Finalmente il destino aveva deciso di porre fine alla vita di Pier Luigi che sarà assassinato (1547) per volere di Carlo V: i motivi riguardavano i contrasti relativi al  Concilio,  tra il papa e l’imperatore.

Se ne assunsero l’incarico quattro giovani nobili di Piacenza, il conte Pallavicini, Agostino Landi, Giovanni Anguissola e Giovan Luigi Gonfalonieri, diretti da Ferdinando Gonzaga,  Governatore di Milano.

I trentasette congiurati con le armi sotto i mantelli si recarono nella cittadella di Piacenza, apparentemente per rendere omaggio al duca; dopo aver occupato tutte le uscite del palazzo, l’Anguissola entrò nella camera di Pier Luigi e lo trafisse col pugnale, prima che questi, pieno di malattie veneree avesse la forza di reagire o chiamasse soccorso: Fu subito avvertito il Gonzaga che fece entrare in città   le truppe spagnole, che disarmarono quelle papali.

Quando il papa ebbe la notizia si lasciò andare a furiose imprecazioni, bestemmiando Dio, la madre del Salvatore (*), invocando i diavoli dell’inferno e rimanendo chiuso nel suo laboratorio, in  quanto esercitava la magia, facendo esorcismi, studiando il corso degli astri e consultando astrologhi e maghi che non potettero riportare in vita il figlio morto; il papa mandava un cartello di sfida a Carlo V, per misurarsi con lui in campo chiuso; ma l’imperatore non rispose a questa strana sfida.

Le realizzazioni di Paolo III non lo liberano dalle sue infamie: Egli aveva comunque, finalmente aderito alle richieste dell’imperatore, di indire il Concilio Ecumenico, riunito prima a Mantova (1537, nella vecchia sede, poi fissato nella nuova sede 1538), sospeso anche questo, era stato riconvocato e inaugurato a Trento (1543). 

Era stato l’unico papa che aveva fatto riconciliare Francesco I con Carlo V, con la pace di Nizza (1538), che era riuscita a durare dieci anni. Questo suo interessamento alla riconciliazione dei due monarchi aveva un preciso interesse: il matrimonio di suo nipote  Ottavio, figlio bastardo di Pier Luigi, con la figlia naturale di Carlo V, Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, al quale l’imperatore donava la città di Novara e il titolo di marchese; il papa donava agli sposi il ducato di Camerino acquistato da Ercole da Varano.

Aveva emanato la famosa Bolla sul diritto degli indiani d’America ad essere considerati simili ai bianchi. Aveva emesso la Bolla per la fondazione della Compagnia di Gesù (Bolla “Regimini militantis Ecclesiae” sul regime della Chiesa militante). Aveva istituito l’Inquisizione di Roma (quella spagnola era stata istituita da Sisto IV su richiesta di Isabella di Castiglia e Ferdinando  d’Aragona).

Gli artisti Bramante, Raffaello, San Gallo erano oramai deceduti, rimaneva Michelangelo  che dava vita al Giudizio Universale, alla figura di Mosé sulla tomba di Giulio II e ai disegni della Basilica lavorando per diciassette anni alla costruzione della cupola, senza compenso, con la gloria di condurre a termine quel monumento mondiale.

 

 

 

*) Questi erano i prelati che non credevano alla religione che praticavano e ad essi procurava benessere, mentre minacciavano i fedeli con le pene di un inferno che era pura invenzione!

 

 

I PAPI DELLA SECONDA

 META’ DEL “500”.

 

GIULIO III

 

 

G

IULIO III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte 1549-1555.) nominato cardinale (1551) da Paolo III, eletto al soglio pontificio, anch’egli non esente da tendenze sodomitiche nei confronti dei paggi al suo srvizio e, sin dal momento del conclave, si era lasciato sorprendere dai suoi colleghi durante questi atti (Bayle: Dictionnaire. 1740).

Egli stesso era di bell’aspetto, che dati i correnti vizi,  lo aveva certamente aiutato nella carriera, da aver raggiunto, di grado in grado, la presidenza  del Concilio di Trento.  

Bayle fa riferimento alla corrispondenza tra Giulio III e una cortigiana di Roma che divideva i suoi favori con il cardinale Crescenzio, i cui figli erano mantenuti a spese comuni, sui quali esercitavano le loro esacrabili voglie; queste lettere ricferisce Bayle, contengono racconti di dissolutezze tali che è impossibile riferirle.

Giulio III ritenne che la nomina a sovrano pontefice dovessse comportare il massimo della pompa e dei piaceri, senza ritegno. Per prima cosa, riuscì ad ottenere da  Cosimo de’ Medici,  Monte Sansovino, sua patria  nel territorio di Arezzo, per ricavarne una contea da assegnare a suo fratello Baldovino del Monte e investire questo fratello del ducato di Camerino. Aveva con sé un givanetto che amava e ricopriva di onori ecclesiastici e di ricchezze; il Ganimede di diciassette anni, lo fece aadottare da suo fratello con il nome di Innocenzo del Monte e lo corruppe a tal punto che divenne lo scandalo del Sacro collegio, in seguito scacciato dai successori di Giulio III.

Alla Corte del papa le gozzoviglie avevano inizio alle sei del pomeriggio e duravano fino all’alba; il papa si spogliava delle sue vesti  e rimanendo in camicia invitava i compagni a fare altrettanto e percorreva i giardini cantando e danzando; quasi continuamente era in stato di ubriachezza.

Fu durante una di queste feste che ebbe l’idea di nominare cardinale il suo pupillo Innocenzo, che aveva fatto adottare dal fratello; era addetto alla guardia delle scimmie ed era chiamato Bertruccino e si riteneva fosse figlio del papa che lo amava spassionatamente. Una sera in cui il papa era più ubriaco del solito, convocò in Concistoro i cardinali e propose la nomina di Innocenzo a cardinale, ma il collegio esprimeva parere negativo.

Poiché spesso i suoi discorsi arrivavano alla profanazione e alla blasfemia, come quando  una volta aveva sfogato la sua collera contro Dio, che si era messo contro Adamo per una mela (*), il papa, al quale piacevano le facezie, aveva fatto al collegio uno strano discorso, dicendo: Quale virtù, quale nobiltà, quale sapere, quale felicità avete trovato in me per farmi papa? Non è questo farsi beffe del Sacro Collegio? E si potrebbe applicare a questo pontefice l’esclamazione di Catone. E noi abbiamo un piacevole Console!

Vi prego, aggiunse il papa, che cosa avete trovato in me per darmi la felicità di farmi papa senza che io l’abbia meritato? Votiamo dunque per questo ragazzzo ed egli lo meriterà; e dopo una ulteriore discussione Innocenzo fu confermato cardinale.  

 

 

 

*) Il racconto della collera di Dio contro Adamo per la mela, riferisce Bayle (cit. Dictionnaire) , è riportato  nel libro di Jean Crespin: Il papa  si dilettava a mangiare carne di maiale e di pavone; il suo medico gli aveva vietato di mangiare la carne di maiale che gli faceva male alla gotta che lo tormentava, ma se la faceva prepapare ugualmente ... a dispetto di Dio! Una sera si trovò srvito un pavone che non si aspettava e andò su tutte le furie; un cardinale che gli era seduto vicino cercò di calmarlo dicendogli che non era il caso di andare in collera per così poco e il papa rispose: Se Dio si era corrucciato per un pomo, cacciando il nostro primo padre Adamo dal paradiso, perché non posso eeserlo io che sono il suo vicario e corrucciarmi per un pavone che è più importante di un pomo?

 

MARCELLO II

 

 

MARCELLO II (Marcello Cervini, 1555). Era contrario al lusso e appena eletto fece distribuire tra i poveri il denaro che sarebbe stato speso per i festeggiamenti tra luminarie, fuochi d’artificio, feste e concerti; quindi si diede a realizzazioni utili per una sana amministrazione del governo della Chiesa.

Mandò via dalla corte le meretrici e vendette il vasellame d’oro e d’argento per pagare i debiti della Chiesa. Limitò il numero dei piatti che dovevano essere serviti e ne determinò anche la durata. Dopo soli ventun giorni di pontificato, come era successo ad altri che lo avevano preceduto e avevano cercato di eliminare il lusso e lo sfarzo, secondo alcuni storici fu colto da un attacco di apoplessia, secondo altri era stato avvelenato da chi non accettava le restrizioni che stava imponendo.

 

PAOLO IV

 

Lo seguiva PAOLO IV (Gian Piero Carafa, 1555-59), ottantenne, di famiglia originaria ungherese, il nonno paterno era conte di Matalone; fin dalla fanciullezza era stato messo in un convento di domenicani e ne era uscito con un carattere superbo e imperioso, di natura crudele e inesorabile. che era il segno cararretistico di quest’Ordine. Aveva compiuto profondi studi teologici ed era stato lui a suggerire a Paolo III la istituzione dell’Inquisizione a Roma, ricoprendo la carica di grande inquisitore. 

Alla sua età era giovanile nel corpo e nello spirito e istituì subito una commissione per la eliminazione degli abusi che si verificavano presso la Curia, in particolare, il commercio delle cariche ecclesiastiche. Ma egli stesso aveva il debole per i nipoti e non si mostrò all’altezza delle aspettative per l’avidità dimostrata. Infatti intensificò la tortura, dando più poteri all’Inquisizione e facendo processare innocenti allo scopo di appropriarsi dei loro beni.  

Nonostante la sua severità di costumi, come detto,  non si sottrasse al nepotismo e creò i suoi nipoti Carafa, Giovanni, conte di Montorio e duca di Palliano (togliendo questo feudo a Marcantonio Colonna; aveva scomunicato i Colonna per appropriarsi dei loro beni, assegnandoli ai nipoti), Carlo fu nominato capitano generale della Chiesa, il suo terzo nipote, Antonio ebbe il contado di Bagno e il marchesato di Montebello, tolto ai conti Guidi; e Carlo, cavaliere gerosolomitano, fu creato cardinale.

Essi riunirono di nascosto una armata e si prepararono a invadere il regno di Napoli, governato all’epoca da Mendoza. Carlo V venne subito a saperlo e scrisse al figlio Filippo di mandare a Napoli il duca d’Alba e quando questo vi giunse, Paolo IV chiese aiuto a Enrico II di Francia, promettendogli il regno di Napoli e il ducato di Milano.

Il re Enrico gli fece sapere di aver stipulato accordi con Carlo V, tali che se fosse venuto meno, sarebbe stato reputato traditore e spergiuro; ma il papa gli mandò una bolla con la quale lo scioglieva dai giuramenti prestati. Poiché Ottavio Farnese era duca di Milano e vincolato al trattato di Carlo V, non volle romperlo, rimanendo ugualmente dalla parte degli spagnoli, ma il papa lo anatemizzò.

Il papa mandò le sue folgori anche contro Filippo II, se non abbandonava le sue pretese sul regno di Napoli in favore dei nipoti e fece fare un processo col quale lo destituiva, Nel frattempo giungeva la notizia della abdicazione di Carlo V, ma il papa con ostinazione continuò in questi intrighi nei quali impiegava  i tre anni dei suoi quattro di regno!

Tra l’altro si rifiutva di riconoscere il nuovo imperatore Ferdinando; aveva infatti emanato una bolla contro Carlo, nella quale sosteneva che “Dio proibiva ai re di scegliere i propri successori, concludendo che i soli papi potevano disporre delle corone come capi supremi della repubblica cristiana” (i papi autoproclamandosi vicari di Dio sulla Terra potevano sostenere, e sostenevano,  tutte le prepotenze che passavano loro per la testa ndr.!).  

Questa bolla era stata come una dichiarazione di guerra: il papa non solo fece arrestare gli ambasciatori austriaci, ma anche quelli inglesi sotto pretesto che essendo Filippo marito della regina Maria, essi avenvano intelligenza con i nemici della Santa Sede. Arruolò quindi truppe da ogni parte. anche i protestanti, unendoli alle truppe del duca di Guisa che guerreggiava contro i francesi in Abruzzo, dove le truppe francesi erano state circondate dall’armata spagnola del duca d’Alba, mentre il re Enrico II, in Francia, era sconfitto dagli inglesi a Saint Quintin.

Ciò nonostante per la firma della pace il papa che era già sull’orlo della tomba, per salvare il suo amor proprio, pretese che il generale spagnolo si recasse a chiedergli perdono per aver espillato il patrimonio della Chiesa e a supplicargli in ginocchio l’assoluzione per le sue colpe e per quelle del suo signore, Fiippo.

Il vincitore accondiscese a questa richiesta e il trattato di pace tra Spagna e Santa Sede fu firmato ... e il papa voltò le spalle al re di Francia, di cui non avea più bisogno.

Il papa trattava tutti i sovrani, fossero imperatori o re, alla stessa maniera; anche con la nuova regina d’Inghilterra il papa sebbene avesse il piede nella fossa, volle far valere tutta la sua arroganza. Era appena morta Maria (la Cattolica, con la quale neanche era stato tenero! (*)), e Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, aveva mandato gli ambasciatori per comunicargli la morte della sorella e il suo avvicendamento al trono. Paolo disse subito agli ambasciatori che non riconosceva la regina in quanto la Gran Bretagna era feudo della Santa Sede e che l’usurpazione compiuta da questa donna era tanto più empia  in quanto, essendo bastarda, non aveva alcun diritto alla corona. Ciò determinò Elisabetta a ritirarsi dalla obbedienza dalla Sede Apostolica e richiamare gli ambasciatori; ma Paolo si oppose alla loro partenza vietando loro di abbandonare la Corte.

In questa occasione il papa nominava cardinali tre suoi nipoti, tra i quali un bisnipote di sei anni, che aveva già nominato arcivescovo di Napoli. Il cardinale di San Giacomo si accingeva a fare qualche osservazione su questa nomina, ma Paolo IV che era di corpo agile e vigoroso, sceso dal suo seggio, strappò dal banco il cardinale, lo trascinò in mezzo alla sala e gli assestò un pugno sul viso da farlo sanguinare. Dopo questa scena scandalosa i cardinali si ritirarono, protestando di non voler comparire in concistoro, ma dopo, temendo i supplizi ai quali si esponevano, tornarono ai loro posti, riprendendo le ordinarie sedute (cit. La Chatre).

Alla fine il papa si ravvide degli errori commessi e chiamati i cardinali si giustificò, dicendo che era stato ingannato e tradito dai nipoti, che  destituì dalle cariche cacciandoli da Roma con l’interdetto.

Si dedicò quindi alla instaurazione di una severa disciplina ecclesiastica moralizzatrice eliminando gli abusi e licenziando chi li aveva realizzati. Emanò l’ “Index librorum prohibitorum” (1559), e, come abbiamo visto, istituì il ghetto per gli ebrei. Abolì la vendita delle cariche che dovevano essere assegnate per meriti introducendo l’austerità e la semplicità nella vita del clero.

Queste sue realizzazioni non gli guadagnarono però le simpatie dei romani che alla sua morte manifestarono per le piazze il proprio risentimento, abbattendo la sua statua e portando la testa in giro per la città. 

 

 

 

*) Quando Maria Tudor (v. in Art. L’nghilterra dei Tudors) divenne regina, aveva mandato gli ambasciatori a Roma per annunciare il suo insediamento, ai quali fu imposto un cerimoniale umiliante; vale a dire mettersi in ginocchio, baciare i piedi del papa e rimanere in ginocchio per tutto il tempo in cui dovevano riferire tutti i pretesi delitti commessi dall’Inghilterra verso la Santa Sede, impetrando il perdono; solo dopo gli ambasciatori ebbero il permesso di alzarsi e cosegnare le lettere della regina.

Quando il papa aperte le lettere, lesse che Maria si titolava regina d’Inghilterra e d’Irlanda, si accese d’ira dicendo che la loro padrona  aveva l’audacia di intitolarsi regina d’Irlanda senza aver avuto l’autorizzazione del papa e fece cacciar via gli ambasciatori dal Vaticano.

Tra le truppe che combattevano per il papa contro gli spagnoli in Abruzzo, vi erano anche gli inglesi che la regina Maria ritenne richiamare e il papa se ne adontò, scrivendole una lettera con acerbi rimproveri per la sua condiscendenza nei confronti del marito Filippo, e non potendo rivalersi su di lei, fece ricadere tutta la sua collera sul cardinal Polo, con un decreto contro tutti i Nunzi apostolici in Gran Bretagna e contro il cardinal Polo, che dichiarò nemico della Chiesa. Invano il Sacro Collegio fece presente al papa che ciò comprometteva i rapporti con l’Inghilterra, ma egli non ne volle sapere, anzi chiamò il confessore di Maria a Roma, il padre gesuita Payton, lo nominò cardinale e gli assegnò la legazione della Gran Bretagna. Questa volta Maria che era sempre stata remissiva, reagì ordinando a Payton di rimanere al suo posto e non entrare in Inghilterra a pena della vita. Il gesuita prese un tale spavento che ammalatosi, dopo pochi mesi morì (cit. La Chatre).

 

PIO IV

 

 

PIO IV (Giovan Angelo de’ Medici, 1559-1565), non apparteneva alla famosa famiglia de’ Medici, ma ad altra di Milano, il cui padre era Bernardo di Medecchin o de’ Medici e la madre Cecilia Serbelloni che avevano messo al mondo tredici figli, dei quali sei maschi e Giovan Angelo era il secondo.  

Appena eletto, prima di essere consacrato si presentò umile e benigno, tollerante e liberale, ma dopo la consacrazione cambiò completamente carattere e divenne cupido d’oro e di potere, crudele e dissoluto, tanto da superare il suo predecessore.

Si deliziava di cibi e vini raffinati e aveva trovato da soddisfare i suoi appetiti sessuali con belle donne e bei giovinetti di Roma, ai quali faceva regali per attirarli in Vaticano, ma poi li faceva torrurare per far restituire i doni ricevuti; ai suoi conviti ogni sera erano serviti vini raffinati che beveva a sazietà da doverlo portare ubriaco nei suoi appartamenti.    

Alla sua numerosa famiglia provvide con benefici, abbazie, vescovati e un cappello cardinalizio. Elevò al grado di generale di cavalleria un suo nipote, Federico Borromeo appartenente alla famiglia materna dei Serbelloni, affidandogli importanti funzioni di Stato e all’altro nipote, Carlo Borromeo, assegnò l’arcivescovato di Milano e un terzo nipote lo fece governatore di Castel S, Angelo; un altro parente fu nominato vescovo di Spoleto, Al conte Federico fece sposare la figlia maggiore del duca di Urbino e una sua sorella sposò il duca Cesare Gonzaga. Giustificava tutte queste elargizioni, dicendo: “bisogna che faccia oggi tutto il bene ai miei parenti, che è in mio potere, perché domani la morte potrebbe non darmene tempo”.

Avendo deciso di non far prendere maggior potere ai Carafa ad evitare che divenissero più potenti, un giorno che i cardinali di quella casa si riunivano in concistoro, i suoi arceri li ammanettarono e li condussero nelle prigioni del Vaticano; nello stesso tempo il palazzo di Giovanni Carafa, del conte di Montorio, di Leonardo di Cardine, suo cugino, e quello del conte di Alise, furono perquisiti dai soldati e i loro proprietari portati in Castel S. Angelo. Quindi Pio IV fece intentare un processo in base al quale dovettero restituire tutte le ricchezze ricevute dal papa Paolo IV; e siccome il suo intento era quello di distribuire quei  beni tra i suoi parenti, i Carafa furono condannati a morte.

Carlo Carafa fu strozzato in prigione; il conte di Montorio, il conte di Alise e Leonardo di Cardine vennero decapitati al bagliore di fiaccole in Castel s. Angelo, e i loro cadaveri gettati nel Tevere. Il solo ad essere risparmiato fu il giovane cardinale Alfonso Carafa, il quale riuscì a riscattarsi con la cessione al pontefice di centomila scudi  che aveva depositati al di fuori degli Stati della Chiesa ... che non valsero a salvarlo perché dopo tre mesi fu avvelenato da un gesuita.

Il Santo Padre con tutti questi delitti, pensò di mettersi sotto la protezione di un monarca e mandò delle bolle di investitura all’imperatore di Gemania, senza che fossero state richieste, anzi, preoccuparono l’impertore Ferdinando, che temendo insidie, si rifiutò di riceverle; ma quando fu convinto che non vi erano secondi fini, mandò legati a Roma per ringraziare il papa.

 Il papa dovette quindi occuparsi delle problematiche riguardanti il Concilio di Trento e i vari rapporti nei diversi stati di Germania, Francia, Spagna, con protestanti, calvinisti. ugonotti, che non approfondiamo in quanto non riguardano l’argomento che stiamo trattando.

A causa del suo dispotismo, si stava preparando il suo assassinio; Pietro Accolti, ricco cittadino di Roma. con un certo numero di suoi amici, avevano deciso di assassinare il papa: tra  costoro vi erano il conte Antonio di Canissa, il cavalier Pellicone, Prospero Torri e Taddeo Manfredi. Pietro Accolti aveva cercato di introdursi più volte in Vaticano con vari pretesti per ottenere udienza e poter pugnalare il papa, senza riuscirvi; le sue richieste di voler parlare con i papa, gli furono riferite e il papa si insospettì e dietro suo ordine, mandò a circondare la casa dell’Accolti, dove furono trovati tutti i cospiratori che furono portati nelle segrete dell’Inquisizione.

Durante il processo tutti furono torturati e attanagliati. Uno dei giudici inquisitori era stato Federico Borromeo che morì dopo essersi gravemente ammalato per le fatiche sostenute nell’istruzione del processo: mentre Carlo Borromeo che si era particolarmente accanito contro i congiurati, si era ritirato a Milano  dove era arcivescovo (cit. La Chatre), cambiando atteggiamento verso il prossimo, da essere canonizzato (le descrizioni che riguardano ambedue i Borromeo hanno avuto per la maggior parte carattere agiografico!).

Privato dei nipoti più cari, Pio IV rivolse le sue attenzioni nei conronti dei figli delle sorelle Annibale e Marco Alteamps, dando al primo il governo di Roma e dandogli in moglie la vedova di Federico Borromeo, con una considerevole dote. Al secondo che era già cardinale di Stico, assegnò la direzione degli affari religiosi, il quale, considerata l’età dello zio e ritenendo di non poter tenere il potere per lungo tempo, attese le abitudini dissolute dello zio, oppresse il popolo con contribuzioni straordinarie, la nobiltà e il clero, con contribuzioni forzate e vendette pubblicamente dispense e canoni, poi si dette a contrarre grossi prestiti col pretesto di far leva di truppe e si impadronì di cospicue somme destinate all’equipaggiamento delle reclute.

Il papa continuava a dilettarsi di giorno, alla vista delle torture inflitte dalla Inquisizione e la notte con le crapule con cortigiane e giovanetti: in una di queste, in cui festeggiava il trionfo della religione sugli eretici, dopo aver libato con dodici boccali di vino, fu colpito da apoplessia e morì la notte dell’8 dicembre 1565.

 

PIO V

 

Come nuovo papa è eletto PIO V (Antonio Ghisleri, 1566-1572); del Sacro Collegio faceva parte il cardinale Carlo Borromeo il quale essendo il più ricco tra i cardinali e nipote del papa appena morto, potè decidere sulla nuova nomina, dalla quale escluse il cardinal Morone a causa delle sue virtù, in quanto godeva fama di costumi severissimi; fu escluso anche il cardinaale Sireletto per la severità dei suoi costumi e alla fine fu proposto Michele Ghisleri come Grande Inquisitore, crapulone e feroce, sul quale Carlo Borromeo non ebbe nulla da ridire.

Era nato  a Bologna da famiglia povera ed era stato costretto a lavorare presso un convento di domenicani, come aiuto cuoco; i suoi bei modi di comportamento e la bella figura avevano attratto l’attenzione del priore, uno dei monaci più dissoluti del monastero, che lo fece suo favorito e per coprire agli occhi dei confratelli, il legame con il giovane, si assunse l’onere della sua istruzione.

A sedici anni il ragazzo divenne esperto teologo e fu nominato professore dell’Ordine, e il priore, essendo stato trasferito come inquisitore a Como, aveva portato con se il giovane insegnante; e fu quì che mostrò il suo carattere inflessibile e l’implacabile, crudeltà che lo resero uno dei  pontefici più sanguinari della Sede Apostolica.

Era stato nominato commissario generale dell’Inquisizione sotto il papa Paolo IV e aveva sfogato i suoi rigori perseguitando gli eretici di Como, Bergamo e dei Grigioni; tra le istruzioni inviate all’Inquisitore di Venezia, prima di essere eletto papa, aveva scritto: ...  Queste sante parole, sieno la regola della di lei condotta; torturi senza pietà, tanagli, laceri senza misericordia; non esiti ad abbruciare anco suo padre, sua madre, i fratelli, le sorelle, se non sono ciecamente sottomessi alla Chiesa cattolica apostolica romama”.  L’Inquisitore Montalto che si era attenuto agli ordini del suo superiore, fu costretto a fuggire da Venezia per non essere lapidato dalla moltitudine.

Appena insediato sul soglio, fece sospendere il processo contro la famiglia Carafa  e tutti coloro che avevano contribuito direttamente o indirettamente alla condanna dei nipoti di Paolo IV (suo protettore) furono arrestati, gettati nelle carceri dell’Inquisizione e bruciati vivi. Solo i giudici furono risparmiati in quanto si recarono dala papa chiedendo  perdono; ma nessuno dei nemici  di questa famiglia potè sfuggire alla vendetta di Pio V; Giulio Zuanetti fu raggiunto e arrestato a Venezia e Pietro Carnesecchi a Firenze, furono poratati a Roma, accusati di aver avuto rapporti criminosi con Giulia Gonzaga, moglie di Vespasiamo Colonna,  conte di Fondi e Vittoria Colonna, ambedue sospette di eresia.

Pio V aveva fondato la Congregazione dell’Indice che aveva il compito di individuare i testi da inscrivere all’Indice. Nello stesso anno la flotta della Lega Santa, da lui promossa, sconfigge quella turca (1751) nella battaglia di Lepanto (v. In Specchio dell’Epoca, La battaglia di Lepanto ecc.).

Aveva mandato in Francia un suo nipote, cardinale Alessandrino per concertare con Carlo IX di Svezia il genocidio dei calvinisti, e  un altro legato aveva mandato in Spagna e in Portogallo per far entrare quesi due sovrani in questa lega, mentre l’imperatore si dissociò da questa operazione iniqua; all’improvviso  Pio V  fu colto da violenta febbre e morì a sessantotto anni (1572) con grande gioia degli italiani e soprattutto dei romani fuoriusciti che poterono rientrare in  Roma.

Appena deceduto Pio V, il Camerlengo aveva provveduto a rinforzare tutte le porte del palazzo per evitare che il popolo prelevasse il suo corpo e lo portasse in giro per la città per dileggiarlo, tanto era l’odio che aveva susscitato nei romani.

 

GREGORIO XIII

 

Gli succedeva GREGORIO XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), del quale si è detto essere stato un buon papa, in quanto le stragi compiute nei confronti degli avversari – i riformati – ai fini del loro genocidio, vale a dire della loro totale eliminaione, come Gregorio aveva in animo di fare, erano considerate dai suoi correligionari, opere meritevoli.

L’intenzione di Gregorio sin dal momento della sua elezione, era proprio quella della loro totale elimininazione e aveva inaugurato il suo pontificato con la prima strage rimasta famosa, che aveva avuto inizio in Francia  circa due mesi dopo la sua nomina (26 agosto 1572), conosciuta come la notte di san Barolomeo (che non era durata solo qualle notte!).

Certamente il massacro (di settantamila ugonotti) non era stato disposto da lui (in effetti era stato preparato da Pio V), ed egli se ne era rallegrato, e conoscendo le sue intenzioni, il massacro era stato fatto in suo onore da Carlo IX e Caterina de’ Medici.

Carlo,  per farlo felice, gli aveva mandato in omaggio la testa dell’ammiraglio Gaspard de Coligny e Gregorio aveva ricambiato il dono inviandogli una magnifica spada da lui benedetta; Gregorio fu tanto felice di questo massacro che fece dipingere in Vaticano pannelli con episodi della notte di s. Bartolomeo, uno dei quali rappresentava il momento in cui l’ammiraglio Coligny era assalito mentre usciva dal Louvre.

Nello stesso tempo gli spagnoli con il duca d’Alba, commettevano atrocità nelle Fiandre che sembrava volesse superare quelle di Francia, avvenute a Malines, Zutphen e Harden dove più di diecimila belgi furono uccisi sui bastioni e circa duemila bruciati o torturati. E tanto era stato il torrente di sangue sparso, che Filippo II fece sospendere le eecuzioni nel timore che il suo governatore annientasse tutta la popolazione;  e si diceva che il duca  si vantasse di aver fatto perire centocinquantamila belgi.  

Quando Enrico  d’Anjou (fratello di Carlo IX) era stato re di Polonia, il nunzio apostolico si era felicitato per la sua elezione e per il massacro compiuto a Sancerre e gli fu consegnata la rosa d’oro, mandatagli dal papa.

Per fortuna Enrico firmò la pace di Poitiers (1577) e in base a questo trattato i riformati acquistavano il diritto di costruire chiese e tenere sinodi; fu anche riabilitata la memoria di Coligny e di quella di tutte le vittime della notte di san Bartolomeo, e ai preti fu concesso il diritto di sposarsi.

Ma poco dopo riprendeva la guerra tra cattolici e protestanti – la sesta (sett. 1577) – ed era firmata la “ pace di Bergerac” che limitava le libertà concesse dal trattato di Poitiers.

A questo punto il papa mandava in Francia il gesuita Enrico Sammier personaggio accorto e astuto, aduso a cambiare personalità in qualsiasi modo e apparire e scomparire secondo il bisogno e il più abile diplomatico dell’epoca, il quale aveva avuto l’incarico di attizzare il fuoco della rivolta.

Egli per primo si rivolse al cardinale di Lorena al quale promise, in nome del papa, di favoreggiare la casa dei Guisa nei progetti di usurpazione del regno di Francia, purché si impegnassero a impiegare tutto il loro potere per far trionfare la causa del papa sugli eretici.

Accettate queste condizioni i gesuiti ricevettero ordine di operare sotto la direzione del cardinale di Lorena (violatore, secondo Brantome, di tutte le giovani che praticavano la Corte) e sottoscrivere degli accordi in base ai quali “i gesuiti si impegnavano a restituire alle province del regno di Francia, tutti i diritti, le preminenze, le franchigie, le libertà antiche, quali esistevano ai tempi di Clodoveo”. Questi accordi furono mandati dal cardinale di Lorena al papa perché li facesse adottare da tutte le legioni di monaci e preti che si trovavano in  Francia. Ricevuta l’approvazione del papa, in tutte le chiese s’intese predicare la necessità di formare una lega contro i protestanti; i confessori costringevano i penitenti a entrare in questa associazione come  unica via di salvezza.

In questo frangente Carlo IX moriva ed Enrico, dalla Polonia tornava in Francia, per prendere il nome di Enrico III;  il papa non si scompose e attese a organizzare altrove altri massacri.

Gregorio infatti, per quella che egli chiamava l’estirpazione dell’eresia, aveva mandato considerevoli somme a Filippo II e all’imperatore per metterli in condizione di ristabilire il papismo vacillante nei Paesi Bassi e in Germania, oltre a settemila ducati all’arciduca Carlo e altrettanti ai cavalieri di Malta e settemila ducati al duca di Brunswick e successivamente aveva mandato quattrocentomila scudi d’oro a Enrico III per vedere accendersi la guerra tra cattolici e calvinisti.

Il veleno liberava finalmente l’abominevole cardinale di Lorena, anima della fazione dei Guisa, sostituito  dal giovane Enrico di Guisa, figlio di Francesco, anch’egli assassinato sotto Carlo IX.

Enrico di Guisa  su suggerimento di Sammier  reclutò una moltitudine di ambiziosi, presi in tutte le classi, allettati dalla speranza del bottino e formò un esercito e il nuovo duca asssumendo la figura di re, non nascondeva il suo disprezzo verso Enrico III.

Quest’ultimo temendo un attentato si premunì istituendo un Ordine composto di cento persone dell’alta nobiltà denominato dello Spririto Santo. Nominò ottantasette cavalieri e quattro grandi ufficiali i quali si obbligarono con giuramento ad esporre i loro beni in difesa del re. L’inaugurazione fu fatta il giorno di Pentecoste; ai membri dell’Ordine fu conferito il titolo di commendatori che avrebbero ricevuto ricchi benefici.

Questo esempio fu imitato da Gregorio XIII il quale ristabilì l’Ordine di san Basilio che annoverava cinquecento monasteri nel solo regno di Napoli e tutti formavano una sola congregazione sottoposta a un solo abate, che riceveva ordini dal santo padre; inoltre fondò a Roma venti collegi o seminari diretti da gesuiti e messi sotto la sua giurisdizione i quali dovevano servire inglesi, tedeschi, greci, maroniti, ebrei, atei e resipiscenti; e infine estese le sue fondazioni in Boemia, Moravia, Lituania, Transilvania fino al Giappone, per allevare le nuove generazioni di giovani; ma questi collegi non lo distolsero dal pensiero di mettere i popoli l’un contro l’altro e preparare e fomentare nuove e sanguinose rivoluzioni  negli Stati d’Europa.

Incominciò con l’idea di fare assassinare la regina Elisabetta (e ciò solo denota una mente criminale! ndr.) e approfittando della presenza a Roma di don Giovanni d’Austria lo convinse ad assassinare Eisabetta, in modo che avrebbe sposato Maria Stuart, che sarebbe divenuta regina  d’Inghilterra.

Prevedendo che la esecuzione di questo assasssinio avrebbe potuto incontrare l’ostacolo degli olandesi, il papa consigliò a don Giovanni di assumere il governo dei Paesi Bassi per tenere a freno il principe d’Orange che era sovrano di tutta l’Olanda e impedirgli di soccorrere gli eretici inglesi e lo sollecitò ad assumere al più presto il governatorato e riprendere i massacri del duca d’Alba.

Elisabetta, molto attenta con i complotti, riuscì a scoprirlo e un certo numero di gesuiti pagarono con la vita le loro mire regicide; la regina non si limitò alle esecuzioni ma rinnovò le leggi emanate contro i cattolici, tolse loro le chiese, li cacciò dai conventi, proibì che si radunassero in assemblee, se pur potessero continuare nel libero esercizio del culto.

Il papa non si diede per vinto, né perdette la speranza di rendere Maria Stuart regina d’Inghilterra e ristabilirvi la religione cattolica, ma ritenne opportuno schiacciare i calvinisti in Olanda, prima di passare all’Inghilterra e si servì di un nunzio di nome Giovanni Sega che portava sempre con sé grandi somme per pagare truppe, spie e assassini ed era fornito di brevi per accordare indulgenze per ogni specie di delitti.

Don Giovanni in base agli accordi presi con il papa ruppe gli accordi presi con i riformati d’Olanda e di Zelanda, ma il popolo di Bruxelles gli si levò contro e lo cacciò con la sua soldatesca dalla città e chiamò il principe d’Orange investito della dittatura dei Paesi Bassi. La nobiltà invece si rivolse a Mattia, fratello del nuovo imperatore Rodolfo, succeduto a  Massimiliano II.

Il re Filippo di Spagna che stava assistendo alla perdita dei Paesi Bassi, mandò Alessandro Farnese con un grosso esercito per riprendere il potere sui Paesi Bassi disputati dai repubblicani che cercavano di abbattere la fazione dei preti; dall’altra don Giovanni e Mattia che si disputavano il trono.

Nel frattempo don Giovanni moriva e gli succedeva Alessandro Farnese che aspirava a diventare come il duca d’Alba e fece sgozzare a Maastricht dodicimila abitanti che aveano difeso le mura della città.

Le Province Unite si rivolsero al duca d’Alençon, divenuto duca d’Anjou con la nomina a re del fratello Enrico (III) e sia cattolici che riformati si dichiararono sciolti dal dominio di Filippo II; il principe d’Orange fu designato come suo luogotenente.

Gregorio non potendo fare altro, si rivolse di nuovo contro la Gran Bretagna, ma questa volta coinvolgendo l’Irlanda, da dove doveva partire una sollevazione contro la regina.

Truppe italiane partirono da Civitavecchia sotto il comando del marchese Tommaso Steinult dirette sulle coste d’Irlanda. Non solo, ma Gregorio destinò un gruppo di missionari con sessantaquattro gesuiti inglesi, scozzesi e irlandesi, che prestarono giuramento per fare tutti gli sforzi e soffrire anche il martirio, per togliere la corona e la vita alla eretica principessa che regnava sulle isole britanniche.

Questi fanatici si recarono a Londra e tre di essi furono presi, Edmondo Campien, Rodolfo Skerwin e Alessandro Briant i quali furono strangolati e squartati; il papa si affrettò a canonizzarli, ordinando ai supestiti di continuare a cospirare nella maniera più prudente e sicura.

Quindi passò al Portogallo che era il dono riservato ai suoi nipoti, dove i gesuiti avevano disposto tutto per il passaggio del reame, che al mmomento era retto dall’inetto re Sebastiano, rimasto ucciso nella battaglia di Alcazar, al quale era succeduto il vecchio prete crapulone e cardinale, Enrico, zio di Sebastiano, completamente sottomesso ai gesuiti.

Enrico, appena fatto re, ebbe la voglia di avere degli eredi e si rivolse a Roma per avere la dispensa di sposare una giovane cortigiana, che gli era stata procurata dai gesuiti; Gregorio interessato per dare il regno ai suoi nipoti, rifiutò la dispensa, mentre Filippo II anch’egli interessato ad avere quel regno, minacciò che se Enrico contravveniva al divieto del papa, egli avrebbe invaso il regno con il suo esercito.

Nel frattempo il cardinale-re moriva e Filippo fece entrare il suo esercito e si impadronì del Portogallo a dispetto delle ire del papa che lo aveva destinato al figlio Giacomo Buoncompagno e dei gesuiti e non prese alcun provvedimento contro Filippo, del quale aveva bisogno per le pratiche della lega cattolica in Francia, nei Paesi Bassi e per rovesciare Elisabetta in Inghilterra.

Tutto questo mentre la popolazione romana era affamata e suo figlio si era accaparrato  tutte le riserve di grano, per trarne profitto, mentre bande di assassini infestavano le strade, svaligiavano i viaggiatori, rapinavano i convogli e facevano scorerie fin sotto le mura della città. Roma si trovava in queste condizioni e Gregorio stava preparando una Bolla contro gli ugonotti, quando morì colpito da apoplessia (1585).

 

SISTO V

 

Gli succedeva SISTO V (Felice Peretti, 1585-1590), di umili origini, il padre era vignaiolo di un ricco proprietario; giovane pastorello, si imbatté in un frate francescano, Michelangelo Selleri, che lo presentò al suo Superiore e Felice indossò il saio dei conversi, mostrandosi studente versato nelle lettere e indicato d’esempio ai giovani della sua età.

Nella “Vita di Sisto Quinto”, Gregorio Leti (1630-1701) aveva pubblicato l’opera ampliata in seconda edizione, in 3 voll. pubblicata ad Amsterdam nel 1693 (*). 

Con gli anni il giovane Peretti, rivestì diverse cariche e giunse al servizio del cardinale Boncompagni, legato pontificio in Spagna. Pio V, col quale mostrava identità di carattere, lo nominò generale dei francescani, poi divenne vescovo di Sant’Agata e infine, cardinale.

Da cardinale sembrava avesse cambiato personalità, da violento, si mostrò mansueto e modesto, da crudele e sanguinario, si mostrò compassionevole e misericordioso: da serpente aveva mutato la pelle, senza perdere la malizia e il veleno (cit. La Chatre).

Morto Pi0 V, lasciò il suo palazzo e andò a vivere in una casa presso la chiesa di Santa Maria Maggiore e per tutto il regno di Gregorio mostrò di non attendere ad altro che alla sua salute: - Tra tutti i papi é stato quello che della ipocrisia ne aveva fatto un’arte.

Andava curvo, simulava rughe sul volto per darsi le apparenze di una persona destinata presto a soccombere. Nelle riunioni del Sacro Collegio, dava a vedere un’aria di candore e semplicità, da essere mominato l’Asino della Marca; e alla stessa maniera si comportava con Filippo II di Spagna, in quanto sapeva che gli spagnoli temevano un pontefice perspicace e simulava una assoluta inettitudine; quando morì Gregorio XIII si faceva vedere in giro appoggiato al suo bastone, aggravando le sue pretese infermità, da  dare l’impressione di essere arrivato all’estremo.

Quando i quarantadue cardinali si riunirono in Conclave  ed egli sperava finalmente di raccogliere i frutti di diociotto anni di ipocrisia, nell’entrare in Conclave fu notato che camminava con più difficoltà di prina ed egli stesso chiese di potersi ritirare nella sua camera, giustificandosi di non avere la forza di reggersi. Il giorno successivo i candidati si recarono da lui per raccogliere il suo voto ed egli risopose di non essere più in grado di interessarsi delle cose di questo mondo; quando alcuni cardinali, scherzando, gli dissero che nominato papa avreebbe avuto la forza di occuparsi della terra, rispose che la sua testa era inclinata verso il sepolcro e non avrebbe potuto sostenere il peso della tiara e che se si fosse supposto che egli, più indegno di ogni altro, fosse stato elevato a tanto onore, sarebbe stato costretto a rifiutarlo o a liberarsi del peso dei pubblici affari, imponendolo al Sacro Collegio.

I cardinali continuarono a discutere tra di loro e ognuno voleva divenir papa e non si riusciva a raggiungere un accordo, ed era ciò che sperava il cardinale di Montalto. E si era mostrato disponibile per gli altri e non usciva dalla sua camera se non per andare a messa o assistere a qualche verifica dei voti. Ma non se ne stava ozioso, come pareva, in quanto, con comportamenti accorti o paroline sussurrate cervava di peggiorare la divisione che regnava nel conclave: voleva stancare gli elettori per raccogliere i voti su di sé, e riuscì nell’intento.

I Cardinali Alesssandrino, d’Este e de’ Medici, stanchi dei loro intrighi, desitettero dalla propria candidatuta in favore di Montalto, a condizione che egli avesse lasciato loro il Governo della Chiesa, sul quale, l’astuto cardinale aveva dato il suo assenso.

Costoro, nel timore che un colpo di tosse lo avesse soffocato da un momento all’altro, riunirono i loro partigiani per assicurare l’elezione dell’Asino della Marca. Il cardinale di Montalto con il suo bastone, si recò a votare, come gli altri. Appena furono contati ventisei voti in suo favore, si verificò una scena che lasciò tutti di stucco: l’Asino della Marca si rizzò fieramente e gettato il bastone in mezzo all’assemblea, sputò a pieno petto come avrebbe potuto fare un uomo di trent’anni. I cardinali, confusi, si guardarono l’un l’altro e il decano rivoltosi agli altri disse: Non affrettimoci, fratelli, certo è avvenuta qualche irregolarità nello scrutinio. No, rispose il Montalto, l’elezione è avvenuta nella miglior forma!

E quello stesso uomo che prima parlava a stento, interrotto dalla tosse, intonò il Te Deum, il suo canto continuò fino alla fine, forte e sonoro, che le volte della cappella parevano scosse. Poi il nuovo eletto si recò presso l’altare maggiore per pregare secondo il rituale, ma il cardinale de’ Medici notò che le sue labbra non facevano nessun movimento e che contento fissava il Cristo che aveva di fronte. Quando si alzò, uno del conclave si felicitò con lui per la metamorfosi che si era operata: Io mi curvavo per cercare le chiavi del paradiso, rispose; ora che sono nelle mie mani, posso guardar Dio di fronte.

Infine, avendogli il maestro delle cerimonie chiesto se volesse accettare il pontificato, rispose: non posso accettare ciò che mi è già stato deferito, né ricuserei altrettanto, perché mi sento la forza e il vigore per governare non solo la Chiesa, ma il mondo intero. E prendendo i paramenti pontificali li indossò senza l’aiuto di nessuno, ciò che sembrò straordinario al cardinal Rusticucci che non potè fare a meno di dire: Santità, vedo che il papato è un sovrano rimedio per restituire gioventù e salute ai vecchi cardinali malati. Ne sono persuaso al pari di voi, rispose Montalto, in grazia di questa esperienza. Terminata la vestizione, salì sul trono e prese il nome di Sisto V.

Il nuovo papa ordinò di fare alzare quattro forche davanti al suo palazzo e invece di concedere l’amnistia, come era costume dei nuovi papi, fece impiccare sessanta dei più ostinati eretici.

Tra le grandi opere che aveva fatto eseguire (oltre ad aver ricostituito la Biblioteca nella parte del palazzo del Vaticano denominata Belvedere), vi era stata la fortificazione di tutti i confini del regno pontificio, specie quelli con il regno di Napoli, da dove vi erano invasioni di banditi e aveva voluto recarsi a Terracina dove si trovavano diverse bande, fingendo di voler verificare i lavori che aveva disposto, di disseccamento delle Paludi Pontine (opera tentata da altri papi ma realizzata solo da Sisto V) e della sistemazione, ancora più ardua, del porto di Civitaveccchia.

Rientrato da Terracina, incominciò a sentirsi indisposto  e inutili erano state le cure dei medici che per di più egli rifiutava; era stato quattro mesi in queste condizioni e dopo essere stato in processione il diciotto agosto presso la chiesa di Santa Maria dei Tedeschi, il venti, lunedì, ebbe una forte febbre e il giovedì volle partecipare a una sessione del Santo Ufficio al quale, sebbene impedito volle partecipare in quanto seguiva il detto dell’imperatore Flavio Vespasiano, secondo il quale, il principe deve morire in piedi (vale a dire operando); come rifiutava di mangiare a letto.

Il lunedì successivo, la febbre aumentò e la sera spirò assistito dal nipote cardinale Montalto e dal cardinale Castagna. Si pensò che il papa fosse stato avvelenato dagli spagnoli; ma evidentemente era stato morso da una perfida zanzara delle paludi di Terracina che trasmettevano la malaria, che i medici dell’epoca non conoscevano, che malauguratamente aveva tolto la vita a un papa che si era mostrato gtandiosamente ipocrita ma altrettanto grandioso nei cinque anni che il destino gli aveva consentito di regnare.

Dopo essersi insediato in Vaticano, Sisto V aveva fatto venire a Roma la sorella Camilla con tre suoi figli, e da lavandaia che era, la fece principessa e le donò un palazzo, vigneti e una ingente pensione, proibendole di domandargli qualsiasi cosa per sé e per gli altri.

Il giorno seguente la statua di Marforio, chiedeva alla statua di Pasquino: Perchè ora indossi una camicia tanto sudicia? Perché – rispondeva Pasquino – la mia lavamdaia è divenuta principessa.

Il papa ordinò di ricercare l’autore promettendo quarantamila scudi romani. Si presentò l’autore stesso, richiedendo la somma promessa. Il papa chiamò il carnefice e dopo avergli fatto tagliare la lingua (secondo Leti, bucarta) e la mano destra (secondo Leti ambedue le mani per non farlo scrivere più), gli donò i quarantamila scudi.

La sua crudeltà era fredda e implacabile e diceva che Cristo era venuto a portar la spada non la pace e che voleva essere annoverato tra i papi più rigorosi ... ma come abbiamo visto per raggiungere il suo scopo della elezione al soglio pontificio, aveva dato per diciotto  anni, ai cardinali, l’impressione che stesse per morire da un momento all’altro.

Sebbene lo stato pontificio fosse in piena pace, tutte le sue truppe non bastavano a proteggere i cittadini dai ladroneggi dei masnadieri; queste bande erano  comandate da signorotti come Alfonso Piccolomini, duca di Monte Marciano e Marco Sciarra; il primo desolava la Romagna, il secondo l’Abruzzo; questi ladronecci fuono sospesi durante il regno di Sisto V che col terrore della sua giustizia sommaria riuscì a liberare i suoi stati dai banditi dopo averne fatti perire alcune migliaia (Sismondi).

Sisto V ebbe la cattiva idea di far presente in pieno Concistoro che egli considerava il nome di “gesuiti” che i discepoli di Ignazio di Loyola si erano dati, mentre egli “la riteneva una bestemmia in quanto implicava la falsa idea che lo stesso Cristo ne fosse stato il fondatore e si dovevano invece chiamare “ignaziani”, aggiungendo “che le furberie, le astuzie, i delitti, le dissolutezze, l’ambizione insaziabile di questa società lo obbligavao  a operare una riforma e a togliere il male dalla radice“.

Mal l’incolse: l’indomani sulla statua di Pasquino si trovò la scritta “il papa è stanco di vivere” e alcuni giorni dopo (27 agosto 1590), Sisto V moriva avvelenato.

Il gesuita Aubry, curato si s. Andrea di Aves, durante una messa, commemorava la sua morte pronunciando dal pulpito questa predica: “Dio ci ha liberati di un papa abominevole, o miei fratelli, poiché se egli fosse vissuto saremmo stati costretti a scomunicarlo come adultero, incestuoso, simoniaco addetto a studi di magia, sodomita, ed eretico. Questo infame non era pago di spogliare i fedeli per arricchire i nipooti e le sue nipoti che vivevano con lui in qaulità di favoriti e cortigiane, ma volle dichiararsi protettore del Bernese; però il signore ha fulminato questo demone coronato dalla tiara” (cit. La Chatre). 

 

 

 

*) Gregorio Leti da giovane si era dedicato ai viaggi er era stato a Ginevra dove si istruì sui principi dei riformati e poi recandosi a Losanna  si era dedicato al  calvinismo. Aveva scritto numerose opere  storiche dedicando un panegirico a Luigi XIV; era stato in Inghilterra durante il regno di Carlo II e aveva scritto la Storia della Gran Bretagna e a causa della sua propensione per la satira fu invitato a uscire dal regno; è stato autore di numerose opere storiche tra le quali la indicata Vita di Sisto V col quale lo scrittore volle dare un quadro della corruzione papale del tempo.

Nel primo di quattro libri, Felice Peretti da Montalto, guardiano di porci, diviene frate conventuale, predicatore, sacerdote in un quadro tutt'altro che edificante di bisticci, gelosie, inimicizie e odi tra confratelli, e qualche "fragilità umana"; quindi reggente del convento di Venezia e Inquisitore generale nella stessa città. Ma presto fra' Felice dovette fuggire da Venezia. Persecutore e perseguitato, disgusta tutti, da tutti cordialmente ricambiato; ambizioso e spesso frustrato nelle sue ambizioni, riesce pur sempre a galleggiare e a trovare altrettanti patroni quanti nemici; finché la marea delle passioni lo porta, per opera di Pio V, al generalato del suo ordine e poi al cardinalato.

La sera stessa della sua creazione, compone un "soliloquio" corrispondente al manuale perfetto dell'aspirante al papato, formulato in una terminologia cristiana ma che è tutta un'apoteosi della concezione pagana della vita e dell'autorità.

Scaltro nel Conclave, da cui alla morte di Pio V uscì Gregorio XIII, asseconda lo spirito mite del nuovo pontefice, formulando una deplorazione della strage di San Bartolomeo.

Nei cinque libri del volume secondo, vediamo come in quindici anni di ipocrisia,, riesaìca a mascherare l’ambizione sfrenata di divenire papa, a simulare tutte le virtù di cui manca, e giocando d'astuzia, a concentrare su di sé alla morte di Gregorio, i voti dei cardinali e uscire papa.

Il discorso posto in bocca a Sisto V nel primo Concistoro è tutta un'apologia, una difesa contro l'accusa d'ipocrisia, un'esposizione dei suoi criteri di governo su Roma divenuta spelonca di ladri e d'assassini, sul Sacro Collegio a cui vieta di più chiedere grazie, sul mondo cristiano.

Affetta di non riconoscere la sorella e i nipoti venuti a ossequiarlo in vesti pompose, anziché in abiti da contadini: e ricusa per essi ogni onore e distinzione, ristabilisce l'ordine e l'impero della legge nello Stato Pontificio con mezzi sommari. Scomunica Enrico di Navarra, ma riconosce che in Europa non vi erano che tre soli principi: Elisabetta, Enrico e Sisto.

Il libro terzo enumera in cinque capitoli le grandi opere edilizie che trasformarono in soli cinque anni il Vaticano e la città di Roma, e i suoi atti di governo per tutto il mondo cattolico. La morte del Pontefice che seguì mesi dopo con sospetto di avvelenamento, fece spargere la voce che il re di Spagna non vi fosse estraneo (Giovanni Polvani D.O.B.).

 

 

BREVE PONTIFICATO

DEGLI

ULTIMI PAPI  DEL “500”

 

URBANO VII

 

URBANO VII (Giambattista Castagna, 1590); il primo atto compiuto dal papa appena eletto, fu di pagare con il proprio, i debiti contratti dai poveri con il Monte di Pietà; fece distribuire pane e carne agli indigenti della città e sobborghi; fece fare un censimento dei poveri non idonei al lavoro;  emanò una ordinanza che disponeva che i panettieri migliorassero la qualità del pane e ne abbassassero il prezzo.

Chiamò gli ambasciatori ai quali disse che durante il suo regno non vi dovevano essere guerre e doveva regnare la concordia tra i popoli. Nominò una commissione che doveva procedere alla riforma degli Ordini religiosi, in particolare della Compagnia del Gesù, centro di tutti gli intrighi e focolare di tutti gli incendi che devastavano i regni: ... e firmò così la sua condanna; morì infatti avvelenato, come il suo predecessore, dodici giorni dopo la sua elezione (26 settembre).

 

GREGORIO XIV

 

GREGORIO XIV (Niccolò Sfrondato, 1590-1591): ebbe l’accortezza che appena eletto, per non fare la fine del suo predecessore,  si dichiarò favorevole ai gesuiti e poiché le casse del Vaticano erano piene del danaro messo da parte dal papa Sisto V, lo utilizzò per costituire un’armata che affidò al nipote Ercole Sfrondato creato duca di Monte Marciano, che spedì in Francia a sostegno della Lega e nello stesso tempo con due Brevi ordinava agli ecclesiastici, signori e magistrati fedeli, di uscire entro quindici giorni dal regno di Enrico; nello stesso tempo con nuove Bolle dichiarava il re decaduto dal trono e privato di tutti i suoi diritti.

Marcello Landino fu incaricato dai gesuiti di diffondere quesete Bolle, ma ottennero l’effetto contrario: il Parlamento di Tours e la Camera di Chalons le fecero gettare alle fiamme e Landino fu arrestato. L’assemblea dei vescovi dichiarò che erano contrarie ai canoni e ai Concili. Il re si trovò più potenete e revocò gli editti pubblicati contro gli ugonotti. Il papa non si tirò indietro e ordinò ai capi della Lega di conferire le corona di Francia al re di Spagna, ma questo suo ordine non ebbe esecuzione in quanto lo colse la morte (15 Ottobre 1591).

 

CLEMENTE VIII

 

CLEMENTE VIII (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605), di Fano, il quale chiude il secolo, sebbene il nepotismo continuerà beatamente nei secoli successivi!

Il papa riconosce il nuovo sovrano di Francia, Enrico IV di Borbone, convertitosi al cattolicesimo e crea (1596) una eommissione cardinalizia per mettere fine alla controversia sulla grazia, tra gesuiti e domenicani.

Secondo il costume del tempo spinto all'eccesso da questo Papa, brillava intorno a lui tutta la tribù degli Aldobrandini. Purtroppo non vengono dati tutti i nomi della tribù, ma ci vengono offerti i nomi di:  Cinzio Aldobrandini, Cardinale di S. Giorgio, nipote del Papa essendo figlio della sorella Giulia maritata ad Aurelio Personei, ma per ragioni facili a intuirsi, onorato col cognome materno;  creato Cardinale insieme col cugino Pietro  nel 1593, ma divenuto Segretario di Stato fin dal 1592, in sostituzione del Vescovo di Bertinoro; il Cardinale Pietro Aldobrandini, altro nipote del Papa essendo figlio del fratello Pietro, sposo di Flaminia Ferracci, creato Cardinale a 21 anni, incaricato di alti affari e divenuto anche Camerlengo; da non confondersi con un altro Cardinale Aldobrandini (Silvestro), pronipote del Papa, essendo figlio della nipote Olimpia maritata a Giovan Francesco Aldobrandini, creato Cardinale impubere, nel 1603; Jacopo Aldobrandini del ramo di Brunetto Aldobrandini, ramo rimasto in Firenze, figlio di Francesco e Clarice Ardinghelli, già Canonico di S. Lorenzo, poi Referendario della Segnatura sotto Sisto V, poi governatore di Fano, poi mandato come Nunzio in Napoli nell' aprile 1593, e in dicembre dello stesso anno creato Vescovo di Troia in sostituzione di Monsignor Rebibba, nonché assistente al soglio Pontificio. Fra tanti Aldobrandini in carica, per i quali non mancavano in Roma le Pasquinate, c'era anche un fratello di Jacopo a nome Pietro, capitano della Guardia Pontificia.

 

 

I LETTERATI

RINASCIMENTALI

IN ITALIA

 

 

D

agli studi umanistici si passa alla letteratura che non trova nel Rinascimento quella  ricchezza e varietà di espressione che si era sviluppata nelle arti figurative; i gusti e le aspirazioni di una società àulica ed elegante del tempo, li ritroviamo nella bella prosa del  Cortegiano” di  BALDASSAR CASTIGLIONE (1478-1529) da considerare tra le prime opere delle lettere di quel periodo.

Proprio per quella elegante società LODOVICO ARIOSTO (1474-1583) creò il suo capolavoro: l'Orlando furioso, ove, dissolvendo gli ideali cavallereschi, serenamente rispecchiò l'animo umano nella sua complessità, nel suo vario commuoversi, nei suoi mutevoli atteggiamenti  di gioia e di tristezza.

Alla Corte di Isabella d’Este e poi di Francesco Gonzaga, troviamo MARIO EQUICOLA (1470-1525) cortigiano di cultura neoplatonica, dotto, brillante, abile narratore dal motteggio acuto, che aveva scritto il “Libro de natura de Amore”, “Istituzioni del comporre in ogni rima della lingua volgare con un eruditissimo discorso di pittura e con molte segrete allegorie circa le muse e la poesia”e “Cronica de Mantua”.

La realtà che si riflette nel poema poeticamente trasfigurata dell'Ariosto, è invece osservata con freddo occhio indagatore da NICOLO' MACHIAVELLI (1469-1527), che studiò la vita del suo tempo in una mirabile commedia: La Mandragola, corollario letterario della sua realistica visione politica, per cui la storia è dominata dagli scaltri e dai forti che piegano inetti e deboli ai loro fini particolari.    

Pur movendo dalle stesse premesse, giunse a diverse conclusioni FRANCESCO GUICCIARDINI (1488-1540), in quanto egli ritenne perennemente mutabili le cose del mondo e perciò non giudicabili con una sola norma; più che di politico, la sua natura fu di storico e di moralista.

Tendenze moralistiche le troviamo in GIOVANNI DELLA CASA (1503-1556), GIOVAN BATTISTA GELLI (1498-1583), meglio ancora in ANTON FRANCESCO DONI (1513-1574), e  anche, amaro novellatore, prosatore nervoso e pittoresco in dialoghi di argomento triviale, eccellente in lingua nelle “Lettere”.

Il primato della novellistica del secolo, è dato a MATTEO BANDELLO (1485-1561), mentre ANNIBAL CARO (1507-1566), nelle “Lettere”, nella descrizione di fatti, ritratti di persone reali e vivac,i si  rivela ottimo narratore.

Secolo vario il XVI, chè dalla togata prosa del Bembo, passa a quella delle “Lettere” di Mlchelangelo e al linguaggio delle sue Rime, le une e le altre scolpite col rilievo tipico del grande artista, a quella della “Vita del Cellini”, asintattica e pittoresca, tutta fremente di vita, e a quella di GIORGIO VASARI (1511-1574), finemente interpretativa e penetrante nelle “Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori”.

L'eleganza stilistica fu, certamente, uno del caratteri predominanti del secolo; ma raramente corrispose ad essa alcunchè che andasse oltre l'imitazione dell'antico.

La poesia, con PIETRO BEMBO e tutta la coorte dei pétrarchisti, ebbe rade voci sincere, appassionate come quella di GASPARA STAMPA (1523-1554) o di GALEAZZO DI TARSIA (1476-1558), “con accenti di accorata mestizia” come in alcune liriche del Della Casa, molli e musicali come in LUIGI TANSILLO (1510-1568). Nella corrente realistica, se mai, occorre ricercare accenti e voci vere di poeti in TEOFILO FOLENGO (1496-1544) o in FRANCESCO BERNI (1497-1535).

Altri accenti porterà, nella seconda metà del secolo, nell'atmosfera creata dalla Controriforma, tra il turbamento del popoli, TORQUATO TASSO (1544-1595), uomo di dottrine incerte e contraddittorie e pertanto non grande intelletto né forte carattere, né cordiale né espansivo, solitario, con un fondo di vena malinconica ma di temperamento lirico irresistibile e poeta istintivo (D.B.).

 

 

ERASMO

DA ROTTERDAM

 

 

I

n tutta l’Europa, brilla la stella di ERASMO DA ROTTERDAM (1466/68-1536), europeo per eccellenza, definito da Lutero “il più spregevole miscredente apparso sulla terra”, ma Lutero errava in quanto Erasmo era convinto assertore della Riforma ma non aveva accettato di passare dalla sua parte perché voleva che fosse riformata la Chiesa di Roma alla quale era rimasto fedele.

La sua idea di riforma Erasmo l’aveva espressa nella sua “Philosofia Christi” le cui fonti derivavano da Wycliff, Gerard Groote, Lorenzo Valla e Savonarola; egli liberando la religione dai risvolti intellettuali, ormai inutili, della scolastica e dalle forme meccaniche di culto che monaci e frati avevano diffuso tra le plebi ignoranti, si rivolgeva alla fede predicata da san Paolo e sosteneva il ritorno alla Bibbia, in particolare al Nuovo Testamento e allo spirito primitivo del cristianesimo che aveva regnato prima che un clero geloso dei propri privilegi “lo  disseccasse in un dogma formale e lo seppellisse sotto uno strato di riti giudaici”; dopotutto il testo, grazie all’invenzione della stampa, era a disposizione degli studiosi italiani e poteva essere mondato da tutte le interpolazioni e incrostazioni e presentato nella sua forma originaria. “Il teologo”, sostneva Erasmo, “ha il dovere di divulgare la semplicità delle Sacre Scritture”.

Questo insegnamento era quello divenuto poi, protestantesimo, ma Erasmo lo aveva enunciato prima che che Lutero lanciasse le sua sfida e la filosofia di Cristo permea tutte le sue opere: gli Adagia, le Parafrases, i Colloquia, l’ Elogio della Pazzia e l’ Enchiridion militis Christiani. Quest’ultimo quando fu pubblicato (1504) non aveva riscosso molto successo in quanto Erasmo non era ancora conosciuto, ciò che avvenne dopo la pubblicazione a Venezia (1508) da parte di Aldo Manuzio, degli Adagia (v. Art. Primi umanisti e stampatori a Venezia), e stampato successivamente (1518) a Basilea fu tradotto, dal latino,  in tedesco, olandese e francese.

Il maggior successo l’Enchiridion lo ebbe  quando, varcando i Pirenei, venne tradotto (1524) in Spagna  e conquistò quelle élites; il fatto era pardossale in quanto Erasmo, strano a dirsi, era antisemita, detestava gli ebrei e odiava la Spagna e il Portogallo che, lui grande viaggiatore, rifiutava di visitare e aveva scritto “In Italia vi sono molti ebrei, ma in Spagna non vi sono quasi cristiani” e del Portogallo definiva il suo re, droghiere (per il traffico marittimo delle spezie).

Ciò derivava dal fatto che egli attribuiva al termine “giudaismo” un significato religioso che equivaleva a formalismo talmudico, a riti farisaici e quindi al “culto meccanico” che a suo giudizio aveva soffocato nel cristianesimo la filosofia di Cristo; e ironicamente,  erano proprio i cristianos viejos  a rappresentare il giudaismo a causa della loro ortodossia, coloro che resistevano maggiormente al movimento erasmiano mentre i conversos (nuovi cristiani) erano i più disposti ad accoglierlo.

Erasmo odiava e disprezzava i frati (esclusi i certosini) che come tutti riconoscevano, negli utlimi due secoli i monaci non avevano dato alcun contributo alla religione, se non perpetuare tra la gente ignorante quel culto meccanico. opere, pellegrinaggi, reliquie, indulgenze che la filosofia di Cristo non aveva mai ammesso.

Tutti erano d’accordo che negli ultimi due secoli i frati non avevano dato alcun contributo alla religione, alla società, alla cultura; essi costituivano il cancro della Chiesa e tutti erano d’accordo nella loro abolizione; il grido di battaglia era stato lanciato nell’Enchiridion trent’anni prima: monachus non est pietas, lo stato monacale non è pietà: e i monaci ricchi e potenti si vendicarono.

Nel 1527 i frati spagnoli riuscirono a strappare all’Inquisitore generale il consenso a un processo alle sue opere da parte di una assemblea di teologi di Valladolid; egli fu attaccato per il suo spirito problematico, la sua scomoda erudizione, il suo stile insinuante; i grandi erano dalla sua parte, lo stesso Inquisitore generale lo difese, l’imperatore scrisse per promettere il suo appoggio, neppure il papa volle schierarsi con i monaci ed Erasmo ne uscì vincitore; ma in quello stesso anno un avvenimento fece perdere ad Erasmo l’appoggio dei suoi protettori e accelerò la sua sconfitta finale.

Il governo di Carlo V ispirato dalla visione proprio di Erasmo, acclamava la guerra e si ribellava contro la corruzione della Corte romana e il Borbone con i lanzichenecchi saccheggiarono Roma.

L’imperatore, che aveva avuto questa grande occasione di liberarsi e liberare l’Italia dal papato, nella sua debolezza, si perse di coraggio e si avvicinò al papa Clemente VII (v. sopra), che si schierava dalla sua parte (garantito dal matrimonio del nipote Alessandro con la figlia naturale Margherita e gli erasmiani furono abbandonati al loro destino nella lotta contro Lutero e contro i monaci (Trevor-Roper, Protestantesimo e trasformazione sociale. Laterza 1977).

 

IN SPAGNA

 

N

el campo delle opere umanistiche, in Spagna, la prima fase era fiorita presso la corte di Giovanni II (1406-1414) che aveva trasformato la sua corte in accademia. da cui uscì il “Cancionero de Stùñiga”, compilato dopo la morte di Alfonso V d’Aragona (1458) che illustra la vita guerresca e cortigiana del viceregni di Napoli. Iñigo de Lopez (1398-1458) animatore dell’umanesimo spagnolo che aveva trovato la sua espressione nei Cancioneros, quello di Baena (1445) dedicato a Giovanni II di Castiglia y Leòn; il Canzoniere di Stùñiga, raccolta (1458) fatta a Napoli dopo la morte di Alfonso V; il Canzoniere di Londra, raccolta successiva al 1471 di poeti che vissero dopo il regno di Giovanni II, fino a quello di Ferdinando  e Isabella.

Il Canzoniere generale di FERNANDO DE CASTILLO scritto nel 1471 e pubblicato nel 1511; nel 1492 fu la pubblicata la prima “Gramatica de la lengua castellana”; sulla produzione del  Cancionero de castello” (1511) e del “Canzoniere” (di opere scherzose) di Jan Fernandez de Costantina  pubblicato nel 1519  nessuna influenza poteva aver avuto Carlo V.

Carlo era un personaggio arido, senza alcuna passione per gli studi e per le arti e non era mai stato toccato da alcuna forma di mecenatismo né nell’arte e tantomeno nelle lettere come il suo antagonista Francesco I, o i principi e papi italiani; il solo rapporto che aveva avuto con Tiziano e con qualche altro pittore, era stato in funzione dei ritratti che amava farsi fare nell’egoistico amore di se stesso e della sua grandezza imperiale, (non a caso   ben tre umanisti che erano stati presso la sua Corte, vale a dire Cornelio Agrippa, che era consigliere storico dell’imperatore, Erasmo consigliere privato  e Vives (v. sotto), morirono tutti e tre in miseria; in Italia sarebbero stato presi  alla corte di qualche principe.

Il merito della produzione letteraria delle università di Salamanca e di Alcalà de Henares si deve al cardinale Cisneros che fece pubblicare un’opera rinascimentale  la “Bibla poliglotta complutense” (1502/14-17)  e ciò avvenne prima dell’arrivo di Carlo, con testo greco, latino, ebraico, caldeo, con grammatica e vocabolario ebraici.

La prosa, e la ventata dei romanzi picareschi e cavallereschi che ripercorrevano le tracce dell’eroe cavalleresco Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador  (1026/40-1099) e che troviamo in buona parte indicati nel don Chisciotte di Cervantes, come i due famosi Palmarini, de Oliva e d’Inghilterra (del 1511 e 1512) che erano di autori portoghesi, come Amadigi di Gaula, opera anch’essa probabilmente del portoghese Vasco de Lobeira (vissuto tra il XIII e XIV sec.) di cui circolavano manoscritti di brani, poi raccolti da Rodriguez de Montalvo nel 1525 (l’opera  aveva appassionato sia Francesco I che lo stesso Carlo V amante dei tornei v. Art.  La bibloteca di don Chiscotte”).

La Storia dell’invincibile  cavalier Neopolemo e delle imprese ch’ei fece chiamandosi il cavaliere della Croce, fu pubblicato nel 1562/63; Lo specchio della cavalleria, la cui prima parte fu scritta da Ordonez de Calchora, fu pubblicato nel 1562, le altre tre parti, nel 1580;  il don Belianigi di Girolamo Fernandez fu pubblicato nel 1579; il Ramo, ovvero Le prodezze del valorosissimo cavaliere esplandieno, figliolo dell’eccellente re Amadigi, dello stesso Rodriguez de Montalvo, fu pubblicato nel 1588;   tutte opere sviluppate dopo la  morte di Carlo V, sotto il regno di Filippo.   

La figura del “PRINCIPE” (diversamente dalla visione real-politica di Machiavelli), come portatore della più alta e perfetta umanità, si trova al centro dell'opera di Leon Battista Alberti e di Piccolomini, Platina, Pontano, Patrizi, Zabarella, Panormita e di numerosi altri.

ANTONIO DE GUEVARA (1480?-1545?), frate spagnolo, autore del  Libro áureo del emperador Marco Aurelio”, conosciuta anche sotto il titolo “Libro llamado Relox de prèncipes”, si compone di due parti che sono due opere a sé stanti: una biografia romanzesca dell'imperatore filosofo, e un trattato di etica politica nel quale è incorporata la narrazione. Fingendo di tradurre un vecchio manoscritto fiorentino dove si trovano inserite immaginarie lettere di Marco Aurelio, Guevara discetta: nel Libro I,  sul principe cristiano; nel Libro II, sul suo modo di comportarsi nei confronti della moglie e dei figli: nel Libro III,  sul suo modo di esercitare il governo.

Il libro é uno dei tanti trattati moralistico-politici in cui al realismo del Machiavelli si sostituisce una concezione del monarca decorativamente umanistica e cristiana. Tradotta in inglese da John Bourchier Lord Berners (1469?-1533) e pubblicata postuma nel 1534, ebbe una influenza determinante sul barocco inglese, l'eufuismo, che il Lyly, più tardi, spinse alle espressioni estreme (Divo Barsotti).

LUCAS FERNANDEZ (1474 ca.-1542) il poeta spagnolo autore de  l' “Auto de la passion”, opera innovativa rispetto ai tradizionali scritti religiosi.

Come già detto sotto il regno di Carlo V era vissuto un grande umanista, JUAN LUIS VIVES (1492-1540), uno dei maggiori del Rinascimento; era spagnolo e aveva compiuto i suoi studi a Parigi e Bruges (nelle Fiandre che facevano parte dell’impero)  dove conobbe Erasmo da Rotterdam che lo iniziò allo studio delle lettere, passò ad insegnare ad Oxford e poi fu chiamato a Londra da Tommaso Moro presso la Corte di Enrico VIII dove fu precettore della principessa Maria (poi regina) e lettore della regina Caterina moglie di Enrico VIII (v.in Art. “L’Inghilterra dei Tudors”).

Considerato precursore di Bacone e di Cartesio (v. in Schede F. Sum, ergo cogito ecc.) e fra gl'iniziatori della filosofia moderna. Era stato consulente storico di Carlo V il quale, come detto lasciò che morisse (1540) in miseria.

Vives fu autore di opere umanistiche  quali, quella contro gli “scolastici” della Sorbona “Adversus pseudodialecticos” (Contro i pseudodialettici), in cui critica il “nominalismo” appunto della scolastica medievale ed altre opere positive come “De tradendis  disciplinis” e “De artibus”; revisionò su richiesta di Erasmo, il commento al “De civitate Dei” di s. Agostino e scrisse le prime opere pedagogiche come “L’educazione della donna cristiana” (Institutiones feminae cristianae), “Della ragione di studi sull’infanzia” (De ratione studii puerilis) e “Satellitium animae” (con sentenze sapienziali) e “De concordia et discordia in humano genere”, “De subventione pauperum”  e “De anima et vita” e su questo argomento il commento a “Il sogno di Scipione” (Somnium Scipionis)  sesto libro del “De Repubblica” unico di quest’opera conosciuto nel medioevo, in cui Cicerone partendo da una visione di Scipione, parla dell’immortalità dell’anima e dei premi riservati nell’oltretomba ai benemeriti della patria. 

Dell'Istruzione” (De disciplinis), è un trattato poderoso con la esposizione delle sue idee filosofiche, pedagogiche e didattiche  (pubblicata nel 1531 a Bruges e dedicata a Giovanni III del Portogallo), diviso in tre opere: la prima, "Della corruzione delle arti” (De corruptis artibus) in cui si invocano riforme della Grammatica, Dialettica, Filosofia, Morale, Diritto civile; la seconda "Dell'insegnamento, o dell'educazione cristiana” (De tradendis disciplinis, sive de doctrina christiana)"; la terza: "Delle arti (De artibus).

 La sua visione psicologico-pedagogica gli permise di esaminare la particolare situazione dell’Europa del suo tempo come lo stato di belligeranza permanente per avidità territoriale ed economica; le prime guerre coloniali di conquista; le scosse sociali causate da spostamenti di popolazioni (come quella dei turchi) nonché i violenti conflitti religiosi in “De Europae status ac tumultibus”(Dello stato dell’Europa e dei tumulti),“De dissidis Europae et bello Turicio” (Sul dissidio dell’Europa e della guerra contro i turchi) e  il “De conditione vitae christianorum  sub Turca”, e “De concordia et discordia in humano genere” e  De subventione pauperum”;  il  De anima et vita” è  considerata la sua opera migliore che lo ha fatto considerare il padre della psicologia moderna.

 

 

.

 

Sandro Botticelli - Allegoria della Nascita di Venere

 

 

 

LA PITTURA

INFLUENZATA DA

MAGIA E ASTROLOGIA

 

 

L

a pittura rinascimentale riprende i temi mitologici ereditati dal medioevo ma attraversati dalla cultura neoplatonica sfociata nelle speculazioni dell’astrologia, della filosofia naturale (magia), e dell’orfismo (*).

Gli artisti che avevano prodotto quadri come la “Storia di Psiche” di Raffaello “Mercurio e le Grazie” “Bacco e  Arianna” di Tintoretto, la “Primavera” e la “Nascita di Venere” di Botticelli e la “Morte e Venere” di Piero di Cosimo (1462-1521), “Leda e Bacco” e l’ “Amor sacro e l’amor profano” di Tiziano, erano stati influenzati dalle idee diffuse dagli umanisti Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.

Successivamente agli studi condotti durante la prima metà del ‘900 dal gruppo di storici dell’arte quali Erwin Panofsky (1892-1968), Edgar Wind (1900-1971), Fritz Saxl (1890-1948), Ernest Hans Joseph Gombrich (1909-2001) Botticelli’s Mythologies Study (in: The Neoplatonic Symbolism of his Circle - 1945) e Frances Yates (1899-1981) che, abbiamo  onorato nell’articolo (Omaggio a Frances Yates in Rinascimento magico alla corte di Elisabetta I ecc.) si erano fatti portatori di questa nuova chiave di lettura della storiografia.

Secondo G. Wind (Pagan Mysteries in the Renaissances), gli artisti rinascimentali,  attraverso gli studi neoplatonici del ‘400 di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino (v. P. I, Umanisti maghi), che avevano studiato Platone, attraverso gli ultimi esponenti del paganesimo come, Plotino (205-270), Porfirio (233-305), Giamblico (250?-330), Plutarco di Atene, (da non confondere con lo storico del IV-V sec.), e Proclo (412-485), ultimi esponenti del paganesimo e gli stessi studi condotti su Ermete Trismegisto, avevano tratto notizie su misteri, riti di iniziazione e magici che avevano poi trasfuso nelle loro opere d’arte che portano celati significati magici neoplatonici ed ermetici a tutt’oggi non ancora interamente svelati.

Quanto alla astrologia valeva l’idea diffusa da PIETRO POMPONAZZI (v. P.I) in “De naturalium effectum admirandorum causis, sive ad incantationibus liber”, in cui riafferma il principio che negli astri si raccolgono le virtù sparse per l’universo e dagli astri esse ridiscendono per penetrare nella natura e nell’anima umana per cui questa è capace a volte di compiere miracoli. 

Quindi, le figure apparentemente mitologiche come Mercurio nella “Primavera” di Botticelli e la figura centrale “Venere” (nella Allegoria della nascita di Venere), rappresentano in effetti i pianeti che inviano a chi osserva il quadro, influssi benefici e lo stesso Zefiro che soffia non rappresenta solo il vento, ma Zefiro soffia lo “spirito del mondo” che è il canale attraverso il quale si diffondono gli influssi delle stelle delle costellazioni dello zodiaco (troppo lontane per influire sulla terra, diceva Margherita Hach), ma l’astrologia oramai è insediaata da secoli nella esistenza umana e nessuno scienziato riuscirà mai a scalfirla.

Il quadro quindi, nella concezione rinascimentale è un talismano che attraverso le figure rappresentate, cattura gli influssi benefici e salutari delle stelle e dei pianeti e li invia al suo osservatore (il quadro di Benozzo Gozzoli, rappresenta Lorenzo de’ Medici (poi il Magnifico) all’età di dodici anni (v. in Specchio dell’Epoca: L’assassinio di Giuliano de’ Medici), concepito dall’autore come un quadro propiziatorio per la futura grandezza  di Lorenzo...che non si può dire che non avesse avuto effetto!

Con la conseguenza che i pittori rinascimentali, che ai nostri occhi sono già grandi per le opere  sublimi che ci hanno lasciato, sono ancora più grandi per il significato occulto che hanno impresso alle loro opere, che a distanza di secoli di studi, non ancora si è risusciti a decifrare.

Ecco perché opere ispirate da riferimenti magici e da riferimenti agli influssi dei pianeti come la Primavera e l’Allegoria menzionati di Botticelli, Marte e Venere di Piero di Cosimo, Leda e Bacco, l’Amor sacro e l’amor profano di Tiziano, sono opere non ancora completamente decifrate.

Le nuove idee magico-astrologiche si affermarono anche all’estero e le troviamo in Germania trasfuse nelle opere di Dührer che dopo i suoi viaggi in Italia ispirato dalle idee umanistiche, aveva creato capolavori come “Il cavaliere e la morte” “Il diavolo” “S. Gerolamo” e “Melancolia I”, idee che erano poi passate nell’Inghilterra elisabettiana, dove si affermava il mito di Diana, di Astrea e della Vergine, tutto a edificazione della grande regina (v. in Articoli: cit. Rinascimento magico ecc.).

Opera magico-astrologica per eccellenza è l’incisione denominata Melancolia I, (v. sotto), lavoro estremamente complesso che appare in un luogo freddo e solitario, non lontano dal mare che si intravede sullo sfondo, appena rischiarato da un barlume della luna come si deduce dalle ombre della clessidra sulla parete e dal funesto bagliore di una cometa. La figura è alata, con il volto scuro, con un compasso,  accovacciata su una bassa lastra di pietra in prossimità di un edificio incompiuto, accompagnata da un putto imbronciato che appollaiato su una mola abbandonata, scribacchia qualcosa sulla lavagna, e da un cane scheletrico scosso da brividi. Nel cielo un pipistrello pronuncia eternamente un’unica cupa parola: Melancolia I. Lo strano assortimento di oggetti sotto un cielo tenebroso popolato di segni che nel loro significato simbolico nonostante scritti notevoli, non ancora è stato svelato.

 

 

*) L’orfismo, di cui Platone secondo Proclo, sarebbe stato l’erede, si fonda su un sistema trinitario della trasmutazione data dallo sviluppo dell’universo in triadi e dalla coincidenza dei contrari nell’unità, che sono i principi applicati alle composizioni più ermetiche e ne costituiscono la struttura nascosta.

 

 

Albrecht Dürer – Melancolia I

 

 

SATURNO

RIVALUTATO

 

 

D

ai quattro elementi primordiali degli antichi filosofi greci costituiti da acqua, aria, terra e fuoco sono poi derivati i dodici segni zodiacali: aria: cancro, scorpione pesci; acqua: bilancia, gemelli, acquario; terra: toro, vergine e capricorno; e fuoco: ariete, leone e sagittario.

L’idea medievale su Saturno era che tra le quattro categorie di temperamenti umani designati in base agli umori, e secondo le fonti arabe collegati agli astri: temperamento sanguigno, attivo, fiducioso, fortunato ed estroverso, questi temperamenti risultavano buoni governanti e uomini d’affari, collegato agli astri Venere e Giove;  temperamento collerico portato agli  scontri, collegato a Marte; temperamento  flemmatico: attribuito a persone tranquille, un pò letargiche, collegate alla Luna; temperamento malinconico:  denotava le persone tristi, infelici, sfortunate, condannate alle occupazioni più servili e spregiate, collegato appunto con Saturno.

Di conseguenza il melanconico era scuro di carnagione, nero di capelli e nel volto. La sua tipica posizione fisica espressiva di tristezza e depressione era di appoggiare la testa sulla mano. Le sue attività erano quelle della misurazione nel calcolo, nel conto: misurare la terra o contare il denaro; queste attività erano più basse di quelle influenzate dagli altri pianeti: vediamo infatti, la Melancolia di Dürer con il colorito livido, la carnagione scura che sostiene la testa con la mano nella posizione della persona pensierosa.

Il Rinascimento però  aveva rivalutato la figura di Saturno portandolo sul grado più alto, ritenendo che la malinconia fosse un segno di genialità, quello dei grandi uomini, dei grandi pensatori, dei profeti, dei veggenti religiosi. Essere malinconico era segno di genialità: le caratteristiche, gli studi di calcolo e di misurazioni, portavano l’uomo al livello della divinità.

Questa nuova qualificazione di Saturno fu ripresa rifacendosi ad Aristotele che nell’opera “Problemata phisica” attribuisce la melanconia agli eroi e grandi uomini. La spiegazione derivava dalla considerazione che il delirio eroico, l’esaltazione (furor) che secondo Platone è la fonte di ogni ispirazione, combinandosi con la malinconia produce genialità. Tutti gli uomini eminenti sono malinconici come Ercole, filosofi come Empedocle e Platone e tutti i poeti. Questa teoria fu trasfusa nel neoplatonismo e accettata in tutta Europa.

Oltre alla malinconia rappresentata da Saturno vi erano gli altri dei della mitologia che avevano caratteristiche particolari nella loro ambiguità, come l’eloquente Mercurio che rappresenta il silenzio; Apollo ispiratore della frenesia o della moderazione; Minerva, contemporaneamente dea della pace e della guerra; Pan si nasconde nel multiforme Proteo (F.Yates, Cabala e occultismo nell’età elisabettiana,1982, Einaudi).

 

 

LA PITTURA IN

 ITALIA  BACIATA

 DALLA GRAZIA

DELLA FORTUNA

 

 

V

i sono nella storia periodi che sembrano magici, in cui si amalgamano varie combinazioni che sembra siano derivate da benefici influssi che fanno sviluppare insieme arti e scienze e sembra vogliano innalzare alla gloria il personaggio che governa in questo particolare momento: nel periodo che stiamo esaminando troviamo Lorenzo de’ Medici (1449-1492) come si verificherà in Inghilterra con Elisabetta e in Francia con Luigi XIV.

L’ Italia, in particolare la Toscana  tra ‘400 e ‘500, è baciata dalla grazia della fortuna, e produce pittori  come PIERO DELLA FRANCESCA (1415/20-1492), ANDREA  SOLARIO (o Solari 1473-1524) e il fratello CRISTOFORO detto il GOBBO (m. 1527), con le poche opere pittoriche di LEONARDO DA VINCI (1452-1519), genio universale e precursore delle scienze moderne.  

MICHELANGELO BUONARROTI.(1475-1574) pittore, scultore e architetto; RAFFAELLO SANZIO (1488-1520), artista squisito, interprete della grazia femminea e della grandezza virile ed eroica. Il papa Adriano  VI non vedeva di buon occhio tutte le sue nudità della Cappella Sistina e, per fortuna morì di malaria, prima di decidere di far togliere quei meravigliosi affreschi che hanno potuto affrontare i secoli.

Particolarmente ricche di colori sono le opere dei maestri veneziani Giorgio Barbarelli detto il GIORGIONE (1478-1511), TIZIANO VECELLIO (1477-1576), Iacopo Robusti detto il TINTORETTO (1518-1594). Alla tradizione della "scuola veronese”, si agganciano le figure di Paolo Caliari detto  VERONESE (1528-1588).

Nel solco di Leonardo e degli altri maestri troviamo ANDREA DEL SARTO (1496-1531), per la ricca tecnica e il disegno, nello stesso tempo, gentile e nervoso.

Si esce dalla pittura del Cinquecento con ANNIBALE CARACCI (1560-1609), che ebbe molto vivo il senso del colore e della decorazione. Ma se questi fu li promotore della corrente secentista decorativa, Michelangelo Amerighi detto il CARAVAGGIO (1569-1609) promosse quella del chiaroscuro e diede vita ad un potente realismo. Ad essi dobbiamo  aggiungere ARTEMISIA GENTILESCHI (1593-1653) figlia di Orazio Gentileschi (1563-1639) appartenente alla scuola del Caravaggio.

 

IL

 “SIEGLO DE ORO”

IN SPAGNA

NELL’INDIFFERENZA

DI C ARLO V

 

 

N

el corso della storia vi sono stati personaggi che sono diventati grandi per  avvenimenti che si sono verificati durante la loro vita, senza che essi vi abbiano in qualche modo influito, avvenimenti che hanno finito per illustrare e ingigantire la loro figura che in certo qual modo si è appropriata di meriti altrui.   

Ciò che si è verificato con Carlo V, vissuto nel periodo dello splendore rinascimentale e in un’epoca definita in Spagna Sieglo de oroil secolo d’oro” che gli sono, per così dire, scivolati addosso, in quanto si sono verificati senza che gli si possa attribuire alcun particolare merito di mecenatismo, sebbene una fortuna sfacciata, anzi, spudorata, oltre ad averlo insignito del titolo imperiale a diciannove anni (ottenuto, come abbiamo visto, corrompendo gli elettori a peso d’oro), si era trovato a dominare su territori che occupavano mezzo mondo terraqueo.  

Questo secolo d’oro infatti per errore storico viene fatto iniziare con il periodo del suo regno, per il quale Carlo V non aveva avuto nessun merito, sia per gli studi umanistici che erano fioriti e si erano sviluppati prima del suo avvento, sia come produzione letteraria (v. sopra) e opere d’arte rinascimentali, che si erano sviluppate dopo di lui con l’avvento del figlio Filippo II, amante dell’arte.

Insomma, con Carlo V non si erano create le condizioni di quella esplosione dell’arte rinascimentale e sviluppo della letteratura, delle arti e delle scienze che in Italia si era avuta per merito dei vari principi, primo fra tutti Lorenzo il Magnifico e dei papi, e si era irradiata nelle Fiandre (territorio sottoposto alla Spagna, certamente non per suo merito), in Francia con Luigi XII, Carlo VIII e Francesco I (che venuti in Italia per le guerre, erano rientrati in Francia portando le Arti!), in Germania e nell’Inghilterra elisabettiana.

Carlo V,  vissuto in piena età rinascimentale ne era stato appena sfiorato in funzione di se stesso. Solo la vita lussuosa da cui era circondato e l’imperiale e universale consapevolezza della sua persona, lo aveva portato a farsi ritrarre da Tiziano e da famosi pittori dell’epoca (Lucas Cranach, Parmigianino, Bernard Strigel, B. Berham (incisione), Bernaert van Orley e Yosse van Cleve).

La sua passione per l’arte era limitata all’amore per se stesso che si riversava nei suoi ritratti e la storiella che suoi ammiratori aveano fatto circolare sul “pennello che era caduto dalla mano di Michelangelo” (che doveva continuamente sollecitare i pagamenti per i ritratti che gli faceva!) e la frase che “il potere si inchinava di fronte all’arte”, era stata messa in  giro a sua edificazione (tra l’altro soffriva di artrosi e non si poteva piegare!). Egli era assolutamente privo dello spirito del mecenate di cui invece era dotato il suo antagonista Francesco I; la prova è data dalla morte in miseria  in cui aveva lasciato i tre grandi umanisti Vives, Agrippa  ed Erasmo, come abbiamo già riferito.

Per fortuna il Rinascimento si stava sviluppando ugualmente a prescindere da lui e per merito di altri mecenati.

I suoi regni di Spagna, di Napoli e Sicilia (in cui l’Umanesimo era fiorito sotto il regno di Ferrante d’Aragona e del figlio Alfonso con l’arricchimento dell’Università dove erano stati chiamati a insegnare il Panormita, Sannazzaro e Pontano e pubblicate opere di Diomede, Carafa, Galateo, Tristano Caracciolo), in Spagna troviamo ALONSO BARRUGUETE (1486-1561) fernando yañez de l’almedina  e  ferdinando de los llanos (seppur documentati tra il 1506-1531) e che, sotto l’influenza di Leonardo, di fra Bartolomeo e del Perugino, collaborarono ad affrescare la cattedrale di Valencia, dopo di che Yañez passava alla cattedrale di Barcellona e quindi a Cuenca (1526-1531), ma non per merito dell’imperatore!

Nella Spagna l'esempio italiano fu soffocato dalla prorompente prepotenza del gusto nativo, quale dimostrano BARTOLOME’ ORDONEZ (m. 1520), fondamentalmente scultore, A. BARRUGUETE, GASPAR BECERRA (1520-1571), questi due ultimi non insensibili al michelangiolismo.

L'HERNANDEZ (1566-1686) ebbe accenti berniniani, ma rivissuti con robustezza e più intima religiosità; G. DE ARFE (1528-1603) lasciò predominare l'impeto e la serenità pastosa spagnola; MARTINEZ MONTANEZ (1568-1649) è vivo di fede e spontaneamente naturalistico, e cosi il discepolo ALONSO OANO (1601-1667).

L’architettura rinascimentale in Spagna, appena abbozzata nella prima metà del 1500 (nell’Alhambra di Granada con il palazzo di Carlo V iniziato nel 1539 da Pedro Machuca, sarà terminato solo nel 1600), a Burgos con la torre centrale della cattedrale iniziata nel 1540, e alcune costruzioni a Siviglia,  si  svilupperà nella seconda metà del secolo per merito di Filippo II (l’Alcazar di Toledo e L’Escurial) il quale aveva una maggiore sensibilità per l’arte (partricolarmente erotica!); la pittura rinascimentale spagnola si  svilupperà con  E. MURILLO, RIBEIRA, ZURBANA, MORALES, VALDES LEAL, EL GRECO, con esclusione del Regno di Napoli e  Sicilia.

Questi due regni proprio con l’inizio del sec. XVI, terminate le guerre a favore della Spagna (v. Articoli: L’Europa verso la fine del Medioevo: L’Italia alla fine del 1400 ecc.,P. IV) erano stati degradati a terre di conquista e dopo una prima stagnazione della economia, si avviarono verso un inesorabile declino determinato dalla pesante pressione fiscale che colpiva i settori produttivi sui quali si basava la ricchezza del paese e principalmente l’agricoltura (come scrive C.M. Cipolla in “Storia Economica dell’Europa pre-industriale”).

Essa poi  finiva per ricadere sulle spalle dei meno abbienti, imposta  da tronfi viceré (**) che avevano introdotto tra pompe e ricercatezze, tutta quella prosopopea spagnoleggiante ( v. citato art.: par. Gli aragonesi  e lo spagnolismo meridionale), che a sua volta era stata preceduta dalla retorica bizantina, di cui ancora oggi, dopo secoli. se ne  trovano segni tangibili negli atti prodotti dalla burocrazia della pubblica amministrazione, prolissi articolati e incomprensibili (che prima di essere pubblicati, dovrabbero passare al vaglio dell’Accademia della Crusca come era stato disposto durante il Ventennio!).

Costoro si erano circondati di una famelica e sempre più numerosa e corrotta burocrazia, che incideva notevolmente sulla finanza pubblica (*) a cui si aggiungevano i  contributi che dovevano essere versati a Madrid, capitale dei due regni!

La decadenza portò ambedue i regni, nell’arco di un secolo, al livello del sottosviluppo dal quale ancora oggi quelle regioni sono afflitte, oppresse dalla pesante burocrazia, che ora come allora assorbe una buona parte di quelle risorse che potrebbero servire al loro sviluppo (**) mentre Napoli e Palermo (e Roma!), mal governate, sono ridotte a un cumulo di rifiuti che sono mandati in giro per l’Europa, a causa del rifiuto di dotarsi di un moderno e autonomo sistema  di smaltimento!

 

 

*)   Dei vicerè l’unico a meritare di essere ricordato è  stato don Pedro Toledo (v. in  Art. “Nobiltà ribelle nel regno di napoli” ecc.): in questo articolo un vile hacher. ha deturpate tre immagini  per puro sfregio; si tratta di un alpino, di alto grado (penna bianca!) in pensione, che conosce la impostazione tecnica della rivista, che ha così confermato che tra gli alpini vi sono anche gli incivili, che si comportano come come i  molestatori di cui ha parlato la sttampa negli  ultimi tempi!   

 

NOTA DI ATTUALITA’

 

**)  Mentre scriviamo (11-12-2o1o) la stampa annuncia che in Sicilia sono stati assunti con un unico tratto di penna, tremila dipendenti, che aggiunti ai precedenti 27.ooo ora sono iventati 3omila (cosa faranno mai, visto che in Lombardia sono solo seimila?) ... una oscenità!

E’ così che la Regione Autonoma crea posti di lavoro, stipendiando i siciliani con danaro pubblico; mentre si trascurano i problemi di sviluppo, di immondizia (incapaci a smaltirla!), di trasporti  (hanno ancora la ferrovia a un solo binario, ma nello stesso tempo al Teatro dell’Opera a Palermo hanno l’Orchestra sinfonica stabile!), e durante l’estatae hanno il problema della mancanza di acqua, distribuita dalla mafia ... che domina anche in quelle Università!  

Abbiamo appena finito di correggere il presente lavoro (8 Aprile 2023) che spprendiamo la notizia della nomina per l’Italia, colpita dalla siccità, di un Commissario Straordinario che dovrebbe sovraintendere alla soluzione di questo problema.

Il nuovo Commissario, per prima cosa, si è trovato di fronte a trentamila Enti che si occupano di questo problema: Oltre ad essere una oscenità è una stortura di sistema che non consente un decente sviluppo del Paese; e ciò aviuene perché nessuno dei Governi che si stanno continuamente alternando metta le mani suklla Spesa Pubblica!

Vi sono duemilaottocento società partecipate comunali, con bilanci negativi (servono a foraggiare i politici che rimangono senza incarichi!), che Carlo Cottarelli aveva trovato se ne dovevano elinmnare duemila; ma, si è verificato che invece di essere ridotte, sono nel frattempo aumentate di numero!

E’ questa tutta una ragnatela ordita dal P.D. (attualmente in disfacimento), in cui avevamo posto tutte le nostre speranze di rtforme, che ci ha traditi, mirando invece ad occupare tutti i centri di potere  in cui ha sistemato i suoi burocrati di poartito, riducendo in povertà l’intero Paese: si pensi solo che gli immobili negli anni 2020-2022 hanno perso valore e si vendono (quando si riesce a venderli) a un terzo del loro valore effettivo!

Non sappiamo se il nuovo Governo di Destra, al quale auguriamo la  durata dei cinque anni, sarà in grado di eliminare tante storture da cui l’Italia è afflitta e che in primo luogo, riesca a realizzare il PNRR, in maniera  organica, che vediamo in pericolo in quanto si stanno avanzando molti dubbi di ordine organizzativo e di ordine tecnico  (V. Schede, L’idea di Solimano il Magnifico di cconquistare l’Italia e La ricostruzione dell’Italia, come finirà?). 

Dal punto di vista organizzativo la coalizione di Governo non risulta avere idee chiare e uniformità di intenti, per il prevalere di forme ricattatorie proprio dalla parte minoraitaria, e, dal punto di vista tecnico la P.A. è assolutamente priva di tecnici (ingegneri e architetti) che siano in grado di predisporre idonei progetti, come si è già verificato, l’Italia ha mostrato di non esssere in  grado di utiliizzare i Fondi della U.E. !

Come avevamo scritto quando il PNRR era nelle nani di Mario Draghi (cit. Scheda), ci aspettavamo una ricostruzione omogenea in modo che l’intero Paese possa  adeguarsi ai tempi, atteso che è in arretratto di trenta-quarant’anni, con realizzazioni uniformi di informatizzazione (che deve essere unica e non frazionata per regioni!), alta velocità, autostrade, case popolari, carceri, realizzazioni che dovrebbero essere dirette da una sola mente e visto che Draghi è stato tolto di messo, dovrebbe essere nominato un Commissario Straordinario preparato ad affrontare la situazione, che potrebbe essere Carlo Cottarelli, l’unico in grado di affrontare organicamente e uniformemente la situazione e nello stesso tempo sarebbe un gesto verso la Sx. di pax sociale, visto che è anche interesse della Sx. condiividere la realizzazione del PNRR.

Si eviterebbe così la confusione che verrebbero a creare i centosettantanovemila progetti presentati dalle varie amministrazioni, scollegati e frantumati che darebbero luogo a un vero e proprio guazzabuglio nazionale col risultato  che l’Italia continuerebbe a rimanere nello stato pietoso in cui si trova!  

 

 

IN FRANCIA

 

 

I

l Rinascimento italiano aveva abbagliato gli illuminati re di Francia  Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I che, come detto, venuti in Italia per campagne militari, avevano portato le novità artistiche nel loro regno.

La Francia, uscita dalla guerra dei cento anni, aveva iniziato con Luigi XI (1461-83) una ripresa nel commercio e nell’agricoltura. Ebbe ulteriore slancio con Luigi XII (1462-1515) che aveva avuto come sostegno il ministro-cardinale George d’Amboise. 

Con l’avvento di Francesco I, al ritorno dalle sue campagne d’Italia, incominciarono a sorgere i bei castelli della Loira di Chambord, Ambois, Blois, Chenonceaux, Valencay, Ussé, Montresore, Luyne e tanti altri, che costituiscono il simbolo della magnificenza rinascimentale francese.

E in Francia erano stati chiamati artisti italiani come Leonardo accolto da Francesco I  morendo tra le sue braccia, lasciandogli in dono La Gioconda.

FRANCOIS RABELAIS (1483/94-1553) con il suo mordace sarcasmo traccia l’idea dello Stato, ispirandosi alla Repubblica di Platone.

Il trionfo dell’arte rinascimentale avviene  solo nella seconda metà del Cinquecento, mentre nella prima parte del secolo accanto alla scuola di Fontainbleau dove lavorano due artisti italiani B. ROSSO  FIORENTINO (1494-1541) e F. PRIMATICCIO (1504-1570) che operavano con influssi michelangioleschi, emersero due ritrattisti, JEAN CLUET (1485-1545) sul quale aveva avuto influenza Andrea Solario (v. sopra) e JEAN FRANCOIS CLUET (1522-1572).

 

L’ARCHITETTURA

E LA  SCULTURA

 

 

I

n Italia dalle forme tipiche dell'architettura del Quattrocento si  passa alla linea veramente classica del Cinquecento, allo stile, cioè, che più propriamente si è detto del Rinascimento, con DONATO BRAMANTE (1444-1514), il quale, pur non respingendone del tutto le influenze, usci per primo dagli schemi e dagli atteggiamenti regionali, dando vita a uno stile nazionale, dai suoi  discepoli (Michelangelo) diffuso per molte regioni d'Italia".

Dagli esempi di Bramante e di Michelangelo si svolge tutta l'architettura del sec. XVI, essendo sorretti i loro principi da un diffuso spirito teorico e da uno studio appropriato di regole costruttive, come documentano i trattati del Vignola, dello Scamozzi e del Palladio e i disegni di S. SERLIO (1475-1552).

JACOPO  BAROZZI, detto il VIGNOLA (1507-1578), operò prevalentemente in Roma, dove LORENZO BERNINI (1598-1680) doveva strappare l’architettura al gusto classico cinqucentista e dar vita al barocco, cui F. Castelli detto BORROMINI (1599-1667) aveva dato accenti decorativi. Il Barocco giunge tardi a Milano e a Bologna, mentre a Venezia Jacopo Tatti detto SANSOVINO (1477-15729) si era attenuto alle tradizioni locali.

La scultura del Cinquecento è dominata in Italia dalla gigantesca personalità di MICHELANGELO BUONARROTI (1475-1564): architetto, scultore, pittore e poeta, “dal carattere fermo e sdegnoso, tutto dignità, espresse un accorato e profondo dramma, plastico ed umano ad un tempo, in cui ogni particolare è fuso nel calore di un Ideale profondamente sentito”. La sua arte conclude il Quattrocento,  domina il Cinquecento e anticipa i1 Seicento.

Personalissimo fu BENVENUTO CELLINI (1500-1571), e altrettanto, pur movendo da Michelangelo, riuscì il GIAMBOLOGNA (1524-1608).

Iacopo Tatti, detto il SANSOVINO, da ricordare  come architetto, da influssi del Contucci e di Michelangelo, passò ad accogliere elementi classici, temperandoli con attenti richiami veristici.

Michelangiolismo e classicismo sono superati dal Bernini (sopra indicato), in cui  invenzioni plastiche, esaltano elementi scenografci.

Aperto a un sano naturalismo, equilibrato e composto fu ALESSANDRO ALEARDI (1595-1654) che rimase sempre fedele a se stesso, anche in pieno berninismo. In Toscana rimanevano fedeli allo stile del Gianbologna, al quale per primo si sottrasse GIANBATTISTA FOGGINI  (1653-17379) il cui indirizzo venne rafforzato da G. BARATTA (1670-1747), ma già ci stiamo allontanando dai canoni rinascimentali (T.E.P.Bompiani 1938).

 

 

 

IL CAMMINO DELLA

MATEMATICA

DELLE SCIENZE

E DELLA MEDICINA

 

 

S

cienza è un termine coniato nell’Ottocento, nei secoli precedenti si parlava di filosofia naturale; il rinnovamento degli studi provocato dall'Umanesimo non poteva non ripercuotersi nel campo scientifico, con ritardo rispetto agli studi compiuti dagli arabi (v. Specchio dell’Epoca: La scienza araba ecc.) tanto che il rinnovamento scientifico si realizza veramente solo nel sec. XVII, ma con tale intensità da costituire il fatto culturale più notevole del secolo.

Il motivo del ritardo era dovuto alla onnipresente “scolastica” con la quale tutto sfociava nella teologia, di cui  la Chiesa manteneva il monopolio.

In ogni caso tra il Quattro e il Cinquecento  fra le scienze troviamo la matematica la cui origine risale al popolo dei Sumeri stabiliti nella Mesopotamia dove giunsero quattro millenni prima della nuova era; non si sa chi fossero e non si sa da dove  venissero, si sa solo che provenivano da Est e non erano né ariani nè semiti; trovarono la Mesopotamia già abitata da semiti con i quali si amalgamarono; i semiti erano giunti da Nord-ovest e avevano occupato il Nord, i sumeri occuparono il Sud detto Sumer; la zona centrale della Mesopotamia era detta Dyala.

La matematica e la scrittura (cuneiforme) avevano inizio presso i sumeri, con la annotazione su tavolette d’argilla per memoria e documento di contabilità per il re, relativamente alla quantità del  grano prodotto dalla terra.

La matematica sumerica passa attraverso la Babilonia, alla Grecia, probabilmente attraverso Creta e Rodi; i matematici greci la portano in India (forse attraverso Alessandro Magno) partecipando allo sviluppo della scienza matematica indiana che culmina con Brahmagupta (588-660); intorno al 775 furono tradotte alcune opere di matematici indiani e poco più tardi, opere di matematici greci furono tradotte in arabo; intorno all’880 i numerali indiani penetrarono nell’Islam orientale e intorno all’anno mille Gerberto (poi papa Silvestro II, 940/50-1003) li importò in Francia.

Nell’‘undicesimo e dodicesimo secolo, matematici greci, arabi ed ebrei affluirono nell’Europa occidentale dalla Spagna e dalla Sicilia e giunsero a Venezia, Genova, Amalfi, Firenze e Pisa portati dalle navi dei mercanti italiani.

Occorre ricordare l’utilizzo (VI sec. a.C)  dell’abbaco cinese (abax-tavoletta) strumento utilizzato per far di conto, realizzato con canne di bambù, l’antenato della calcolatrice, il cui discendente – suanpan – è stato utilizzato dai cinesi fino al momento della diffusione della calcolatrice (e chissà che non venga utilizzato ancora oggi nelle campagne cinesi!).

Degna di nota è la invenzione dell’algoritmo da parte del matematico persiano Abū Jafar Muammad ibn Mūsā al-Khwārizmī (750-840), da cui il termine ha preso il nome (v. cit. La scienza araba ecc. P.II), che, dopo mille e duecento anni risolve tutti i problemi di Internet e ci sta conducendo verso l’intelligenza artificiale (v. sopra)!

L’algoritmo è infatti il procedimento con il quale attraverso una formula matematica si risolve un problema; vale a dire che traducendo un  concetto in formula matematica e sviluppando questa formula, si ottiene  la  soluzione del problema posto dal concetto.

Nel dodicesimo secolo si pubblicano una serie di trattati di carattere tecnico e meccanico; sulle Macchine da guerra, KONRAD KEYSER (1366-1405); sulla Meccanica e macchine militari, ROBERTO VALTURIO da Rimini, pubblicato nel 1472; sulla Geometria descrittiva, ALBRECHT DURER; sulla Pirotecnica, VANNUCCIO BIRINGUCCIO (1480-c.a.-1539); sulla Balistica, NICOLO’ FONTANA, detto il Tartaglia (1500-1557c.a); sull’Ingegneria mineraria, GEORG BAUER-GIORGIO AGROCOLO (1494-1555); JAQUES BRESSON, scrive: “Theatre des instruments mathematique et mechanique”; AGOSTINO RAMELLI (1531-1590) scrive: Diverse et artificiose machineGIDOBALDO DEL MONTE: “Mechanicarum Libri”; SIMON STEVIN o STEVINUS (1548-1620): “Sulla Meccanica”; FAUSTO VERANZIO (1531-1617):”Machinae novae”; VITTORIO ZONCA (1568-1602): “Novo theatro di machine et aedificii”; THOMAS HARIOT (1560-1621) e ROBERT HUES (1553-1632), trattati sulla Navigazione.

Lo studio delle scienze, aveva avuto un notevole impulso fino alla prima metà del 1500. Gli inizi di questo rinnovamento datano tuttavia dal sec. XVI, nel corso della prima metà del secolo con NICOLO' COPERNICO (v. sotto), che sconvolse l'astronomia, enunciando la teoria eliocentrica nel suo trattato “De Revolutionibus  orbium coelestium  libri VI” pubblicato dai suoi allievi quando era in punto di morte, per risparmiargli un processo e una condanna dell’Inquisizione. Copernico introduceva la rivoluzione che abbatteva il sistema tolemaico introducendo il nuovo sistema eliocentrico che si sostituiva al sistema geocentrico, dando così una nuova idea dell’Universo e facendo cadere la costruzione teologica dei sette cieli sovrapposti.

Il ferrarese ANTONIO  MUSA BRASAVOLA (1500-1564), seguito dall'aretino ANDREA CESALPINO (1524-1603), al quale si deve anche la scoperta della grande circolazione del sangue, da molti erroneamente attribuita all'inglese HARVEY, che ne fu solo un efficace dimostratore, sostenne che solo una piccola parte delle piante fosse nota e che Dioscoride e Plinio ne avessero descritta una parte ancor più piccola.

Ma in questi primi passi la scienza moderna è parecchio impacciata, non si libera ancora dai ceppi della Scolastica, e perciò tale da trovare tipici rappresentanti in uomini come ULISSE ALDOVRANDI (1522-1605), in cui erudizione e credulità rispecchiano fedelmente il passato nebbioso della scienza, mentre acutezza di osservazione e pronta intuizione aprivano la via a numerose scoperte. Ma ogni giorno appariva sempre più evidente l'inadeguatezza' delle concezioni scientifiche medievali e dello scolasticismo a far progredire le scienze. Metodo prevalente era il sistema deduttivo, che con fraintendimenti derivati dalle modificazioni apportate dalle traduzioni e dai commenti arabi, dal cristianeggiamento e dall'adattamento degli scolastici dei testi aristotelici, si faceva risalire allo Stagirita, al quale si ascriveva la dichiarazione che esso fosse l'unico metodo.

Ne derivava pertanto un accomodamento dei fatti alle teorie, anziché delle teorie ai fatti; una ricerca di tutti i fenomeni nel testi, anziché nella realtà. LEONARDO (segue), tra i primi,  si era dimostrato avverso a questa teoria, e aveva dichiarato l'esperienza, madre di ogni certezza, e sostenuto indispensabile il fondamento matematico a dar carattere scientifico a un complesso di cognizioni.

I papi, fino a questa data, non avevano avuto chiusure verso la scienza. Leone X (1513-1521) e Clemente VII (1523-1534) nulla avevano obiettato sulle idee copernicane e Paolo III  (1534-1549) aveva accettato la dedica che Copernico gli aveva fatto nel libro delle Rivoluzioni.

Nel momento in cui Copernico aveva presentato la nuova immagine dell’Universo, ANDREA VESALIO (1514-1564)  presenta quella del corpo umano. Con l’opera “Tabulae sex” dà l’esatta immagine del corpo umano che fino a quel momento era stata semplicemente teorica in quanto la  dissezione pubblica dei cadaveri era proibita dalla Chiesa.

In effetti, ciò era dovuto solo a una credenza del divieto. Si era verificato che nel 1300, il papa Bonifacio VIII, aveva emanato una Bolla, “De Sepulturis”, che aveva posto un freno alla dissezione praticata dai monaci al tempo delle crociate. Era invalso, infatti, l’uso dei monaci di far bollire i cadaveri dei crociati morti, per disossarli, in modo che così alleggerite, le ossa erano spedite ai familiari per la sepoltura.

Bonifacio aveva inteso proibire questa pratica. Si era invece ritenuto che la dissezione riguardasse anche la medicina, non disgiunta dalla convinzione che secondo la dottrina della Chiesa, l’uomo era fatto ad immagine e somiglianza di Dio e il corpo, con l’anima, sarebbero risorti dai sepolcri!

Dopo Bonifacio VIII, Sisto IV (1471-1484) con un “breve”, autorizzava la dissezione, previo consenso dell’autorità ecclesiastica. Infine, Clemente VII (1523-1534), l’autorizzava definitivamente, sbloccando finalmente la situazione che risulta convergente con gli studi di Vesalio.

Andrea Vesalio, nato a Bruxelles, aveva acquisito in famiglia la sua cultura in medicina e aveva compiuto i suoi studi a Lovanio. Viaggiando era arrivato a Venezia (1537) ed era stato  chiamato a Padova, dove aveva insegnato andando poi a Bologna. In questo periodo (1543) pubblica “De humani corporis fabrica libri septem”.

La sua opera è da ritenere una pietra miliare nel campo della medicina (chirurgia), in quanto, prima di lui, il suo insegnamento avveniva con il maestro seduto in cattedra che  cantilenava le nozioni mentre l’aiutante, che era un barbiere, provvedeva ad eseguire la dissezione.

Questo sistema era stato criticato dal Vesalio secondo il quale il docente recitava la lezione imparata sui libri, senza alcun rapporto con la pratica. Con la conseguenza che il maestro recitava la lezione per suo conto, e l’aiutante, che non conosceva i termini latini, agiva anch’egli per proprio conto.

Con Vesalio, nasce l’idea dell’anfiteatro anatomico, il cui primo esempio si avrà all’Università di Padova (1594). Vesalio scopre il corpo umano rivelandone i segreti mentre  Giulio Cesare Vanini mette in dubbio l’immortalità dell’anima.

Il giro di vite era arrivato nella seconda metà del 1500, con il reazionario papa Paolo IV Carafa (1555-1559), che aveva dato impulso all’Inquisizione. Il Concilio di Trento, fece il resto, e gli studi dopo il 1555 divennero pericolosi. Il protestantesimo non concesse aperture, perché Lutero, era fondamentalista e si basava su Giosué (che aveva ordinato al sole di fermarsi!).

 

 

LEONARDO

 

 

L

EONARDO DA VINCI  (1452-1519) è un perosonaggio a sé, che non ha una precisa collocazione in quanto la sua genialità a tutto campo lo pone nella pittura, scultura, architettura, scienze, ingegneria ed anche nell’attività speculativa e con la sua genialità  aveva superato l'età umanistica e precorso quella rinascimentale; ma il mondo accademico, sempre uguale a sé stesso, ieri come oggi,   lo aveva marchiato come “homo sanza lettere”.

Indicato nel registro della chiesa di Saint Florentin d’Amboise dov’è sepolto: “primo pittore, ingegnere, architetto del re, maestro meccanico di stato e già direttore di pittura del duca di Milano”. Leonardo amava anche il mistero, da qui le interpretazioni esoteriche delle sue opere: Il “Cenacolo”, del refettorio della chiesa dei domenicani a Milano, o “Nozze di Cana”, rappresenta invece il matrimonio di Gesù con Maria Maddalena. 

La genialità pittorica di Leonardo è dovuta al fatto che ad essa, egli imprime una svolta, nel senso che la fissità della rappresentazione figurativa precedente, con Leonardo, diventa vitalità, che traspare dagli occhi, dal sorriso, dall’incarnato come emergono dal celebre ritratto di Monna Lisa detta “la Gioconda” (per la quale aveva impiegato dieci anni, ma nel frattempo aveva coltivato altri studi e progetti) e della “Dama con l’ermellino” (in effetti si tratta di un furetto) in cui è  rappresentata Cecilia Gallerani; di nobile nascita, suonava il liuto e componeva poesie aveva anche, sotto l’aspetto della dolcezza immortalata da Leonardo, un carattere forte e non aveva permesso a Ludovico il Moro di essere trattata come l’avventura del momento ma si era insediata nel castello, era riuscita ad allontanare le rivali e si era fatta assegnare una proprietà a Saronno.

Con Leonardo si apre il nuovo periodo della pittura rinascimentale. Nella “Vergine delle rocce” si è voluto vedere il culto della Grande Madre. Anche il suo sistema pittorico era innovativo. Per il “san Giovanni”, impossibile riuscire a capire quello, usato che risulta essere come un velo e rimane un mistero per la tecnica e la perfezione, anche per gli elementi tridimensionali.

Accusato di magia e negromanzia e di sezionare i cadaveri, fu processato ma ottenne una condanna lieve.

Nelle scienze condusse studi sistematici  di anatomia (con dissezione di cadaveri), dal che l’attribuzione a lui della “Sindone” (non vi è dubbio che dall’esame al carbonio l’opera sia   stata datata intorno al 1300, per cui Leonardo sarebbe da escludere dalla sua realizzazione, ma non vi è dubbio che la genialità dei mezzi tecnici usati sia leonardesca!), della botanica, matematica, ottica e meccanica, nelle costruzioni, nella progettazione di macchine e strumenti d’ogni genere: Insomma, la genialità che normalmente nell’uomo si manifesta solo in un campo, in lui era esplosa a tutto campo nelle varie discipline della  conoscenza umana. Aveva progattato per Baiazet II  il ponte sul Bosforo di 300 mt., sebbene utopistico. con idee chiare, per l’epoca, audaci e in linea di principio esatte.  

Essendo figlio illegittimo gli era vietato di studiare il latino e greco, ma la sua genialità lo portò ad un metodo semplice: quello dell’osservazione, che gli dava modo di sviluppare una mente moderna che si fondava sull’osservazione e sull’esperienza che considerava figlia della sapienza: “Le scienze che principiano e finiscono nella mente non hanno verità”.

Aveva rovesciato il principio della separazione del sapere, che fino a quel momento la scienza medievale aveva tenuto distinto, da una parte con le arti liberali, dall’altra con le arti meccaniche, con la separazione della ricerca dell’intelletto e dell’opera manuale, della teoria e pratica, Egli aveva segnato il passaggio dal medioevo all’evo moderno.

Aveva respinto la fisica e l’astronomia scolastica, sulla base dell’esperienza che consisteva nell’accertare i singoli fatti, ricavarne delle leggi, provarle con l’esperimento, applicarvi le matematiche per rappresentarle con precisione.

Aveva dato nuove basi alla scienza, che fino a lui era rimasta impaludata sugli insegnamenti d’Aristotile, Ippocrate, Galeno, Tolomeo. Praticando il metodo sperimentale, aveva frugato nei cieli come nelle viscere degli animali, dell’uomo, della terra, per acquisirne la loro diretta conoscenza.

Aveva posto, in questo modo le basi della moderna meccanica, della geometria, della chimica industriale. Con le sue osservazioni botaniche è stato il fondatore della moderna geologia. Aveva afferrato il segreto della natura del suono e della luce, aveva praticato l’anatomia comparata. Nello studio dei liquidi aveva scoperto i fenomeni della circolazione del sangue, della capillarità, della vista, del funzionamento del cervello, dei muscoli della lingua, delle labbra, della bocca. 

I suoi progetti erano stati fatti sulla macchina tessile, poi adottata in Inghilterra, sulla bicicletta, l’elicottero, la bombarda, i sottomarini e l’attrezzatura subacquea, il carro armato semovente e le armi da guerra.

Per non parlare dei suoi studi sul volo strumentale, derivato dalla osservazione del volo degli uccelli. applicati al paracadute e al volo a vela con l’utilizzazione della forza del vento, che solo dopo secoli, in tempi più vicini a noi, hanno trovato applicazione. L’aliante di cui un modello è stato creato sulla base deli suoi progetti, si è riusciti a mantenerlo in volo con alcune varianti, come si è verificato per il carro armato.

E’ probabile che nei suoi progetti commettesse degli errori per evitare che glie li copiassero, mantenendo con questo sistema una esclusiva.

 Il cavaliere robot”, da lui ideato, funzionante sul sistema dei muscoli è stato realizzato dalla NASA.

 

 

L’ASTROLOGIA

CON COPERNICO E

TYKO BRAHE

DIVENTA ASTRONOMIA

 

 

P

er gli alchimisti, gli studi alchemici erano coperti dall’ermetismo magico e dal segreto e non potevano essere divulgati. Pitagora e Porfirio obbligavano al segreto i loro discepoli; Orfeo e Tertulliano esigevano il giuramento del silenzio. Teodoto divenne cieco per aver tentato di penetrare i misteri della scrittura ebraica, volendo decifrare la Qabbalà. Lo stesso Cristo aveva un “verbo” indecifrabile, che solo i suoi discepoli potevano comprendere.

Nell’astronomia Peuerbach e Regiomontano erano stati i più grandi astronomi del Rinascimento; PEUERBACH (Georg, 1423-1461) aveva scritto  Theoricae novae planetum”. REGIOMONTANO (Johannes Muller, 1436-1476), aveva scritto “Ephemerides”; ERHART RADTOLT (1442-1528) aveva scritto “Disputatione contra cremonensia in planetharium theoricae dedicamenta”, che raggruppava  la scienza astronomica, la filosofia naturale e la matematica.

Il volume comprendeva tre testi, di Sacrobosco, Peuerbach e Regiomontano e costituì il testo fondamentale per lo studio della  astronomia. Il primo, scritto nella prima metà del  XIII sec., fu popolare per diverse generazioni, prima manoscritto e poi stampato.

Il secondo è un trattato sulla teoria tolemnaica, con descrizioni dettagliate del modello a sfere solide in cui i pianeti, il Sole e la Luna, erano, ognuno, inserito in una sfera solida in rotazione intorno alla Terra.

La “Disputatione”, composta da Regiomontano nel 1464, contiene sotto forma di dialogo, le critiche dell’autore alla teoria planetaria proposta da Gerardo da Cremona nella seconda metà del XIII sec.

GIOVANNI PAOLO GALLUCCI (1538-1631), autore del “De Fabrica et uso di diversi strumenti di astronomia et cosmografia et pratica di queste due nobilissime scienze”, con questo testo offre un quadro esauriente della astronomia del tempo, concentrandosi in particolare, nella parte iniziale, sull’astrolabio, che occupa circa un quarto del testo.

Nella Bibbia considerato testo omnibus, e quindi anche libro di scienze, che prevaleva sui testi scientifici, Giosué, aveva malauguratamente “ordinato al sole di fermarsi”:  ora si cerca di dare una giustificazione, sta di fatto che fu preso sul serio per l’autorità del libro, considerato sacro, condizionando, con la pretesa sacralità, l’umanità, e così contraddicendo e mettendoli a tacere, i primi filosofi greci che con lungimiranza avevano avanzato l’ipotesi che fosse il sole a girare intorno alla terra (la scienza sta dimostrando che i pretesi miracoli o punizioni mandati da Dio, non erano che catastrofi naturali come Sodoma e Gomorra, distrutte dalla esplosione di un asteroide!).  

Bisognerà attendere fino alla seconda metà del Cinquecento, il secolo delle scienze, in cui emerge possente la  figura di Giordano Bruno che con Telesio e Campanella,  dà il taglio definitivo ad Aristotile, convertito alle necessità della Scolastica, introducendo l’idea dell’universo infinito (e per questo sarà arso vivo), anche rispetto a Copernico che aveva abbattuto l’idea della fissità della Terra.

NIKOLAS KOPPERNIGK-NICOLO’ COPERNICO (1473-1543) aveva appreso a Bologna, dove aveva studiato matematica, fisica  e astronomia da Domenico da Novara, le critiche al sistema tolemaico messe in dubbio dagli antichi astronomi greci che contestavano l’immobilità della terra e la sua posizione centrale.

Primo tra questi, Filolao Pitagorico (V sec. a.C.) il quale aveva sostenuto che la terra e gli altri pianeti si muovevano intorno ad Hestia, un fuoco centrale invisibile agli uomini perché “tutte le parti conosciute della terra sono rivolte verso un’altra direzione rispetto ad esse”.

Hicetas di Siracusa (citato da Cicerone) vissuto nella stessa epoca di Filolao, riteneva che  il sole, la luna, le stelle fossero immobili e che il loro apparente movimento dipendesse dalla rotazione della Terra.

Archimede e Plutarco riferivano che Aristarco di Samo (310-230 a.C.) avesse accennato alla teoria della rivoluzione della Terra intorno al Sole, ma era stato accusato di empietà ed era stato messo a tacere; anche Seleuco di Babilonia aveva fatto riferimento a questa teoria nel II sec. a.C. .

La teoria eliocentrica non aveva avuto successo perché Claudio Tolomeo, sostenitore della teoria geocentrica da lui giustificata in base a come l’osservatore vedeva i fenomeni, sulla base delle sue osservazioni, aveva una più spiccata personalità e cultura rispetto agli altri; ma su costoro era prevalsa l’autorità di Aristotile; poi era sopraggiunto TOLOMEO SOTER (367/66-282) e prima di lui Ipparco, aveva reso così complessa la sua teoria (fondata sugli epicicli), che era difficile smontarla.

Vi avevano provato  NICOLA ORESME (1330-82), NICOLO’ CUSANO (1401-64) e Leonardo che, con l’intuizione che lo contraddistingueva  aveva scritto che il sole non si muove… e la Terra non è al centro del cerchio del sole né al centro dell’universo, senza esito.

Copernico, presso il castello episcopale di Heilsberg, nominato segretario e medico dallo zio, curava gratuitamente i poveri preparando la matematica che era alla base della sua teoria rivoluzionaria e tra tanti altri interessi, coltivava le ricerche astronomiche.

Tra l’altro le sue osservazioni si svolgevano tra le nebbie di Frauenburg col pensiero rivolto con invidia a Tolomeo, che aveva avuto la possibilità di fare le sue osservazioni “dove il Nilo non soffia la nebbia della nostra Vistola”.

Egli aveva fondato le sue osservazioni sui dati trasmessi da Tolomeo, ma proponendosi di dimostrare che tutti ricevevano osservazioni che si  accordavano meglio con il punto di vista eliocentrico.

Al termine dei suoi studi (1514) riportò le sue conclusioni in un “commentariolo  intitolandolo modestamente “De hipotesis motuum coelestium a se consitutis commentariolus”, esponendole in maniera molto semplice, forse neanche rendendosi conto che stesse facendo esplodere una grande rivoluzione.

Il manoscritto non fu neanche stampato ma alcune sue copie circolarono ugualmente.

Gli astronomi non vi prestarono attenzione e lo stesso papa, Leone X venutone a conoscenza gli fece chiedere una dimostrazione pratica della sua teoria.

Tra coloro che avevano letto il “commentariolo  era il venticinquenne matematico Georg Rheticus che aveva studiato il manoscritto sollecitandone (1539) la pubblicazione, che Copernico rifiutò acconsentendo a far pubblicare dallo stesso Rheticus un’analisi semplificata dei primi quattro libri.

Rheticus tornò alla carica e finalmente Copernico, fatte alcune aggiunte, autorizzò la pubblicazione alla quale attese Andreas Osiander (1543) “Nicolai Copernici revolutionum liber primis” e successivamente “De rivolutionibus orbium coelestium”.

Quando una copia fu porata a Copernico egli era sul letto di morte e dopo aver letto il frontespizio, sorridendo si spense.

I papi rinascimentali (v. sopra) non avevano chiusure nei confronti della scienza. Leone X e Clemente VII nulla avevano obiettato sulle idee copernicane. Paolo III accettò la dedica che era stata scritta nel libro “De rivolutionibus”.

Fu Paolo IV Carafa, il papa reazionario a daree impulso alla Inquisizione;  il Concilio di Trento fece il resto e gli studi scientifici divennero pericolosi dopo il 1555.

Il protestantesimo non concesse aperture perché Lutero fondava ciecamente  il suo credo nella Bibbia,  basandosi su Giosué che ordinava al sole di fermarsi, e aveva commentato: “il popolo dà ascolto a un astrologo venuto dal nulla che tentò di dimostrare che è la terra a girare e non il sole, la luna il cielo o il firmamento. Questo folle vuol rovesciare l’intero schema dell’astronomia, ma la sacra scrittura dice che “Giosué ordinò al sole di fermarsi…non alla Terra”, e il fanatismo religioso ebbe il sopravvento!

Anche il fanatico (oltre che spietato e vendicativo!) Calvino, rispose con un Salmo (XCIII): “Il mondo eziandio è stabilito, e non sarà mai mosso”. Chi oserà porre l’autorità di Copernico al di sopra dello Spirito Santo?”

La Chiesa non aveva sollevato obiezioni in quanto la nuova teoria era presentata come ipotesi. Quando però Giordano Bruno aveva presentato la teoria come certezza, suscitò la reazione dell’Inquisizione  (1616) che pose il libro nell’Indice, permettendo ai cattolici la lettura (1620), purché dal testo fossero state tolte le nove frasi che presentavano la teoria come una realtà (il libro fu tolto dall’Indice solo nel 1758 ma la proibizione non venne annullata fino al 1828).

Con l’opera di Copernico (1473-1543)  è dato un taglio al passato ed ha inizio l’astronomia moderna. Copernico introduce il principio della rotazione della Terra intorno al Sole, con la Terra che compie un movimento di rotazione sull’asse polare, di rivoluzione intorno al Sole  e un moto conico  dell’asse di rotazione, spiegando la precessione degli equinozi e il parallelismo dell’asse stesso.

Le difficoltà per Copernico sono le orbite circolari (non ellittiche) per cui è costretto a introdurre eccentrici mobili.

La teoria di Copernico è troppo rivoluzionaria per affermarsi immediatamente: è difficile convincersi  dopo circa duemila anni  (cominciando da Aristotile), che la Terra si muova, per il freno esercitato dalla religione che si rifà alla Bibbia. Le difficoltà sono anche astronomiche in quanto non si riesce ad osservare il movimento delle stelle (parallasse) come conseguenza del moto terreste, anche se Copernico su questo aveva già risposto dicendo che le stelle sono infinitamente lontane.  Arrivava poi Keplero (1571-1630) con la sua “Astronomia Nova”,  in cui poneva il problema dell’orbita terrestre che non può essere circolare.

Interviene TYCHO BRAHE (1546-’1601) l’ultimo sostenitore della fissità della Terra, il quale pur affermando che i pianeti ruotano intorno al Sole, non conoscendo ancora la gravitazione, sosteneva che la Terra è ferma in quanto il movimento la porterebbe a disperdersi: è il sistema tyconico che costituisce l’ultimo tentativo di mantenere l’interferenza della religione, con l’errato precetto biblico esteso alla scienza, con la fissità della Terra.

Sulla base delle osservazioni di Tycho si fa riferimento al movimento di Marte la cui orbita risulta ellittica e il sole occupa il centro. E’ la prima delle leggi di Keplero che poi estenderà a tutti i pianeti, alla quale segue dopo alcuni anni, la seconda  delle aree descritte dal segmento congiungente Sole-Pianeta, che risultano uguali in tempi uguali. Segue la terza legge che stabilisce una proporzionalità fra l’asse maggiore dell’ellisse planetaria e il tempo impiegato a descriverla.

Galileo Galilei, più vecchio di Keplero, arriva all’astronomia dopo gli studi sulla caduta dei gravi, con il cannocchiale che inventato per essere utilizzato in marina, egli lo rivolse al cielo, osservando la Luna di cui scopriva le montagne, il Sole, di cui scopriva le macchie e scoprendo che i corpi celesti erano fatti della stessa materia della Terra, i quattro satelliti di Giove (con gli attuali telescopi, Hubble, ora se ne contano 82!) che chiamò medicei e le fasi di Venere (solo previste da Copernico). Così Galileo da aristotelico qual’era, diventa copernicano, creando il successo del cannocchiale.

Si giunge quindi a Newton con la gravitazione che è limitata solo alla Luna che gira  intorno alla Terra, ma manca l’accordo tra la teoria e l’osservazione in quanto non si conoscono le esatte dimensioni della Terra che vengono fornite da Jean Picard (1620-1680).

L’idea della attrazione reciproca della Terra e della Luna non era nuova ma era semplicemente spiegata dalla filosofia, senza che si conoscesse la forma dell’orbita trovata da Newton. Da questo nucleo fondamentale si muovono le ricerche moderne.

 

 

 

 

FINE