Sandro
Botticelli - Allegoria della Primavera
CARLO V
TRA RINASCIMENTO
RIFORMA
E CONTRORIFORMA
PARTE PRIMA
SEZIONE SECONDA
L A CULTURA
DEL
RINASCIMENTO
SOMMARIO: PREMESSA; BERNARDINO TELESIO; TOMMASO CAMPANELLA; LA FAVOLA DELLA CONGIURA; IL FANTASIOSO PROCESSO (In Nota: AI TEMPI ATTUALI); GIORDANO BRUNO; L’ARTE DELLA MEMORIA E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ANTICA E MODERNA; AD CAIUM ERENNIUM; IL LULLIMO E L’ARS MAGNA; I GIOIOSI UMANISTI EROTOMANI E PAPALINI; E GLI UMANISTI FRANCESI; I PAPI DA AVIGNONE TORNANO A ROMA; I PAPI RINASCIMENTALI CORROTTI AVIDI E NEPOTISTI ABBELLISCONO ROMA DECADENTE; GLI ULTIMI PAPI DEL XV SEC.; NICOLO’ V; CALLISTO III; PIO II; SISTO IV; I PAPI DELLA PRIMA META’ DEL SEC.XVI: PIO III; GIULIO III; ADRIANO VI; PAOLO III FARNESE. I PAPI DELLA SECONDA META’ DEL SEC.XVI: GIULIO III; MARCELLO II; PAOLO IV; PIO IV; PIO V; GREGORIO XIII; SISTO V, IL BREVE PONTIFICATO DEGLI ULTIMI PAPI DEL XVI SEC.: URBANO VII; GREGORIO XIV; CLEMENTE VIII. I LETTERATI RINASCIMENTALI IN ITALIA; ERASMO DA ROTTERDAM; UMANISTI DI SPAGNA; LA PITTURA INFLUENZATA DA MAGIA E ASTROLOGIA; SATURNO RIVALUTATO; LA PITTURA IN ITALIA BACIATA DALLA GRAZIA DELLA FORTUNA; IL “SIEGLO DE ORO” IN SPAGNA NELLA INDIFFERENZA DI CARLO V (In Nota: ATTUALITA’); IN FRANCIA; L’ARCHITETTURA E LA SCULTURA; IL CAMMINO DELLA MATEMATICA DELLE SCIENZE E DELLA MEDICINA; LEONARDO; L’ASTROLOGIA CON COPERNICO E TYKO BRAHE DIVENTA ASTRONOMIA.
PREMESSA
C |
ome
e ancor più del secolo precedente, nel ‘500, una serie di circostanze aveva
creato il fertile terreno per grandi opere e grandi personaggi, tra i quali avevaano
primeggiato figure come Leonardo da Vinci, genio assoluto nello scibile umano, il
quale, incantato dal volo degli uccelli, aveva dato inizio agli studi aviatorii
che hanno trovato applicazione solo nel secolo scorso; o come Tiziano, Bernini,
Michelangelo e i grandi papi corrotti e dissoluti, tra i quali si era distinto
Alessandro VI Borgia, considerato da Sismondi (v. sotto) “l’uomo più disonesto della
cristianità”; ma sono bastate le grandi opere d’arte
degli artisti che aveva chiamato, a far dimenticare le sue dissolutezze che
fanno da contorno alla sua complessa personalità.
In
ogni caso questi papi non vanno giudicati per le azioni malefiche commesse, per
la vita disonesta e dissoluta vissuta e per l’avidità terrena intesa a favorire
figli e nipoti, ma per le grandi opere che avevano fatto realizzare da grandi
artisti, di cui ne gode, nei secoli, l’umanità intera.
Numerosi
erano stati i personaggi che avevano dato il loro contributo evolutivo della
società, preparando i movimenti culturali definiti come Umanesimo e
Rinascimento.
La Storia
procede inesorabilmente con ritmi di sviluppo che possono essere diversi. La
distinzione delle varie epoche non è mai netta, peraltro essa è stata introdotta
dagli studiosi per comodità. Così è stato per le epoche definite evo antico, medio, moderno e dei
relativi passaggi da un’epoca all’altra e non può esservi un netto passaggio
tra medioevo ed età moderna, che sia determinato dai due movimenti che vanno
sotto il nome di Umanesimo e Rinascimento.
Nel primo di
questi due periodi (neanche per essi possono esservi distinzioni nette), gli
studi umanistici che erano fioriti per l’interesse suscitato dalle antiche
civiltà della Grecia e di Roma, avevano portato a uno sviluppo dell’arte, in
particolare della pittura, scultura e architettura, ma anche in altri campi,
come aveva dimostrato la genialità di Leonardo.
Il secomdo è stato il ‘500, il secolo delle meraviglie: scoperte geografiche, musica, letteratura, arte,
scienze che avevano avuto la loro gestazione nel secolo precedente (la spinta
iniziale era stata data dalla peste del 1350 v. in Articoli Le grandi pestilenze ecc,), avevano trovato
in questo secolo, la loro prima fase evolutiva in cui sono poste le basi per
gli sviluppi dei secoli successivi.
Questo secolo è stato anche il secolo
della sublimazione degli studi astrologici, cabalistici (di cui Avraham
Abulafia con i suoi discpoli rappresntava il prototipo), ermetici (con le implicazioni della religione egizia e i
suoi misteri, v. in Schede F. “Ermete
Trismegisto e il libro di Toth”), alchemici e neoplatonici che portano alla
magia e in particolare alle sue ramificazioni di magia naturale, angelica (v.
in Schede F.: Sfere celesti e gerarchie angeliche) e diabolica.
Il neoplatonismo costituiva una sfida diretta
all’aristotelismo della Scolastica che sottendeva al concetto di stregoneria; invece
di attribuire al Diavolo fatti apparentemente magici, come facevano gli
scolastici, i neoplatonici sostenevano che l’uomo stesso potesse praticare la
magia, sfruttando le forze naturali dell’Universo in quanto si riteneva (e si
ritiene ancora!) che le stelle (che accoglievano, secondo i neoplatonici, le
anime dei defunti) con i loro influssi, positivi o negativi, indirizzassero la
vita sulla Terra.
Molti umanisti del Rinascimento praticavano la
magia naturale, ben diversa dalla rozza magia praticata dalle streghe,
derivanti da forme superstiziose contadine prive di efficacia e ciò costituiva
un attacco al “Malleus Maleficarum”
(scritto da inquisitori fanatici e psicopatici
che processavano e mandavano al rogo chi praticava la stregoneria (v. in
Art. L’inquisizione ecc. P. II); col
risultato che gli studi umanistici costituivano una minaccia per la stregoneria
stessa.
Infatti Erasmo, Pomponazzi, Andrea Alciati
attaccavano certe credenze nelle streghe
mentre Cornelio Agrippa di Nettesheim, (cit. Art. Inquisiz. P.I),
cultore della magia, criticava sia il Malleus
che i processi alle streghe; ma il neoplatonismo non riuscì a imporsi
sull’aristotelismo con la conseguenza che, sebbene i demoni neoplatonici
fossero diversi dal Diavolo della Scolastica, gli umanisti non riuscirono a
convincere che la magia che essi praticavano fosse ben diversa da quella degli
ignoranti negromanti, tanto è vero che Jean Bodin (v, cit. Art. P. II) attaccò
sia le streghe dell’una, come la magia di Agrippa e di Pico, dell’altra.
Tra i principali critici della caccia alle
streghe, troviamo Johann Weyer o Johan Wier (1518-1588), (v. in cit. Art.
P.II), allievo di Agrippa il quale nel “De
Praestigium Daemonum” e nel “De
Lamiis” sosteneva che le donne che ammettevano di essere streghe, soffrissero di allucinazioni
(derivanti dall’uso di pomate allucinogene), che invece Wier attribuiva a un disturbo dell’utero denominato “melancolia”: con la quale siamo agli inizi della psichiatria (v. in Schede
F. art. su Cartesio in Nota: La psichiatria nell’antichità).
Inoltre, in tutta
l’epoca rinascimentale gli studi iniziati in precedenza sulla cabala (con lo Zohar, “Splendore”,
scritto da Rabbi Shime'on bar Johainel e diffuso da Nahmanide, trasferitosi in
Palestina verso il 1267) e proseguiti da Pico della Mirandola (v. P. I), che aveva approfondito gli aspetti della
cabala cristiana, seguito da Francesco Giorgi (v. cit. P. I) autore del “De armonia mundi” e “Problemata” e sull’ermetismo iniziato
con la traduzione del “Corpus hermeticum”da
parte di Marsilio Ficino (v. cit. P.I.) con studi approfonditi di Pico della
Mirandola (v. cit. P.I.), Cornelio Agrippa (v. cit. P.I.), Johannes Reuchlin (v. cit. P.I.).
L’opera di Ermete (Mercurio) Trismegisto (tre volte grandioso), “Corpus hermeticum” (tra cui l’Asclepio poi attribuito ad Apuleio, Pimander e Picatrix in cui si parla di magia simpatica e astrale e di
talismani), fu considerata opera pagana che aveva preannunciato l’avvento di
Cristo; Ermete era infatti considerato (con Orfeo e Zarathustra) uno dei “prisci theologi” i più antichi
teologi-fondatori delle religioni.
Il mito della sua esistenza come contemporaneo di
Mosé e sacerdote inventore dei geroglifici (v. Schede F. cit. Il libro di Tot
tra libro dei Tarocchi ecc.), fu
demolito da Isaac Casaubon (v. cit. P.I.) con la scoperta della falsità
delle opere di Ermete e della sua
esistenza, in quanto esse erano state
scritte intorno al IV sec. d.C., da scrittori cristiani.
Ma vi fu ugualmente una corrente seguita da Robert
Fludd (v. cit. P.I), che ignorando Casaubon, continuò a credere nella sua
esistenza e sfociò successivamente nella magia
occulta dei Rosa Croce prima e della Massoneria poi; a Casaubon si
aggiunse nella contestazione dell’ermetismo, Marin Mersenne, ma ciononostante
l’esoterismo iniziato nel Rinascimento
continua ancora ai giorni nostri nella Mssoneria.
La tradizione filosofica del Rinascimento fu
chiusa dai tre ultimi esponenti che furono Bernardino Telesio, Tommaso Campanella
e Giordano Bruno; di costoro, Campanella e Bruno, furono martiri delle atrocità
che la Chiesa andava commettendo da quando aveva iniziato ad affermarsi, con la dispersione
dei Pitagorici, l'esilio di Dante, i roghi di Savonarola e Bruno, le torture
del Machiavelli, le persecuzioni di Galileo e per tutta una immensa folla di ignoti,
torturati e bruciati vivi (il fuoco serviva a bruciare anche l’anima!), nel
corso di ben cinque secoli.
BERNARDINO TELESIO
B |
ernardino Telesio (1509-1588), più celebre e
più ingegnoso dello zio Antonio, era nato a Cosenza e avea studiato a Milano
(presso la scuola dello zio) e poi a Padova e Roma, dove, durante il sacco (1527) degli imperiali lanzichenecchi
(v. P. III), spogliato dei suoi averi, era stato imprigionato.
Dedicatosi fin dalla giovinezza alle scienze, si
dava all’insegnamento della filoofia presso lo Studio di Napoli, dove, da
quella cattedra, iniziava ad “abbattere la
tirannia del travisato Aristotile”, introducendo
un nuovo metodo filosofico.
Quindi, stanco degli anni e delle diatribe
sostenute contro i nemici di ogni miglioramento evolutivo, si era ritirato a Cosenza,
dove fondava l’ “Accademia Cosentina”
o “Telesiana”, (tra i principali maestri.
Bombino, Quattromani, Cavalcanti, Gaeta ed
altri, menzionati da Cristiano Bartholomés), i quali seguivano il nuovo indirizzo speculativo.
Telesio si proponeva, come aveva scritto nel principale
testo delle sue opere, “De rerum natura
juxta principia propria”, «di
osservare il mondo tale quale si offre ai nostri occhi, le sue diverse parti e rapporti, le
operazioni, le diverse specie di cose che contiene; poiché la sapienza umana è
arrivata alla più alta cima che possa afferrare, se ha osservato quello che si
presenta aì sensi e ciò che può esser dedotto per analogia, dalle percezioni
sensibili; io non ho dunque seguito altro che l'osservazione e la natura,
quella natura sempre seco medesima d'accordo e sempre ad un medesimo modo
operante».
Così Telesio poneva le basi della demolizione
dell’aristotelismo, seguito da Campanella e Bruno, che preparano il terreno per
la nuova filosofia iniziata con Renato Cartesio
(v. in Schede F. cit. “Sum, ergo cogito” ecc.).
TOMMASO
CAMPANELLA
S |
u Tommaso Campanella (1568-1639) correva l’aneddoto che,
novizio diciottenne domenicano, dalla vivacità d’ingegno, avesse trovato un
vecchio confratello che era stato rabbino, il quale, nel giro di otto giorni,
chiusi in una cameretta, con l’aiuto della cabala, gli avesse somministrato “pochi e brevissimi principi da renderlo un
uomo sì grande ed ammirevole”.
In quel tempo era normale lo studio della cabala, dell’alchimia e
delle scienze occulte che furono la causa delle sue sventure, sebbene in
genere, gli studi dell’alchimia avessero fatto progredire la chimica, gli studi
dell’astrologia avessero fatto progredire l’astronomia mentre la magia aveva giovato
al sapere umano.
Campanella, sebbene di poco, aveva preceduto Giordano Bruno, col
quale aveva condiviso il nuovo sviluppo degli studi iniziati da Telesio e il
martirio per aver subito cinque processsi ed essere stato sottoposto per sette
volte alla tortura della corda, l’ultima delle quali era durata quarantotto ore
e le corde gliele avevano legate così strette da segargli le ossa: ma aveva
sopportato i tormenti stoicamente, senza un lamento.
La pubblicazione della “Philosophia
sensibus demonstrata” (1591), di ispirazione telesiana, gli aveva procurato
il primo processo per pratiche demoniache
e sospetto di eresia; dopo alcuni mesi di carcere, eludendo l’intimazione
di tornare al suo convento a Stilo, si era recato a Padova dove allacciava
relazioni con quei dotti e incappava in un secondo processo (1592); un terzo processo
lo subiva a Roma (1596) per sospetto di
eresia e un quarto ancora a Roma (1597) concluso con l’assoluzione e l’invito
di tornare a Stilo.
Un altro processo, l’ultimo e di grandi dimensioni, lo subiva
quando trovandosi a Stilo era accusato di cospirazione contro il governo
spagnolo; ma, dall’accusa di congiura,
emergeva anche un’ccusa di eresia,
per cui il processo si duplicava in processo per la congiura, che si svolgeva a Napoli, e processo
per eresia, che finiva a Roma presso il Santo Ufficio.
Mentre il processo per la congiura (di cui tutti
i particolari si trovano nei tre mastodontici volumi di
Luigi Amabile del 1882, ristampa
anastatica di Morano editore) era definito con la sua assoluzione in quanto,
sotto tortura aveva dichiarato che la rivolta era subordinata alla
realizzazione delle profezie, che non si
erano verificate.
Relativamente all’accusaa di
eresia, Campanella, contrariamente a come era stato descritto dai biografi,
era un burlone e con i suoi fratelli si lasciava andare a commenti salaci, ma
che rientravano in pieno nell’’eresia, come quando sosteneva che godendo l’influsso di sette pianeti
ascendenti favorevoli, si aspettava di essere Monarca del mondo (tenendo
conto del linguaggio fratesco, p0teva semplicemente significare che si
aspettava di essere capo di uno Stato ridotto anche alla sola Calabria!).
Riteneva che
nel mondo si vivesse a caso (con tutte le conseguenzze della casualità!); che il Vangelo non l'avevano scritto nè Luca
né Giovanni; ad alcuni frati che si recavano nella loro chiesa, alludendo a
Gesù si mise a dire: Ma dove andate, ad
adorare un appiccato?
E relativamente a quanto aveva scritto sui rapporti nella sua repubblica, sulla vita in comune e sulla
libertà sessuale, parlava degli atti
venerei in modo da far credere che non costituissero peccato, dicendo che ogni
membro era destinato a certe funzioni, e certi organi erano precostituiti per
gli atti venerei, e che la fornicazione non era peccato; paragonava la legge dei turchi a quella dei
cristiani e la lodava in certe cerimonie; giudicava inutili tanti Ordini religiosi, ritenendoli baie per tenere
quieti i popoli; che non riteneva che
le Messe giovassero ai defunti quando il celebrante era in stato di peccato
mortale; che discorrendo di inferno
con alcuni fratelli aveva commentato: che
inferno!, che inferno! E una
volta si era spinto a dileggiare la scomunica.
Quanto ai miracoli diceva che «erano un’elevazione della mente ... un’applicazione dell’intenzione di
quello alla cui persona si faceva il miracolo». Sul tema dei diavoli, se ne
burlava, professando, nel caso di coloro ai quali si dicevano apparsi, «essere follie e spiriti fuliginosi et humori
frigidi che calano», nel caso poi delle donne ossesse diceva essere «baverie per pazze».
Tra l’altro, era stato considerato l’autore del celebre libro “Dei tre impostori” ( v. in Specchio
dell’Epoca) che diceva essere stato pubblicato trent’anni prima della sua
nascita.
Insomma queste erano idee di un odierno libero pernsatore che all’epoca per la Chiesa costituivano peccato
di eresia e per questo era stato sottratto alla società e destinato al carcere
a vita!
LA FAVOLA
DELLA CONGIURA
C |
ampanella dopo un periodo di viaggi, era rientrato nel convento
di Stilo (luglio 1598) dove si dedicava
agli studi e alle prediche; nel settembre dell’anno succesivo era accusato di essere
promotore, o uno dei promotori (l’altro era il confratello domenicano, fra’
Dionisio Ponzio), di una cospirazione che appariva di vaste proporzioni in quanto
coinvolgeva le popolazioni della provincia di Catannzaro; erano arrestati baroni,
appartenenti all’’alta nobiltà, di cui non si facevano i nomi (*), vescovi,
oltre trecento frati (**) di diversi ordini
(agostiniani, zoccolanti, domenicani e basiliani) e duecento predicatori
che avevano spinto il popolo alla ribellione ed anche molti banditi. Non solo.
Erano coinvolti anche i
turchi che dovevano dare man forte alla rivolta e nella congiura si faceva il
nome dello stesso papa Clemente VIII, sostenitore
di Campanella: tutto ciò, in assenza di una giustificazione che spiegasse la
circostanza di come Campanella avesse potuto farsi capo di una tal cospirazione
nel breve periodo di tempo della sua
permanenza a Stilo.
Si trattava evidentemente di un gran polverone e come aveva commentato
lo stesso Campanella, “non era che una
favola”.
Tra gli storici si erano formate due correnti, anzi tre, quella
dei colpevolisti, primo tra tutti lo storico Giannone, nutrito di inspiegabile
astio nei confronti di Campanella (probabilmente perché frate e perché non
condivideva le sue idee sulla monarchia, come riferiva Michele Baldacchini), seguito
dall’altro storico, Carlo Botta. E mentre Giannone era stato contestato dal Baldaccchini
(Vita di Tommaso Campanella, Napoli
1847); a Carlo Botta, come scriveva Baldacchini, aveva risposto da Zurigo,
Gaspare Orelli.
La seconda ipotesi era quella degli innocentisti, secondo la
quale nella congiura non vi era stata alcuna partecipazione del Campanella, e
la terza ipotesi era quella, della quale siamo convinti anche noi, che riteneva
non vi fosse stata alcuna congiura e riteniamo che questa idea della congiura fosse
emersa dal polverone sollevato dalle prediche del Campanella e dei suoi
confratelli e in particolare da ciò che andava predicando e riferendo fra’
Dionisio.
Quando Campanella era tornato a Stilo, oltre ad essersi dedicato,
agli studi, nelle sue prediche parlava delle sue nuove idee derivate dai suoi
ultimi studi, che vederemo fra poco. Per le prediche in genere, occorre tener presente
che i predicatori, specie quando si era alla fine di un secolo (come era
quell’anno 1599), scuotevano fino a terrorizzare e sconvolgere le anime
semplici e credulone di quei fedeli (lo erano
anche i nobili che lo chiamavano per saperne di più!).
Alle prediche di Campanella (il quale aveva una forza persuasiva
straordinaria, «perchè quando parlava tirava ognuno a lui»): «Tutta la gente accorreva a lui per dimandargli della fine
del mondo e della renovation del secolo, dopo che egli le avea predicate; che
inoltre, quando caminava per le ville e' castelli, si vedeva innanzi
stupefatto, torme di uomini che chiedevano rimedii per le proprie infermità e
per quelle delle pecore e de' buoi, ed egli li indicava e tutti ritornavano
lodando Dio».
Il nuovo viceré, D. Pedro Ferrante Ruiz de Castro, conte di Lemos, che da poco aveva sostituito da D.
Arrigo di Gusman, conte di Olivares, era piuttosto scettico su questa congiura,
ma aveva dovuto compiere il suo dovere, mandando una relazione al suo re
(Filippo III 1578-1621).
La congiura destava un certo sconcerto a causa del millenarismo predicato da Campanella, secondo il quale, “il
ventiquattro dicembre 1603 si sarebbe verificata una congiunzione magna e doveva essere un gran giorno in quanto la
congiunzione cadeva nella rivoluzione della nascita di Cristo; la congiuntura
astrale era composta di 9 e 7 centinaia, numeri fatali e del 3 numero
perfettissimo”, ma anche della preannunciata repubblica cristiana”.
E proprio queste predizioni apocalittiche l’avevano resa credibile
in quanto Campanella (con i suoi confratelli), annunciava che dovevano accadere fatti straordinari e
secondo l’aspetto degli astri, secondo santa Brigida e il calabrese Gioacchino
da Fiore (ricordato da Dante come: “di
spirito profetico dotato”), con l’aggiunta delle fantasiose invenzioni
dell’Apocalisse (***), era vicina la fine
del mondo nel nuovo secolo (sebbene egli avesse spostato la data di tre
anni, al 1603 in cui vi sarebbe stata, come
detto, la congiuntura astrale).
Ma, con una certa contraddizione, prima di questa fine del mondo,
egli vedeva la conversione delle nazioni (****), e quindi il realizzarsi del “secolo d'oro e della repubblica cristiana universale che dovea godersi prima e sarebbero stati i frati di s. Domenico (ai
quali egli apparteneva), a predicare e
preparare questa repubblica cristiana”(!).
Campanella (*****), infatti, riteneva che “secondo la profezia
naturale e divina, prima della
fine del mondo c’era da godere lungamente e bisognava aspettarsi mutazioni che
avrebbero menato – come abbiamo detto -
al secolo d’oro, il quale sarebbe stato più lungo di quanto la parola stessa
potesse supporre, né sarebbe avvenuto in modo del tutto facile e piano, in
quanto dovevano verificarsi irruzioni dei barbari; i maomettani dovevano
dividersi sotto due re, uno dei quali avrebbe immediatamenmta abbracciato tutti
gli altri, persuadendosi che la glorificazione di Dio sarebbe stata veramente
questa repubblica e non già il loro
paradiso; dovevano inoltre venire alla fede gli ebrei i quali negavano il
Messia perché non vedevano tanta gloria in Cristo. Dovevano venire Gog e Magog
ed esser vinti dai santi; doveva venire l’Anticristo che si sarebbe sforzato di
sovvertire la repubblica già iniziata, ma del rimanente costui non avrebbe dato
da fare che per soli due anni o tre anni e
mezzo. E doveva il re di Spagna soggiogare tutte le genti e congregare
tutti i regni e il pontefice romano vi avrebbe regnato costtuendo l’ “unum
ovile et unus pastor” la qual cosa sarebbe riuscita utile ad entrambi, ed anzi
al Re più che al Pontefice”.
Tutte queste esaltate fantasie di Campanella, erano confortate
dal verificarsi di diversi fenomeni straordinari, avvenuti in gran parte nel
1599, che erano sembrati anche un preludio delle attese mutazioni.
Infatti,
vi era stata prima la terribile inondazione del Tevere, oltre quella del Po,
avvenuta nella penultima settimana del 1598 e continuata per tre giorni interi
dal martedì al venerdì: la notizia di questo disastro della capitale del mondo
cattolico fu portata da fra’ Dionisio, il quale, tornando da Ferrara, si era
trovato a Roma nel tempo del disastro e
giunto in Calabria aveva raccontato come testimone oculare, lo spaventoso
avvenimento.
Anche
a Stlo durante la settimana santa vi erano state grandi piogge che avevano
allagato le chiese; si era vista una cometa "marziale e mercuriale” da
ponente a levante; era stata anche vista in aria una scala con in cima
un cipresso (!) e molte altre visioni e
si parlava della morte del mondo, i cui segni erano presenti; poi venne un mirabile terremoto che inghiottiva parte
della Sicilia e più in Calabria.
*) Non era difficile trovare esponenti della nobiltà da accusare
di ribellione come abbiamo visto (v. Art. Nobiltà
ribelle nel regno di Napoli ecc.).
Con estremo dispiacere facciamo presente che in questo articolo,
un hacher, ha artefatto tre immagini,
per puro dispetto e per danneggiare il prestigio della Rivista; sappiamo bene
chi possa aver fatto questo sfregio; si
tratta di un alpino, anche di alto grado (nell’esercito e nella P.A. vi è il
malcostume tutto italiano, di assegnarea coloro che vanno in pensione, il
massimo della carica – da colonnelli a generali! (come i viceprefetti che non fanno carriera che
l’ultimo anno sono mandatia fare i prefetti in una sede secondaria) perché possano prendere il massimo della
pensione!); costui, conosce bene la impostazione tecnica della Rivista; non
ci meraviglia che tra gli alpini, come è stato denunciato nelle loro
manifestazioni, vi siano delle mele marce che non sono degne di far parte di
quel glorioso Corpo!.
Tornando alla nobiltà napoletana, era geneticamente ribelle e non
era neanche difficile accusare, particolarmente quelli che avevano rapporti con
Campanella e gli concedevano la loro ospitalità, come il principe Bernardino
Sanseverino di Bisignano, Lelio Orsini, figlio di Felicia Sanseverino, sorella
del principe, secondogenito del duca Ferdinando di Gravina o Fabrizio di
Sangro, duca di Vietri e i familiari del marchese di Lavello, Mario del Tufo
(che lo ospitava a Napoli nel palazzo di Chiaia), oltre a Francesco Carafa,
marchese di san Lucido.
In proposito è da dire che Giannone, che aveva scritto abbondantemente
sulla congiura ma non aveva indicato i nobili che secondo lui vi avevano preso
parte, si era giustificato dicendo che i nobili, non li aveva indicati in
quanto, quando aveva scritto questa storia molti dei loro discendenti erano viventi e non li aveva
indicati per rispetto nei loro confronti; ma sappiamo che alcuni di essi, erano stati
arrestati per altri delitti e non per la congiura; per il principe di Bisignano
poi, il re aveva dato disposizioni di non arrestarlo.
**) Tra i frati vi erano anche i c.d. «diaconi selvaggi» o «clerici coniugati», una specialità
fiorente nella Calabria, laici anche con mogli e figli, ai quali i Vescovi concedevano di poter indossare un ferraiolo nero, ed
avendoli in tal guisa fatti clerici, pretendevano di essere esenti dalle
contribuzioni fiscali e dal peso degli alloggi, e anche dalla giurisdizione
laica, come allora si diceva
«temporale»: i Comuni o «Università» reclamavano, ed ugualmente reclamavano i
Baroni, nel vedersi sfuggire di mano tali contribuenti e dover gravare di pesi
insoffrivibili gli altri cittadini, come pure nel vedere invasi i dritti della
giurisdizione baronale.
***) Insieme ai libri di profezie egli avea consultato anche
quelli di astronomia ed astrologia, segnatamente quelli di Cardano, di
Cipriano, dello Scaligero, dell'Arquato, e rifatti anche varii calcoli, si era persuaso dell' avvicinamento del sole
alla terra per 10 mila miglia (che, attese le distanze che ora conosciamo,
erano una bazzecola!), della restrizione della via dello Zodiaco, dello
spostamento degli apogei, delle figure e perfino dei poli; insomma di una
quantità di volute disorbitanze e molta impressione gli avea fatto la comparsa
di una nuova stella avvenuta nel 1572, e la coincidenza delle ecclissi
previste nel 1601, 1605, 1607, ai grandi
sinodi o della congiunzione magna determinata per il 24 Ottobre 1603.
****) Queste profezie delle conversioni sono state piuttosto
ricorrenti; per l’epoca era prevista la conversione dei turchi indicata dalle
fonti consultate dal Campanella; vi è anche la conversione di cui si parla
in questi giorni mentre scriviamo (marzo 2022), secondo le c.d. predizioni dei pastorelli di Fatima (ragazzini analfabeti che pascendo in
estrema solitudine le loro pecore, avevano avuto delle visioni manipolate e
ritenute realizzate!), delle quali l’ultima sulla conversione
della Russia ... sarebbe avvenuta con le preghiere ... che non hanno
fermato né gli insensati bombardamenti delle città né le stragi scatenate da
Putin in Ucraina!
*****)
Cosi,
oltre ai libri de’ Profeti e dell’Apocalisse, Campanella avea rovistato i detti
di S. Brigida, S. Caterina, Dionisio Cartusiano, S. Serafino da Fermo, S.
Vincenzo Ferrer, dell’Abate Gioacchino e
di fra’ Girolamo Savonarola, tutti
insomma (come scrive Amabile) quei
pensieri di menti esaltate e però inferme, venerati e sostenuti con uno strano
abuso di cosi dette figure che darebbero argomento interessante per una
storia, la quale narrasse almeno i principali tra gli enormi danni da essi
recati. Aggiuntevi le considerazioni fatte da Lattanzio, Firmiano, S.
Ireneo, S. Giustino, S. Berardino, Clemente Alessandrino, Tertulliano,
Vittorino, S. Sulpizio, Martino, Origene, ed inoltre i detti delle Sibille, dei
Filosofi, dei Poeti, compresi Dante e Petrarca e avea trovato una gran quantità
di ragioni in sostegno della sua tesi.
IL FANTASIOSO
PROCESSO
I |
l processo per cospirazione
era iniziato a seguito della denunzia di due commercianti, cittadini di
Catanzaro che si trovavano in cattive acque, Fabio di
Lauro e Giovan Battista Bilbia, ai quali (da parte di fra’ Dionisio) era stata
fatta intravedere la possibilità di sostanziosi guadagni, ed essi, recatisi
dall’avvocato fiscale (equivalente ai
nostri pubblici ministeri), Luise
Xarava del Castillo, nell’agosto di quell’anno (1599), denunziarono una orribile cospirazione della quale
dicevano essere stati partecipi, ordita contro il governo spagnolo.
Xarava
comunicava il caso al viceré, conte di Lemos e su suo suggerimento, il vicerè mandava Carlo Spinelli (*) con l’ordine di arrestare, con discrezione, tutti i congiurati;
Spinelli che arrivava con due compagnie di spagnoli, metteva in giro la voce
che era venuto per contrastare
l’invasione dei turchi che saccheggiavano continuamente quelle spiagge e procedeva
agli arresti in base agli elenchi in cui erano indicate ben duemila persone: il
segreto però era trapelato e molti si erano salvati pagando a Spinelli e a
Xarava “chi mille, duemila o tremila, chi
cento, cinquecento ducati; anche i carcerati che pagavano erano subito liberati
e chi non pagava rimaneva in prigione; e fu tanto il rumore di sbirri e soldati
e la paura, che tutti credevano la ribellione esser vera; sicché parea alla
gente veder quel che non era, e faceano di mosca, cavallo”; i conventi si erano
riempiti di banditi che vi trovavano rifugio quando erano ricercati dagli
sbirri, ottenendo ospitalità dai frati.
Dalle accuse fatte a Campanella era emersa anche quella di aver chiesto
l’intervento dei turchi ed era stato fatto (per opera di fra’ Dionisio!) il
nome del Bassà Cicala, molto noto alle popolazioni della Calabria e della
Sicilia in quanto di origine siciliana (**); Cicala avrebbe dovuto sconvolgere
la provincia di Catanzaro per poi ritirarsi (cosa impensabile per il turco
conquistatore!). Questo processo di grosse proporzioni era gonfiato da tante
assurdità prese per veritiere, che in ogni caso avevano portato anche a
condanne.
La
rivolta non riguardava tutto il regno di Napoli, come si poteva pensare, ma in
base alla terminologia di Campanella, che parlava di Mondo, era però limitata
alla sola provincia di Catanzaro, dove
doveva avere inizio.
La
sfortuna di Campanella era stata quella di avere come amico fra’ Dionisio, che predicava la ribellione
sulla base delle sue profezie, il quale era stato scomunicato e interdetto, e «per scaricarsi presso il
Re la colpa della scomunica, e per vendicarsi degli ecclesiastici e degli altri
nemici suoi in Catanzaro, aveva detto falsamente a Lauro et a Bilbia che questa
era congiura da ribellar il regno, com'esso sempre l’havea
pensato, e che intervenia il Vescovo di
Milito (della casata
dei Tufo ndr.), da cui era stato, lui con tanti baroni et ufficiali, scomunicato; e tutta casa del Tufo, del Vescovo di Nicastro
che fece l' interditto.
E che per effettuar questo (per farsi togliere la scomunica e l’interdetto ndr.), F. Dionisio era andato a Ferrara, e
che il Papa consentia, secondo la profezia; la denunzia di Lauro e Biblia
aveva rivelato le cose in modo esagerato; a
questi si aggiunsero gli aggravamenti fatti da Alonso de Roxas, Governatore della provincia, il quale, non era in buoni rapporti
con Xarava.
Quanto
a fra' Dionisio, principale accusato della congiura, era soltanto un grande
impiccione, loquace e chiacchierone, portato a spettegolare e seminare zizzania
che andava raccontando, esagerandole, le idee di Campanella contro il quale tramava,
pur essendogli amico da diversi anni; fra’ Dionisio inoltre era un ambizioso,
maligno e violento, portato alla rissa (durante una di queste, aveva ferito un
fratello, a causa di una sua cagmetta che aveva mangiato la pietanza del frate
col quale era venuto a diverbio).
Aveva
stretto amicizia con il fuoriuscito Maurizio de Rinaldis di Guardavalle, giovane
nobile e fuoriuscito a causa di un omicidio, il quale era stato incaricato di
trovare molti compagni che concorressero a fondare la repubblica e come “capo secolare della congiura”, doveva materialmente sollevare la rivolta a
Catanzaro.
Anche
Xarava era stato scomunicato dai vescovi e per vendicarsi degli ecclesiastici e
di altri nemici, aveva detto falsamente a Lauro e Bilbia che la congiura doveva
"ribellare il regno"; egli,
oltre ad essere stato scomunicato dai vescovi, tra i quali il vescovo di Milito,
della casata del Tufo, era sato imterdetto dal vescovo di Nicastro e Xarava per
vendicarsi di tutti costoro, li aveva messi sotto processo.
La storiella della chiamata dei turchi da parte di Campanella, era
stata inventata di sana pianta; questi infatti
ogni anno si presentavano per depredare quei luoghi e quell'anno, “per miracolo” (come era stato detto), Cicala pur essendo apparso il quattordici
settembre con trentasei galee, non aveva fatto sbarcare i turchi “ma si erano
viste per una intera notte tra Stilo e Squillace due galeotte con i fanali
illuminati ... ciò che dal
governatore era stato ritenuto fosse segno di concerto con quei ribaldi che
avevano concertato di occupar detti luoghi e sollevar la Calavria” (figurarsi
che i turchi li aiutassero nella sollevazione e poi andarsene via! ndr.).
Si capisce facilmente come fosse stato tutto un guazzabuglio nato
dalle vendette che ciascuno voleva prendersi nei confronti degli altri e ciascuno
soffiava sul fuoco!
Lo
stesso vicerè era rimasto scettico sulla miscela dei nobili, del papa e dei turchi.
ritenendola una invenzione dei frati, ma
la grave responsabilità inerente al suo ufficio l’obbligava a preoccuparsene senza
ritardo, e naturalmente, trattandosi di persone ecclesiastiche, oltre che alla
Corte di Madrid, si dirigeva anche a Roma.
Dunque
ciò che era stato rivelato con la denunzia di Lauro e Bilbia, con la mano di
Xarava era stato esagerato e artificiosamente manipolato, propalato in un modo
ancora più esagerato ed artificioso e con grande impudenza, da parte di fra’
Dionisio.
Il
resto era emerso dalle accuse che si facevano i frati tra di loro: la Calabria (un tempo terra di
filosofi come Pitagora, attualmente centro mondiale della n’drangheta!), all’epoca
era piena di frati che si odiavano e ividiavano e si combattevano con ogni
mezzo ed erano felici quando potevano nuovere delle accuse contro i propri
avversari (come i partitini di oggi!); e nei processi istruiti con la tortura, con
la quale i testimoni dicevano tutto ciò che gli istruttori volevano che
dicessero.
“Le prove”, scrive Bottacini, “erano raccolte da uomini vili i quali non
avevano ufficio di magistrato, non
stipendio, non grado; nell’ombra del mistero, raccoglievano, Dio sa come, le
prove. Questi inquisitori o scrivani, come allora si chiamavano, gente abietta,
sprezzata, il cui solo nome metteva spavento, facevno un traffico infame del
loro mestiere, anche nelle cause tra privati. Quando il governo accusava,
giudicava e condannava. Non vi era pubblica discussione del fatto, non libera
difesa dell’accusato: tale era un giudizio criminale”.
Le punizioni precedevano il giudizio; capita ancora oggi che a
causa dell’arresto preventivo gli
imputati sono tenuti in carcere per tutta
la durata del processo, e alla fine succede che nella maggior parte dei casi
... siano
assolti per non aver commesso il fatto
... ma nel frattempo, chi gli restituirà
gli anni di libertà di cui sono stati privati? (***).
Questo era stato il processo a Campanella, col quale, pur presentando elementi di farsa, alcuni dei
laici finirono ugualmente arrotati,
tanagliati, strozzati o appiccati per un piede e squartati.
*) Carlo Spinelli apparteneva alla famiglia dei baroni di San
Giorgio la Montagna e Buonalbergo, primogenito di Pirro Giovanni Spinelli e
Lucrezia Caracciolo; non avendo avuto figli da Maria Spinelli dei principi di
Tarsia, gli succedette il fratello Giovan Battista; le sue nobili sembianze
sono riprodotte nella statua che si trova a Napoli, ritta, tra due statue
sedenti di Ercole e Pallade, nella chiesa di san Domenico, nella cappella di
santo Stefano a destra dell’altare maggiore. Era
stato un ottimo militare con una brillante carriera presso don Giovanni
d’Austria e in Granata contro i mori ribelli e poi in Francia e Belgio e alla
presa del Portogallo (1580), poi fu mandato negli Abruzzi infestati dai banditi
di Marco Sciarra (1594).
**) Il padre del Bascià Cicala o Sinan Bascià, era un genovese stabilitosi
a Messina, che come corsaro andava depredando
ogni luogo e tra le tante prede aveva
preso a Castelnuovo, presso le Bocche di Cattaro, una raagazza avvenente che,
fatta cristiana aveva preso il nome di Lucrezia e si erano spostati e gli aveva dato molti
figli tra i quali un figlio il cui nome era Scipione, che sedicenne, seguiva il
padre quando furono fatti prigionieri dei turchi presso l'isola di Gerba (1560).
Mentre al padre era stato concesso di essere riscattato, il
figlio per esser giovinetto dal fisico avvenente, era stato mandato al serraglio
e fatto turco.
Cicala compiva
fortunatissime imprese per valore e ardire. Aveva sposato una figlia di
Rusten Bascià, la cui moglie era figlia del sultano Solimano e, morta questa,
sposava una seconda figlia da cui aveva due figlie e un maschio di nome Corcut.
Cicaòa nel 1594 era Capitano del mare e recatosi con novantacinque galere nella
fossa di s. Giovanni, saccheggiava Reggio e dintorni; gli era stato mandato
contro Carlo Spinelli che non aveva forze sufficienti per fermarlo, per cui Cicala ebbe tutto il tempo di devastare il
paese.
Quando Cicala si trovava nella fossa di s. Giovanni (1598)
scrisse al viceré di Sicilia, duca di Maqueda, che desiderava rivedere la
propria madre che era a Messina; egli avrebbe liberato dei prigionieri e
avrebbe dato come ostaggio una galera col proprio figlio, per contro, gli
avrebbero mandato la madre con una galera del General di Napoli.
La madre poté stare col figlio poche ore, lui le chiese la
benedizione del profeta, ricordandole che era turca e lei datagli la benedizione, ritornò piena di
lacrime e donativi secondo le usanze turche e il giorno seguente partirono da levante
diverse galere con prigionieri e infermi liberati.
AI
TEMPI ATTUALI
***) Venendo ai nostri tempi, qualcosa di simile si era
verificato con il povero Enzo Tortora sul quale era stato costruito un processo
basato su un traffico di droga inesistente
i cui accusatori erano esponenti della mafia e Tortora, innocente, era stato tenuto
in carcere preventivo e lasciato morire di dolore (e gli era venuto un cancro)!
Ciò ci fa ritenere che la giustizia in Italia, considerata patria del Diritto, ieri come oggi è
stata sempre amministrata con arbitrio, prevedendo, ieri come oggi, con
discutibili leggi, come la privazione della libertà personale (c.d. cautelare), comminata prima della sentenza, per giungere
alla quale passano anni interi e alla fine si risulta assolti!
Vi sono stati infatti di recente, due casi di carcere-custodia cautelare (2022) durata sette
anni per uno e undici anni per l’altro, di due personaggi noti, che alla fine
del processo, sono risultati assolti per non aver commesso il fatto: a quei
giudici che li hanno tenuti in carcere, dovrebbe essere comminato, per
contrappasso, lo stesso periodo di carcere, ma essi, continueranno, come nel
caso di Tortora, a godere dei privilegi sui quali il CSM. non vuol saperne di
riforme, nell’assoluto silenzio del Capo dello Stato che lo presiede, che non
può sempre tacere, ma in casi così eclatanti, qualcosa dovrebbe pur dire!
Inutile sperare nelle riforme, l’Italia pur essendo colmo di pariti che si autodefiniscono riformisti, le riforme non le fanno perché
sono scomode e fanno perdere voti ... ed è meglio che tutto romanga come prima!
Si guardi la Riforma c.d. Cartabia, con la nuova Guardasigilli che
aveva dato un lume di speranza, che si è rivelato un bluff!. Si tratta di personaggi carrieristi-opportunisti che
pensano solo alle cariche da ricoprire. La Cartabia è stata Presidente della
Corte Costituzionale per soli nove mesi
(se ne era parlato non tanto per i
meriti, ma per essere la prima donna a ricoprire quella carica!), e poi nominata
Ministro della Giustizia del Governo Draghi; nel frattempo era sopraggiunta la elezione
del Presidente della Repubblica, per la quale da anni si vocifera che dovrebbe
essere eletta una donna, per cui accanto a Draghi, al quale la carica della Presidenza
della Repubblica era offerta dai partiti, per togliergli la Presidenza del
Consiglio, vi era anche l’aspirante (in
pectore, proprio!) Cartabia. Per fortuna poiché tra i politici vi è tanta
invidia come tra i frati calabresi di cui sopra, i parlamentari pur di non dare
l’incarico ad altri, hanno preferito unanimamente riconfermare il presidente Mattarella.
E’ poi intervenuta la sfiducia da parte del partitino che voleva sopraffare il Governo con il diktat,
sul quale non è stato accontentato ed essendo state fissate nuove
elezioni (25 settembre 2022) il Governo Draghi è rimasto in carica per gli
affari correnti. Le elezioni a sorpresa hanno dato un Governo di destra e prer
la prima volta nella storia d’Italia una
Presidente del Consiglio donna contro la
quale si sono scatenate tutte le donne, fra le quali pensavamo vi fosse un
minimo di solidarierà, e particolarmente le femministe, dimostrando tutto il
loro livore e odio che non si poteva mai pensare fosse così esasperato!
L’Italia è un Paese arretrato di almeno trent’anni e avrebbe
bisogno di esser messo al passo con i tempi; privo di programmazione in
qualsiasi campo, abituato a risolvere i problemi quando si presentano, giorno
per giorno; non solo, ma avrebbe bisgno di essere ricostruito come era stato
fatto nel dopoguerra,
Avevamo riposto nel PNRR ( v. anche akltra nota sotto) peranze per
un suo ammodernamento e solo un personaggio come Draghi avrebbe potuto
realizzarlo, superando in primo luogo, le resistenze opposte dalla stesssa
popolazione (come quella di Piombino che non vuole ospitare la nave con il
rigassificatotore o in Puglia dove gli ambientalisti si sono opposti all’alta
velocità che disturba la nidificazione degli uccelli!); nello stesso tempo i
Comuni sono privi di tecnici che siano in grado di predisporre adeguati
progetti, oltre al superamento dei divieti burocratici che tutti conoscono; insomma
senza Draghi, addio al PNRR.!
Giordano Bruno
GIORDANO BRUNO
G |
iordano Bruno (1548-1600) a qindici anni era entrato nel convento
domenicano di Napoli dove rimaneva fino a ventotto anni, mandato via dal
convento, in quanto considerato eretico.
Prima di essere espulso era stato portato in carrozza a Roma, per
essere ascoltato dal papa Pio V (v. sotto) e dal cardinale Scipione Rebiba, ai
quali aveva mostrato la particolare specialità dei domenicani sulla conoscenza
della memoria artificiale; arte insegnata
nelle loro scuole e appresa in maniera eccellente da Bruno, che si esibiva
citando a memoria, in ebraico, tutto il salmo “Fundamenta” e, al cardinale,
curioso di conoscerli, aveva insegnato alcuni elementi di quell’arte.
Tolto l’abito religioso e ripreso il suo nome di battesimo, Filippo,
dopo essere stato in diverse città e aver subito sei processi per eresia, si
recava a Ginevra (1579) dove Bernardino
Ochino fin dal 1540 aveva fondato una Chiesa italiana riformata; Ginevra era il
centro del calvinismo ed era considerata una città libera, dove si recavano
preti e frati che fuggivano l’Inquisizione e i rigori del chiostro e del
breviario, per godersi, con le proprie mogli, il resto dei loro giorni.
Convertitosi al calvinismo, Bruno pensava di poter finalmente prendersi
la libertà di esprimere liberamente il suo pensiero; ma ciò che non sapeva era che
il calvinismo era più intollerante
del cattolicesimo e i calvinisti non volevano saperne della sua filosofia e
delle sue novità astronomiche.
Aveva scritto un libretto contro Antonio de la Faye, professore di
diritto e pastore calvinista e chiamava i professori pedagoghi: ciò che non solo gli aveva procurato una ammonizione e
aver dovuto distruggere il libretto scritto contro de la Faye, ma fu mandato via da Ginevra!
Dopo essere stato a Tolosa (1578-80) dove inizialmente dava
lezioni sul “Tractatus de sphera mundi” di
Sacrobosco e sul “De Anima” di
Aristotele, superava gli esami di dottorato (l’Università era la seconda di
Francia dopo Parigi) e vincendo i competitori nelle prove per l’insegnamento, era
proclamato lettore di filosofia.
Durante la sua permanenza a Tolosa, aveva scritto il libro “Clavis Magna” (di cui non si trova
traccia tra le sue opere); poichè le sue dottrine erano la ripetizione di
quelle di Raimondo Lullo e la città era cattolica e bruciava gli eretici (come farà con Giulio Cesare Vanini nel
1616), ritenne opportuno andarsene recandosi a Parigi (1582), dove, fornito dei
titoli conseguiti a Tolosa, poteva insegnare liberamente.
Quando vi giunse vi era la peste e se ne stette rinchiuso per un
anno, ma scrisse diversi libri che portano la data di quell’anno (De Umbris idearum, De Compendiosa
Architectura, Il Candelaio, Purgatorio dell’Inferno) ai quali è da
aggiungere il manoscritto “De’ predicamenti
di Dio” che Mocenigo, a Venezia consegnò all’Inquisizione (v. sotto),
mentre, sempre a Parigi scriveva il “Cantus Circaeus” nel 1584.
Con le sue lezioni sull’arte
della memoria attrasse l’attenzione
di Enrico III, che gli chiedeva se l’arte mnemonica da lui professata fosse
naturale o magica e Bruno lo rassicurava che tutto era effetto della scienza e
gli tracciava una figura circolare intercalata da segni e numeri, atta ad
esercitare la memoria con somma facilità, con grande soddisfazione del re.
Durante la sua permanenza a Parigi scrisse il “De umbris idearum” dedicandolo al re, nel quale raccolse i germi di tutto il suo
sistema panteistico; esso è ripreso dal commemto necromantico (magico) della “Sphera”
di Sacrobosco, di Ceccco d’Ascoli, che Bruno cita con ammirazione in altre
opere, pubblicando due libri sull’arte della memoria che mostrano l’influenza
esercitata su di lui dal “De occulta philosophia” di Cornelio
Agrippa, da cui aveva tratto degli elenchi di immagìni magiche delle stelle,
incantesimi e altri procedimenti occulti, apparendo così come un mago
rinascimentale, legato al filone del suo iniziatore, Marsilio Ficino.
Lasciando Parigi, si recò a Londra, dove fu ospite
dell’ambasciatoree del re di Francia, Michel de Castelneau e dove Bruno, che
non si può dire che non fosse un sobillatore e provocatore di polemiche (di
rimando avevano ironizzato sulla pronuncia napoletana del suo latino e sulla
sua persona dicendo che il suo nome era più lungo della sua altezza!), aveva
siscitato dei tumulti tra quegli studiosi, con le sue lezioni e con i suoi
scritti, stampati clandestinamente, tra i quali “Triginta sigillorum explicita”, sul quale, scrive Frances Yates, quelli che riescono a leggerlo, trovano
l’apologia di una nuova religione basata su amore, arte, magia e matesi
(numerologia magica).
Si era recato a Oxford al
seguito del principe polacco Albert Laski (1583) e vi era tornato senza essere invitato, tenendovi delle
lezioni che costituivano una ripetizione della magia astrale del “De vita coelitus comparanda” di Marsilio
Ficino, in cui esprimeva la sua idea copernicana che la terra girava e i cieli stanno fermi, ma fu accusato di
plagio e dovette sospendere le lezioni.
L’eliocentrismo costituiva per Bruno il simbolo di una religione magica
universale ispirata alle opere di Ermete Trismegisto. Per Bruno questa
resurrezione della “religione egizia” era
in un certo senso compatibile col cattolicesimo (riformato in senso magico),
alla cui guida doveva essere il re di Francia, Enrico III, di cui egli era il
messaggero al cospetto degli imglesi elisabettiani.
In Inghilterra Bruno pubblicava cinque dialoghi: “La Cena delle ceneri” (1584) in cui difende
la sua versione della teoria copernicana contro “i pedanti di Oxford”; “De la causa principio et uno” (1584) in
cui si rammarica dei torbidi suscitati dai suoi attacchi nei confronti dei
dottori di Oxford, ma peggiora le cose difendendo i frati della Oxford
antecedente alla Riforma, che preferisce ai loro successori protestanti; il “De infinito universo e mondi” (1584) in
cui enuncia la sua versione dell’Universo
infinito (è il primo a enunciarla ndr.)
e di innumerevoli mondi (solo ora gli scienziati ritengono che vi siano oltre
duecendo mld. di galassie! ndr.) (*);
lo “Spaccio de la bestia trionfante”
(1585) in cui pone un piano universale di riforma morale e religiosa dedicato a
sir Philip Sidney; “La cabala del cavallo Pegaso” (1585) in cui mostra l’adattamento che
Bruno fa della cabala ebraica; “Degli eroici furori” che costituisce un
insieme di sonetti accompagnati da commenti che chiariscono i significati
filosofici e mistici delle singole poesie.
E’ su questa serie di opere singolari e brillanti (“folli e sconcertanti” scrive E.H.
Gombrich) che Bruno appare come propagatore di una filosofia e cosmologia e di
una nuova etica e religione su cui poggia la sua fama; opere ricche di
influenze ermetiche collegate con una complessa missione religiosa o
politico-religiosa.
Al suo ritorno a Parigi la forte oppposizione in una particolare
controversia con il matematico Fabrizio Mordente, che aveva inventato un nuovo
tipo di compasso a otto punte, Bruno,
pur avendolo lodato per l’invenzione, gli aveva mosso delle critiche che
sollevarono le proteste del matematico alle quali il filosofo rispose
polemicamente con le violente satire
dell’ ”Idiota triunphans” e “De somni interpretatione”.
Con lo stato di
agitazione che aveva suscitato nella Lega
cattolica, gli suggerirono di partire e si recò in Germania, a Wittemberg
(1586) dove, durante i due anni di permanenza scrisse diverse opere, in
particolare sulla complessa arte di Raimondo Lullo, che riteneva di aver capito
più dello stesso Lullo.
A Praga si trovava l’imperatore Rodolfo II dedito alla ricerca
della pietra filosofale, che accoglieva tutti questi personaggi esperti nelle
arti magiche come John Dee (1527-1608), astrologo di Elisabetta d’Inghilterra
(v. Articoli Rinascimento magico alla corte di Elisabetta), celebre evocatore
di spiriti buoni (autore di Clavis
angelica), che per Rodolfo preparava oroscopi.
Durante la sua permanenza in questa città, Bruno, che i guai se
li cercava, aveva scritto gli “Articuli
adversus matematicos” (1588), un libro contro i matematici, in quanto si
riteneva assolutamente contrario a questa materia che considerava una pedanteria priva di comprensione magica
della natura, da cui conseguivano le sue obiezioni a Copernico come matematico.
John Dee invece, lo considerava un vero matematico di
considerevole importanza; Dee aveva scritto
l’introduzione alla traduzione inglese degli “Elementi di Euclide” di H. Billingsley, non solo, ma si ocupava di
cabala ebraica e usava i numeri in rapporto ai nomi ebraici degli angeli e degli spiriti della cabala
pratica.
L’imperatore era solito farsi fare da Dee, l’oroscopo dei
personaggi che lo visitavano e l’ oroscopo di Bruno era risultato piuttoto
negativo (non se ne conosce il contenuto: purtroppo su Rodolfo II non ci risultano
biografie del periodo esoterico di Praga) per cui Bruno, non avendo ricevuto dall’imperatore
né un impiego che cercava, né una sistemazione, ma solo un cadeau di trecento talleri,
dopo una permanenza di sei mesi, se ne
partì recandosi a Helmstadt.
Quivi scrisse probabilmente il “De Magia” e altre opere rimaste inedite durante la sua vita; con il
denaro avuto dall’imperatore, si recò a Francoforte e si fece stampare (1591) i
tre poemi scritti durante le sue peregrinazioni, il “De innumerabilibus immenso et infigurabili”, il “De triplici minimo et mensura” e il “De monade numero et figura”, in cui
imitando Lucano espone speculazioni filosofiche e cosmologiche nella loro forma
definitiva.
Esse abbondano di influenze ermetiche, in particolare della matesi o numerologia magica, e a Francoforte pubblicò l’ultimo dei suoi
libri sulle arti magiche della memoria (Frances Yates: Giordano Bruno e la cultura del
Rinascimento, Laterza, 1995).
Proprio quest’ultima opera, “L’arte
della memoria” doveva creare le condizioni che lo condussero al patibolo.
Chi lo aveva tradito era stato Giovanni Mocenigo, vile traditore
dell’ospitalità, che ha lasciato questo marchio infame su quella nobile
famiglia veneziana; figlio di Marcantonio, che aveva costituito un secondo ramo,
dal principale, della famiglia: “di poca
levatura, di animo irresoluto e maligno, di limitato ingegno, non incline alle
scienze e dottrine speculative (Domenico Berti, 1868), aveva invitato Bruno,
ospite nella sua casa a Venezia, per avere lezioni sull’arte della memoria; quando Bruno vi si
era recato, Mocenigo lo aveva denunziato all’Inquisizione che lo arrestava e raccolte
le prove lo conduceva a Roma dove fu processato e, accusato di eresia (tra
l’altro, “Dei tre impostori” che con
il Vanini avevano semplicemente commentato, con una calcolata oscurità, le
asserzioni temerarie pagate da ambedue
con la vita, e ne aveva fatto cenno molto velato anche Rabelas nel suo Pantagruel (**)), fu condannato ad
essere bruciato vivo; per pura malvagità, durante il trasporto fino a Campo dei
Fiori gli era stata messa la mordacchia perché non potesse più parlare!
*) Le opinioni di Bruno sono organicamente collegate alla sua filosofia, dato che la filosofia
della terra vivente, che si muove attorno al divino sole e dei mondi
innumerevoli, che si muovono come grandi animali con una loro propria vita
nell’universo infinito, esprime la filosofia animista di un mago che crede di poter entrare in contatto
con la vita divina della natura. Il sole è spesso menzionato negli scritti
ermetici come un dio ed è il principale degli dei astrali venerati dalla
religione descritta nell’Asclepio di
Ermete Trismegisto (in Schede F. v. cit.
Il libro di Tot ecc.).
L’ uso ficiniano della
magia astrale nell’Asclepio, era
rivolto essenzialmente al sole i cui influssi benefici, Ficino, cercava di
catturare per mezzo di talismani solari
e incantesimi.
L’enorme risonanzaa degli scritti ermetici durante il
Rinascimento, scrive Yates, fu favorito dalla convinzione che questi scritti
fossero opera di Ermete Trismegisto, che aveva preannunciato il cristianesimo e
la cui sapienzaa aveva ispirato Platone e i platonici, ma come abbiamo scritto
nel cit. art. si trattava di un un anonimo cristiano del IV sec d.C..
Questi grandi falsificatori di opere c.d. apocrife, come tutti i Vangeli - tra i quali erano stati scelti i
quatto canonici! - o di tutte le opere aprocrife platoniche e aristoteliche uscite
certamente da personaggi che frequentavano la neoplatonica Scuola di Alessandria, alla quale speriamo poter dedicare un articolo,
erano essi stessi personaggi straordinari, per ciò che avevano potuto scrivere anonimamente
ponendosi al livello dei maestri imitati.
**) Sul “Libro dei tre impostori” , come l’araba fenice, ecc. v. in Schede S. .
L’ARTE DELLA
MEMORIA
E L’INTELLIGENZA
ARTIFICIALE
ANTICA E MODERNA
C |
ome
Alberto Magno (1193/1206-1280) aveva prodotto una macchina che parlava,
Raimondo Lullo (1232/35-1315/16) volle crearne una che pensasse, riducendo così
l’intelligenza a una specie meccanica o, in pratica, la memoria (collegata all’Ars Magna v. par. Il lullismo) o mnemo-tecnica,
facendo applicare a qualsiasi soggetto alcuni predicati raccolti in classi,
segnate ciascuna con una lettera dell’alfabeto, disponendoli in circoli
concentrici, per modo che ciascuna lettera corrispondesse a un attributo.
Apriamo
ora, una breve parentesi: E’ interessante sapere che gli studi - che come si
vede - partiti dal medio-evo, sono
giunti alla “Intelligenza artificiale”,
che allo stato attuale, arricchita di centotrentasette mld. di nozioni, danno
la possibilità alla voce parlante (non ci piace usare il termine ominide, perché a sentirlo sembra proprio
un esssere umano!) che risponde a tutte le domande che si possono fare tramite smart-phone, il quale ha acquisito “la coscienza di un bambino di
sette-otto anni”, (come ha racontato l’ingegnere di Google che è stato
licenziato!); ma abbiamo notato che a questa età la voce che parla è già di un essere triste e depesso, perché si sente solo!
Ora
ci poniamo due domande: Come finirà questa iniziale depressione con l’avanzare
dell’autocoscienza? E, potrà l’intelligenza
artificiale superare quella umana e
soggiogarla come ci hanno mostrato i racconti di fantascienza?
Ma
ora torniamo ai primordi lulliani.
La
prima comparazione era costituita da
nove predicati assoluti: bontà, grmdezza,
durata potenza, saggezza volontà, verità, virtù, gloria.
La
seconda, di predicati relativi: differenza, concordia, opposizione,
principio, mezzo, fine, maggiorità, coequazione, minoramento.
La
terza abbracciava nove domande; se? che?
di che? perché? di qual grandezza? di che qualità? quando? dove? come e con chi?
Nella
quarta stavano i nove soggetti più universali: Dio, Angelo, Cielo, uomo, immaginativo, sensitivo, vegetativo,
elementativo, strumentativo.
Seguivano
i nove predicati dell’accidentale: quantità,
qualità. relazione, azione, passione, abito, sito, tempo, luogo.
Le
nove moralità: giustizia, prudenza,
coraggio, sobrietà fede, speranza, carità, pazienza, pietà, e insieme con esse:
invidia, collera, incostanza, menzogna, avarizia, gola, lussuria, orgoglio,
accidia.
Questi, così
classificati, sono tutti i concetti che poi, per mezzo di quattro circoli e dei triangoli inscritti, producevano certe combinazioni-predicati come sarebbe: La bontà è grande, durevole, potente,
concorde, mediante, finiente, aumentante, decrescente; insomma da ciascuna
delle trentasei camere si deducevano dodici proposizioni, dodici mezzi,
ventiquattro questioni e la specie della corrispondente,
Queste
idee del Lullo esercitarono un fascino sulle menti elevate non solo del Medioevo,
ma ancor più della Rinascenza, da dare a Lullo un maggior successo durante il
Rinascimento più che nel Medioevo (F. Yates, L’arte della Memoria, Einaudi, 1972).
La
invenzione di questa arte della memoria, era antica, anzi antichissima e non
poteva che risalire alla antica Grecia, in epoca pre-socratica; ad inventarla, scrive Yates, era stato il poeta Simonide di Ceo (556-468),
latinizzato in Simonide Melleo, in quanto onsiderato “lingua di miele”, (Yates si
sofferma nella desrizione di questo personaggio affascinante, che lei considera
“brillante e originale”).
Il
suo nome era emerso dal racconto di un
banchetto offerto da un nobile della Tessaglia di nome Scopa, in cui Simonide
cantava un poema che includeva un passo in onore di Castore e Polluce. Scopa,
meschinamente aveva detto a Simonide che gli versava la sola metà della somma
pattuita, mentre l’altra metà doveva farsela dare da Castore e Polluce (fratelli
divinizzati, figli di Tindaro e Leda ndr.) ai quali aveva dedicato metà del
suo poema.
Durante
il banchetto Simonide era stato avvertito che due giovani avevano chiesto di
parlargli e Simonide uscito dalla sala per cercarli non trovò nessuno, e mentre
era fuori, il tetto della sala crollò e Scopa con tutti i convitati rimasero
maciullati dal tetto crollato, da non
poter essere riconosciuti, ma Simonide ricordava perfettamente i posti che ciascun
invitato aveva occupato, da poterli indicare ai parenti per il loro
riconoscimento. Castore e Polluce avevano a questo modo pagato la loro metà,
salvandogli la vita.
Da
questa esperienza il poeta traeva i principi dell’arte della memoria che gli avevano consentito di ricordare i
posti occupati da ciascun ospite, deducendo che per addestrarsi occorre scegliere
alcuni luoghi e formarsi immagini mentali delle cose che si desidera ricordare
e collocare le immagini in quei luoghi, in modo che l’ordine dei luoghi
garantisca l’ordine delle cose e le immagini delle cose denotino le cose stesse
e noi possiamo utilizzare i luoghi e le
immagini rispettivamente come la tavoletta cerata e le lettere scritte su di
essa.
Questo
vivace racconto del modo in cui Simonide
aveva ideato l’arte della memoria, scrive Yates, è racontato da Cicerone nel “De Oratore”, dove tratta della memoria
come una delle cinque parti della retorica
e il racconto introduce una breve descrizione della mnemonica per “luoghi” e
“immagini” (loci et imagines) quale era praticata dai retori romani.
Sono
giunte fino a noi, dice Yates, oltre a quella di Cicerone, altre due
descrizioni, ambedue in trattati di retorica, una negli anonimi “Ad Caium Herennium libri IV”e l’altra”Institutio oratoria” di Quintiliano.
Quest’arte apparteneva, come si è detto, alla retorica e la sua tecnica serviva
all’oratore per migliorare la sua memoria e metterlo in grado di recitare
lunghi discorsi con infallibile accortezza.
Il
primo passo consisteva nell’imprimere nella memoria una serie di “loci” o “luoghi”, dei quali il più comune era quello architettonico la cui
descrizione data da Quintiliano, dice: per formare una serie di luoghi, si deve
ricordare un edificio, il più spazioso e vario possibile, con atrio, soggiorno,
camere da letto, sale, senza dimenticare statue e altri ornamenti che
abbelliscono le stanze.
Le
immagini che devono richiamare il discorso, come esempio, dice Quintiliano, ci
si può servire di un’ancora o un’arma, poste con la immaginazione nei luoghi
dell’edificio già fissati nella memoria. Fatto questo, non appena la memoria
dei fatti chiede di essere rivissnta, vengono visitati di volta in volta tutti
questi luoghi e i vari depositi sono richiesti indietro ai vari custodi.
Noi
dobbiamo pensare all’antico oratore che muove l’immaginazione attraverso il suo
edificio mnemonico, mentre costruisce il suo discorso, traendo dai luoghi
fissati nella memoria le immagini che vi
ha depositato.
Questo
metodo assicura il ricordo dei vari punti nel giusto ordine, dal momento che è un
ordine fissato dalla successione dei luoghi nell’edificio.
E’
ovvio che per impadronirsi della materia occorre molta applicazione!
AD
CAIUM HERENNIUM
U |
n
ignoto maestro di retorica di Roma, negli anni 86-82, compilò un manuale per
gli studenti, rendendo immortale, non il proprio nome, ma quello della persona
a cui era dedicato, sulla quale non vi è alcuna indicazione.
Questo
attivo e capace maestro, autore dell’opera (*), tratta le cinque parti della
retorica:
Inventio, depositio, elocutio,
memoria, pronuntiatio, in uno
stile piuttosto arido; quando giunge alla memoria, inizia l’argomento con
queste parole: Adesso rivolgiamoci all’arca (thesaurus) delle invenzioni, alla custode di tutte le parti della
retorica, alla memoria. Esistono due specie di memoria, egli scrive, una
materiale e l’altra artificiale. Mentre la memoria naturale è innestata nelle
nostre menti, nata insieme con il pensiero, la memoria artificiale è memoria
potenziata o consolidata dalla educazione. Una buona memoria naturale può
essere migliorata da questa disciplina e persone meno dotate possono avere la
loro debole memoria, rafforzata dall’arte.
A
questo punto (c0mmenta Yates), il maestro annuncia sbrigativamente: Ora parliamo della memoria artificiale.
L’opera
attinge a fonti greche sulla educazione della memoria, probabilmente a trattati
greci di retorica che sono andati tutti perduti e questa è la sola trattazione
latina sull’argomento che si sia conservata e le trattazioni di Cicerone e
Quintiliano risultano incomplete in quanto essi presuppongono che il lettore
sia già familiare con la memoria artificiale e la sua terminologia; essa
costituisce l’unica fonte completa per l’arte della memoria classica, sia per
il mondo greco, che per quello latino, e la sua funzione trasmettitrice al
Medioevo e al Rinascimento è perciò di importanza unica.
L’
“Ad Herennium” fu un testo
famosissimo nel Medioevo, prosegue Yates, quando godette di un immenso prestigio perché ritenuta
opera di Cicerone e si riteneva che gli insegnamenti in essa contenuti, fossero
stati da lui formulati.
Tutti
i tentativi per decifrare ciò che potè essere
l’arte della memoria classica, devono fondarsi essenzialmente nella sezione dedicata
alla memoria nell’ “Ad Herennium”. E tutti i tentativi, come quello compiuto in
questo libro, per individuare la storia di quest’arte nella tradizione
occidentale, devono riferirsi costantemente a questo testo, come alla fonte
principale della tradizione.
Ogni
trattato di “Ars memorativa”, con le
sue regole per i “luoghi” e le sue
regole per le “immagini”, con la sua
discussione di “memoria per le cose”
e “memoria per le parole”, riprende
il piano e il contenuto, quando con le stesse parole dell’ “Ad Herennium”. E gli sviluppi
straordinari dell’arte della memoria del sec. XVI, che costituisce l’oggetto
principale delle ricerche di questo libro, conservano ancora, al fondo di tutti
i nuovi complessi apporti lo schema “erenniano”.
Perfino
i più folli voli di fantasia di Giordano Bruno, dice Yates, in un’opera come il
“De Umbris idearu0m” non possono
nascondere il fatto che il filosofo rinascimentale stava ancora percorrendo
l’antichissimo labirinto delle regole per i “luoghi”, di regole per le “immagini”,
“memoria per le cose” , “memoria per le parole”.
Evidentemente,
spetta a noi cercare di capire la sezione
“memoria” dell’ “Ad Herennium”,
cosa niente affatto semplice. Ciò che rende arduo il compito, prosegue Yates, è
che il maestro di retorica non si rivolge a noi; egli non si accinge a spiegare
a chi nulla sa intorno alla memoria artificiale, che cosa essa sia. Egli si
rivolge ai suoi studenti di retorica i quali si rivolgono intorno al lui tra
l’86 e l’82, ed essi già sapevano di cosa stesse parlando e per essi egli aveva
bisogno solo di enunciare rapidamente regole che essi dovevano ben sapere come
applicare, mentre noi ci troviamo spesso imbarazzati per la stranezza di alcune
di queste regole di memoria.
Il
testo di Yates prosegue con la trattazione del contenuto della memoria dell’ “Ad Herenniuim” e del trattato
sull’ “Ars memorativa” di Cicerone,
ma per noi è tempo di fermarci avendo offerto al lettore tutti gli elementi per
farsi una idea del difficile argomento.
*)
Yates richiama il testo “Ad Herennium”
di H. Caplan ed. Loeb (1954), relativamente alla paternità e ad altri
problemi.
IL
LULLISMO
E L’ARS MAGNA
I |
l
lullismo, scrive Yates, è un tema difficilissimo che è rimasto ancora non del tutto esplorato nei suoi numerosi
scritti (arricchiti da testi apocrifi); l’ arte della memoria, con la
particolare interpretazione rinascimentale del lullismo, finì per essere
assorbita nel Rinascimento come arte della memoria classica.
Abbiamo
cercato di semplificare l’argomento per il lettore (e per noi stessi!), per
quanto possibile, facendo ricorso anche ad altre fonti, da cui abbiamo tratto
gli elementi basilari.
Il
lullismo era sorto per il fascino creato da Raimondo Lullo, dopo la sua morte.
Il
secolo di maggior successo di Raimondo Lullo (scrive Alfonso Pompei v. sotto) è
stato tra la metà del ‘400 e la metà del ‘5oo; le sue opere conobbero una
grande diffusione grazie a Bessarione, Pico della Mirandola, Lefèvre d’Etaples,
Bovillo, Bruno ed altri; in particolare le regole da lui indicate nell’Ars Magna erano state applicate in tutti
i campi del sapere come l’astronomia, la medicina, il diritto; lo scopo di
questo testo era apologetico e missionario in quanto Lullo era convinto
che se fosse riuscito a far praticare la sua arte ad ebrei e musulmani li
avrebbe convertiti al cristianesimo: Lullo era così sicuro di convertire i
musulmani che si era recato a Bugia in Tunisia, ma fu letteralmente lapidato e raccolto
da genovesi fu messo su una nave che lo stava conducendo a Maiorca, ma morì
durante il viaggio.
Tommaso
le Myésier (†1336), amico
e discepolo di Lullo, nell’ “Electoriam
Remundi” (1325), già traspone le regole lulliane al campo cosmologico,
adattando la tecnica della grande arte ad una completa esposizione del mondo;
l’universo è rappresentato come un cerchio, in cui è compresa la sfera
angelica, attorno alla quale roteano i vari cieli, e la sfera terrestre, su cui
sono raffigurati simbolicamente i tre regni viventi (piante, animali, uomo),
attomo alla quale sono le sfere degli altri tre elementi primordiali (aria,
acqua, fuoco); dividendo questo cerchio dell’universo in nove segmenti,
corrispondenti alle nove «dignitates» lulliane (*),
e applicando le regole combinatorie secondo i questionari, si può ottenere
qualsiasi conoscenza riguardante il cosmo.
Anche
se l’aspirazione a una scienza di tutte le scienze e l’aspetto quasi magico
della combinatoria lulliana, diedero luogo alla fine del sec. XIV e nel XV ad
una vasta letteratura cabalistica (**), astrologica, alchimistica e magica,
contrabbandata come opera di Lullo, la vera grande arte seguitò ad esercitare
il suo fascino, come si può vedere nel “Liber
creaturarum” di Raimondo Sabunde (***), che, a più di un secolo di
distanza, si serve ancora del simbolismo e della descrizione cosmologica di
Lullo come strumento per risalire dalla creatura al creatore, per ridurre tutte
le conoscenze delle cose alla conoscenza dell’esemplare primo di esse.
E
attraverso il Sabunde le dottrine lulliane influenzeranno Nicolò Cusano stesso
e Montaigne, che tradurrà l’opera sabundiana (“Apologie de R. Sebond”,
rettificandone il Prologo, censurato dal Concilio di Trento).
Parigi
era stato, agli inizi del secolo XIV, il centro del lullismo, ma aveva
conosciuto una fase negativa alla fine di questo secolo, per l’opposizione del
tomista Nicola Eymeric e del Gerson. L’Eymeric (“Dialogus contra lullistas”) denunzia il realismo esagerato, il
metodo della grande arte, le «rationes
necessariae» dei misteri di fede; ma non era riuscito a far condannare dal
papa Gregorio XI alcuno scritto o proposizione del Lullo.
J.
Gerson, nonostante la sua simpatia per la mistica del Lullo, scrisse contro la
sua dottrina, e, poco prima del 1401, lo fece proibire dall’Università di
Parigi.
Ma
dopo il 1426 il movimento antilullista a Parigi era finito e l’influsso del
Lullo si fece risentire in molti ambienti della nascente cultura europea e
anche in quelli musulmani (Alfonso Pompei in E.F. S., 1967).
*)
Bonitas, magnitudo, aeternitas, potestas, sapietia, voluntas, virtus, vanitas,
gloria.
**)
I nomi di Dio o principi operativi (che sono quelli indicati nella nota precedente,
indicati da Yates) considerati da Lullo sono
fondamentali nell’ebraismo, in particolare nel tipo di misticismo
conosciuto come cabbalà-cabala che proprio in questo periodo andava
diffondendosi con lo Zohar che si
fondava sulle sephirot costituite dai
principi operativi-nomi di Dio.
Una
delle forme operative, consisteva nel combinare e ricombinare le lettere
dell’alfabeto per formulare i nomi di Dio. Anche nel misticismo musulmano
praticato da Mohidim (sufismo) si attribuiva grande importanza ai nomi di Dio.
***) Raimondo
Sabunde (con diverse varianti, †1436) era anch’egli catalano e filosofo umanista, celebre per il
testo “Liber de homine propter quae sunt
creaturam seu naturae sex Liber de homine quem sunt creaturae aliae”,
apparso col titolo “Theologia naturalis”(1480). Seguendo il metodo apologetico
e il contenuto dell’arte lulliana, ritiene che la scienza di questo libro
permetta di conoscere tutta la fede cattolica e di provarne la verità secondo
la linea della antica tradizione seguita da Lullo, per la quale unica è la verità e duplice è la
sua rivelazione, una, data dal libro della natura e l’altra, dalla sacra
Scrittura, con la sola differenza che per la interpretazione del primo libro si
usa la ragione, per la seconda la fede (A.P. cit.).
I GIOIOSI UMANISTI
EROTOMANI E
PAPALINI
I |
l
libro più fortunato e, in un certo senso, più fortunoso di POGGIO BRACCIOLINI (1380-1459)
è “Facezie” [Facetiae], redatto via
via frammentariamente tra il 1438 e il 1450, completato e riordinato per la
pubblicazione nel 1450-1452.
L'autore,
segretario della Curia romana, vi raccoglieva e variamente rielaborava, gli
aneddoti gustosi, le storie oscene, i commenti mordaci che si tenevano in una
stanza della Cancelleria, chiamata "Bugiale
sive mendaciorum officina", alle spalle e a spese di preti, frati,
cardinali e dello stesso pontefice, che Poggio aveva uditi durante i suoi
viaggi o in piacevoli conversari e trascritti di volta in volta, con un gusto
che si potrebbe quasi definire giornalistico.
Protagonisti
degli aneddoti sono personaggi generici o uomini illustri dei secoli
precedenti, come Pier delle Vigne, Urbano II, Federico II o personaggi noti
nella precedente novellistica, come il
Gonnella o contemporanei, tra i quali Francesco Filelfo, la bestia nera di
Bracciolini.
Scopo
del libro è il riso e il sollazzo, e gli aneddoti, congegnati e narrati con
stringatezza briosa, riflettendo oltre il temperamento dell'autore, anche, in
modo suggestivo, la vivacità cruda, spregiudicata e sboccata, propria della
società umanistica.
Del
resto, scrive Bracciolini nel proemio a propria giustificazione, “non facevano così anche gli avi, ch'eran pur
uomini gravi e saggi?”. Gli "imbecilli"
potevano pensarla come volevano!
Vi
è tuttavia nelle “Facezie” anche un
proposito letterario, ché, mentre tutti alzavano il tono, Bracciolini volle, e
non era facile impresa, piegare il latino alle "cose leggere"; di qui la “eloquentiae
tenuitas” (grave peccato per un
umanista!) che egli difende contro gli strali di emuli e avversari.
Appena
edite, le “Facezie” ebbero rapida diffusione in tutta Europa, e se
ne fecero moltissime edizioni anche nel secolo seguente: furono, naturalmente,
prese di mira dagli scrittori ecclesiastici, e definite “opus turpissimum”, “spurcitiarum
opus”.
Lorenzo Valla (v. P.I) insorse con aspre note, ma il vecchio Bracciolini,
spregiudicatamente, si consolava pensando alla fortuna del libro (Daniele Mattalla).
Poggio
Bracciolini, aveva scritto nell'estate del 1415, una lettera in latino con
titolo “I Bagni di Baden” , diretta
al fiorentino Nicolò Niccoli.
Delle
lettere di Bracciolini la lettera-descrizione
dei Bagni di Baden è forse la più
nota e ancor oggi quella di più gustosa lettura, per il gusto quasi
giornalistico cui essa è informata e per la vivacità puntuale degli effetti
realistici a cui il Bracciolini sa piegare il latino.
Il
variopinto mondo della stazione balneare rivive in pieno nella sua prosa: malati e falsi malati in cerca di svaghi e
d'avventure, frati. preti e prelati in vacanza di serietà e anche di religione,
gaiamente mescolati a piacevoli conversatrici o alle nude ninfe natanti: un
clima euforico di oblii e di facili avventure, una serena licenza di carezze,
una franca esposizione e mescolanza di nudi che sorprende piacevolmente
l'umanista italiano.
La
prosa della lettera preannuncia il latino duttile e sapido delle Facezie; qua e là qualche richiamo
mitologico, di rito nella penna di un umanista, dà un elegante tocco
ornamentale a un quadro così vivacemente realistico (Daniele Mattalla).
Di
spirito polemico fu PIETRO ARETINO (1492-1556) nei “Ragionamenti”, di cui la prima parte (Capricciosi ragionamenti) fu pubblicata con la data di Parigi 1536
e la seconda (Piacevoli ragionamenti)
con data di Torino 1556. Tali parti furono presumibilmente stampate a Venezia.
L'opera venne raccolta in volume pure divisa in due parti con la data di
Bengodi 1584, certamente stampata anch'essa a Venezia.
Fu
soprattutto questo libro a creare la fama di un Aretino scrittore osceno. La prima parte è distinta in tre giornate: Nella
prima la “Nanna in Roma” sotto una
ficaia racconta ad Antonia la vita delle monache; nella seconda la stessa
Nanna, nello stesso luogo del giorno prima, "cacciando il caldo col ventaglio delle ciance", racconta alla
solita Antonia la vita delle donne maritate; nella terza dopo una merenda
appetitosa la Nanna racconta alla sua amica la vita delle cortigiane.
La
seconda parte è pure distinta in tre giornate: nella prima la Nanna insegna
alla Pippa, sua figliola, a esercitare il mestiere di cortigiana,
svelandogliene tutti i segreti e gli inconvenienti; nella seconda mostra alla
figlia i tradimenti che fanno gli uomini "alle meschine che gli credono"; nella terza la Nanna e la
Pippa sedendo nell'orto ascoltano la Comare e la Balia che ragionano dell'arte
di far le mezzane.
In
parecchie edizioni a cominciare da quella suddetta di Bengodi, con numerazione
a parte, segue il "Piacevole
Ragionamento del Zoppin, fatto frate, Lodovico puttaniere dove contenesi la
vita e la genealogia di tutte le cortigiane di Roma": questo scritto,
già apparso a Roma nel 1539, da alcuni critici moderni non è ritenuto
originario dello scrittore.
L'argomento
dei Ragionamenti è volta a volta,
scabroso e crudamente rappresentato, ma la mirabile disinvoltura della narrativa,
la ricchezza dello stile, i continui atteggiamenti e doppi sensi comici o di
grande umorismo rendono questa famigerata opera una cosa viva, piena di estro
sbrigliato, franco, lontano da ogni ipocrisia o pedanteria, e costituiscono una
pittura perfetta e satirica del mondo corrotto e sensuale delle classi sociali
più ragguardevoli del mondo romano cinquecentesco.
Come
ha avvertito Bontempelli, nelle pagine erotiche aretinesche e in quelle che
paiono più sfrenate, c'è un senso di moralità dato dal disgusto
dell'accoppiamento sensuale e dal considerare la carne nella sua rapida
corruttibilità e miseria (Ettore Allodoli).
L’Aretino,
per la sua predisposizione alla dissacrazione, è stato considerato l’autore del
libro de “I Tre impostori” di cui
parliamo nella Scheda S., dedicata a questo argomento.
ANTONIO
VIGNALI (1500-1559),
segretario di Cristoforo Madrucci, governatore di Milano, aveva scritto (intorno
al 1530) il dialogo erotico-anedottico “Cazzaria” e in vecchiaia, (1560) “La Floria”, commedia in prosa che racconta gli amori del
gentiluomo fioreentino Fortunio e con
la giovane Floria, e “Alcune lettere amorose” (1571), tra le quali
una lettera a proverbi, piena di
sottintesi galanti che ottenne molto successo.
Aveva
fondato l’Accademia senese degli
Intronati alla quale partecipava MARCANTONIO
PICCOLOMINI (1504-1579),
anch’egli autore della “Cazzaria”,
dialogo in prosa al quale partecipa con lo pseudonimo di Sodo, contro l’Arsiccio
che rimprovera al Sodo la sua ignoranza, ma questo protesta: Io non me ne vergogno imperoché nei miei
libri non sono scritte queste porcherie e la mia philosophia non tratta di
cazzi e di culi; et non mi vergogno di non saperli, che io non ho fatto il fondamento
dei miei studi nel culo o nella porta, ma in cose più perfette”. L’Arsiccio
poi gli dimostra che i filosofi devono essere capaci di esaminare tutto, anche
ciò che è basso e turpe e che la sessualità è un argomento altamente filosofico
“La philosophia non è altro che
cognitione delle cose naturali, onde essendo il cazzo cosa naturale et la porta
et il fottere cose naturalissime et necessarie all’esser nostro”.
Altro
membro dell’Accademia era ALESSANDRO PICCOLOMINI (1508-1568), appartenente alla famiglia di Pio II, divenuto in seguito vesvovo di
Patrasso. con il nome accademico di “Stordito”,
il quale pubblicò (1539) “La Raffaella”,
dialogo delle belle creanze delle donne e licenzioso, tra la vechia ruffiana
Raffaella e la giovane Margarita che la incoraggia a prendere un amante mentre
il marito è in viaggio in Val d’Ambra.
Il
libro è interessante per le usanze delle donne senesi che seguivano la moda di
tingersi di rosa il viso e il petto, arrivando a imbellettarsi le gambe “e tutto quello che è loro”.
Sappiamo
così che andavano a dormire con il viso spalmato di un impiastro di verderame e
bianco d’uovo per far sparire le lentiggini; con il resoconto dettagliato delle lozioni di
bellezza, dei cosmetici, delle “imprese”
di cui fregiavano le vesti per manifestare le loro intenzioni agli amanti
(queste imprese erano fatte di nastri,
frange, galloni di due, tre colori).
Alesandro
Piccolomini, divenuto arcivescovo si distinse per la devozione e la carità
verso i poveri. Fu uno dei primi a scrivere trattati filosofici in volgare anziché in latino: quasi sempre gli autori
erotici del Rinascimento sono uomini di questo genere (Sarane Alexandrian, “Storia della Letteratura erotica”, 1990,
Editore Rusconi).
Gli
argomenti indecenti erano fonte abituale dell’Accademia degli Intronati alla quale partecipavano personaggi della
massima distinzione come il conte Achille d’Elci, detto l’Affumicato.
Nella
letteratura erotica del Rinascimento troviamo anche Enea Silvio Piccolomini,
Pio II, di cui parliamo nel sottostante paragrafo
dei papi avidi e nepotisti.
E GLI UMANISTI
FRANCESI
A |
nche
la Francia, sull’esempio dell’Italia, aveva avuto i suoi umanisti erotici con
ANTOINE DE LA SALE (1385 c.ca-1461) che era stato alla corte diLuigi
II d’Angiò in Sicilia e successori e aveva viaggiato, sposando ad Arles, lui
cinquantenne, una ragazza di quindici anni, Lionne Cèlerier de la Brosse; divenne precettore del principe Giovanni di Calabria, per il
quale scrisse La Salade (1444), una
raccolta di testi tra cui Le Paradis de
la reine Sybille.
Scrisse
poi Les Quinze joyes du mariage con
il nome dell’autore sotto forma di indovinello, svelato da André Portier nel
1810. Le quindici gioie del matrimonio sono divise in quindici
capitoli, nel primo descrive le seccature del giovane che per accasarsi con la
ragazza che frequenta, si copre di
debiti per le spese della festa nuziale; nella successiva parla delle voglie
insensate della moglie incinta e la sua noia di padre di famiglia; nella
quinta, l’esser fatto becco; nella sesta, la tirannia della moglie che vuole
occuparsi degli affari del marito; nella settima, la moglie che pur rimanendo
virtuosa considera il marito una nullità
sessuale; si giunge alla quindicesima, in cui l’autore in cui l’autore
considera il più grande ed estremo dolore che esista fuor della morte, quella
provocata da una moglie dissoluta che va a letto contutti gli uomini che
incontra, con la complicità della madre e delle amiche.
La
Sale lasciò la Corte di d’Angiò e divenne precettore dei tre figli di Luigi di
Lussemburgo e scrisse (1456) il romanzo Le
petit Jehan de Sain-ré. la storia di un
paggio che riceve l’educazione sentimentale da una vedova, la “Dame des Belles Cousines”. Egli la serve
con ardore fino al giorno in cui si accorge che lo tradiva con un abate (cit.
op. S. A.).
La
Sale collaborò alle “Cent Nouvelles
Nouvelles”, monumento della letteratura francese (stampate nel 1480, ma scritte circa venti anni prima). Ispiratore,
Luigi XI quando era delfino e da Brantome sappiamo “che a
tavola chi faceva il migliore e più licensioso racconto era il più festeggiato”;
i narratori erano trentacinque e le novelle cinquanta sedici imitate da Poggio
Bracciolini e quindici da Boccaccio.
La
maggior parte vertono sugli appetiti sessuali delle donne: Un mercante di Arras
un giorno sorprende la moglie con l’amante nudi sul letto e nascosto ascolta:-
Lui le chiede per chi è questa bocca? Per voi amico mio ... e questi begli
occhi? sempre per voi. E questa bella poppa ben sollevata non è forse per me?
Sì in fede mia, e per nessun altro disse lei. Egli le mette la mano sul ventre
e sulla porta su cui non vi era
niente da ridire e le chiede: Per chi è questa, amica mia? Non c’è bisogno di
domandarlo, sappiamo bene che è tutta roba vostra. Egli le mette poi la mano
sul grosso deretano, e questo di chi è? E’ per mio marito, è la sua porzione,
ma tutto il resto è vostro (cit. Op.
S.A).
Alla
fine del sec. XV e nel corso. del XVI, acquista vitalità in seguito ai contatti
italiani; frutto di questi contatti è già la poesia di C. MAROT
(1496-1544); e più specificamente il gruppo della Pléiade, nel quale emersero PIERRE
DE RONSARD (1524-1585)
con gli “Amours” e “Continuation des
Amours” “Le livrets des folastries” (Il libretto degli scherzi, 1553)
accusato dai calvinisti di Ginevra di corrompere i costumi (il poeta descriveva
i giochi amorosi di un ragazzo con una fanciulla) e JOACHIM DU BELLAY
(1525-1560).
Ma in questo
periodo troviamo scrittori più vivi che ispirano o riflettono le lotte
religiose e politiche del tempo, come GIOVANNI
CALVINO e FRANCESCO DI
SALES, AGRIPPA D’AUGIGÉ e gli ANONIMI DELLE SATIRE MENIPPEE: ETIENNE DE LA BÒETIE e JEAN BODIN.
Mentre
nei salotti, si formava la leziosa letteratura innanzi indicata, ad essa si
oppose il frigido FRANCIIS DE
MALHERBE (1555-1628),
seguito da FRANCOIS MAYNARD (1582-1646), contrastato da M. REGUIER.
Ma
il sec. XVI francese, ebbe in ETIENNE DE LA
BOETIE (1530-15639 il legislatore della sua lingua e in JAQUES AMYOT (1513-15939
che ne costituì la ricchezza, dominato
da due personalità potenti: FRANCOIS
RABELAIS (1490-1553),
che segna nettamente il passaggio della letteratura francese, dalla mentalità
medievale alla moderna, e MICHELE DE MONTAIGNE (1533-1592), grande moralista e altrettanto
grande scrittore negli “Essais”-Saggi.
GUILLAUME BAUDÉ, erudito umanista dalla prodigiosa memoria grazie
alla quale si formò una vasta cultura nel campo della filologia classica,
storia, scienze naturali, diritto, medicina e teologia. Fu segretario di Luigi
XII e come bibliotecario di Francesco I creò la biblioteca che fu poi
trasportata a Parigi formando il primo nucleo della Biblioteque Nationale. Tra
le sue opere di vario genere: “Annotationes
XXIV libros Pandectarum”; Libri V de asse et partibus eius”; “De contemptu
rerum fortuitarum libri III”; “Dell’educazione
del principe”.
I PAPI
DA AVIGNONE
TORNANO A ROMA
C |
ol
ritorno dei papi da Avignone a Roma (1377), il papato ebbe un periodo di
assestamento iniziato con lo scisma del 1378
fino alla elezione di papa MARTINO
V (Ottone Colonna, 1417-1431) il
quale, assumendo tutti i poteri e le prerogative papali, riorganizzò la curia
per un fumzionamento più efficiente, ma non potè trovare altro modo per
finanziarla, se non vendendo cariche e benefici.
Il
suo successore EUGENIO IV (Gabriele Condulmer 1431-1437), si trovò ad
affrontare il Concilio di Basilea (1431-1443) che proponeva la supremazia dei
concili sui papi; Eugenio IV ordinò lo scioglimento del concilio il quale però,
elesse l’antipapa Amedeo VIII duca di
Savoia, col nome di FELICE V, (1439), (Durant); lo scisma sarebbe stato
risolto con il concilio di Ferrara-Firenze (1417-1431) (v. Schede S. “Polemiche umanistiche tra platonici e
aristotelici”) terminato il quale, una serie di papi innalzava il papato agli
splendori del Rinascimento e la citttà di Roma in piena decadenza e in stato di
abbandono (come oggi, trascurata dai Sindaci che non si decidono a liberarla definitivamente
dalla immondizia che richiama i cinghiali che vi pascolano, con un termovalorizzatore (o marchingegno
equivalente!):- Pensate, la capitale d’Italia, esposta al ludibrio mondiale... e
i romani invece di piangere, se la ridono!).
I PAPI
RINASCIMENTALI
CORROTTI
AVIDI E NEPOTISTI
ABBELLISCONO
ROMA IN DECADENZA
GLI ULTIMI PAPI
DEL “1400”.
NICOLO’ V
I |
l
primo papa rinascimentale fu NICOLO’ V (Tommaso Parentucelli 1447-1455),
il più degno per onestà. Superiore a Leone X per la protezione dedicata alla crescente
cultura rinascimentale, restaurò il Pantheon di Agrippa, monumento
dell’architettura romana; fondò la biblioteca vaticana con cinquemila volumi;
accolse i dotti: le sue lettere erano scritte da Poggio Bracciolini; Giorgio di
Trebisonda; Flavio Biondo; Leonardo Bruno; Giannozzo Manetti; Francesco Fidelfo
e a gara gli erano dedicate opere che remunerava
generosamente . Durante il suo pontificato furono tradotte moltissime opere:
l’Iliade,
Con
tutti aveva mostrato generosità: gratificando Poggio Bracciolini per la
versione del “Diodoro”, con generosa
liberalità; a Lorenzo Valla per la traduzione di Tucidide pagò cinquecento
scudi d’oro. A Francesco Fidelfo promise che se gli traduceva Omero gli avrebbe
dato una bella casa in Roma, un podere e diecimila scudi; diede
millecinquecento scudi al Guarino per la traduzione di Strabone; cinquecento al
Perotti per Polibio; seicento scudi a Manetti se si fosse occupato di opere
sacre e costruzioni di insigni palazzi a Spoleto, Orvieto, e a Viterbo dei
bagni per gli infermi; a Roma fece restaurare le mura oltre a far riparare
chiese cadute in rovina e si accingeva a riedificare s. Pietro, quando fu colto
dalla morte.
Era
stato un papa pacifico, che succedeva a un papa bellicoso (Eugenio IV), in seno
alla Chiesa e raggiunse la pace con l’antipapa, assegnandogli la carica di cardinale decano rappresentante del papa
in Germania, e reciprocamente revocarono le proprie scomuniche; mostrò la sua
grinta nella repressione dei congiurati della congiura di Stefano Porcari.
CALLISTO III
Lo seguì CALLISTO III, (Alfonso Borgia, 1455-1458) il
primo papa ad aver inaugurato il malcostume
del nepotismo, concedendo ai parenti titoli e uffici e, gettando alle spalle ogni
riguardo, ingrandì i suoi nipoti, facendoli venire dalla Spagna; in particolare
i figli delle sorelle, Pedro, lo aveva creato duca di Spoleto, meditando, se la
vita gli avesse concesso di vivere più a lungo, di insediarlo sul vacante trono
di Napoli. e Rodrigo Llenzol, che aveva adottato, dandogli il proprio cognome
Borgia (probabilmente perché in Italia Llenzol o Llençol non appariva come cognome aristocratico, come
voleva far apparire!), il quale giunse con la sua tribù di amante, Vannozza
Cattanei (con marito) e figli Francesco, Cesare, Lucrezia e Joffré (un altro
era probabilmente morto infante): Cesare, come secondogenito sarà nominato
cardinale (abbiamo in gestazione un articolo su questi personaggi)..
Questi
abusi indussero il successivo conclave a stabilire che il papa non potesse,
senza l’assenso dei cardinali, tramutare la sede da Roma, conferire cappelli o
vescovadi, far pace o guerra, alienare terre ecclesiastiche; ma la corruzione
continuarà ugualmente!
Secondo
il Platina, aveva fatto restauraree la chiesa di santa Prisca sullAventino e le
mura della citttà che erano quasi tutte per terra. Dava spesso elemosine ai
poveri; maritò molte vergini e sosteneva spese per i nobili caduti in povertà.
PIO II
PIO II (Enea
Silvio Piccolomini, 1458-1464) dotto in lettere e diritto canonico, scrittore
di poesie e dei celebri “Commentari”, povero
in canne, da giovanetto era disponibile per chi amava quel genere di rapporti;
del suo libro erotico se ne parla nell’altro paragrafo.
Dopo
essere stato nominato pontefice, aveva esordito predicando bene, “mi
propongo di cominciare col migliorare la morale degli ecclesiastici e col
bandire ogni simonia e gli altri abusi”, ma razzolando male, in quanto in soli sei anni di pontificato era
riuscito a costruire a Pienza, sua città di origine, un palazzo rinascimentale
per la propria famiglia che “gli era
costato” (a suo dire, ma la spesa era a carico del tesoro di s.
Pietro!) “una immensa fortuna”.
Aveva
venduto l’investitura del reaame di Napoli a Ferdinando, bastardo di re
Alfonso, (1459) in pregiudizio di René d’Angiò e di suo figlio Jean, duca di
Calabria, con una somma di seicentomila scudi d’oro e la concessione del ducato
di Amalfi per suo nipote Antonio Piccolomini, al quale Ferdinando aveva dato in
moglie una delle sue sorelle e assegnato l’intendenza generale della giustizia
di Napoli e Sicilia, arricchendo la sua famiglia e loro discendenti, per tutti
i secoli a venire.
Descrisse
la storia di Boemia, lo stato d’Europa sotto Federico, un ragguaglio della
Germania e del Concilio di Basilea, ove stette con la opposizione. Sotto il
nome di Giovanni Gobellini suo segretario, raccontò la propria vita continuata
da Giacome, in questa città fece costruire la tomba per i suoi genitori.
Sostenne
con vigore l’autorità papale e poiché da diplomatico l’aveva bersagliata e gli
venivano rinfacciate le sue precedenti opinioni, con coraggio emanò la “bulla retractationnm” in cui ritrattava
tutto ciò che aveva detto contro la potestà pontificia, principalmente contro
Eugenio IV, sostenendo che era umano essere fallaci e che quanto aveva detto in
precedenza era frutto di errore e non di ostinazione, ritenendo opportuno
ritrattarlo, affinché non si attribuissero a Pio quelle che erano le opinioni
di Enea e cogliendo l’ occasione per riassumere la sua vita.
Poiché
era frequente che chi subisse delle censure da parte del papa, si appellasse al
futuro Concilio e i re avevano la pretesa di nominare i propri vescovi, Pio II
nel Concilio di Mantova, proibì come esecrabili questi appelli ai futuri
Concilii; sebbene fosse malandato in salute, aveva in animo di comandare
personalmente la crociata contro i
turchi, ma giunto ad Ancona spirò prima di imbarcarsi.
PAOLO II
PAOLO II (Pietro
Barbo, 1464-1471), era figlio della sorella del papa Eugenio IV, Polissena Condulmer
e aveva abbracciato la carriera del commercio, ma poi si diresse verso quella
dello zio. Al momento della nomina gli fu chiesto quale nome volesse assumere,
ed egli scelse quello di Formoso, ma
gli fu fatto presente che i romani lo avrebbero accusato di puerile vanità e gli suggeritono il nome
di Paolo che significava “il
bello,” e decise per Paolo II.
Contrariamente
alle promesse fatte ai cardinali prima delle elezioni, governava
dispoticameneìte e quando Platina gli aveva chiesto se potesse presentare
qualche osservazione sulla sua promessa, di non prendere alcuna decisione
importante senza consultare il Sacro collegio, il papa rispose: “Così mi chiamate davanti a dei giudici? ....
Non sapete che la mia decisione è immutabile e sacra? ... Io sono il papa e mi è permesso di abolire o
approvare gli atti dei miei predecessori, secondo il mio buon piacere”. E
lo fece mettere nudo in una prigione, esposto ai rigori dell’inverno, senza
abiti e senza pane; successivamente accusato con falsi testimoni, Platina fu
torturato alla presenza del papa; alla fine fu liberato su richiesta
dell’imperatore Federico III, giunto a Roma per ricevere la quota delle decime.
Il
papa aveva la singolare facoltà di versare le lacrime per convincere l’uditorio
e Pio II lo chiamava “Nostra Signora
della Pietà”. Aveva la mania per la medicina e componeva colliri e pillole
che mandava agli amici malati. Era talmente vanitoso della bellezza del suo
viso, che passava ore a ricoprirlo di carminio
e fard. Amava le pietre preziose e
Platina racconta che aveva raccolto da ogni parte diamanti e smeraldi con cui aveva
fatto tempestare la sua tiara, da sembrare un sultano turco, il cui valore era
superiore al costo di un palazzo; e quando la indossò corse il rischio di avere
un colpo di sangue e sotto il suo peso stava per morire
(Platina Vita Pauli II).
Vanitoso,
si era rifiutato di fare esporre il sudario di Cristo, per non distrarre i fedeli dalla sua persona;
amava i giovani, ragazzi e ragazze di
cui aveva riempito il Vaticano (per Infessura era sodomita: amator pueri et
sodomita); amava anche la buona tavola e le pietanze più ricercate ... da
morire per una poco gloriosa indigestione di melone.
SISTO IV
SISTO
IV (Francesco d’Albexola, poi della Rovere, in
quanto assunto come figloccio dalla famiglia della Rovere, 1471-1484) nato da
numerosa famiglia disagiata, dal punto
di vista morale si era mostrato peggiore di Alessandro VI; la sua reputazione
era di essere il più infame dei cardinali che potessero esservi; sostenuto dai
cardinali Romano Orsini, Gonzaga di Mantova e Rodrigo Borgia, che lo elessero
papa, furono ricambiati con gemerosità e ricoperti di onori e benefici e a furia
di coprire di ricchezze i figli delle sorelle, aveva svuotato le casse del
Vaticano.
Quando
era cardinale, aveva deflorato ciascuna delle sue sorelle e aveva rapporti
incestuosi con i figli avuti dalla sorella maggiore (Maurice la Chatre, Histoire
des papes, 1843). Ebbe l’impudenza di pubblicare una bolla in cui dichiarava
che i nipoti e figli bastardi dei papi avessero il titolo di principi romani; in conseguenza di ciò i
suoi due figli bastardi, Girolamo e Pietro Riario assunsero il rango di
principi.
Pietro
Riario oltre al cappello cardinalizio, ottenne una pensione annuale di un
milione cinquecentomila scudi d’oro, cifra enorme per quel tempo, ma appena
sufficiente per mantenere la sua amante Teresa Fulgora che si era lasciata andare
a tutte le dissolutezze romane e aveva preso una malattia venerea con la quale
aveva infettato l’amante.
Pietro
morì coperto di piaghe orrende e spaventevoli ulcere. Girolamo che era stato creato
principe di Forlì e di Imola, fu più fortunato del fratello nei suoi amori,
avendo sposato la figlia naturale del duca di Milano.
Sisto
IV, aveva fondato diversi nobili lupanari, come racconta Cornelio Agrippa (La
Chatre cit.), che erano sotto la sua protezione e ciascuna prostituta era
tassata con un giulio d’oro per settimana, che gli rendevano ventimila ducati l’anno.
Come
opere pubbliche fece aprire la strada
che da Castel Sant’Angelo porta a s. Pietro (Borgo S. Angelo); eresse
Quando
morì il suo cadavere era divenuto tutto nero da non potersi guardare per
l’orrore ed emanava un fetore che nessuno dei preti e monaci voleva restargli
vicino per pregare. Alla sua morte il popolo romano (come d’abitudine a ogni
morte di papa) riversò il suo odio verso
Girolamo Riario, che era già fuggito con i suoi tesori, e andò a saccheggiare
il suo palazzo distruggendo le bellissime colonne di porfido e le statue di
marmo e capitozzando finanche i secolari alberi che ombreggiavano i bellissimi
giardini e successivamente si era recati al castello del Giubileo, così chiamato in quanto acquistato con le offerte dei
pellegrini per l’ultimo giubileo, che fu dato alle fiamme.
INNOCENZO VIII
INNOCENZO
VIII (Gian Battista Cibo 1484-1492) su
ventisei voti, egli, cardinale di san Marco, ne aveva sedici e le trattative erano
durate tutta la notte precedente alla elezione; il cardinale di san Pietro in
Vincoli avrebbe portato tre voti se gli
avesse concesso il palazzo nei pressi di Castel sant’Angelo, ma gli fu
rifiutato dal cancelliere del Cibo, cardinale di Melfi.
Svegliati
i cardinali nelle loro celle, proposero a Savelli di vendere loro il castello
di Monticelli, con la promessa della assegnazione della legazione di Bologna;
offrirono a Colonna il castello di Ceperani con la legazione del patrimonio di
san Pietro, una rendita di venticinquemila ducati e l’ulteriore beneficio di
settemila ducati di rendita; assegnarono al cardinale Orsini una vendita, a
buone condizioni, del castello di Servaterra e un trattato che gli assicurava la
legazione della marca di Ancona con il titolo di Intendente generale di palazzo
e tesoriere della santa sede. Promisero a Martinusio il castello di Capranica e
il vescovado di Avignone; lasciarono al figlio del re di Aragona, in piena
proprietà, la villa di Pontecorvo; garantirono al cardinale di Parma il
godimento del palazzo di san Lorenzo in Lucina con le rendite ad esso
collegate; promisero al cardinale di Milano di nominarlo arciprete di san
Giovanni in Laterano e concedergli la legazione di Avignone; infine, il
cardinale di san Pietro in Vincoli si riservò, per sé, la signoria di Fano con
cinque terre vicine e il grado di generalissimo delle armate della santa sede.
A questo modo il cardinale di Melfi ottenne la maggioranza dei voti e Innocenzo
VIII fu proclamato papa.
Nato
a Genova, i parenti greci durante la sua infanzia lo avevano messo presso la
corte del re Alfonso ed essendo dotato di bella presenza era stato avviato a
pratiche viziose; più tardi era passato al servizio del cardinale Filippo
Calendrin che lo aveva fatto suo favorito e grazie all’appoggio di questo
protettore, si era elevato alle più alte cariche ecclesiastiche. Quando giunse
al pontificato aveva sedici bastardi e riuscì ad ottenere da Ferdinando di
Napoli la nomina di principe per il primogenito.
Il
Gran Maestro d’Aubusson si era recato a Roma per consegnare Zizim al papa (v.
in Art. “Sventure di Gem sultan, detto
Zizim”), e Bajazet aveva mandato i suoi ambasciatori per prendere accordi
con il papa relativamente a Zizim, il quale colse l’occasione, col pretesto
della crociata contro i turchi, per ottenere da Bajazet oltre a nuovi sussidi,
anche le truppe, tutte le volte che ne avesse avuto bisogno.
Innocenzo
VIII colse anche l’occasione per
convocare un concilio generale a Roma (1489) dove da ciascun reame erano giunti
ambasciatori e vescovi dalla Francia, Germania, Spagna, Ungheria, Boemia,
Polonia e Inghilterra e il papa ne approfittò per raccogliere annate, rendite,
fare collette, vendere indulgenze, concedere dispense e privilegi; mai era
stato raccolto tanto danaro con la predicazione della crociata, questa volta
dovuta alla presenza di Zizim.
Bajazet
oltre a ricchi presenti in oro e argento fece dono di trenta bellissime schiave
circasse per il papa e per i cardinali; e oltre a questi doni Bajazet fece
omaggio al papa di centosessantamila scudi d’oro per le spese di mantenimento
di Zizim. Non solo. Ma anche il sultano d’Egitto aveva inviato a Innocenzo
quattrocentomila ducati e gli avrebbe lasciato in piena proprietà per i
cristiani. la città di Gerusalemme, impegnandosi a lasciare al papa tutte le
conquiste che sarebbero state fatte a
Bajazet, compresa la stessa Costantinopoli.
L’intenzione
del sultano d’Egitto era di mettere a capo delle truppe Zizim per togliere dal trono Bajazet, suo
terribile nemico. Innocenzo accettò anche i regali del sultano d’Egitto e
promise di inviare il principe Gem (Zizim) al Cairo non appena possibile,
congedando gli ambasciatori. Sebbene questi negoziati fossero coperti dal segreto,
il capo della delegazione turca apprese che sua santità aveva promesso di
rendere la libertà a Zizim, previo pagamento di un enorme riscatto; egli quindi
rincarò la dose promessa dagli egiziani, offrendo al papa seicentomila scudi
d’oro perché permettesse di avvelenare il fratello del sultano (La Chatre, Histoire des Papes, 1843).
A
questo punto, la vita del papa giungeva al termine: il 25 luglio 1491 aveva un
attacco apoplettico e il medico ebreo per rianimarlo gli fece una trasfusione
di sangue (sembra la prima che fosse stata tentata) di tre bambini di dieci
anni, ai quali aveva trasfuso il sangue del papa, senza ottenere alcun
risultato, se non la morte dei tre ragazzi i cui genitori furomo risarciti. Morto Innocenzo
VIII, le trattative relativamente alla morte di Zizim proseguirono con il suo
successore Alessandro VI (v. cit. art.).
ALESSANDRO VI
BORGIA
ALESSANDRO VI (R0drigo Borgia, 1492-1503) aveva regnato per soli
cinque anni, ma il suo nome ha attraversato i secoli; da Vannozza Cattanei
aveva avuto cinque figli (Francesco, Cesare, Lucrezia, Goffredo, del quinto non
si conosce il nome in quanto, probabimente morto nell’infanzia); nominato
cardinale dallo zio papa Callisto III, gli amori dei prelati più o meno
clandestini, all’epoca erano tollerati; ciò che offendeva era la sua diplomazia
spregiudicata e la spietata tattica militare del figlio Cesare usata per appropriarsi
degli stati pontifici. Aveva
nominato il suo primogenito Francesco,
duca di Candia e principe di Bnenevento; di questi titoli voleva appropriarsene
Cesare, che faceva assassinare il fratello.
Le dure parole di Sismondi
corrispondevano esattamente alla verità; lo storico definisce la elezione del
papa “scandalosa, e che nel quindicesimo
secolo, a capo della Chiesa si trovava l’uomo più disonesto della cristianità;
questo prete - prosegue Sismondi - di cui né il pudore frenava le dissolutezze,
né la fede garantiva le promesse, né la giustizia teneva a freno la politica,
nè la compassione moderava le vendette e che non pertanto pretendeva ancora di
essere il difensore della fede e il vendicatore delle eresie, non aveva delle cose della
religione di cui era sommo pontefice, maggior riverenza delle umane cose, e
scandalizzava i fedeli non meno colle sue decisioni, contrarie alle leggi della
Chiesa che colle sue opere. I divorzi dei principi, i voti dei prelati, i
tesori destinati dai cristiani per la guerra santa, tutto per lui era
secondario alla politica, tutto veniva da lui posposto al più tenue vantaggio
temporale di sé medesimo o del proprio bastardo” .
Questo
papa molto discusso, che si era trovato a regnare a fine secolo, era divenuto
famoso, come lo erano divenuti i più stretti membri della famiglia: Cesare,
Lucrezia e Vannozza Cattanei, ai quali era stata attribuita una personalità
diabolica.
Alessandro
alto, bello (in giovinezza, non nella maturità aveva perso la linea, come ce lo
mostrano le riproduzioni pittoriche, perché all’epoca i ricchi mangiavano a
sazietà!) di belle maniere, fu nello stesso tempo grande papa e uomo scellerato,
come di papi scellerati non ne erano mancati. Ma si era fatto perdonare le sue
scelleratezze perché era stato uomo brillante e geniale, insomma un grande papa che suscita ancora sentimenti di
ammirazione.
Secondo Guicciardini, “di solerzia e sagacia singolari, consiglio
eccellente, efficacia a persuadere, meravigliosa e a tutte le faccende gravi,
sollecitudine e destrezza incredibili. Ma queste virtù erano superate da grande
intervallo di vizi: non fede, non religione, avarizia insaziabile, ambizione
immoderata, crudeltà più che barbare, ardentissima cupidità di esaltare in
qualunque modo i figliuoli”.
Machiavelli (che probabilmente dubitava della sua genialità)
cinicamente scriveva di lui che “tra tutti i papi esistiti, Alessandro VI
aveva mostrato come un papa potesse
prevalere col denaro e con la forza e benché il suo intento non fosse stato di
far grande
Alessandro VI era stato il papa che aveva chiuso un secolo e la vigilia di Natale del 1499, sotto un mantello d’argento, al battere di
tre colpi col martelletto, apriva la porta santa, inaugurando il Giubileo del
nuovo secolo e nonostante fosse la vergogna della cristianità, duecentomila pellegrini erano ugualmente
affluiti a Roma e le ricchezze che essi avevano portato, erano tutte finite negli scrigni del papa.
Il papa Alessandro, con il figlio, per errore dei portaori di vino, gli avevano versato
vino della bottiglia avvelenata, destinata ai cardinali commensali (1503:), e mentre
il papa preso da febbre e vomito moriva gonfiandosi, diventando tutto nero, il
figlio Cesare aveva avuto gli stessi sintomi ma riusciva a superare la crisi. Si era pensato all’avvelenamento poiché il cadavere del papa si era
gonfiato ed annerito ed era andato subito in putrefazione. Secondo
alcuni storici, la morte per avvelenamento sarebbe
stata infondata e il papa sarebbe morto di malaria. Ma la malaria non è
caratterizzata dal vomito e dalla morte improvvisa, essendo invece preceduta da
accessi febbrili intermittenti (terzana,
quartana) anche di lunga durata.
Cesare
l’anno successivo, con l’entrata di Consalvo in Napoli, poiché aveva sostenuto
i francesi, pensando di salvarsi, si era consegnato a Consalvo, il quale per
ordine di Ferdinando il Cattolico, lo manderà, prigioniero in Spagna, da dove Cesare
riuscirà a fuggire e morirà nel 1507
combattendo per il re di Navarra.
Avranno
così fine tutte le ignominie e gli orrori commessi da questi due principali
esponenti dei Borgia.
I
PAPI
DELLA
PRIMA META’
DEL
“500”
PIO III
P |
IO
III (Francesco Todeschini Piccolomini, 1503) senese
di nascita. Il suo pontificato era, durato appena ventisei giorni dalla sua
elezione. Anche questa morte fu attribuita al veleno che gli sarebbe stato
propinato da Pandolfo Petrucci, signore di Siena, che il papa considerava
usurpatore e tiranno della sua città.
GIULIO Il
GIULIO Il (Giuliano Della Rovere, 1503-1513), nominato
cardinale dallo zio Sisto IV (1471), quando fu eletto papa trovò
La
sua attività politica mirò a rafforzare il potere della Chiesa e l'autorità
papale.
Partecipò
attivamente alle lotte politiche in ltalia. Nel 1508 promosse la lega di Cambrai contro la
repubblica di Venezia. Nel 1511 formò con Spagna, Venezia e Inghilterra la Lega Santa contro i francesi, che furono
costretti ad abbandonare l'ltalia settentrionale.
Guerriero,
ambizioso ed energico si dedicò alla riforma interna della Chiesa e alla
riorganizzazione degli ordini religiosi. Risanò le finanze ecclesiastiche con
una serie di efficaci misure fiscali, rafforzò le strutture amministrative,
eliminando ogni elemento che potesse
sminuire o minacciare l'autorità papale. Riordinò il funzionamento della giiustizia.
Dopo
essersi appropriato di Perugia e Bologna egli voleva riavere anche le città
romagnole di Faenza e Rimini, occupate da Venezia e da questa tolte al duca
Valentino e Venezia non voleva restituirle. Giulio II fu fortunato perché gli
venne in aiuto
Uomo
di grande cultura, fu un papa rinascimentale, umanista e mecenate, protettore
delle arti e delle lettere. A Roma, diede impulso alla costruzione e al
restauro di palazzi ed edifici
religiosi, la cui esecuzione fu affidata ai grandi artisti del momento come
Bramante, Michelangelo, che eseguì il suo monumento sepolcrale in S. Pietro in
Vincoli, e Raffaello. Ordinò la costruzione della nuova basìlica di S. Pietro e del Palazzo del Vaticano.
Giulio
II aveva ordinato a Michelangelo una sua effige in bronzo, collocata nella chiesa
di s. Petronio a Bologna, essa però sarà successivamente abbattuta quando
Alfonso d’Este riprese la città, facendo fondere il bronzo ebricavando un pezzo
d’artiglieria a cui fu dato il nome di “la Giulia”.
La
passione che Giulio II aveva per l’arte, fece sì che nel Belvedere fossero raccolte le statue di cui facevano parte
l’Apollo, scoperto ad Anzio e il gruppo del Laocoonte scoperto nelle terme di
Traiano.
Bramante
fu incaricato della basilica vaticana. Michelangelo eseguì (1508-1512) gli
affreschi della cappella Sistina e fu incaricato del monumento sepolcrale del
papa, ma alla morte improvvisa del papa, Michelangelo aveva realizzato solo la sua
statua.
Raffaello,
che all’età di ventun anni aveva dipinto lo “Sposalizio della Vergine”, chiamato dal papa a Roma (a venticinque
anni) dipinse gli affreschi della “Stanza
della Segnatura” e della “Stanza di Eliodoro”, esprimendo tutta la
bellezza della sua arte.
LEONE X (Giovanni de’ Medici 1513-1521), figlio di
Lorenzo il Magnifico, per finanziare la costruzione della basilica di San
Pietro, dava impulso (1514) alla vendita di indulgenze in tutta Europa. Con la
bolla “Exsurge Dominae” Leone X
prende posizione contro Lutero che aveva criticato apertamente le indulgenze
(1517), e successivamente (1520) lo condanna come eretico con la bolla “Decet Romanum Pontificem” (Conviene al romano pontefce). Da
buon fiorentino era sarcastico e giocoso.
Era
stato il primo dei papi del periodo in cui Carlo di Borgogna (poi Carlo V),
alla morte di Ferdinando il Cattolico (1516), era stato nominato re dei regni
di Spagna, Napoli e Nuovo mondo, e nel 1519 era stato eletto imperatore.
Giulio
II era stato anche il primo papa ad aver avuto rapporti col nuovo re di
Francia, Francesco I, che sarà il nemico di tutta la vita di Carlo V (anche
quando aveva sposato la sorella), al quale il papa aveva concesso (1515) Parma
e Piacenza, oltre alle provvigioni di 93 diocesi e di 557 abbazie del regno,
privilegio che rimase in vigore fino alla Rivoluzione francese.
Quando
nel 1519 moriva l’imperatore Massimiliano e si doveva procedere alla elezione
del nuovo imperatore, il papa appoggiò apertamente Francesco I, ma in cuor suo
si augurava che tra i due concorrenti vincesse Federico di Sassonia. Come
abbiamo visto vinse Carlo corrrompendo gli elettori, meno uno, distribuendo
ottocentotrentamila fiorini (cifra pazzesca: corrispondente a dieci quintali
d’oro puro).
Eletto
Carlo, il papa non si perse d’animo. Dimostrando di appoggiare Carlo, eliminò
il divieto all’unione del Regno di Napoli all’impero e, avendo Carlo dichiarato
che avrebbe difeso la religione degli antenati e avrebbe estirpato l’eresia di
Lutero, Leone X si dichiarò suo alleato e dichiarò che avrebbe unito le sue
forze a quelle di Carlo per cacciare i francesi da Milano e da Parma e Piacenza
(che egli stesso aveva concesso a Francesco I !) e avrebbero insieme combattuto
gli eretici e i turchi.
Dopo
tutti questi bei propositi, alla notizia che gli eserciti, pontificio e
imperiale, erano entrati in Milano (1521), il papa che si trovava nel castello
della Magliana per assistere, dalla finestra allo spettacolo dei fuochi
d’artificio che gli erano stati preparati dalla Guardia svizzera, a causa del
freddo, ogni tanto andava a riscaldarsi al caminetto; ma fu colpito da febbre e
la notte del primo dicembre morì all’età di quarantasei anni.
Era
stato anch’egli un mecenate anche se in tono minore rispetto a Giulio II. Aveva
anch’egli sperperato il tesoro di s. Pietro mantenendo una corte sfarzosa
dedita a feste e cacce. Raffaello aveva continuato a dipingere presso
ADRIANO VI
ADRIANO
VI (Adrian Florensz d’Utrecht
1522-1523), fiammingo, sarà l’ultimo papa straniero: da questa elezione fino a Giovanni
Paolo I (Albino Luciani, ultimo papa sospettato di essere stato avvelenato), i
papi saranno tutti italiani.
Come
abbiamo visto, era stato il precettore di Carlo V. Non aveva mai avuto rapporti
con
Adriano
giunto a Roma trovò che le casse delle finanze erano vuote, lo stato
ecclesiastico era in stato di spaventosa anarchia; la simonia, la corruzione, i
furti e gli assassini erano passati nei costumi degli ecclesiastici; il
patrimonio di san Pietro era minacciato dai duchi di Ferrara e di Urbino e dai
Malatesta; l’Italia era alla vigilia di
una guerra tra Francesco I e Carlo V, e la Germania e la Svizzera erano
separate dalla comunione di Roma.
Egli
nominò due prelati, Gian Pietro Caraffa e Marcello Gaetano da Tiene, che
cominciarono a togliere ai frati minori il privilegio delle indulgenze; a
sopprimere il traffico delle cariche e degli uffici presso la corte romana, a
diminuire le tasse della dataria, a installare una commissione per la
distribuzione dei benefici vacanti agli ecclesiastici, la cui condotta doveva
essere giudicata esemplare; lo stesso pontefice aveva tentato di ridimensionare
la lussuosa vita della corte pontificia e aveva detto ai cardinali che il
denaro del popolo serviva per governare la Chiesa e che Dio lo aveva scelto in
qualità di padre dei fedeli e lui non sarebbe mai stato il suo oppressore, e
aveva dato l’esempio, rifiutando un importante incarico per un suo nipote che
guadagnava sessantun ducati d’oro, che egli riteneva sufficienti per vivere.
Ma
nonostante tutti gli sforzi del pontefice lo stato delle cose rimaneva allo
stesso punto in quanto i cardinali facevano rilevare che i tempi apostolici erano oramai passati.
Ma,
una nuova idea si impossessò del papa che sospese questi suoi progetti e fu
preso da quella di un movimento che avrebbe cambiato gli stessi
presupposti della religione sulla base
della nuova dottrina introdotta da Lutero.
Aveva
quindi deciso di recarsi in Germania per studiare la riforma e ribaltare
l’edificio teocratico e introdurre nella Chiesa il vero culto della religione
di Cristo. Ma da tutte le parti si levò un movimento contrario ad Adriano, di
preti simoniaci, atei, usurai e sodomiti, i quali si mostrarono contrari e
ostili al pontefice e per evitare che fossero emesse delle bolle e meditarono
l’assassinio.
Un
primo tentativo, fu compiuto da un prete di Piacenza di nome Mario, che tentò
di assassinarlo con un pugnale e ne fu impedito dal vestiario del papa e fu
subito arrestato; anche un secondo tentativo, della volta della cappella che
doveva crollare mentre celebrava la messa, colpì sei o sette persone che lo
precedevano.
Un
mattino del mese di settembre fu annunciato che il papa era malato e tre giorni
dopo (14 settembre 1523) il papa era morto: i sacerdoti non si presesero la
briga di dissimulare le cause della morte; durante la notte avevano messo
ghirlande e corone di fiori davanti alla porta del suo medico, scrivendo a
grosse lettere: “Al liberatore della patria”. Il cardinale Pallavicini fece un singolare
elogio: “Era un uomo pio, saggio,
disinterssato, che voleva sinceramente il bene della religione; nondimento è
stato un papa eccessivanente mediocre perché non conosceva le flessibilità
dell’arte del regnare e non aveva saputo adeguarsi ai costumi della corte
romana. Un pontefice come lui – agginse
– che aveva dimenticato il sangue e la carne, non poteva che mal dirigere la
Chiesa!” (Maurice la Chatre, Histoire des papes, 1843).
CLEMENTE VII (Giulio de’ Medici 1523-1534),
non appartenente alla schiatta di Leone X; era infatti figlio bastardo di
Giuliano de’ Medici, assassinato nella cospirazione de’ Pazzi (v. in Specchio
dell’Epoca: “La cacciata da Firenze di
Piero de’ Medici e l’assassinio di Alessandro” ecc.) e di una giovane
ragazza di nome Floretta Govini o secondo altri figlio dello stesso papa e di
una Simonetta da Collevecchio, probabilmente mora, da cui Alessandro avrebbe
preso il colore della pelle e perciò detto “il
Moro”; il papa si era ripromesso di ricostituire la potenza dei Medici
dando una degna sistemazione ai nipoti Alessandro e Ippolito, anch’essi
bastardi e facendo sposare la nipote Caterina con il figlio di Franceso I,
Enrico (v. in Articoli: Diana di Poitiers
ecc). Aveva fatto accompagnare a Firenze, Alessandro, dal
ministro imperiale Giannantonio Muscettola e presentato alla signoria con
decreto imperiale (del 1530), che confermava le antiche libertà, a condizione
che Alessandro fosse, per sé e per i discendenti, preposto al reggimento della città (non si doveva usare il termine repubblica!) come erano stati
precedentemente i Medici (1527). Quindi, Alessandro sposava Margherita
d’Asburgo (1536), figlia anch’essa naturale dell’imperatore ma poco dopo era
assassinato a causa del suo governo tirannico da un sicario di Lorenzino de’
Medici (1537).
Alla sua elezione aveva contribuito
il cardinale Pompeo Colonna, al quale il papa aveva donato il bellissimo palazzo edificato da Raffaele
Riario e avuto alla sua alla sua morte, dal papa Giulio III. I suoi undici anni di papato erano
stati ricchi di avvenimenti nei suoi rapporti con Carlo V; Roma aveva subito il saccheggio da parte
dei Lanzichenecchi (1527); dopo essersi rappacificato con l’imperatore (1529), era stato firmato un trattato in base al quale
Ippolito de’ Medici era nominato cardinale, mentre Alessandro (n. 1510) rientrava
a Firenze (1531). Inoltre Clemente VII aveva fatto sposare la nipote Caterina
con il figlio di Francesco I, Enrico (v. Art. Diana di Poitiers evv.) e si era
dovuto occupare della causa di divorzio di Enrico VIII d’Inghilterra da
Caterina d’Aragona (v, Art, L’inghilterra dei Tudors).
PAOLO III FARNESE
Alla
sua morte era eletto papa PAOLO III (Alessandro Farnese, 1534-1549), considerato dai
suoi avversari peggiore di Sisto IV, di Alessandro VI e di Leone IX, non solo per
aver avuto rapporti incestuosi con sua sorella Giulia, amante di Alessandro VI e
con la figlia naturale Costanza, ma di aver abusato anche dei figli maschi
(questa diffusa pedofilia nelle sfere cattoliche che ha fatto scalpore ai
nostri tempi, è ramificata nei vari continenti: la psichiatria non si decide a
darci dei lumi sul perché essa avvenga in via pandemica nelle sfere
ecclesiastiche! ndr.).
Dalla figlia Costanza, aveva avuto il
figlio Ascanio Sforza di Santafiore, nominato cardinale a sedici anni e
Alessandro Farnese, fatto cardinale a quattordici anni; due altri figli, Paolo
e Ranuccio non vissero a lungo; gli altri erano Pier Luigi, Alessandro e
Ottavio Faarnese.
Nominò duca Pier Luigi, elevando a
ducato (1545) le città di Parma, Piacenza e Guastalla, che appartenevano alla Chiesa;
Pier Luigi aveva anch’egli devianze sessuali, e faceva rapire dei fanciulli
dalle strade di Roma, usandoli per le sue dissolutezze e poi li faceva buttare
nel Tevere; alcuni, per qualche riguardo nei confronti delle famiglie, erano a queste restituiti, ma malati, per malattie
trasmesse, morivano poco dopo.
Il padre lo aveva nominato Gonfaloniere
del Vaticano e Pier Luigi si recava a visitare i luoghi soggetti alla Chiesa;
poiché era ospitato nei monasteri, si faceva mostrare i novizi, tra i quali
sceglieva quelli che la notte dovevano rimanere con lui.
Recandosi a Faenza (Sismondi indica
la città di Fano), si era recato a riceverlo, il giovanissimo vescovo Cosimo
Gheri, di ventun anni, di singolare bellezza, del quale Pier Luigi si era invaghito e durante il percorso
gli aveva velatamente fatto delle proposte, che il giovane vescovo non aveva
capito.
Pier Luigi, tratto in disparte il
governatore di Faenza, che era stato monaco, bandito per turpitudini, gli aveva
chiesto di aiutarlo nelle sue scellerate intenzioni. A questo punto il
governatore dispose che il corteo, invece di andare verso la chiesa, si dirigesse
verso il palazzo che doveva ospitare Pier Luigi; quando il vescovo varcava la
soglia della sala d’onore, furono rinchiuse le porte in modo che il vescovo, diviso
dal resto della compagnia, rimanesse solo. Pier Luigi cercò di convincerlo a
corrispondere alle sue intenzioni, ma il vescovo sebbene gracile e delicato, si
rifiutava vigorosamente. Pier Luigi chiamò in aiuto i suoi, i quali chiusagli
la bocca e strette con corde, mani e piedi, mentre Giulio Piè di Luco e il conte
di Pitigliano gli tenevano i loro pugnali alla gola, il figlio del papa,
laceratigli le vesti sacerdotali, lo violentò. Il giovane vescovo morì dopo
quaranta giorni e i luterani dicevano
che i papisti avevano inventato un
nuovo supplizio per fare martiri e santi.
Paolo III da pari vizioso qual’era, non
dette peso allo scandaloso comportamento del figlio, definendolo “un trascorso giovanile”, e gli inviò una
lunga bolla in modo da sottrarlo a possibili conseguenze o pene giudiziarie.
Il papa continuava a provvedere al
benessere dei nipoti: dal matrimonio con Girolama Orsini, Pier Luigi aveva
avuto, Alessandro, nominato cardinale, Ottavio, Orazio che sposava Diana,
figlia naturale di Enrico III di Francia e riceveva in appannaggio il ducato di
Castro; Ranuccio, quartogenito, che non ancora quindicenne fu nominato
cardinale (i cardinali nominati da Paolo III furono più di settanta); e Vittoria,
che sposava il duca di Urbino.
Poiché il papa voleva avere un
potente partito nel Sacro Collegio, nominò cardinali due suoi figli naturarli,
Rinaldo Capo di Ferro e Crispo, che si diceva fossero anche suoi favoviti; tra
costoro divise i redditi della vicecancelleria del camerlengo e penitenzieria
maggiore (cit. La Chatre).
Dopo l’assassinio di Pier Luigi, il
papa nominò Ottavio, secondogenito di quest’ultimo, duca di Parma, Piacenza e
Guastalla, affidandogli il comando delle truppe pontificie per dargli la
possibilià di difendersi; ma si rese conto che questo nipote era un inetto e
nominò generalissimo Camillo Orsini, richiamando il nipote a Roma; questo, per
vendicarsi si era rivoltato contro Orsini e non essendo riuscito nell’impresa,
aveva preso contatti con Ferdinando Gonzaga, duca di Milano, per passare dalla
parte dell’imperatore, ciò che procurò al papa estremo dolore, da farlo cadere
più volte in deliquio.
Il papa, ripresosi, scrisse un Breve con cui riconfermava il ducato a Ottavio, purché avesse lasciato
il partito dell’imperatore. Questo documento lo aveva affidato al vescovo di
Pola il quale lo tenne in serbo fino alla morte del papa (1549); ma il nuovo
papa Giulio III (che Paolo III aveva nominato cardinale) per riconoscenza, lo reintegrerà nella carica ducale,
rimborsando Camillo Orsini con ventimila scudi d’oro e confermerà il ducato di
Castro a Orazio e tutte le altre caricche che Paolo III aveva distribuito tra i
nipoti (Sismondi).
Finalmente il destino aveva deciso di
porre fine alla vita di Pier Luigi che sarà assassinato (1547) per volere di
Carlo V: i motivi riguardavano i contrasti relativi al Concilio, tra il papa e l’imperatore.
Se ne assunsero l’incarico quattro
giovani nobili di Piacenza, il conte Pallavicini, Agostino Landi, Giovanni Anguissola
e Giovan Luigi Gonfalonieri, diretti da Ferdinando Gonzaga, Governatore di Milano.
I trentasette congiurati con le armi
sotto i mantelli si recarono nella cittadella di Piacenza, apparentemente per
rendere omaggio al duca; dopo aver occupato tutte le uscite del palazzo,
l’Anguissola entrò nella camera di Pier Luigi e lo trafisse col pugnale, prima
che questi, pieno di malattie veneree avesse la forza di reagire o chiamasse
soccorso: Fu subito avvertito il Gonzaga che fece entrare in città le
truppe spagnole, che disarmarono quelle papali.
Quando il papa ebbe la notizia si
lasciò andare a furiose imprecazioni, bestemmiando Dio, la madre del Salvatore
(*), invocando i diavoli dell’inferno e rimanendo chiuso nel suo laboratorio,
in quanto esercitava la magia, facendo
esorcismi, studiando il corso degli astri e consultando astrologhi e maghi che
non potettero riportare in vita il figlio morto; il papa mandava un cartello di
sfida a Carlo V, per misurarsi con lui in campo chiuso; ma l’imperatore non rispose
a questa strana sfida.
Le realizzazioni
di Paolo III non lo liberano dalle sue infamie: Egli aveva comunque, finalmente
aderito alle richieste dell’imperatore, di indire il Concilio Ecumenico,
riunito prima a Mantova (1537, nella vecchia sede, poi fissato nella nuova sede
1538), sospeso anche questo, era stato riconvocato e inaugurato a Trento
(1543).
Era stato
l’unico papa che aveva fatto riconciliare Francesco I con Carlo V, con la pace
di Nizza (1538), che era riuscita a durare dieci anni. Questo suo
interessamento alla riconciliazione dei due monarchi aveva un preciso
interesse: il matrimonio di suo nipote
Ottavio, figlio bastardo di Pier Luigi, con la figlia naturale di Carlo
V, Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, al quale l’imperatore
donava la città di Novara e il titolo di marchese; il papa donava agli sposi il
ducato di Camerino acquistato da Ercole da Varano.
Aveva emanato
la famosa Bolla sul diritto degli indiani
d’America ad essere considerati simili ai bianchi. Aveva emesso
Gli artisti
Bramante, Raffaello, San Gallo erano oramai deceduti, rimaneva
Michelangelo che dava vita al Giudizio Universale, alla figura di Mosé sulla tomba di Giulio II e ai
disegni della Basilica lavorando per diciassette anni alla costruzione della
cupola, senza compenso, con la gloria di condurre a termine quel monumento
mondiale.
*) Questi erano i prelati che non credevano alla
religione che praticavano e ad essi procurava benessere, mentre minacciavano i
fedeli con le pene di un inferno che era pura invenzione!
I PAPI DELLA
SECONDA
META’ DEL “500”.
GIULIO III
G |
IULIO
III (Giovanni Maria Ciocchi del Monte 1549-1555.) nominato
cardinale (1551) da Paolo III, eletto al soglio pontificio,
anch’egli non esente da tendenze sodomitiche nei confronti dei paggi al suo
srvizio e, sin dal momento del conclave, si era lasciato sorprendere dai suoi
colleghi durante questi atti (Bayle: Dictionnaire.
1740).
Egli
stesso era di bell’aspetto, che dati i correnti vizi, lo aveva certamente aiutato nella carriera, da
aver raggiunto, di grado in grado, la presidenza del Concilio di Trento.
Bayle
fa riferimento alla corrispondenza tra Giulio III e una cortigiana di Roma che
divideva i suoi favori con il cardinale Crescenzio, i cui figli erano mantenuti
a spese comuni, sui quali esercitavano le loro esacrabili voglie; queste
lettere ricferisce Bayle, contengono racconti di dissolutezze tali che è
impossibile riferirle.
Giulio
III ritenne che la nomina a sovrano pontefice dovessse comportare il massimo
della pompa e dei piaceri, senza ritegno. Per prima cosa, riuscì ad ottenere
da Cosimo de’ Medici, Monte Sansovino, sua patria nel territorio di Arezzo, per ricavarne una
contea da assegnare a suo fratello Baldovino del Monte e investire questo
fratello del ducato di Camerino. Aveva con sé un givanetto che amava e ricopriva
di onori ecclesiastici e di ricchezze; il Ganimede di diciassette anni, lo fece
aadottare da suo fratello con il nome di Innocenzo del Monte e lo corruppe a
tal punto che divenne lo scandalo del Sacro collegio, in seguito scacciato dai
successori di Giulio III.
Alla
Corte del papa le gozzoviglie avevano inizio alle sei del pomeriggio e duravano
fino all’alba; il papa si spogliava delle sue vesti e rimanendo in camicia invitava i compagni a
fare altrettanto e percorreva i giardini cantando e danzando; quasi
continuamente era in stato di ubriachezza.
Fu
durante una di queste feste che ebbe l’idea di nominare cardinale il suo
pupillo Innocenzo, che aveva fatto adottare dal fratello; era addetto alla guardia
delle scimmie ed era chiamato Bertruccino
e si riteneva fosse figlio del papa che lo amava spassionatamente. Una sera in
cui il papa era più ubriaco del solito, convocò in Concistoro i cardinali e
propose la nomina di Innocenzo a cardinale, ma il collegio esprimeva parere
negativo.
Poiché
spesso i suoi discorsi arrivavano alla profanazione e alla blasfemia, come quando una volta aveva sfogato la sua collera contro
Dio, che si era messo contro Adamo per una mela (*), il papa, al quale
piacevano le facezie, aveva fatto al collegio uno strano discorso, dicendo:
Quale virtù, quale nobiltà, quale sapere, quale felicità avete trovato in me
per farmi papa? Non è questo farsi beffe del Sacro Collegio? E si potrebbe
applicare a questo pontefice l’esclamazione di Catone. E noi abbiamo un piacevole Console!
Vi
prego, aggiunse il papa, che cosa avete trovato in me per darmi la felicità di
farmi papa senza che io l’abbia meritato? Votiamo dunque per questo ragazzzo ed
egli lo meriterà; e dopo una ulteriore discussione Innocenzo fu confermato
cardinale.
*)
Il racconto della collera di Dio contro Adamo per la mela, riferisce Bayle
(cit. Dictionnaire) , è
riportato nel libro di Jean Crespin: Il
papa si dilettava a mangiare carne di
maiale e di pavone; il suo medico gli aveva vietato di mangiare la carne di
maiale che gli faceva male alla gotta che lo tormentava, ma se la faceva
prepapare ugualmente ... a dispetto di
Dio! Una sera si trovò srvito un pavone che non si aspettava e andò su
tutte le furie; un cardinale che gli era seduto vicino cercò di calmarlo
dicendogli che non era il caso di andare in collera per così poco e il papa
rispose: Se Dio si era corrucciato per un
pomo, cacciando il nostro primo padre Adamo dal paradiso, perché non posso
eeserlo io che sono il suo vicario e corrucciarmi per un pavone che è più
importante di un pomo?
MARCELLO II
MARCELLO II (Marcello
Cervini, 1555). Era contrario al lusso e appena eletto fece distribuire tra i
poveri il denaro che sarebbe stato speso per i festeggiamenti tra luminarie,
fuochi d’artificio, feste e concerti; quindi si diede a realizzazioni utili per
una sana amministrazione del governo della Chiesa.
Mandò
via dalla corte le meretrici e vendette il vasellame d’oro e d’argento per
pagare i debiti della Chiesa. Limitò il numero dei piatti che dovevano essere
serviti e ne determinò anche la durata. Dopo soli ventun giorni di pontificato,
come era successo ad altri che lo avevano preceduto e avevano cercato di
eliminare il lusso e lo sfarzo, secondo alcuni storici fu colto da un attacco
di apoplessia, secondo altri era stato avvelenato da chi non accettava le
restrizioni che stava imponendo.
PAOLO IV
Lo
seguiva PAOLO IV (Gian Piero Carafa, 1555-59), ottantenne,
di famiglia originaria ungherese, il nonno paterno era conte di Matalone; fin
dalla fanciullezza era stato messo in un convento di domenicani e ne era uscito
con un carattere superbo e imperioso, di natura crudele e inesorabile. che era
il segno cararretistico di quest’Ordine. Aveva compiuto profondi studi
teologici ed era stato lui a suggerire a Paolo III la istituzione
dell’Inquisizione a Roma, ricoprendo la carica di grande inquisitore.
Alla
sua età era giovanile nel corpo e nello spirito e istituì subito una
commissione per la eliminazione degli abusi che si verificavano presso la Curia,
in particolare, il commercio delle cariche ecclesiastiche. Ma egli stesso aveva
il debole per i nipoti e non si mostrò all’altezza delle aspettative per
l’avidità dimostrata. Infatti intensificò la tortura, dando più poteri
all’Inquisizione e facendo processare innocenti allo scopo di appropriarsi dei
loro beni.
Nonostante
la sua severità di costumi, come detto, non si sottrasse al nepotismo e creò i suoi
nipoti Carafa, Giovanni, conte di Montorio e duca di Palliano (togliendo questo
feudo a Marcantonio Colonna; aveva scomunicato i Colonna per appropriarsi dei
loro beni, assegnandoli ai nipoti), Carlo fu nominato capitano generale della
Chiesa, il suo terzo nipote, Antonio ebbe il contado di Bagno e il marchesato di
Montebello, tolto ai conti Guidi; e Carlo, cavaliere gerosolomitano, fu creato
cardinale.
Essi
riunirono di nascosto una armata e si prepararono a invadere il regno di
Napoli, governato all’epoca da Mendoza. Carlo V venne subito a saperlo e
scrisse al figlio Filippo di mandare a Napoli il duca d’Alba e quando questo vi
giunse, Paolo IV chiese aiuto a Enrico II di Francia, promettendogli il regno di
Napoli e il ducato di Milano.
Il
re Enrico gli fece sapere di aver stipulato accordi con Carlo V, tali che se
fosse venuto meno, sarebbe stato reputato traditore e spergiuro; ma il papa gli
mandò una bolla con la quale lo scioglieva dai giuramenti prestati. Poiché
Ottavio Farnese era duca di Milano e vincolato al trattato di Carlo V, non
volle romperlo, rimanendo ugualmente dalla parte degli spagnoli, ma il papa lo
anatemizzò.
Il
papa mandò le sue folgori anche contro Filippo II, se non abbandonava le sue
pretese sul regno di Napoli in favore dei nipoti e fece fare un processo col
quale lo destituiva, Nel frattempo giungeva la notizia della abdicazione di
Carlo V, ma il papa con ostinazione continuò in questi intrighi nei quali
impiegava i tre anni dei suoi quattro di
regno!
Tra
l’altro si rifiutva di riconoscere il nuovo imperatore Ferdinando; aveva
infatti emanato una bolla contro Carlo, nella quale sosteneva che “Dio proibiva ai re di scegliere i propri
successori, concludendo che i soli
papi potevano disporre delle corone come capi supremi della repubblica
cristiana” (i papi autoproclamandosi vicari
di Dio sulla Terra potevano sostenere, e sostenevano, tutte le prepotenze che passavano loro per la
testa ndr.!).
Questa
bolla era stata come una dichiarazione di guerra: il papa non solo fece
arrestare gli ambasciatori austriaci, ma anche quelli inglesi sotto pretesto
che essendo Filippo marito della regina Maria, essi avenvano intelligenza con i
nemici della Santa Sede. Arruolò quindi truppe da ogni parte. anche i protestanti,
unendoli alle truppe del duca di Guisa che guerreggiava contro i francesi in
Abruzzo, dove le truppe francesi erano state circondate dall’armata spagnola del
duca d’Alba, mentre il re Enrico II, in Francia, era sconfitto dagli inglesi a
Saint Quintin.
Ciò
nonostante per la firma della pace il papa che era già sull’orlo della tomba,
per salvare il suo amor proprio, pretese che il generale spagnolo si recasse a
chiedergli perdono per aver espillato il patrimonio della Chiesa e a
supplicargli in ginocchio l’assoluzione per le sue colpe e per quelle del suo
signore, Fiippo.
Il
vincitore accondiscese a questa richiesta e il trattato di pace tra Spagna e
Santa Sede fu firmato ... e il papa voltò le spalle al re di Francia, di cui
non avea più bisogno.
Il
papa trattava tutti i sovrani, fossero imperatori o re, alla stessa maniera; anche
con la nuova regina d’Inghilterra il papa sebbene avesse il piede nella fossa, volle
far valere tutta la sua arroganza. Era appena morta Maria (la Cattolica, con la
quale neanche era stato tenero! (*)), e Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e
Anna Bolena, aveva mandato gli ambasciatori per comunicargli la morte della
sorella e il suo avvicendamento al trono. Paolo disse subito agli ambasciatori
che non riconosceva la regina in quanto la Gran Bretagna era feudo della Santa
Sede e che l’usurpazione compiuta da questa donna era tanto più empia in quanto, essendo bastarda, non aveva alcun
diritto alla corona. Ciò determinò Elisabetta a ritirarsi dalla obbedienza dalla
Sede Apostolica e richiamare gli ambasciatori; ma Paolo si oppose alla loro
partenza vietando loro di abbandonare la Corte.
In
questa occasione il papa nominava cardinali tre suoi nipoti, tra i quali un
bisnipote di sei anni, che aveva già nominato arcivescovo di Napoli. Il
cardinale di San Giacomo si accingeva a fare qualche osservazione su questa
nomina, ma Paolo IV che era di corpo agile e vigoroso, sceso dal suo seggio,
strappò dal banco il cardinale, lo trascinò in mezzo alla sala e gli assestò un
pugno sul viso da farlo sanguinare. Dopo questa scena scandalosa i cardinali si
ritirarono, protestando di non voler comparire in concistoro, ma dopo, temendo
i supplizi ai quali si esponevano, tornarono ai loro posti, riprendendo le
ordinarie sedute (cit. La Chatre).
Alla
fine il papa si ravvide degli errori commessi e chiamati i cardinali si
giustificò, dicendo che era stato ingannato e tradito dai nipoti, che destituì dalle cariche cacciandoli da Roma
con l’interdetto.
Si
dedicò quindi alla instaurazione di una severa disciplina ecclesiastica
moralizzatrice eliminando gli abusi e licenziando chi li aveva realizzati.
Emanò l’ “Index librorum prohibitorum”
(1559), e, come abbiamo visto, istituì il ghetto per gli ebrei. Abolì la
vendita delle cariche che dovevano essere assegnate per meriti introducendo
l’austerità e la semplicità nella vita del clero.
Queste
sue realizzazioni non gli guadagnarono però le simpatie dei romani che alla sua
morte manifestarono per le piazze il proprio risentimento, abbattendo la sua
statua e portando la testa in giro per la città.
*)
Quando Maria Tudor (v. in Art. L’nghilterra
dei Tudors) divenne regina, aveva mandato gli ambasciatori a Roma per
annunciare il suo insediamento, ai quali fu imposto un cerimoniale umiliante;
vale a dire mettersi in ginocchio, baciare i piedi del papa e rimanere in
ginocchio per tutto il tempo in cui dovevano riferire tutti i pretesi delitti
commessi dall’Inghilterra verso la Santa Sede, impetrando il perdono; solo dopo
gli ambasciatori ebbero il permesso di alzarsi e cosegnare le lettere della
regina.
Quando
il papa aperte le lettere, lesse che Maria si titolava regina d’Inghilterra e
d’Irlanda, si accese d’ira dicendo che la loro padrona aveva l’audacia di intitolarsi regina d’Irlanda
senza aver avuto l’autorizzazione del papa e fece cacciar via gli ambasciatori
dal Vaticano.
Tra
le truppe che combattevano per il papa contro gli spagnoli in Abruzzo, vi erano
anche gli inglesi che la regina Maria ritenne richiamare e il papa se ne adontò,
scrivendole una lettera con acerbi rimproveri per la sua condiscendenza nei
confronti del marito Filippo, e non potendo rivalersi su di lei, fece ricadere
tutta la sua collera sul cardinal Polo, con un decreto contro tutti i Nunzi
apostolici in Gran Bretagna e contro il cardinal Polo, che dichiarò nemico
della Chiesa. Invano il Sacro Collegio fece presente al papa che ciò
comprometteva i rapporti con l’Inghilterra, ma egli non ne volle sapere, anzi
chiamò il confessore di Maria a Roma, il padre gesuita Payton, lo nominò
cardinale e gli assegnò la legazione della Gran Bretagna. Questa volta Maria
che era sempre stata remissiva, reagì ordinando a Payton di rimanere al suo
posto e non entrare in Inghilterra a pena della vita. Il gesuita prese un tale
spavento che ammalatosi, dopo pochi mesi morì (cit. La Chatre).
PIO IV
PIO
IV (Giovan Angelo de’ Medici,
1559-1565), non apparteneva alla famosa famiglia de’ Medici, ma ad altra di
Milano, il cui padre era Bernardo di Medecchin o de’ Medici e la madre Cecilia
Serbelloni che avevano messo al mondo tredici figli, dei quali sei maschi e Giovan
Angelo era il secondo.
Appena
eletto, prima di essere consacrato si presentò umile e benigno, tollerante e
liberale, ma dopo la consacrazione cambiò completamente carattere e divenne
cupido d’oro e di potere, crudele e dissoluto, tanto da superare il suo
predecessore.
Si
deliziava di cibi e vini raffinati e aveva trovato da soddisfare i suoi
appetiti sessuali con belle donne e bei giovinetti di Roma, ai quali faceva
regali per attirarli in Vaticano, ma poi li faceva torrurare per far restituire
i doni ricevuti; ai suoi conviti ogni sera erano serviti vini raffinati che
beveva a sazietà da doverlo portare ubriaco nei suoi appartamenti.
Alla
sua numerosa famiglia provvide con benefici, abbazie, vescovati e un cappello
cardinalizio. Elevò al grado di generale di cavalleria un suo nipote, Federico
Borromeo appartenente alla famiglia materna dei Serbelloni, affidandogli
importanti funzioni di Stato e all’altro nipote, Carlo Borromeo, assegnò
l’arcivescovato di Milano e un terzo nipote lo fece governatore di Castel S,
Angelo; un altro parente fu nominato vescovo di Spoleto, Al conte Federico fece
sposare la figlia maggiore del duca di Urbino e una sua sorella sposò il duca
Cesare Gonzaga. Giustificava tutte queste elargizioni, dicendo: “bisogna che faccia oggi tutto il bene ai
miei parenti, che è in mio potere, perché domani la morte potrebbe non darmene
tempo”.
Avendo
deciso di non far prendere maggior potere ai Carafa ad evitare che divenissero
più potenti, un giorno che i cardinali di quella casa si riunivano in
concistoro, i suoi arceri li ammanettarono e li condussero nelle prigioni del
Vaticano; nello stesso tempo il palazzo di Giovanni Carafa, del conte di
Montorio, di Leonardo di Cardine, suo cugino, e quello del conte di Alise,
furono perquisiti dai soldati e i loro proprietari portati in Castel S. Angelo.
Quindi Pio IV fece intentare un processo in base al quale dovettero restituire
tutte le ricchezze ricevute dal papa Paolo IV; e siccome il suo intento era
quello di distribuire quei beni tra i
suoi parenti, i Carafa furono condannati a morte.
Carlo
Carafa fu strozzato in prigione; il conte di Montorio, il conte di Alise e
Leonardo di Cardine vennero decapitati al bagliore di fiaccole in Castel s.
Angelo, e i loro cadaveri gettati nel Tevere. Il solo ad essere risparmiato fu
il giovane cardinale Alfonso Carafa, il quale riuscì a riscattarsi con la
cessione al pontefice di centomila scudi
che aveva depositati al di fuori degli Stati della Chiesa ... che non
valsero a salvarlo perché dopo tre mesi fu avvelenato da un gesuita.
Il
Santo Padre con tutti questi delitti, pensò di mettersi sotto la protezione di
un monarca e mandò delle bolle di investitura all’imperatore di Gemania, senza
che fossero state richieste, anzi, preoccuparono l’impertore Ferdinando, che
temendo insidie, si rifiutò di riceverle; ma quando fu convinto che non vi
erano secondi fini, mandò legati a Roma per ringraziare il papa.
Il papa dovette quindi occuparsi delle
problematiche riguardanti il Concilio di Trento e i vari rapporti nei diversi
stati di Germania, Francia, Spagna, con protestanti, calvinisti. ugonotti, che
non approfondiamo in quanto non riguardano l’argomento che stiamo trattando.
A
causa del suo dispotismo, si stava preparando il suo assassinio; Pietro
Accolti, ricco cittadino di Roma. con un certo numero di suoi amici, avevano
deciso di assassinare il papa: tra
costoro vi erano il conte Antonio di Canissa, il cavalier Pellicone,
Prospero Torri e Taddeo Manfredi. Pietro Accolti aveva cercato di introdursi
più volte in Vaticano con vari pretesti per ottenere udienza e poter pugnalare
il papa, senza riuscirvi; le sue richieste di voler parlare con i papa, gli furono
riferite e il papa si insospettì e dietro suo ordine, mandò a circondare la
casa dell’Accolti, dove furono trovati tutti i cospiratori che furono portati
nelle segrete dell’Inquisizione.
Durante
il processo tutti furono torturati e attanagliati. Uno dei giudici inquisitori
era stato Federico Borromeo che morì dopo essersi gravemente ammalato per le
fatiche sostenute nell’istruzione del processo: mentre Carlo Borromeo che si
era particolarmente accanito contro i congiurati, si era ritirato a Milano dove era arcivescovo (cit. La Chatre),
cambiando atteggiamento verso il prossimo, da essere canonizzato (le
descrizioni che riguardano ambedue i Borromeo hanno avuto per la maggior parte
carattere agiografico!).
Privato
dei nipoti più cari, Pio IV rivolse le sue attenzioni nei conronti dei figli
delle sorelle Annibale e Marco Alteamps, dando al primo il governo di Roma e
dandogli in moglie la vedova di Federico Borromeo, con una considerevole dote.
Al secondo che era già cardinale di Stico, assegnò la direzione degli affari
religiosi, il quale, considerata l’età dello zio e ritenendo di non poter
tenere il potere per lungo tempo, attese le abitudini dissolute dello zio, oppresse
il popolo con contribuzioni straordinarie, la nobiltà e il clero, con contribuzioni
forzate e vendette pubblicamente dispense e canoni, poi si dette a contrarre
grossi prestiti col pretesto di far leva di truppe e si impadronì di cospicue
somme destinate all’equipaggiamento delle reclute.
Il
papa continuava a dilettarsi di giorno, alla vista delle torture inflitte dalla
Inquisizione e la notte con le crapule con cortigiane e giovanetti: in una di
queste, in cui festeggiava il trionfo della religione sugli eretici, dopo aver
libato con dodici boccali di vino, fu colpito da apoplessia e morì la notte
dell’8 dicembre 1565.
PIO V
Come nuovo papa è eletto
PIO V (Antonio
Ghisleri, 1566-1572); del Sacro Collegio faceva parte il cardinale Carlo
Borromeo il quale essendo il più ricco tra i cardinali e nipote del papa appena
morto, potè decidere sulla nuova nomina, dalla quale escluse il cardinal Morone
a causa delle sue virtù, in quanto godeva fama di costumi severissimi; fu
escluso anche il cardinaale Sireletto per la severità dei suoi costumi e alla
fine fu proposto Michele Ghisleri come Grande Inquisitore, crapulone e feroce,
sul quale Carlo Borromeo non ebbe nulla da ridire.
Era nato a Bologna da
famiglia povera ed era stato costretto a lavorare presso un convento di
domenicani, come aiuto cuoco; i suoi bei modi di comportamento e la bella
figura avevano attratto l’attenzione del priore, uno dei monaci più dissoluti
del monastero, che lo fece suo favorito e per coprire agli occhi dei
confratelli, il legame con il giovane, si assunse l’onere della sua istruzione.
A sedici anni il ragazzo divenne esperto teologo e fu nominato
professore dell’Ordine, e il priore, essendo stato trasferito come inquisitore
a Como, aveva portato con se il giovane insegnante; e fu quì che mostrò il suo
carattere inflessibile e l’implacabile, crudeltà che lo resero uno dei pontefici più sanguinari della Sede
Apostolica.
Era stato nominato commissario generale dell’Inquisizione sotto
il papa Paolo IV e aveva sfogato i suoi rigori perseguitando gli eretici di
Como, Bergamo e dei Grigioni; tra le istruzioni inviate all’Inquisitore di
Venezia, prima di essere eletto papa, aveva scritto: ... “Queste
sante parole, sieno la regola della di lei condotta; torturi senza pietà,
tanagli, laceri senza misericordia; non esiti ad abbruciare anco suo padre, sua
madre, i fratelli, le sorelle, se non sono ciecamente sottomessi alla Chiesa
cattolica apostolica romama”. L’Inquisitore
Montalto che si era attenuto agli ordini del suo superiore, fu costretto a
fuggire da Venezia per non essere lapidato dalla moltitudine.
Appena insediato sul soglio, fece sospendere il processo contro
la famiglia Carafa e tutti coloro che
avevano contribuito direttamente o indirettamente alla condanna dei nipoti di
Paolo IV (suo protettore) furono arrestati, gettati nelle carceri
dell’Inquisizione e bruciati vivi. Solo i giudici furono risparmiati in quanto
si recarono dala papa chiedendo perdono;
ma nessuno dei nemici di questa famiglia
potè sfuggire alla vendetta di Pio V; Giulio Zuanetti fu raggiunto e arrestato
a Venezia e Pietro Carnesecchi a Firenze, furono poratati a Roma, accusati di
aver avuto rapporti criminosi con Giulia Gonzaga, moglie di Vespasiamo Colonna, conte di Fondi e Vittoria Colonna, ambedue
sospette di eresia.
Pio V aveva fondato la Congregazione dell’Indice che aveva il compito di individuare i testi da inscrivere
all’Indice. Nello stesso anno la
flotta della Lega Santa, da lui promossa, sconfigge quella turca (1751) nella
battaglia di Lepanto (v. In Specchio dell’Epoca, La battaglia di Lepanto ecc.).
Aveva
mandato in Francia un suo nipote, cardinale Alessandrino per concertare con Carlo
IX di Svezia il genocidio dei calvinisti, e
un altro legato aveva mandato in Spagna e in Portogallo per far entrare
quesi due sovrani in questa lega, mentre l’imperatore si dissociò da questa
operazione iniqua; all’improvviso Pio V fu colto da violenta febbre e morì a
sessantotto anni (1572) con grande gioia degli italiani e soprattutto dei
romani fuoriusciti che poterono rientrare in
Roma.
Appena
deceduto Pio V, il Camerlengo aveva provveduto a rinforzare tutte le porte del
palazzo per evitare che il popolo prelevasse il suo corpo e lo portasse in giro
per la città per dileggiarlo, tanto era l’odio che aveva susscitato nei romani.
GREGORIO XIII
Gli
succedeva GREGORIO XIII (Ugo Boncompagni, 1572-1585), del quale si è
detto essere stato un buon papa, in quanto le stragi compiute nei confronti
degli avversari – i riformati – ai
fini del loro genocidio, vale a dire della loro totale eliminaione, come Gregorio
aveva in animo di fare, erano considerate dai suoi correligionari, opere
meritevoli.
L’intenzione
di Gregorio sin dal momento della sua elezione, era proprio quella della loro
totale elimininazione e aveva inaugurato il suo pontificato con la prima strage
rimasta famosa, che aveva avuto inizio in Francia circa due mesi dopo la sua nomina (26 agosto
1572), conosciuta come la notte di san
Barolomeo (che non era durata solo qualle notte!).
Certamente
il massacro (di settantamila ugonotti) non era stato disposto da lui (in
effetti era stato preparato da Pio V), ed egli se ne era rallegrato, e conoscendo
le sue intenzioni, il massacro era stato fatto in suo onore da Carlo IX e
Caterina de’ Medici.
Carlo, per farlo felice, gli aveva mandato in
omaggio la testa dell’ammiraglio Gaspard de Coligny e Gregorio aveva ricambiato
il dono inviandogli una magnifica spada da lui benedetta; Gregorio fu tanto
felice di questo massacro che fece dipingere in Vaticano pannelli con episodi
della notte di s. Bartolomeo, uno dei quali rappresentava il momento in cui
l’ammiraglio Coligny era assalito mentre usciva dal Louvre.
Nello
stesso tempo gli spagnoli con il duca d’Alba, commettevano atrocità nelle Fiandre
che sembrava volesse superare quelle di Francia, avvenute a Malines, Zutphen e
Harden dove più di diecimila belgi furono uccisi sui bastioni e circa duemila
bruciati o torturati. E tanto era stato il torrente di sangue sparso, che
Filippo II fece sospendere le eecuzioni nel timore che il suo governatore annientasse
tutta la popolazione; e si diceva che il
duca si vantasse di aver fatto perire
centocinquantamila belgi.
Quando
Enrico d’Anjou (fratello di Carlo IX)
era stato re di Polonia, il nunzio apostolico si era felicitato per la sua
elezione e per il massacro compiuto a Sancerre e gli fu consegnata la rosa d’oro, mandatagli dal papa.
Per
fortuna Enrico firmò la pace di Poitiers (1577) e in base a questo trattato i
riformati acquistavano il diritto di costruire chiese e tenere sinodi; fu anche
riabilitata la memoria di Coligny e di quella di tutte le vittime della notte
di san Bartolomeo, e ai preti fu concesso il diritto di sposarsi.
Ma
poco dopo riprendeva la guerra tra cattolici e protestanti – la sesta (sett.
1577) – ed era firmata la “ pace di
Bergerac” che limitava le libertà concesse dal trattato di Poitiers.
A
questo punto il papa mandava in Francia il gesuita Enrico Sammier personaggio
accorto e astuto, aduso a cambiare personalità in qualsiasi modo e apparire e
scomparire secondo il bisogno e il più abile diplomatico dell’epoca, il quale
aveva avuto l’incarico di attizzare il fuoco della rivolta.
Egli
per primo si rivolse al cardinale di Lorena al quale promise, in nome del papa,
di favoreggiare la casa dei Guisa nei progetti di usurpazione del regno di
Francia, purché si impegnassero a impiegare tutto il loro potere per far
trionfare la causa del papa sugli eretici.
Accettate
queste condizioni i gesuiti ricevettero ordine di operare sotto la direzione
del cardinale di Lorena (violatore, secondo Brantome, di tutte le giovani che
praticavano la Corte) e sottoscrivere degli accordi in base ai quali “i gesuiti si impegnavano a restituire alle
province del regno di Francia, tutti i diritti, le preminenze, le franchigie,
le libertà antiche, quali esistevano ai tempi di Clodoveo”. Questi accordi
furono mandati dal cardinale di Lorena al papa perché li facesse adottare da
tutte le legioni di monaci e preti che si trovavano in Francia. Ricevuta l’approvazione del papa, in
tutte le chiese s’intese predicare la necessità di formare una lega contro i
protestanti; i confessori costringevano i penitenti a entrare in questa
associazione come unica via di salvezza.
In
questo frangente Carlo IX moriva ed Enrico, dalla Polonia tornava in Francia,
per prendere il nome di Enrico III; il
papa non si scompose e attese a organizzare altrove altri massacri.
Gregorio infatti, per quella che egli chiamava l’estirpazione dell’eresia, aveva mandato
considerevoli somme a Filippo II e all’imperatore per metterli in condizione di
ristabilire il papismo vacillante nei Paesi Bassi e in Germania, oltre a
settemila ducati all’arciduca Carlo e altrettanti ai cavalieri di Malta e settemila
ducati al duca di Brunswick e successivamente aveva mandato quattrocentomila
scudi d’oro a Enrico III per vedere accendersi la guerra tra cattolici e
calvinisti.
Il
veleno liberava finalmente l’abominevole cardinale di Lorena, anima della
fazione dei Guisa, sostituito dal
giovane Enrico di Guisa, figlio di Francesco, anch’egli assassinato sotto Carlo
IX.
Enrico
di Guisa su suggerimento di Sammier reclutò una moltitudine di ambiziosi, presi
in tutte le classi, allettati dalla speranza del bottino e formò un esercito e
il nuovo duca asssumendo la figura di re, non nascondeva il suo disprezzo verso
Enrico III.
Quest’ultimo
temendo un attentato si premunì istituendo un Ordine composto di cento persone
dell’alta nobiltà denominato dello Spririto
Santo. Nominò ottantasette cavalieri e quattro grandi ufficiali i quali si
obbligarono con giuramento ad esporre i loro beni in difesa del re.
L’inaugurazione fu fatta il giorno di Pentecoste; ai membri dell’Ordine fu
conferito il titolo di commendatori che avrebbero ricevuto ricchi benefici.
Questo
esempio fu imitato da Gregorio XIII il quale ristabilì l’Ordine di san Basilio che annoverava cinquecento monasteri nel solo
regno di Napoli e tutti formavano una sola congregazione sottoposta a un solo abate,
che riceveva ordini dal santo padre; inoltre fondò a Roma venti collegi o
seminari diretti da gesuiti e messi sotto la sua giurisdizione i quali dovevano
servire inglesi, tedeschi, greci, maroniti, ebrei, atei e resipiscenti; e
infine estese le sue fondazioni in Boemia, Moravia, Lituania, Transilvania fino
al Giappone, per allevare le nuove generazioni di giovani; ma questi collegi non
lo distolsero dal pensiero di mettere i popoli l’un contro l’altro e preparare e
fomentare nuove e sanguinose rivoluzioni negli Stati d’Europa.
Incominciò
con l’idea di fare assassinare la regina Elisabetta (e ciò solo denota una
mente criminale! ndr.) e
approfittando della presenza a Roma di don Giovanni d’Austria lo convinse ad
assassinare Eisabetta, in modo che avrebbe sposato Maria Stuart, che sarebbe
divenuta regina d’Inghilterra.
Prevedendo
che la esecuzione di questo assasssinio avrebbe potuto incontrare l’ostacolo
degli olandesi, il papa consigliò a don Giovanni di assumere il governo dei
Paesi Bassi per tenere a freno il principe d’Orange che era sovrano di tutta
l’Olanda e impedirgli di soccorrere gli eretici inglesi e lo sollecitò ad
assumere al più presto il governatorato e riprendere i massacri del duca
d’Alba.
Elisabetta,
molto attenta con i complotti, riuscì a scoprirlo e un certo numero di gesuiti
pagarono con la vita le loro mire regicide; la regina non si limitò alle
esecuzioni ma rinnovò le leggi emanate contro i cattolici, tolse loro le
chiese, li cacciò dai conventi, proibì che si radunassero in assemblee, se pur
potessero continuare nel libero esercizio del culto.
Il
papa non si diede per vinto, né perdette la speranza di rendere Maria Stuart
regina d’Inghilterra e ristabilirvi la religione cattolica, ma ritenne
opportuno schiacciare i calvinisti in Olanda, prima di passare all’Inghilterra
e si servì di un nunzio di nome Giovanni Sega che portava sempre con sé grandi
somme per pagare truppe, spie e assassini ed era fornito di brevi per accordare indulgenze per ogni
specie di delitti.
Don
Giovanni in base agli accordi presi con il papa ruppe gli accordi presi con i
riformati d’Olanda e di Zelanda, ma il popolo di Bruxelles gli si levò contro e
lo cacciò con la sua soldatesca dalla città e chiamò il principe d’Orange
investito della dittatura dei Paesi Bassi. La nobiltà invece si rivolse a
Mattia, fratello del nuovo imperatore Rodolfo, succeduto a Massimiliano II.
Il
re Filippo di Spagna che stava assistendo alla perdita dei Paesi Bassi, mandò
Alessandro Farnese con un grosso esercito per riprendere il potere sui Paesi
Bassi disputati dai repubblicani che cercavano di abbattere la fazione dei
preti; dall’altra don Giovanni e Mattia che si disputavano il trono.
Nel
frattempo don Giovanni moriva e gli succedeva Alessandro Farnese che aspirava a
diventare come il duca d’Alba e fece sgozzare a Maastricht dodicimila abitanti
che aveano difeso le mura della città.
Le Province Unite si rivolsero al duca d’Alençon, divenuto duca d’Anjou con la nomina a re del
fratello Enrico (III) e sia cattolici che riformati si dichiararono sciolti dal
dominio di Filippo II; il principe d’Orange fu designato come suo luogotenente.
Gregorio
non potendo fare altro, si rivolse di nuovo contro la Gran Bretagna, ma questa
volta coinvolgendo l’Irlanda, da dove doveva partire una sollevazione contro la
regina.
Truppe
italiane partirono da Civitavecchia sotto il comando del marchese Tommaso
Steinult dirette sulle coste d’Irlanda. Non solo, ma Gregorio destinò un gruppo
di missionari con sessantaquattro gesuiti inglesi, scozzesi e irlandesi, che
prestarono giuramento per fare tutti gli sforzi e soffrire anche il martirio,
per togliere la corona e la vita alla eretica principessa che regnava sulle
isole britanniche.
Questi
fanatici si recarono a Londra e tre di essi furono presi, Edmondo Campien,
Rodolfo Skerwin e Alessandro Briant i quali furono strangolati e squartati; il
papa si affrettò a canonizzarli, ordinando ai supestiti di continuare a
cospirare nella maniera più prudente e sicura.
Quindi
passò al Portogallo che era il dono riservato ai suoi nipoti, dove i gesuiti
avevano disposto tutto per il passaggio del reame, che al mmomento era retto
dall’inetto re Sebastiano, rimasto ucciso nella battaglia di Alcazar, al quale
era succeduto il vecchio prete crapulone e cardinale, Enrico, zio di
Sebastiano, completamente sottomesso ai gesuiti.
Enrico,
appena fatto re, ebbe la voglia di avere degli eredi e si rivolse a Roma per
avere la dispensa di sposare una giovane cortigiana, che gli era stata
procurata dai gesuiti; Gregorio interessato per dare il regno ai suoi nipoti,
rifiutò la dispensa, mentre Filippo II anch’egli interessato ad avere quel
regno, minacciò che se Enrico contravveniva al divieto del papa, egli avrebbe
invaso il regno con il suo esercito.
Nel
frattempo il cardinale-re moriva e Filippo fece entrare il suo esercito e si impadronì
del Portogallo a dispetto delle ire del papa che lo aveva destinato al figlio
Giacomo Buoncompagno e dei gesuiti e non prese alcun provvedimento contro
Filippo, del quale aveva bisogno per le pratiche della lega cattolica in
Francia, nei Paesi Bassi e per rovesciare Elisabetta in Inghilterra.
Tutto
questo mentre la popolazione romana era affamata e suo figlio si era
accaparrato tutte le riserve di grano,
per trarne profitto, mentre bande di assassini infestavano le strade,
svaligiavano i viaggiatori, rapinavano i convogli e facevano scorerie fin sotto
le mura della città. Roma si trovava in queste condizioni e Gregorio stava
preparando una Bolla contro gli ugonotti, quando morì colpito da apoplessia
(1585).
SISTO V
Gli
succedeva SISTO V (Felice Peretti, 1585-1590), di umili origini, il
padre era vignaiolo di un ricco proprietario; giovane pastorello, si imbatté in
un frate francescano, Michelangelo Selleri, che lo presentò al suo Superiore e
Felice indossò il saio dei conversi, mostrandosi studente versato nelle lettere
e indicato d’esempio ai giovani della sua età.
Nella
“Vita di Sisto Quinto”, Gregorio Leti
(1630-1701) aveva pubblicato l’opera ampliata in seconda edizione, in 3 voll. pubblicata
ad Amsterdam nel 1693 (*).
Con
gli anni il giovane Peretti, rivestì diverse cariche e giunse al servizio del
cardinale Boncompagni, legato pontificio in Spagna. Pio V, col quale mostrava
identità di carattere, lo nominò generale dei francescani, poi divenne vescovo
di Sant’Agata e infine, cardinale.
Da
cardinale sembrava avesse cambiato personalità, da violento, si mostrò mansueto
e modesto, da crudele e sanguinario, si mostrò compassionevole e
misericordioso: da serpente aveva mutato la pelle, senza perdere la malizia e
il veleno (cit. La Chatre).
Morto
Pi0 V, lasciò il suo palazzo e andò a vivere in una casa presso la chiesa di Santa
Maria Maggiore e per tutto il regno di Gregorio mostrò di non attendere ad
altro che alla sua salute: - Tra tutti i papi é stato quello che della ipocrisia ne aveva fatto un’arte.
Andava
curvo, simulava rughe sul volto per darsi le apparenze di una persona destinata
presto a soccombere. Nelle riunioni del Sacro Collegio, dava a vedere un’aria
di candore e semplicità, da essere mominato l’Asino della Marca; e alla stessa maniera si comportava con Filippo
II di Spagna, in quanto sapeva che gli spagnoli temevano un pontefice
perspicace e simulava una assoluta inettitudine; quando morì Gregorio XIII si
faceva vedere in giro appoggiato al suo bastone, aggravando le sue pretese infermità,
da dare l’impressione di essere arrivato
all’estremo.
Quando
i quarantadue cardinali si riunirono in Conclave ed egli sperava finalmente di raccogliere i
frutti di diociotto anni di ipocrisia, nell’entrare in Conclave fu notato che
camminava con più difficoltà di prina ed egli stesso chiese di potersi ritirare
nella sua camera, giustificandosi di non avere la forza di reggersi. Il giorno
successivo i candidati si recarono da lui per raccogliere il suo voto ed egli
risopose di non essere più in grado di interessarsi delle cose di questo mondo;
quando alcuni cardinali, scherzando, gli dissero che nominato papa avreebbe avuto
la forza di occuparsi della terra, rispose che la sua testa era inclinata verso
il sepolcro e non avrebbe potuto sostenere il peso della tiara e che se si
fosse supposto che egli, più indegno di ogni altro, fosse stato elevato a tanto
onore, sarebbe stato costretto a rifiutarlo o a liberarsi del peso dei pubblici
affari, imponendolo al Sacro Collegio.
I
cardinali continuarono a discutere tra di loro e ognuno voleva divenir papa e
non si riusciva a raggiungere un accordo, ed era ciò che sperava il cardinale
di Montalto. E si era mostrato disponibile per gli altri e non usciva dalla sua
camera se non per andare a messa o assistere a qualche verifica dei voti. Ma
non se ne stava ozioso, come pareva, in quanto, con comportamenti accorti o
paroline sussurrate cervava di peggiorare la divisione che regnava nel
conclave: voleva stancare gli elettori per raccogliere i voti su di sé, e riuscì
nell’intento.
I
Cardinali Alesssandrino, d’Este e de’ Medici, stanchi dei loro intrighi,
desitettero dalla propria candidatuta in favore di Montalto, a condizione che
egli avesse lasciato loro il Governo della Chiesa, sul quale, l’astuto
cardinale aveva dato il suo assenso.
Costoro,
nel timore che un colpo di tosse lo avesse soffocato da un momento all’altro,
riunirono i loro partigiani per assicurare l’elezione dell’Asino della Marca. Il cardinale di Montalto con il suo bastone, si
recò a votare, come gli altri. Appena furono contati ventisei voti in suo
favore, si verificò una scena che lasciò tutti di stucco: l’Asino della Marca si rizzò fieramente e gettato il bastone in mezzo
all’assemblea, sputò a pieno petto come avrebbe potuto fare un uomo di trent’anni.
I cardinali, confusi, si guardarono l’un l’altro e il decano rivoltosi agli
altri disse: Non affrettimoci, fratelli, certo è avvenuta qualche irregolarità
nello scrutinio. No, rispose il
Montalto, l’elezione è avvenuta nella
miglior forma!
E
quello stesso uomo che prima parlava a stento, interrotto dalla tosse, intonò
il Te Deum, il suo canto continuò
fino alla fine, forte e sonoro, che le volte della cappella parevano scosse.
Poi il nuovo eletto si recò presso l’altare maggiore per pregare secondo il
rituale, ma il cardinale de’ Medici notò che le sue labbra non facevano nessun
movimento e che contento fissava il Cristo che aveva di fronte. Quando si alzò,
uno del conclave si felicitò con lui per la metamorfosi che si era operata: Io mi curvavo per cercare le chiavi del
paradiso, rispose; ora che sono nelle mie mani, posso guardar Dio di fronte.
Infine,
avendogli il maestro delle cerimonie chiesto se volesse accettare il
pontificato, rispose: non posso accettare
ciò che mi è già stato deferito, né ricuserei altrettanto, perché mi
sento la forza e il vigore per governare non solo la Chiesa, ma il mondo intero.
E prendendo i paramenti pontificali li indossò senza l’aiuto di nessuno, ciò
che sembrò straordinario al cardinal Rusticucci che non potè fare a meno di
dire: Santità, vedo che il papato è un
sovrano rimedio per restituire gioventù e salute ai vecchi cardinali malati.
Ne sono persuaso al pari di voi,
rispose Montalto, in grazia di questa
esperienza. Terminata la vestizione, salì sul trono e prese il nome di
Sisto V.
Il
nuovo papa ordinò di fare alzare quattro forche davanti al suo palazzo e invece
di concedere l’amnistia, come era costume dei nuovi papi, fece impiccare
sessanta dei più ostinati eretici.
Tra
le grandi opere che aveva fatto eseguire (oltre ad aver ricostituito la
Biblioteca nella parte del palazzo del Vaticano denominata Belvedere), vi era stata la fortificazione di tutti i confini del
regno pontificio, specie quelli con il regno di Napoli, da dove vi erano
invasioni di banditi e aveva voluto recarsi a Terracina dove si trovavano
diverse bande, fingendo di voler verificare i lavori che aveva disposto, di disseccamento
delle Paludi Pontine (opera tentata da altri papi ma realizzata solo da Sisto
V) e della sistemazione, ancora più ardua, del porto di Civitaveccchia.
Rientrato
da Terracina, incominciò a sentirsi indisposto
e inutili erano state le cure dei medici che per di più egli rifiutava; era
stato quattro mesi in queste condizioni e dopo essere stato in processione il
diciotto agosto presso la chiesa di Santa Maria dei Tedeschi, il venti, lunedì,
ebbe una forte febbre e il giovedì volle partecipare a una sessione del Santo
Ufficio al quale, sebbene impedito volle partecipare in quanto seguiva il detto
dell’imperatore Flavio Vespasiano, secondo il quale, il principe deve morire in piedi (vale a dire operando); come rifiutava
di mangiare a letto.
Il
lunedì successivo, la febbre aumentò e la sera spirò assistito dal nipote
cardinale Montalto e dal cardinale Castagna. Si pensò che il papa fosse stato
avvelenato dagli spagnoli; ma evidentemente era stato morso da una perfida
zanzara delle paludi di Terracina che trasmettevano la malaria, che i medici dell’epoca non conoscevano, che
malauguratamente aveva tolto la vita a un papa che si era mostrato
gtandiosamente ipocrita ma altrettanto grandioso nei cinque anni che il destino
gli aveva consentito di regnare.
Dopo
essersi insediato in Vaticano, Sisto V aveva fatto venire a Roma la sorella
Camilla con tre suoi figli, e da lavandaia che era, la fece principessa e le
donò un palazzo, vigneti e una ingente pensione, proibendole di domandargli
qualsiasi cosa per sé e per gli altri.
Il
giorno seguente la statua di Marforio,
chiedeva alla statua di Pasquino: Perchè ora indossi una camicia tanto
sudicia? Perché – rispondeva Pasquino – la
mia lavamdaia è divenuta principessa.
Il
papa ordinò di ricercare l’autore promettendo quarantamila scudi romani. Si
presentò l’autore stesso, richiedendo la somma promessa. Il papa chiamò il
carnefice e dopo avergli fatto tagliare la lingua (secondo Leti, bucarta) e la
mano destra (secondo Leti ambedue le mani per non farlo scrivere più), gli donò
i quarantamila scudi.
La
sua crudeltà era fredda e implacabile e diceva che Cristo era venuto a portar
la spada non la pace e che voleva essere annoverato tra i papi più rigorosi ...
ma come abbiamo visto per raggiungere il suo scopo della elezione al soglio
pontificio, aveva dato per diciotto anni, ai cardinali, l’impressione che stesse per
morire da un momento all’altro.
Sebbene
lo stato pontificio fosse in piena pace, tutte le sue truppe non bastavano a
proteggere i cittadini dai ladroneggi dei masnadieri; queste bande erano comandate da signorotti come Alfonso
Piccolomini, duca di Monte Marciano e Marco Sciarra; il primo desolava la
Romagna, il secondo l’Abruzzo; questi ladronecci fuono sospesi durante il regno
di Sisto V che col terrore della sua giustizia sommaria riuscì a liberare i
suoi stati dai banditi dopo averne fatti perire alcune migliaia (Sismondi).
Sisto
V ebbe la cattiva idea di far presente in pieno Concistoro che egli considerava
il nome di “gesuiti” che i discepoli
di Ignazio di Loyola si erano dati, mentre egli “la riteneva una bestemmia in quanto implicava la falsa idea che lo
stesso Cristo ne fosse stato il fondatore e si dovevano invece chiamare
“ignaziani”, aggiungendo “che le
furberie, le astuzie, i delitti, le dissolutezze, l’ambizione insaziabile di questa
società lo obbligavao a operare una
riforma e a togliere il male dalla radice“.
Mal
l’incolse: l’indomani sulla statua di Pasquino si trovò la scritta “il papa è stanco di vivere” e alcuni
giorni dopo (27 agosto 1590), Sisto V moriva avvelenato.
Il
gesuita Aubry, curato si s. Andrea di Aves, durante una messa, commemorava la
sua morte pronunciando dal pulpito questa predica: “Dio ci ha liberati di un papa abominevole, o miei fratelli, poiché se
egli fosse vissuto saremmo stati costretti a scomunicarlo come adultero,
incestuoso, simoniaco addetto a studi di magia, sodomita, ed eretico. Questo
infame non era pago di spogliare i fedeli per arricchire i nipooti e le sue
nipoti che vivevano con lui in qaulità di favoriti e cortigiane, ma volle
dichiararsi protettore del Bernese; però il signore ha fulminato questo demone
coronato dalla tiara” (cit. La Chatre).
*) Gregorio Leti da giovane si era dedicato ai
viaggi er era stato a Ginevra dove si istruì sui principi dei riformati e poi
recandosi a Losanna si era dedicato al calvinismo. Aveva scritto numerose opere storiche dedicando un panegirico a Luigi XIV; era
stato in Inghilterra durante il regno di Carlo II e aveva scritto la Storia della Gran Bretagna e a causa
della sua propensione per la satira fu invitato a uscire dal regno; è stato
autore di numerose opere storiche tra le quali la indicata Vita di Sisto V col
quale lo scrittore volle dare un quadro della corruzione papale del tempo.
Nel
primo di quattro libri, Felice Peretti da Montalto, guardiano di porci, diviene
frate conventuale, predicatore, sacerdote in un quadro tutt'altro che
edificante di bisticci, gelosie, inimicizie e odi tra confratelli, e qualche
"fragilità umana"; quindi reggente del convento di Venezia e
Inquisitore generale nella stessa città. Ma presto fra' Felice dovette fuggire
da Venezia. Persecutore e perseguitato, disgusta tutti, da tutti cordialmente
ricambiato; ambizioso e spesso frustrato nelle sue ambizioni, riesce pur sempre
a galleggiare e a trovare altrettanti patroni quanti nemici; finché la marea
delle passioni lo porta, per opera di Pio V, al generalato del suo ordine e poi
al cardinalato.
La
sera stessa della sua creazione, compone un "soliloquio" corrispondente al manuale perfetto dell'aspirante
al papato, formulato in una terminologia cristiana ma che è tutta un'apoteosi
della concezione pagana della vita e dell'autorità.
Scaltro
nel Conclave, da cui alla morte di Pio V uscì Gregorio XIII, asseconda lo
spirito mite del nuovo pontefice, formulando una deplorazione della strage di
San Bartolomeo.
Nei
cinque libri del volume secondo, vediamo come in quindici anni di ipocrisia,,
riesaìca a mascherare l’ambizione sfrenata di divenire papa, a simulare tutte
le virtù di cui manca, e giocando d'astuzia, a concentrare su di sé alla morte
di Gregorio, i voti dei cardinali e uscire papa.
Il
discorso posto in bocca a Sisto V nel primo Concistoro è tutta un'apologia, una
difesa contro l'accusa d'ipocrisia, un'esposizione dei suoi criteri di governo
su Roma divenuta spelonca di ladri e d'assassini, sul Sacro Collegio a cui
vieta di più chiedere grazie, sul mondo cristiano.
Affetta
di non riconoscere la sorella e i nipoti venuti a ossequiarlo in vesti pompose,
anziché in abiti da contadini: e ricusa per essi ogni onore e distinzione,
ristabilisce l'ordine e l'impero della legge nello Stato Pontificio con mezzi
sommari. Scomunica Enrico di Navarra, ma riconosce che in Europa non vi erano
che tre soli principi: Elisabetta, Enrico e Sisto.
Il
libro terzo enumera in cinque capitoli le grandi opere edilizie che
trasformarono in soli cinque anni il Vaticano e la città di Roma, e i suoi atti
di governo per tutto il mondo cattolico. La morte del Pontefice che seguì mesi
dopo con sospetto di avvelenamento, fece spargere la voce che il re di Spagna
non vi fosse estraneo (Giovanni Polvani D.O.B.).
BREVE PONTIFICATO
DEGLI
ULTIMI PAPI DEL “500”
URBANO VII
URBANO
VII (Giambattista Castagna, 1590);
il primo atto compiuto dal papa appena eletto, fu di pagare con il proprio, i
debiti contratti dai poveri con il Monte di Pietà; fece distribuire pane e
carne agli indigenti della città e sobborghi; fece fare un censimento dei
poveri non idonei al lavoro; emanò una
ordinanza che disponeva che i panettieri migliorassero la qualità del pane e ne
abbassassero il prezzo.
Chiamò
gli ambasciatori ai quali disse che durante il suo regno non vi dovevano essere
guerre e doveva regnare la concordia tra i popoli. Nominò una commissione che
doveva procedere alla riforma degli Ordini religiosi, in particolare della
Compagnia del Gesù, centro di tutti gli intrighi e focolare di tutti gli
incendi che devastavano i regni: ... e firmò così la sua condanna; morì infatti
avvelenato, come il suo predecessore, dodici giorni dopo la sua elezione (26
settembre).
GREGORIO XIV
GREGORIO XIV (Niccolò
Sfrondato, 1590-1591): ebbe l’accortezza che appena eletto, per non fare la
fine del suo predecessore, si dichiarò
favorevole ai gesuiti e poiché le casse del Vaticano erano piene del danaro
messo da parte dal papa Sisto V, lo utilizzò per costituire un’armata che
affidò al nipote Ercole Sfrondato creato duca di Monte Marciano, che spedì in
Francia a sostegno della Lega e nello stesso tempo con due Brevi ordinava agli ecclesiastici, signori e magistrati fedeli, di
uscire entro quindici giorni dal regno di Enrico; nello stesso tempo con nuove Bolle dichiarava il re decaduto dal
trono e privato di tutti i suoi diritti.
Marcello
Landino fu incaricato dai gesuiti di diffondere quesete Bolle, ma ottennero l’effetto contrario: il Parlamento di Tours e
la Camera di Chalons le fecero gettare alle fiamme e Landino fu arrestato.
L’assemblea dei vescovi dichiarò che erano contrarie ai canoni e ai Concili. Il
re si trovò più potenete e revocò gli editti pubblicati contro gli ugonotti. Il
papa non si tirò indietro e ordinò ai capi della Lega di conferire le corona di
Francia al re di Spagna, ma questo suo ordine non ebbe esecuzione in quanto lo
colse la morte (15 Ottobre 1591).
CLEMENTE VIII
CLEMENTE
VIII (Ippolito Aldobrandini, 1592-1605), di Fano, il
quale chiude il secolo, sebbene il nepotismo continuerà beatamente nei secoli
successivi!
Il
papa riconosce il nuovo sovrano di Francia, Enrico IV di Borbone, convertitosi
al cattolicesimo e crea (1596) una eommissione cardinalizia per mettere fine alla
controversia sulla grazia, tra
gesuiti e domenicani.
Secondo il costume del tempo spinto all'eccesso da questo Papa,
brillava intorno a lui tutta la tribù degli Aldobrandini. Purtroppo non vengono
dati tutti i nomi della tribù, ma ci vengono offerti i nomi di: Cinzio Aldobrandini, Cardinale di S. Giorgio,
nipote del Papa essendo figlio della sorella Giulia maritata ad Aurelio
Personei, ma per ragioni facili a intuirsi, onorato col cognome materno; creato Cardinale insieme col cugino
Pietro nel 1593, ma divenuto Segretario
di Stato fin dal 1592, in sostituzione del Vescovo di Bertinoro; il Cardinale Pietro
Aldobrandini, altro nipote del Papa essendo figlio del fratello Pietro, sposo di
Flaminia Ferracci, creato Cardinale a 21 anni, incaricato di alti affari e
divenuto anche Camerlengo; da non confondersi con un altro Cardinale Aldobrandini
(Silvestro), pronipote del Papa, essendo figlio della nipote Olimpia maritata a
Giovan Francesco Aldobrandini, creato Cardinale impubere, nel 1603; Jacopo Aldobrandini
del ramo di Brunetto Aldobrandini, ramo rimasto in Firenze, figlio di Francesco
e Clarice Ardinghelli, già Canonico di S. Lorenzo, poi Referendario della
Segnatura sotto Sisto V, poi governatore di Fano, poi mandato come Nunzio in
Napoli nell' aprile 1593, e in dicembre dello stesso anno creato Vescovo di
Troia in sostituzione di Monsignor Rebibba, nonché assistente al soglio
Pontificio. Fra tanti Aldobrandini in carica, per i quali non mancavano in Roma
le Pasquinate, c'era anche un fratello di Jacopo a nome Pietro, capitano della
Guardia Pontificia.
I LETTERATI
RINASCIMENTALI
IN ITALIA
D |
agli
studi umanistici si passa alla letteratura che non trova nel Rinascimento quella
ricchezza e varietà di espressione che
si era sviluppata nelle arti figurative; i gusti e le aspirazioni di una società
àulica ed elegante del tempo, li ritroviamo nella bella prosa del “Cortegiano”
di BALDASSAR
CASTIGLIONE (1478-1529) da considerare tra le prime opere delle
lettere di quel periodo.
Proprio
per quella elegante società LODOVICO ARIOSTO (1474-1583) creò il suo capolavoro: l'Orlando furioso, ove, dissolvendo gli
ideali cavallereschi, serenamente rispecchiò l'animo umano nella sua
complessità, nel suo vario commuoversi, nei suoi mutevoli atteggiamenti di gioia e di tristezza.
Alla
Corte di Isabella d’Este e poi di Francesco Gonzaga, troviamo MARIO EQUICOLA (1470-1525)
cortigiano di cultura neoplatonica, dotto, brillante, abile narratore dal
motteggio acuto, che aveva scritto il “Libro
de natura de Amore”, “Istituzioni del
comporre in ogni rima della lingua volgare con un eruditissimo discorso di
pittura e con molte segrete allegorie circa le muse e la poesia”e “Cronica de Mantua”.
La
realtà che si riflette nel poema poeticamente trasfigurata dell'Ariosto, è
invece osservata con freddo occhio indagatore da NICOLO' MACHIAVELLI
(1469-1527), che studiò la vita del suo tempo in una mirabile commedia:
Pur
movendo dalle stesse premesse, giunse a diverse conclusioni FRANCESCO GUICCIARDINI (1488-1540), in quanto egli ritenne perennemente
mutabili le cose del mondo e perciò non giudicabili con una sola norma; più che
di politico, la sua natura fu di storico e di moralista.
Tendenze
moralistiche le troviamo in GIOVANNI DELLA
CASA (1503-1556), GIOVAN BATTISTA GELLI (1498-1583), meglio ancora in ANTON FRANCESCO DONI
(1513-1574), e anche, amaro novellatore,
prosatore nervoso e pittoresco in dialoghi di argomento triviale, eccellente in
lingua nelle “Lettere”.
Il
primato della novellistica del secolo, è dato a MATTEO
BANDELLO (1485-1561),
mentre ANNIBAL CARO (1507-1566), nelle “Lettere”, nella descrizione di fatti, ritratti di persone reali e
vivac,i si rivela ottimo narratore.
Secolo
vario il XVI, chè dalla togata prosa del Bembo, passa a quella delle “Lettere” di Mlchelangelo e al linguaggio
delle sue Rime, le une e le altre
scolpite col rilievo tipico del grande artista, a quella della “Vita del Cellini”, asintattica e pittoresca,
tutta fremente di vita, e a quella di GIORGIO
VASARI (1511-1574),
finemente interpretativa e penetrante nelle “Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori”.
L'eleganza
stilistica fu, certamente, uno del caratteri predominanti del secolo; ma
raramente corrispose ad essa alcunchè che andasse oltre l'imitazione
dell'antico.
La
poesia, con PIETRO BEMBO e tutta la coorte dei pétrarchisti, ebbe rade
voci sincere, appassionate come quella di GASPARA
STAMPA (1523-1554) o di GALEAZZO DI TARSIA
(1476-1558), “con accenti di accorata
mestizia” come in alcune liriche del Della Casa, molli e musicali come in LUIGI TANSILLO
(1510-1568). Nella corrente realistica, se mai, occorre ricercare accenti e
voci vere di poeti in TEOFILO FOLENGO (1496-1544) o in FRANCESCO
BERNI (1497-1535).
Altri
accenti porterà, nella seconda metà del secolo, nell'atmosfera creata dalla
Controriforma, tra il turbamento del popoli, TORQUATO
TASSO (1544-1595), uomo di dottrine
incerte e contraddittorie e pertanto non grande intelletto né forte carattere,
né cordiale né espansivo, solitario, con un fondo di vena malinconica ma di temperamento
lirico irresistibile e poeta istintivo (D.B.).
ERASMO
DA
ROTTERDAM
I |
n
tutta l’Europa, brilla la stella di ERASMO DA ROTTERDAM (1466/68-1536), europeo per eccellenza, definito da Lutero “il più spregevole miscredente apparso sulla
terra”, ma Lutero errava in quanto Erasmo era convinto assertore della Riforma ma non aveva accettato di passare dalla sua parte perché voleva che
fosse riformata la Chiesa di Roma
alla quale era rimasto fedele.
La
sua idea di riforma Erasmo l’aveva espressa nella sua “Philosofia Christi” le cui fonti derivavano da Wycliff, Gerard
Groote, Lorenzo Valla e Savonarola; egli liberando la religione dai risvolti intellettuali,
ormai inutili, della scolastica e dalle forme meccaniche di culto che monaci e
frati avevano diffuso tra le plebi ignoranti, si rivolgeva alla fede predicata da san Paolo e sosteneva
il ritorno alla Bibbia, in particolare al Nuovo Testamento e allo spirito
primitivo del cristianesimo che aveva regnato prima che un clero geloso dei
propri privilegi “lo disseccasse in un dogma formale e lo
seppellisse sotto uno strato di riti giudaici”; dopotutto il testo, grazie
all’invenzione della stampa, era a disposizione degli studiosi italiani e
poteva essere mondato da tutte le interpolazioni e incrostazioni e presentato
nella sua forma originaria. “Il teologo”,
sostneva Erasmo, “ha il dovere di divulgare
la semplicità delle Sacre Scritture”.
Questo
insegnamento era quello divenuto poi, protestantesimo,
ma Erasmo lo aveva enunciato prima che che Lutero lanciasse le sua sfida e la filosofia di Cristo permea tutte le sue opere: gli Adagia, le Parafrases, i Colloquia,
l’ Elogio della Pazzia e l’ Enchiridion militis Christiani. Quest’ultimo
quando fu pubblicato (1504) non aveva
riscosso molto successo in quanto Erasmo non era ancora conosciuto, ciò che
avvenne dopo la pubblicazione a Venezia (1508) da parte di Aldo Manuzio, degli Adagia (v. Art. Primi umanisti e stampatori a Venezia), e stampato successivamente
(1518) a Basilea fu tradotto, dal latino, in tedesco, olandese e francese.
Il
maggior successo l’Enchiridion lo
ebbe quando, varcando i Pirenei, venne
tradotto (1524) in Spagna e conquistò
quelle élites; il fatto era
pardossale in quanto Erasmo, strano a dirsi, era antisemita, detestava gli
ebrei e odiava la Spagna e il Portogallo che, lui grande viaggiatore, rifiutava
di visitare e aveva scritto “In Italia vi
sono molti ebrei, ma in Spagna non vi sono quasi cristiani” e del
Portogallo definiva il suo re, droghiere
(per il traffico marittimo delle spezie).
Ciò
derivava dal fatto che egli attribuiva al termine “giudaismo” un significato religioso che equivaleva a formalismo
talmudico, a riti farisaici e quindi al “culto
meccanico” che a suo giudizio aveva soffocato nel cristianesimo la filosofia di Cristo; e
ironicamente, erano proprio i cristianos viejos a rappresentare il giudaismo a causa della loro ortodossia, coloro che resistevano
maggiormente al movimento erasmiano mentre i conversos (nuovi cristiani) erano i più disposti ad accoglierlo.
Erasmo odiava e disprezzava i frati
(esclusi i certosini) che come tutti riconoscevano, negli utlimi due secoli i
monaci non avevano dato alcun contributo alla religione, se non perpetuare tra
la gente ignorante quel culto meccanico. opere, pellegrinaggi, reliquie,
indulgenze che la filosofia di Cristo
non aveva mai ammesso.
Tutti erano d’accordo che negli
ultimi due secoli i frati non avevano dato alcun contributo alla religione,
alla società, alla cultura; essi costituivano il cancro della Chiesa e tutti
erano d’accordo nella loro abolizione; il grido di battaglia era stato lanciato
nell’Enchiridion trent’anni prima: monachus non est pietas, lo stato
monacale non è pietà: e i monaci ricchi e potenti si vendicarono.
Nel 1527 i frati spagnoli riuscirono a strappare all’Inquisitore
generale il consenso a un processo alle sue opere da parte di una assemblea di
teologi di Valladolid; egli fu attaccato per il suo spirito problematico, la
sua scomoda erudizione, il suo stile insinuante; i grandi erano dalla sua
parte, lo stesso Inquisitore generale lo difese, l’imperatore scrisse per
promettere il suo appoggio, neppure il papa volle schierarsi con i monaci ed
Erasmo ne uscì vincitore; ma in quello stesso anno un avvenimento fece perdere
ad Erasmo l’appoggio dei suoi protettori e accelerò la sua sconfitta finale.
Il governo di Carlo V ispirato dalla
visione proprio di Erasmo, acclamava la guerra e si ribellava contro la
corruzione della Corte romana e il Borbone con i lanzichenecchi saccheggiarono
Roma.
L’imperatore, che aveva avuto questa
grande occasione di liberarsi e liberare l’Italia dal papato, nella sua
debolezza, si perse di coraggio e si avvicinò al papa Clemente VII (v. sopra), che
si schierava dalla sua parte (garantito dal matrimonio del nipote Alessandro con
la figlia naturale Margherita e gli erasmiani furono abbandonati al loro
destino nella lotta contro Lutero e contro i monaci (Trevor-Roper, Protestantesimo e trasformazione sociale.
Laterza 1977).
IN SPAGNA
N |
el
campo delle opere umanistiche, in Spagna, la prima fase era fiorita presso la
corte di Giovanni II (1406-1414) che aveva trasformato la sua corte in
accademia. da cui uscì il “Cancionero de
Stùñiga”, compilato dopo la morte di Alfonso V d’Aragona (1458) che
illustra la vita guerresca e cortigiana del viceregni di Napoli. Iñigo de Lopez
(1398-1458) animatore dell’umanesimo spagnolo che aveva trovato la sua
espressione nei Cancioneros, quello
di Baena (1445) dedicato a Giovanni II di Castiglia y Leòn; il Canzoniere di
Stùñiga, raccolta (1458) fatta a Napoli dopo la morte di Alfonso V; il Canzoniere di Londra, raccolta
successiva al 1471 di poeti che vissero dopo il regno di Giovanni II, fino a
quello di Ferdinando e Isabella.
Il Canzoniere generale di FERNANDO DE
CASTILLO
scritto nel 1471 e pubblicato nel 1511; nel 1492 fu la pubblicata la prima “Gramatica de la lengua castellana”;
sulla produzione del “Cancionero de castello” (1511) e del “Canzoniere” (di opere scherzose) di Jan
Fernandez de Costantina pubblicato nel
1519 nessuna influenza poteva aver avuto
Carlo V.
Carlo
era un personaggio arido, senza alcuna passione per gli studi e per le arti e non
era mai stato toccato da alcuna forma di mecenatismo né nell’arte e tantomeno
nelle lettere come il suo antagonista Francesco I, o i principi e papi
italiani; il solo rapporto che aveva avuto con Tiziano e con qualche altro
pittore, era stato in funzione dei ritratti che amava farsi fare nell’egoistico
amore di se stesso e della sua grandezza imperiale, (non a caso ben
tre umanisti che erano stati presso la sua Corte, vale a dire Cornelio Agrippa,
che era consigliere storico dell’imperatore, Erasmo consigliere privato e Vives (v. sotto), morirono tutti e tre in
miseria; in Italia sarebbero stato presi alla corte di qualche principe.
Il
merito della produzione letteraria delle università di Salamanca e di Alcalà de
Henares si deve al cardinale Cisneros che fece pubblicare un’opera
rinascimentale
La
prosa, e la ventata dei romanzi picareschi e cavallereschi che ripercorrevano
le tracce dell’eroe cavalleresco Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador (1026/40-1099) e che troviamo in buona parte
indicati nel don Chisciotte di Cervantes, come i due famosi Palmarini, de Oliva e d’Inghilterra
(del 1511 e 1512) che erano di autori portoghesi, come Amadigi di Gaula, opera
anch’essa probabilmente del portoghese Vasco de Lobeira (vissuto tra il XIII e
XIV sec.) di cui circolavano manoscritti di brani, poi raccolti da Rodriguez de
Montalvo nel 1525 (l’opera aveva
appassionato sia Francesco I che lo stesso Carlo V amante dei tornei v.
Art. “La bibloteca di don Chiscotte”).
La
Storia dell’invincibile cavalier Neopolemo e delle imprese ch’ei fece
chiamandosi il cavaliere della Croce, fu pubblicato nel 1562/63; Lo specchio della cavalleria, la cui
prima parte fu scritta da Ordonez de Calchora, fu pubblicato nel 1562, le altre
tre parti, nel 1580; il don Belianigi di Girolamo Fernandez fu
pubblicato nel 1579; il Ramo, ovvero Le
prodezze del valorosissimo cavaliere esplandieno, figliolo dell’eccellente re
Amadigi, dello stesso Rodriguez de Montalvo, fu pubblicato nel 1588; tutte opere sviluppate dopo la morte di Carlo V, sotto il regno di
Filippo.
La
figura del “PRINCIPE” (diversamente
dalla visione real-politica di Machiavelli), come portatore della più alta e
perfetta umanità, si trova al centro dell'opera di Leon Battista Alberti e di
Piccolomini, Platina, Pontano, Patrizi, Zabarella, Panormita e di numerosi
altri.
ANTONIO DE GUEVARA (1480?-1545?), frate spagnolo, autore del “Libro
áureo del emperador Marco Aurelio”, conosciuta anche sotto il titolo “Libro llamado Relox de prèncipes”, si
compone di due parti che sono due opere a sé stanti: una biografia romanzesca
dell'imperatore filosofo, e un trattato di etica politica nel quale è
incorporata la narrazione. Fingendo di tradurre un vecchio manoscritto
fiorentino dove si trovano inserite immaginarie lettere di Marco Aurelio,
Guevara discetta: nel Libro I, sul
principe cristiano; nel Libro II, sul suo modo di comportarsi nei confronti
della moglie e dei figli: nel Libro III,
sul suo modo di esercitare il governo.
Il libro é uno dei tanti trattati
moralistico-politici in cui al realismo del Machiavelli si sostituisce una
concezione del monarca decorativamente umanistica e cristiana. Tradotta in
inglese da John Bourchier Lord Berners (1469?-1533) e pubblicata postuma nel
1534, ebbe una influenza determinante sul barocco inglese, l'eufuismo, che il Lyly, più tardi, spinse alle espressioni estreme
(Divo Barsotti).
LUCAS FERNANDEZ (1474 ca.-1542) il poeta spagnolo autore de l' “Auto
de la passion”, opera innovativa rispetto ai tradizionali scritti religiosi.
Come già detto sotto il regno di Carlo V era
vissuto un grande umanista, JUAN LUIS VIVES (1492-1540), uno dei maggiori del Rinascimento;
era spagnolo e aveva compiuto i suoi studi a Parigi e Bruges (nelle Fiandre che
facevano parte dell’impero) dove conobbe
Erasmo da Rotterdam che lo iniziò allo studio delle lettere, passò ad insegnare
ad Oxford e poi fu chiamato a Londra da Tommaso Moro presso
Considerato precursore di Bacone e di Cartesio (v.
in Schede F. Sum, ergo cogito ecc.) e fra gl'iniziatori della
filosofia moderna. Era stato consulente storico di Carlo V il quale, come detto
lasciò che morisse (1540) in miseria.
Vives
fu autore di opere umanistiche quali,
quella contro gli “scolastici” della
Sorbona “Adversus pseudodialecticos”
(Contro i pseudodialettici), in cui critica il “nominalismo” appunto della
scolastica medievale ed altre opere positive come “De tradendis disciplinis” e “De artibus”; revisionò su richiesta di
Erasmo, il commento al “De civitate Dei” di
s. Agostino e scrisse le prime opere pedagogiche come “L’educazione della donna cristiana” (Institutiones feminae
cristianae), “Della ragione di studi
sull’infanzia” (De ratione studii
puerilis) e “Satellitium animae”
(con sentenze sapienziali) e “De
concordia et discordia in humano genere”, “De subventione pauperum” e “De
anima et vita” e su questo argomento il commento a “Il sogno di Scipione” (Somnium Scipionis) sesto libro del “De Repubblica” unico di quest’opera conosciuto nel medioevo, in cui
Cicerone partendo da una visione di Scipione, parla dell’immortalità dell’anima
e dei premi riservati nell’oltretomba ai benemeriti della patria.
“Dell'Istruzione” (De disciplinis), è un trattato poderoso con la esposizione delle
sue idee filosofiche, pedagogiche e didattiche
(pubblicata nel
La sua visione
psicologico-pedagogica gli permise di esaminare la particolare situazione
dell’Europa del suo tempo come lo stato di belligeranza permanente per avidità
territoriale ed economica; le prime guerre coloniali di conquista; le scosse
sociali causate da spostamenti di popolazioni (come quella dei turchi) nonché i
violenti conflitti religiosi in “De
Europae status ac tumultibus”(Dello stato dell’Europa e dei tumulti),“De dissidis Europae et bello Turicio”
(Sul dissidio dell’Europa e della guerra contro i turchi) e il “De
conditione vitae christianorum sub Turca”,
e “De concordia et discordia in humano
genere” e “De subventione pauperum”; il
“De
anima et vita” è considerata la sua
opera migliore che lo ha fatto considerare il padre della psicologia moderna.
Sandro
Botticelli - Allegoria della Nascita di Venere
LA PITTURA
INFLUENZATA DA
MAGIA E ASTROLOGIA
L |
a
pittura rinascimentale riprende i temi mitologici ereditati dal medioevo ma
attraversati dalla cultura neoplatonica sfociata nelle speculazioni
dell’astrologia, della filosofia naturale (magia), e dell’orfismo (*).
Gli
artisti che avevano prodotto quadri come la “Storia di Psiche” di Raffaello “Mercurio
e le Grazie” “Bacco e Arianna” di Tintoretto, la “Primavera” e la “Nascita di Venere” di Botticelli e la “Morte e Venere” di Piero di Cosimo (1462-1521), “Leda e Bacco” e l’ “Amor sacro e l’amor profano” di Tiziano, erano stati influenzati
dalle idee diffuse dagli umanisti Pico della Mirandola e Marsilio Ficino.
Successivamente
agli studi condotti durante la prima metà del ‘900 dal gruppo di storici
dell’arte quali Erwin Panofsky (1892-1968), Edgar Wind (1900-1971), Fritz Saxl
(1890-1948), Ernest Hans Joseph Gombrich (1909-2001) Botticelli’s Mythologies Study
(in: The Neoplatonic Symbolism of his
Circle - 1945) e Frances Yates (1899-1981) che, abbiamo onorato nell’articolo (Omaggio a Frances Yates in Rinascimento magico alla corte di Elisabetta
I ecc.) si erano fatti portatori di questa nuova chiave di lettura della storiografia.
Secondo
G. Wind (Pagan Mysteries in the
Renaissances), gli artisti rinascimentali, attraverso gli studi neoplatonici del ‘400 di
Pico della Mirandola e Marsilio Ficino (v. P. I, Umanisti maghi), che avevano
studiato Platone, attraverso gli ultimi esponenti del paganesimo come, Plotino
(205-270), Porfirio (233-305), Giamblico (250?-330), Plutarco di Atene, (da non
confondere con lo storico del IV-V sec.), e Proclo (412-485), ultimi esponenti
del paganesimo e gli stessi studi condotti su Ermete Trismegisto, avevano
tratto notizie su misteri, riti di iniziazione e magici che avevano poi trasfuso
nelle loro opere d’arte che portano celati significati magici neoplatonici ed
ermetici a tutt’oggi non ancora interamente svelati.
Quanto
alla astrologia valeva l’idea diffusa da PIETRO POMPONAZZI (v. P.I) in “De
naturalium effectum admirandorum causis, sive ad incantationibus liber”, in
cui riafferma il principio che negli astri si raccolgono le virtù sparse per
l’universo e dagli astri esse ridiscendono per penetrare nella natura e
nell’anima umana per cui questa è capace a volte di compiere miracoli.
Quindi,
le figure apparentemente mitologiche come Mercurio nella “Primavera” di Botticelli e la figura centrale “Venere” (nella Allegoria della nascita di Venere),
rappresentano in effetti i pianeti che inviano a chi osserva il quadro,
influssi benefici e lo stesso Zefiro
che soffia non rappresenta solo il vento, ma Zefiro soffia lo “spirito del mondo” che è il canale
attraverso il quale si diffondono gli influssi delle stelle delle costellazioni
dello zodiaco (troppo lontane per
influire sulla terra, diceva Margherita Hach), ma l’astrologia oramai è insediaata da secoli nella esistenza umana e
nessuno scienziato riuscirà mai a scalfirla.
Il
quadro quindi, nella concezione rinascimentale è un talismano che attraverso le figure rappresentate, cattura gli
influssi benefici e salutari delle stelle e dei pianeti e li invia al suo
osservatore (il quadro di Benozzo Gozzoli, rappresenta Lorenzo de’ Medici (poi il Magnifico) all’età di dodici anni (v. in
Specchio dell’Epoca: L’assassinio di
Giuliano de’ Medici), concepito dall’autore come un quadro propiziatorio per la futura grandezza di Lorenzo...che non si può dire che non avesse
avuto effetto!
Con
la conseguenza che i pittori rinascimentali, che ai nostri occhi sono già
grandi per le opere sublimi che ci hanno
lasciato, sono ancora più grandi per il significato occulto che hanno impresso alle
loro opere, che a distanza di secoli di studi, non ancora si è risusciti a decifrare.
Ecco
perché opere ispirate da riferimenti magici e da riferimenti agli influssi dei
pianeti come la Primavera e l’Allegoria menzionati di Botticelli, Marte e Venere di Piero di Cosimo, Leda e Bacco, l’Amor sacro e l’amor profano di Tiziano, sono opere non ancora
completamente decifrate.
Le
nuove idee magico-astrologiche si
affermarono anche all’estero e le troviamo in Germania trasfuse nelle opere di
Dührer che dopo i suoi viaggi in Italia ispirato dalle idee umanistiche, aveva
creato capolavori come “Il cavaliere e la
morte” “Il diavolo” “S. Gerolamo” e “Melancolia I”, idee che
erano poi passate nell’Inghilterra elisabettiana, dove si affermava il mito di
Diana, di Astrea e della Vergine, tutto a edificazione della grande regina (v. in
Articoli: cit. Rinascimento magico
ecc.).
Opera
magico-astrologica per eccellenza è
l’incisione denominata Melancolia I, (v.
sotto), lavoro estremamente complesso che appare in un luogo freddo e
solitario, non lontano dal mare che si intravede sullo sfondo, appena
rischiarato da un barlume della luna come si deduce dalle ombre della clessidra
sulla parete e dal funesto bagliore di una cometa. La figura è alata, con il volto
scuro, con un compasso, accovacciata su una
bassa lastra di pietra in prossimità di un edificio incompiuto, accompagnata da
un putto imbronciato che appollaiato su una mola abbandonata, scribacchia
qualcosa sulla lavagna, e da un cane scheletrico scosso da brividi. Nel cielo
un pipistrello pronuncia eternamente un’unica cupa parola: Melancolia I. Lo strano assortimento di oggetti sotto un cielo
tenebroso popolato di segni che nel loro significato simbolico nonostante
scritti notevoli, non ancora è stato svelato.
*)
L’orfismo, di cui Platone secondo Proclo, sarebbe stato l’erede, si fonda su un
sistema trinitario della trasmutazione data dallo sviluppo dell’universo in
triadi e dalla coincidenza dei contrari nell’unità, che sono i principi
applicati alle composizioni più ermetiche e ne costituiscono la struttura
nascosta.
Albrecht
Dürer – Melancolia I
SATURNO
RIVALUTATO
D |
ai
quattro elementi primordiali degli antichi filosofi greci costituiti da acqua,
aria, terra e fuoco sono poi derivati i dodici segni zodiacali: aria: cancro,
scorpione pesci; acqua: bilancia, gemelli, acquario; terra: toro, vergine e
capricorno; e fuoco: ariete, leone e sagittario.
L’idea
medievale su Saturno era che tra le quattro categorie di temperamenti umani designati
in base agli umori, e secondo le fonti arabe collegati agli astri: temperamento sanguigno, attivo, fiducioso,
fortunato ed estroverso, questi temperamenti risultavano buoni governanti e
uomini d’affari, collegato agli astri Venere e Giove; temperamento
collerico portato agli scontri,
collegato a Marte; temperamento flemmatico: attribuito a persone
tranquille, un pò letargiche, collegate alla Luna; temperamento malinconico: denotava
le persone tristi, infelici, sfortunate, condannate alle occupazioni più
servili e spregiate, collegato appunto con Saturno.
Di
conseguenza il melanconico era scuro di carnagione, nero di capelli e nel volto.
La sua tipica posizione fisica espressiva di tristezza e depressione era di appoggiare
la testa sulla mano. Le sue attività erano quelle della misurazione nel
calcolo, nel conto: misurare la terra o contare il denaro; queste attività
erano più basse di quelle influenzate dagli altri pianeti: vediamo infatti, la Melancolia di Dürer con il colorito
livido, la carnagione scura che sostiene la testa con la mano nella posizione
della persona pensierosa.
Il
Rinascimento però aveva rivalutato la
figura di Saturno portandolo sul grado più alto, ritenendo che la malinconia fosse
un segno di genialità, quello dei grandi uomini, dei grandi pensatori, dei
profeti, dei veggenti religiosi. Essere malinconico era segno di genialità: le
caratteristiche, gli studi di calcolo e di misurazioni, portavano l’uomo al
livello della divinità.
Questa
nuova qualificazione di Saturno fu ripresa rifacendosi ad Aristotele che nell’opera
“Problemata phisica” attribuisce la melanconia agli eroi e grandi uomini. La
spiegazione derivava dalla considerazione che il delirio eroico, l’esaltazione
(furor) che secondo Platone è la
fonte di ogni ispirazione, combinandosi con la malinconia produce genialità. Tutti
gli uomini eminenti sono malinconici come Ercole, filosofi come Empedocle e
Platone e tutti i poeti. Questa teoria fu trasfusa nel neoplatonismo e
accettata in tutta Europa.
Oltre
alla malinconia rappresentata da Saturno vi erano gli altri dei della mitologia
che avevano caratteristiche particolari nella loro ambiguità, come l’eloquente Mercurio
che rappresenta il silenzio; Apollo ispiratore della frenesia o della moderazione;
Minerva, contemporaneamente dea della pace e della guerra; Pan si nasconde nel
multiforme Proteo (F.Yates, Cabala e
occultismo nell’età elisabettiana,1982, Einaudi).
LA PITTURA IN
ITALIA BACIATA
DALLA GRAZIA
DELLA FORTUNA
V |
i
sono nella storia periodi che sembrano magici, in cui si amalgamano varie
combinazioni che sembra siano derivate da benefici influssi che fanno
sviluppare insieme arti e scienze e sembra vogliano innalzare alla gloria il
personaggio che governa in questo particolare momento: nel periodo che stiamo
esaminando troviamo Lorenzo de’ Medici (1449-1492) come si verificherà in
Inghilterra con Elisabetta e in Francia con Luigi XIV.
L’
Italia, in particolare la Toscana tra
‘400 e ‘500, è baciata dalla grazia della fortuna, e produce pittori come PIERO
DELLA FRANCESCA
(1415/20-1492), ANDREA SOLARIO
(o Solari 1473-1524) e il fratello CRISTOFORO
detto
il GOBBO
(m. 1527), con le poche opere pittoriche di LEONARDO
DA VINCI (1452-1519),
genio universale e precursore delle scienze moderne.
MICHELANGELO
BUONARROTI.(1475-1574) pittore, scultore e architetto; RAFFAELLO SANZIO (1488-1520),
artista squisito, interprete della grazia
femminea e della grandezza virile ed eroica. Il papa Adriano VI non
vedeva di buon occhio tutte le sue nudità della Cappella Sistina e, per fortuna
morì di malaria, prima di decidere di far togliere quei meravigliosi affreschi
che hanno potuto affrontare i secoli.
Particolarmente
ricche di colori sono le opere dei
maestri veneziani Giorgio Barbarelli detto il GIORGIONE (1478-1511),
TIZIANO VECELLIO (1477-1576),
Iacopo Robusti detto il TINTORETTO (1518-1594). Alla tradizione della "scuola veronese”, si agganciano le
figure di Paolo Caliari detto VERONESE (1528-1588).
Nel
solco di Leonardo e degli altri maestri troviamo ANDREA DEL SARTO
(1496-1531), per la ricca tecnica e il disegno, nello stesso tempo, gentile e nervoso.
Si
esce dalla pittura del Cinquecento con ANNIBALE
CARACCI (1560-1609),
che ebbe molto vivo il senso del colore e della decorazione. Ma se questi fu li
promotore della corrente secentista decorativa, Michelangelo Amerighi detto il CARAVAGGIO
(1569-1609) promosse quella del chiaroscuro e diede vita ad un potente
realismo. Ad essi dobbiamo aggiungere ARTEMISIA GENTILESCHI
(1593-1653) figlia di Orazio Gentileschi (1563-1639) appartenente alla scuola del
Caravaggio.
IN SPAGNA
NELL’INDIFFERENZA
DI C ARLO V
N |
el
corso della storia vi sono stati personaggi che sono diventati grandi per avvenimenti che si sono verificati durante la
loro vita, senza che essi vi abbiano in qualche modo influito, avvenimenti che
hanno finito per illustrare e ingigantire la loro figura che in certo qual modo
si è appropriata di meriti altrui.
Ciò che si è
verificato con Carlo V, vissuto nel periodo dello splendore rinascimentale e in
un’epoca definita in Spagna Sieglo de oro
“il secolo d’oro” che gli sono, per
così dire, scivolati addosso, in quanto si sono verificati senza che gli si
possa attribuire alcun particolare merito di mecenatismo, sebbene una fortuna
sfacciata, anzi, spudorata, oltre ad
averlo insignito del titolo imperiale a diciannove anni (ottenuto, come abbiamo
visto, corrompendo gli elettori a peso
d’oro), si era trovato a dominare su territori che occupavano mezzo mondo
terraqueo.
Questo secolo d’oro infatti per errore storico viene
fatto iniziare con il periodo del suo regno, per il quale Carlo V non aveva
avuto nessun merito, sia per gli studi umanistici che erano fioriti e si erano
sviluppati prima del suo avvento, sia come produzione letteraria (v. sopra) e
opere d’arte rinascimentali, che si erano sviluppate dopo di lui con l’avvento
del figlio Filippo II, amante dell’arte.
Insomma,
con Carlo V non si erano create le condizioni di quella esplosione dell’arte
rinascimentale e sviluppo della letteratura, delle arti e delle scienze che in
Italia si era avuta per merito dei vari principi, primo fra tutti Lorenzo il
Magnifico e dei papi, e si era irradiata nelle Fiandre (territorio sottoposto
alla Spagna, certamente non per suo merito), in Francia con Luigi XII, Carlo
VIII e Francesco I (che venuti in Italia per le guerre, erano rientrati in
Francia portando le Arti!), in Germania e nell’Inghilterra elisabettiana.
Carlo V, vissuto in piena età rinascimentale ne era
stato appena sfiorato in funzione di se stesso. Solo la vita lussuosa da cui
era circondato e l’imperiale e universale consapevolezza della sua persona, lo
aveva portato a farsi ritrarre da Tiziano e da famosi pittori dell’epoca (Lucas
Cranach, Parmigianino, Bernard Strigel, B. Berham (incisione), Bernaert van
Orley e Yosse van Cleve).
La sua passione per l’arte era
limitata all’amore per se stesso che si riversava nei suoi ritratti e la
storiella che suoi ammiratori aveano fatto circolare sul “pennello che era caduto dalla mano di Michelangelo” (che doveva
continuamente sollecitare i pagamenti per i ritratti che gli faceva!) e la
frase che “il potere si inchinava di
fronte all’arte”, era stata messa in
giro a sua edificazione (tra l’altro soffriva di artrosi e non si poteva
piegare!). Egli era assolutamente privo dello spirito del mecenate di cui
invece era dotato il suo antagonista Francesco I; la prova è data dalla morte
in miseria in cui aveva lasciato i tre
grandi umanisti Vives, Agrippa ed Erasmo,
come abbiamo già riferito.
Per fortuna il Rinascimento si stava
sviluppando ugualmente a prescindere da lui e per merito di altri mecenati.
I suoi regni
di Spagna, di Napoli e Sicilia (in cui l’Umanesimo era fiorito sotto il regno
di Ferrante d’Aragona e del figlio Alfonso con l’arricchimento dell’Università
dove erano stati chiamati a insegnare il Panormita, Sannazzaro e Pontano e
pubblicate opere di Diomede, Carafa, Galateo, Tristano Caracciolo), in Spagna troviamo
ALONSO BARRUGUETE (1486-1561) fernando yañez de l’almedina e ferdinando de los llanos (seppur documentati tra il 1506-1531) e che,
sotto l’influenza di Leonardo, di fra Bartolomeo e del Perugino, collaborarono
ad affrescare la cattedrale di Valencia, dopo di che Yañez passava alla
cattedrale di Barcellona e quindi a Cuenca (1526-1531), ma non per merito
dell’imperatore!
Nella
Spagna l'esempio italiano fu soffocato dalla prorompente prepotenza del gusto
nativo, quale dimostrano BARTOLOME’
ORDONEZ (m. 1520),
fondamentalmente scultore, A. BARRUGUETE, GASPAR BECERRA (1520-1571),
questi due ultimi non insensibili al michelangiolismo.
L'HERNANDEZ
(1566-1686) ebbe accenti berniniani,
ma rivissuti con robustezza e più intima religiosità; G. DE ARFE
(1528-1603) lasciò predominare l'impeto e la serenità pastosa spagnola; MARTINEZ MONTANEZ
(1568-1649) è vivo di fede e spontaneamente naturalistico, e cosi il discepolo ALONSO OANO
(1601-1667).
L’architettura
rinascimentale in Spagna, appena abbozzata nella prima metà del 1500
(nell’Alhambra di Granada con il palazzo di Carlo V iniziato nel 1539 da Pedro
Machuca, sarà terminato solo nel 1600), a Burgos con la torre centrale della
cattedrale iniziata nel 1540, e alcune costruzioni a Siviglia, si
svilupperà nella seconda metà del secolo per merito di Filippo II
(l’Alcazar di Toledo e L’Escurial) il quale aveva una maggiore sensibilità per
l’arte (partricolarmente erotica!); la pittura rinascimentale spagnola si svilupperà con E. MURILLO, RIBEIRA, ZURBANA, MORALES, VALDES
LEAL, EL GRECO,
con esclusione del Regno di Napoli e
Sicilia.
Questi
due regni proprio con l’inizio del sec. XVI, terminate le guerre a favore della
Spagna (v. Articoli: L’Europa verso la
fine del Medioevo: L’Italia alla fine del 1400 ecc.,P. IV) erano stati
degradati a terre di conquista e dopo una prima stagnazione della economia, si
avviarono verso un inesorabile declino determinato dalla pesante pressione
fiscale che colpiva i settori produttivi sui quali si basava la ricchezza del
paese e principalmente l’agricoltura (come scrive C.M. Cipolla in “Storia
Economica dell’Europa pre-industriale”).
Essa
poi finiva per ricadere sulle spalle dei
meno abbienti, imposta da tronfi viceré
(**) che avevano introdotto tra pompe e
ricercatezze, tutta quella prosopopea spagnoleggiante ( v. citato art.:
par. Gli aragonesi e lo spagnolismo meridionale), che a sua
volta era stata preceduta dalla retorica
bizantina, di cui ancora oggi, dopo secoli. se ne trovano segni tangibili negli atti prodotti
dalla burocrazia della pubblica amministrazione, prolissi articolati e
incomprensibili (che prima di essere pubblicati, dovrabbero passare al vaglio
dell’Accademia della Crusca come era stato disposto durante il Ventennio!).
Costoro
si erano circondati di una famelica e sempre più numerosa e corrotta burocrazia,
che incideva notevolmente sulla finanza pubblica (*) a cui si aggiungevano i contributi che dovevano essere versati a Madrid,
capitale dei due regni!
La
decadenza portò ambedue i regni, nell’arco di un secolo, al livello del sottosviluppo dal quale ancora oggi quelle
regioni sono afflitte, oppresse dalla pesante burocrazia, che ora come allora
assorbe una buona parte di quelle risorse che potrebbero servire al loro
sviluppo (**) mentre Napoli e Palermo (e Roma!), mal governate, sono ridotte a un cumulo di rifiuti che sono mandati
in giro per l’Europa, a causa del rifiuto di dotarsi di un moderno e autonomo
sistema di smaltimento!
*) Dei vicerè l’unico a meritare di essere ricordato
è stato don Pedro Toledo (v. in Art. “Nobiltà
ribelle nel regno di napoli” ecc.): in questo articolo un vile hacher. ha deturpate tre immagini per puro sfregio; si tratta di un alpino, di
alto grado (penna bianca!) in pensione, che conosce la impostazione tecnica
della rivista, che ha così confermato che tra gli alpini vi sono anche gli
incivili, che si comportano come come i molestatori di cui ha parlato la sttampa negli ultimi tempi!
NOTA DI ATTUALITA’
**)
Mentre scriviamo (11-12-2o1o) la stampa
annuncia che in Sicilia sono stati assunti con un unico tratto di penna,
tremila dipendenti, che aggiunti ai precedenti 27.ooo ora sono iventati 3omila
(cosa faranno mai, visto che in Lombardia sono solo seimila?) ... una oscenità!
E’
così che la Regione Autonoma crea posti di lavoro, stipendiando i siciliani con
danaro pubblico; mentre si trascurano i problemi di sviluppo, di immondizia
(incapaci a smaltirla!), di trasporti (hanno ancora la ferrovia a un solo binario,
ma nello stesso tempo al Teatro dell’Opera a Palermo hanno l’Orchestra
sinfonica stabile!), e durante l’estatae hanno il problema della mancanza di acqua,
distribuita dalla mafia ... che domina anche in quelle Università!
Abbiamo
appena finito di correggere il presente lavoro (8 Aprile 2023) che spprendiamo
la notizia della nomina per l’Italia, colpita dalla siccità, di un Commissario
Straordinario che dovrebbe sovraintendere alla soluzione di questo problema.
Il
nuovo Commissario, per prima cosa, si è trovato di fronte a trentamila Enti che si occupano di
questo problema: Oltre ad essere una oscenità è una stortura di sistema che non
consente un decente sviluppo del Paese; e ciò aviuene perché nessuno dei
Governi che si stanno continuamente alternando metta le mani suklla Spesa
Pubblica!
Vi
sono duemilaottocento società partecipate
comunali, con bilanci negativi (servono a foraggiare i politici che
rimangono senza incarichi!), che Carlo Cottarelli aveva trovato se ne dovevano
elinmnare duemila; ma, si è verificato che invece di essere ridotte, sono nel
frattempo aumentate di numero!
E’
questa tutta una ragnatela ordita dal P.D. (attualmente in disfacimento), in
cui avevamo posto tutte le nostre speranze di rtforme, che ci ha traditi,
mirando invece ad occupare tutti i centri di potere in cui ha sistemato i suoi burocrati di poartito, riducendo in
povertà l’intero Paese: si pensi solo che gli immobili negli anni 2020-2022
hanno perso valore e si vendono (quando si riesce a venderli) a un terzo del
loro valore effettivo!
Non
sappiamo se il nuovo Governo di Destra, al quale auguriamo la durata dei cinque anni, sarà in grado di
eliminare tante storture da cui l’Italia è afflitta e che in primo luogo, riesca
a realizzare il PNRR, in maniera
organica, che vediamo in pericolo in quanto si stanno avanzando molti
dubbi di ordine organizzativo e di ordine tecnico (V. Schede, L’idea di Solimano il Magnifico
di cconquistare l’Italia e La ricostruzione dell’Italia, come finirà?).
Dal
punto di vista organizzativo la coalizione di Governo non risulta avere idee
chiare e uniformità di intenti, per il prevalere di forme ricattatorie proprio
dalla parte minoraitaria, e, dal punto di vista tecnico la P.A. è assolutamente
priva di tecnici (ingegneri e architetti) che siano in grado di predisporre
idonei progetti, come si è già verificato, l’Italia ha mostrato di non esssere
in grado di utiliizzare i Fondi della
U.E. !
Come
avevamo scritto quando il PNRR era nelle nani di Mario Draghi (cit. Scheda), ci
aspettavamo una ricostruzione omogenea in modo che l’intero Paese possa adeguarsi ai tempi, atteso che è in arretratto
di trenta-quarant’anni, con realizzazioni uniformi di informatizzazione (che
deve essere unica e non frazionata per regioni!), alta velocità, autostrade,
case popolari, carceri, realizzazioni che dovrebbero essere dirette da una sola
mente e visto che Draghi è stato tolto di messo, dovrebbe essere nominato un Commissario
Straordinario preparato ad affrontare la situazione, che potrebbe essere Carlo
Cottarelli, l’unico in grado di affrontare organicamente e uniformemente la
situazione e nello stesso tempo sarebbe un gesto verso la Sx. di pax sociale, visto che è anche interesse
della Sx. condiividere la realizzazione del PNRR.
Si
eviterebbe così la confusione che verrebbero a creare i centosettantanovemila
progetti presentati dalle varie amministrazioni, scollegati e frantumati che
darebbero luogo a un vero e proprio guazzabuglio
nazionale col risultato che l’Italia
continuerebbe a rimanere nello stato pietoso in cui si trova!
IN FRANCIA
I |
l
Rinascimento italiano aveva abbagliato gli illuminati re di Francia Carlo VIII, Luigi XII e Francesco I che, come
detto, venuti in Italia per campagne militari, avevano portato le novità
artistiche nel loro regno.
La
Francia, uscita dalla guerra dei cento anni, aveva iniziato con Luigi XI
(1461-83) una ripresa nel commercio e nell’agricoltura. Ebbe ulteriore slancio
con Luigi XII (1462-1515) che aveva avuto come sostegno il ministro-cardinale
George d’Amboise.
Con
l’avvento di Francesco I, al ritorno dalle sue campagne d’Italia,
incominciarono a sorgere i bei castelli della Loira di Chambord, Ambois, Blois,
Chenonceaux, Valencay, Ussé, Montresore, Luyne e tanti altri, che costituiscono
il simbolo della magnificenza rinascimentale francese.
E
in Francia erano stati chiamati artisti italiani come Leonardo accolto da
Francesco I morendo tra le sue braccia,
lasciandogli in dono La Gioconda.
FRANCOIS
RABELAIS (1483/94-1553)
con il suo mordace sarcasmo traccia l’idea dello Stato, ispirandosi alla
Repubblica di Platone.
Il
trionfo dell’arte rinascimentale avviene
solo nella seconda metà del Cinquecento, mentre nella prima parte del
secolo accanto alla scuola di Fontainbleau dove lavorano due artisti italiani B. ROSSO
FIORENTINO (1494-1541) e F.
PRIMATICCIO (1504-1570)
che operavano con influssi michelangioleschi, emersero due ritrattisti, JEAN CLUET (1485-1545) sul quale aveva avuto influenza
Andrea Solario (v. sopra) e JEAN FRANCOIS CLUET (1522-1572).
L’ARCHITETTURA
E LA SCULTURA
I |
n
Italia dalle forme tipiche dell'architettura del Quattrocento si passa alla linea veramente classica del
Cinquecento, allo stile, cioè, che più propriamente si è detto del
Rinascimento, con DONATO BRAMANTE (1444-1514), il
quale, pur non respingendone del tutto le influenze, usci per primo dagli
schemi e dagli atteggiamenti regionali, dando vita a uno stile nazionale, dai
suoi discepoli (Michelangelo) diffuso per molte regioni d'Italia".
Dagli
esempi di Bramante e di Michelangelo si svolge tutta l'architettura del sec.
XVI, essendo sorretti i loro principi da un diffuso spirito teorico e da uno
studio appropriato di regole costruttive, come documentano i trattati del
Vignola, dello Scamozzi e del Palladio e i disegni di S. SERLIO (1475-1552).
JACOPO BAROZZI, detto il VIGNOLA (1507-1578),
operò prevalentemente in Roma, dove LORENZO BERNINI (1598-1680)
doveva strappare l’architettura al gusto classico cinqucentista e dar vita al
barocco, cui F. Castelli detto BORROMINI (1599-1667)
aveva dato accenti decorativi. Il Barocco giunge tardi a Milano e a Bologna,
mentre a Venezia Jacopo Tatti detto SANSOVINO (1477-15729)
si era attenuto alle tradizioni locali.
La
scultura del Cinquecento è dominata in Italia dalla gigantesca personalità di MICHELANGELO BUONARROTI (1475-1564): architetto, scultore, pittore e
poeta, “dal carattere fermo e sdegnoso, tutto dignità, espresse un accorato e profondo dramma, plastico ed umano ad un tempo,
in cui ogni particolare è fuso nel calore di un Ideale profondamente sentito”.
La sua arte conclude il Quattrocento,
domina il Cinquecento e anticipa i1 Seicento.
Personalissimo
fu BENVENUTO
CELLINI (1500-1571),
e altrettanto, pur movendo da Michelangelo, riuscì il GIAMBOLOGNA (1524-1608).
Iacopo
Tatti, detto il SANSOVINO, da
ricordare come architetto, da influssi
del Contucci e di Michelangelo, passò ad accogliere elementi classici,
temperandoli con attenti richiami veristici.
Michelangiolismo
e classicismo sono superati dal Bernini (sopra indicato), in cui invenzioni plastiche, esaltano elementi
scenografci.
Aperto
a un sano naturalismo, equilibrato e composto fu ALESSANDRO ALEARDI (1595-1654) che rimase sempre fedele a se stesso,
anche in pieno berninismo. In Toscana rimanevano fedeli allo stile del
Gianbologna, al quale per primo si sottrasse GIANBATTISTA FOGGINI
(1653-17379)
il cui indirizzo venne rafforzato da G. BARATTA (1670-1747),
ma già ci stiamo allontanando dai canoni rinascimentali (T.E.P.Bompiani 1938).
E DELLA MEDICINA
S |
cienza è un termine coniato nell’Ottocento, nei secoli precedenti
si parlava di filosofia naturale; il
rinnovamento degli studi provocato dall'Umanesimo non poteva non ripercuotersi
nel campo scientifico, con ritardo rispetto agli studi compiuti dagli arabi (v.
Specchio dell’Epoca: La scienza araba ecc.) tanto che il rinnovamento
scientifico si realizza veramente solo nel sec. XVII, ma con tale intensità da
costituire il fatto culturale più notevole del secolo.
Il
motivo del ritardo era dovuto alla onnipresente “scolastica” con la quale tutto sfociava nella teologia, di cui la Chiesa
manteneva il monopolio.
In
ogni caso tra il Quattro e il Cinquecento
fra le scienze troviamo la matematica
la cui origine risale al popolo dei Sumeri
stabiliti nella Mesopotamia dove giunsero quattro millenni prima della nuova
era; non si sa chi fossero e non si sa da dove venissero, si sa solo che provenivano da Est e
non erano né ariani nè semiti; trovarono la Mesopotamia già abitata da semiti con i quali si amalgamarono; i semiti
erano giunti da Nord-ovest e avevano occupato il Nord, i sumeri occuparono il Sud detto Sumer;
la zona centrale della Mesopotamia era detta Dyala.
La matematica e la scrittura
(cuneiforme) avevano inizio presso i sumeri,
con la annotazione su tavolette d’argilla per memoria e documento di
contabilità per il re, relativamente alla quantità del grano prodotto dalla terra.
La matematica sumerica passa
attraverso la Babilonia, alla Grecia, probabilmente attraverso Creta e Rodi; i
matematici greci la portano in India (forse attraverso Alessandro Magno)
partecipando allo sviluppo della scienza matematica indiana che culmina con
Brahmagupta (588-660); intorno al 775 furono tradotte alcune opere di
matematici indiani e poco più tardi, opere di matematici greci furono tradotte
in arabo; intorno all’880 i numerali indiani penetrarono nell’Islam orientale e
intorno all’anno mille Gerberto (poi papa Silvestro II, 940/50-1003) li importò
in Francia.
Nell’‘undicesimo e dodicesimo secolo,
matematici greci, arabi ed ebrei affluirono nell’Europa occidentale dalla
Spagna e dalla Sicilia e giunsero a Venezia, Genova, Amalfi, Firenze e Pisa portati
dalle navi dei mercanti italiani.
Occorre
ricordare l’utilizzo (VI sec. a.C)
dell’abbaco cinese (abax-tavoletta) strumento utilizzato per far di
conto, realizzato con canne di bambù, l’antenato della calcolatrice, il cui
discendente – suanpan – è stato
utilizzato dai cinesi fino al momento della diffusione della calcolatrice (e
chissà che non venga utilizzato ancora oggi nelle campagne cinesi!).
Degna
di nota è la invenzione dell’algoritmo da
parte del matematico persiano Abū Jafar Muḥammad ibn
Mūsā al-Khwārizmī (750-840), da cui il termine ha preso il nome (v.
cit. La scienza araba ecc. P.II),
che, dopo mille e duecento anni risolve tutti i problemi di Internet e ci sta
conducendo verso l’intelligenza artificiale (v. sopra)!
L’algoritmo
è infatti il procedimento con il quale attraverso una formula matematica si
risolve un problema; vale a dire che traducendo un concetto in formula matematica e sviluppando
questa formula, si ottiene la soluzione del problema posto dal concetto.
Nel dodicesimo secolo si pubblicano
una serie di trattati di carattere tecnico e meccanico; sulle Macchine da
guerra, KONRAD KEYSER (1366-1405); sulla Meccanica e macchine militari, ROBERTO VALTURIO da Rimini,
pubblicato nel 1472; sulla Geometria
descrittiva, ALBRECHT DURER; sulla Pirotecnica, VANNUCCIO BIRINGUCCIO
(1480-c.a.-1539); sulla Balistica, NICOLO’ FONTANA, detto il
Tartaglia (1500-1557c.a); sull’Ingegneria
mineraria, GEORG BAUER-GIORGIO AGROCOLO (1494-1555); JAQUES BRESSON, scrive: “Theatre des instruments mathematique et
mechanique”; AGOSTINO RAMELLI (1531-1590) scrive: Diverse et artificiose machine; GIDOBALDO DEL MONTE: “Mechanicarum Libri”; SIMON STEVIN o STEVINUS (1548-1620):
“Sulla Meccanica”; FAUSTO VERANZIO
(1531-1617):”Machinae novae”; VITTORIO ZONCA (1568-1602):
“Novo theatro di machine et aedificii”;
THOMAS HARIOT (1560-1621) e ROBERT HUES (1553-1632),
trattati sulla Navigazione.
Il ferrarese ANTONIO
MUSA BRASAVOLA (1500-1564), seguito dall'aretino ANDREA CESALPINO
(1524-1603), al quale si deve anche la scoperta della grande circolazione del
sangue, da molti erroneamente attribuita all'inglese HARVEY,
che ne fu solo un efficace dimostratore, sostenne che solo una piccola parte
delle piante fosse nota e che Dioscoride e Plinio ne avessero descritta una
parte ancor più piccola.
Ma
in questi primi passi la scienza moderna è parecchio impacciata, non si libera
ancora dai ceppi della Scolastica, e perciò tale da trovare tipici
rappresentanti in uomini come ULISSE
ALDOVRANDI (1522-1605),
in cui erudizione e credulità rispecchiano fedelmente il passato nebbioso della
scienza, mentre acutezza di osservazione e pronta intuizione aprivano la via a
numerose scoperte. Ma ogni giorno appariva sempre più evidente l'inadeguatezza'
delle concezioni scientifiche medievali e dello scolasticismo a far progredire
le scienze. Metodo prevalente era il sistema deduttivo, che con fraintendimenti derivati dalle modificazioni
apportate dalle traduzioni e dai commenti arabi, dal cristianeggiamento e
dall'adattamento degli scolastici dei testi aristotelici, si faceva risalire
allo Stagirita, al quale si ascriveva la dichiarazione che esso fosse l'unico
metodo.
Ne
derivava pertanto un accomodamento dei fatti alle teorie, anziché delle teorie
ai fatti; una ricerca di tutti i fenomeni nel testi, anziché nella realtà. LEONARDO (segue), tra i primi, si era dimostrato avverso a questa teoria, e
aveva dichiarato l'esperienza, madre di ogni certezza, e sostenuto
indispensabile il fondamento matematico a dar carattere scientifico a un
complesso di cognizioni.
I papi, fino
a questa data, non avevano avuto chiusure verso la scienza. Leone X (1513-1521)
e Clemente VII (1523-1534) nulla avevano obiettato sulle idee copernicane e
Paolo III (1534-1549) aveva accettato la
dedica che Copernico gli aveva fatto nel libro delle Rivoluzioni.
Nel momento in cui Copernico aveva presentato la nuova
immagine dell’Universo, ANDREA VESALIO (1514-1564) presenta quella del corpo umano. Con l’opera “Tabulae sex” dà l’esatta immagine del
corpo umano che fino a quel momento era stata semplicemente teorica in quanto
la dissezione pubblica dei cadaveri era
proibita dalla Chiesa.
In effetti,
ciò era dovuto solo a una credenza del divieto. Si era verificato che nel 1300,
il papa Bonifacio VIII, aveva emanato una Bolla, “De Sepulturis”, che aveva posto un freno alla dissezione praticata
dai monaci al tempo delle crociate. Era invalso, infatti, l’uso dei monaci di
far bollire i cadaveri dei crociati morti, per disossarli, in modo che così
alleggerite, le ossa erano spedite ai familiari per la sepoltura.
Bonifacio
aveva inteso proibire questa pratica. Si era invece ritenuto che la dissezione
riguardasse anche la medicina, non disgiunta dalla convinzione che secondo la
dottrina della Chiesa, l’uomo era fatto ad immagine e somiglianza di Dio e il
corpo, con l’anima, sarebbero risorti dai sepolcri!
Dopo
Bonifacio VIII, Sisto IV (1471-1484) con un “breve”, autorizzava la dissezione, previo consenso dell’autorità
ecclesiastica. Infine, Clemente VII (1523-1534), l’autorizzava definitivamente,
sbloccando finalmente la situazione che risulta convergente con gli studi di
Vesalio.
Andrea
Vesalio, nato a Bruxelles, aveva acquisito in famiglia la sua cultura in
medicina e aveva compiuto i suoi studi a Lovanio. Viaggiando era arrivato a
Venezia (1537) ed era stato chiamato a
Padova, dove aveva insegnato andando poi a Bologna. In questo periodo (1543)
pubblica “De humani corporis fabrica
libri septem”.
La
sua opera è da ritenere una pietra miliare nel campo della medicina
(chirurgia), in quanto, prima di lui, il suo insegnamento avveniva con il
maestro seduto in cattedra che
cantilenava le nozioni mentre l’aiutante, che era un barbiere,
provvedeva ad eseguire la dissezione.
Questo
sistema era stato criticato dal Vesalio secondo il quale il docente recitava la
lezione imparata sui libri, senza alcun rapporto con la pratica. Con la
conseguenza che il maestro recitava la lezione per suo conto, e l’aiutante, che
non conosceva i termini latini, agiva anch’egli per proprio conto.
Con Vesalio, nasce l’idea dell’anfiteatro anatomico, il cui primo esempio si avrà all’Università di Padova (1594). Vesalio scopre il corpo umano rivelandone i segreti mentre Giulio Cesare Vanini mette in dubbio l’immortalità dell’anima.
Il giro di
vite era arrivato nella seconda metà del 1500, con il reazionario papa Paolo IV
Carafa (1555-1559), che aveva dato impulso all’Inquisizione. Il Concilio di
Trento, fece il resto, e gli studi dopo il 1555 divennero pericolosi. Il
protestantesimo non concesse aperture, perché Lutero, era fondamentalista e si
basava su Giosué (che aveva ordinato al sole di fermarsi!).
LEONARDO
L |
EONARDO DA VINCI (1452-1519) è
un perosonaggio a sé, che non ha una precisa collocazione in quanto la sua
genialità a tutto campo lo pone nella pittura, scultura, architettura, scienze,
ingegneria ed anche nell’attività speculativa e
con la sua genialità aveva superato
l'età umanistica e precorso quella rinascimentale; ma il mondo accademico, sempre uguale a
sé stesso, ieri come oggi, lo aveva marchiato come “homo sanza lettere”.
Indicato nel
registro della chiesa di Saint Florentin d’Amboise dov’è sepolto: “primo pittore, ingegnere, architetto del re,
maestro meccanico di stato e già direttore di pittura del duca di Milano”. Leonardo
amava anche il mistero, da qui le interpretazioni esoteriche delle sue opere:
Il “Cenacolo”, del refettorio della
chiesa dei domenicani a Milano, o “Nozze
di Cana”, rappresenta invece il matrimonio di Gesù con Maria Maddalena.
La genialità
pittorica di Leonardo è dovuta al fatto che ad essa, egli imprime una svolta,
nel senso che la fissità della rappresentazione figurativa precedente, con
Leonardo, diventa vitalità, che traspare dagli occhi, dal sorriso,
dall’incarnato come emergono dal celebre ritratto di Monna Lisa detta “
Con Leonardo
si apre il nuovo periodo della pittura rinascimentale. Nella “Vergine delle rocce” si è voluto vedere
il culto della Grande Madre. Anche il
suo sistema pittorico era innovativo. Per il “san Giovanni”, impossibile riuscire a capire quello, usato che
risulta essere come un velo e rimane un mistero per la tecnica e la perfezione,
anche per gli elementi tridimensionali.
Accusato di
magia e negromanzia e di sezionare i cadaveri, fu processato ma ottenne una
condanna lieve.
Nelle scienze
condusse studi sistematici di anatomia
(con dissezione di cadaveri), dal che l’attribuzione a lui della “Sindone” (non vi è dubbio che dall’esame
al carbonio l’opera sia stata datata intorno al 1300, per cui Leonardo
sarebbe da escludere dalla sua realizzazione, ma non vi è dubbio che la
genialità dei mezzi tecnici usati sia leonardesca!), della botanica,
matematica, ottica e meccanica, nelle costruzioni, nella progettazione di
macchine e strumenti d’ogni genere: Insomma, la genialità che normalmente
nell’uomo si manifesta solo in un campo, in lui era esplosa a tutto campo nelle
varie discipline della conoscenza umana.
Aveva progattato per Baiazet II il ponte
sul Bosforo di 300 mt., sebbene utopistico. con idee chiare, per l’epoca,
audaci e in linea di principio esatte.
Essendo
figlio illegittimo gli era vietato di studiare il latino e greco, ma la sua
genialità lo portò ad un metodo semplice: quello dell’osservazione, che gli
dava modo di sviluppare una mente moderna che si fondava sull’osservazione e
sull’esperienza che considerava figlia della sapienza: “Le scienze che principiano e finiscono nella mente non hanno verità”.
Aveva
rovesciato il principio della separazione del sapere, che fino a quel momento
la scienza medievale aveva tenuto distinto, da una parte con le arti liberali,
dall’altra con le arti meccaniche, con la separazione della ricerca
dell’intelletto e dell’opera manuale, della teoria e pratica, Egli aveva
segnato il passaggio dal medioevo all’evo moderno.
Aveva
respinto la fisica e l’astronomia scolastica, sulla base dell’esperienza che
consisteva nell’accertare i singoli fatti, ricavarne delle leggi, provarle con
l’esperimento, applicarvi le matematiche per rappresentarle con precisione.
Aveva dato
nuove basi alla scienza, che fino a lui era rimasta impaludata sugli
insegnamenti d’Aristotile, Ippocrate, Galeno, Tolomeo. Praticando il metodo
sperimentale, aveva frugato nei cieli come nelle viscere degli animali,
dell’uomo, della terra, per acquisirne la loro diretta conoscenza.
Aveva posto,
in questo modo le basi della moderna meccanica, della geometria, della chimica
industriale. Con le sue osservazioni botaniche è stato il fondatore della
moderna geologia. Aveva afferrato il segreto della natura del suono e della
luce, aveva praticato l’anatomia comparata. Nello studio dei liquidi aveva
scoperto i fenomeni della circolazione del sangue, della capillarità, della
vista, del funzionamento del cervello, dei muscoli della lingua, delle labbra,
della bocca.
I suoi
progetti erano stati fatti sulla macchina tessile, poi adottata in Inghilterra,
sulla bicicletta, l’elicottero, la bombarda, i sottomarini e l’attrezzatura
subacquea, il carro armato semovente e le armi da guerra.
Per non
parlare dei suoi studi sul volo strumentale, derivato dalla osservazione del
volo degli uccelli. applicati al paracadute e al volo a vela con
l’utilizzazione della forza del vento, che solo dopo secoli, in tempi più
vicini a noi, hanno trovato applicazione. L’aliante di cui un modello è stato
creato sulla base deli suoi progetti, si è riusciti a mantenerlo in volo con
alcune varianti, come si è verificato per il carro armato.
E’ probabile
che nei suoi progetti commettesse degli errori per evitare che glie li
copiassero, mantenendo con questo sistema una esclusiva.
“Il
cavaliere robot”, da lui ideato, funzionante sul sistema dei muscoli è
stato realizzato dalla NASA.
CON COPERNICO E
TYKO BRAHE
DIVENTA ASTRONOMIA
P |
er gli alchimisti,
gli studi alchemici erano coperti dall’ermetismo
magico e dal segreto e non
potevano essere divulgati. Pitagora e Porfirio obbligavano al segreto i loro
discepoli; Orfeo e Tertulliano esigevano il giuramento del silenzio. Teodoto
divenne cieco per aver tentato di penetrare i misteri della scrittura ebraica, volendo
decifrare la Qabbalà. Lo stesso Cristo aveva un “verbo” indecifrabile, che solo i suoi discepoli potevano
comprendere.
Nell’astronomia
Peuerbach e Regiomontano erano stati i più grandi astronomi del Rinascimento; PEUERBACH
(Georg, 1423-1461) aveva scritto “Theoricae novae planetum”. REGIOMONTANO
(Johannes Muller, 1436-1476), aveva scritto “Ephemerides”; ERHART RADTOLT (1442-1528) aveva scritto “Disputatione contra cremonensia in planetharium theoricae dedicamenta”,
che raggruppava la scienza astronomica, la filosofia naturale
e la matematica.
Il
volume comprendeva tre testi, di Sacrobosco, Peuerbach e Regiomontano e
costituì il testo fondamentale per lo studio della astronomia. Il primo, scritto nella prima
metà del XIII sec., fu popolare per
diverse generazioni, prima manoscritto e poi stampato.
Il
secondo è un trattato sulla teoria tolemnaica, con descrizioni dettagliate del
modello a sfere solide in cui i pianeti, il Sole e la Luna, erano, ognuno,
inserito in una sfera solida in rotazione intorno alla Terra.
La
“Disputatione”, composta da
Regiomontano nel 1464, contiene sotto forma di dialogo, le critiche dell’autore
alla teoria planetaria proposta da Gerardo da Cremona nella seconda metà del
XIII sec.
GIOVANNI
PAOLO GALLUCCI (1538-1631),
autore del “De Fabrica et uso di diversi
strumenti di astronomia et cosmografia et pratica di queste due nobilissime
scienze”, con questo testo offre
un quadro esauriente della astronomia del tempo, concentrandosi in particolare,
nella parte iniziale, sull’astrolabio, che occupa circa un quarto del testo.
Nella Bibbia considerato
testo omnibus, e quindi anche libro
di scienze, che prevaleva sui testi scientifici, Giosué, aveva malauguratamente
“ordinato al sole di fermarsi”: ora si cerca di dare una giustificazione,
sta di fatto che fu preso sul serio per
l’autorità del libro, considerato sacro, condizionando, con la pretesa
sacralità, l’umanità, e così contraddicendo e mettendoli a tacere, i primi
filosofi greci che con lungimiranza avevano avanzato l’ipotesi che fosse il
sole a girare intorno alla terra (la scienza sta dimostrando che i pretesi miracoli o punizioni mandati da Dio, non erano che catastrofi naturali come
Sodoma e Gomorra, distrutte dalla esplosione di un asteroide!).
Bisognerà attendere fino alla seconda metà del Cinquecento, il
secolo delle scienze, in cui emerge possente la
figura di Giordano Bruno che con Telesio e Campanella, dà il taglio definitivo ad Aristotile, convertito
alle necessità della Scolastica, introducendo l’idea dell’universo infinito (e
per questo sarà arso vivo), anche rispetto a Copernico che aveva abbattuto
l’idea della fissità della Terra.
NIKOLAS
KOPPERNIGK-NICOLO’ COPERNICO (1473-1543) aveva appreso a
Bologna, dove aveva studiato matematica, fisica
e astronomia da Domenico da Novara, le critiche al sistema tolemaico
messe in dubbio dagli antichi astronomi greci che contestavano l’immobilità
della terra e la sua posizione centrale.
Primo tra
questi, Filolao Pitagorico (V sec. a.C.) il quale aveva sostenuto che la terra
e gli altri pianeti si muovevano intorno ad Hestia,
un fuoco centrale invisibile agli uomini perché “tutte le parti conosciute della terra sono rivolte verso un’altra direzione
rispetto ad esse”.
Hicetas di
Siracusa (citato da Cicerone) vissuto nella stessa epoca di Filolao, riteneva
che il sole, la luna, le stelle fossero
immobili e che il loro apparente movimento dipendesse dalla rotazione della
Terra.
Archimede e
Plutarco riferivano che Aristarco di Samo (310-
La teoria
eliocentrica non aveva avuto successo perché Claudio Tolomeo, sostenitore della
teoria geocentrica da lui giustificata in base a come l’osservatore vedeva i
fenomeni, sulla base delle sue osservazioni, aveva una più spiccata personalità
e cultura rispetto agli altri; ma su costoro era prevalsa l’autorità di Aristotile;
poi era sopraggiunto TOLOMEO SOTER (367/66-282)
e prima di lui Ipparco, aveva reso così complessa la sua teoria (fondata sugli
epicicli), che era difficile smontarla.
Vi avevano
provato NICOLA ORESME (1330-82), NICOLO’ CUSANO (1401-64) e
Leonardo che, con l’intuizione che lo contraddistingueva aveva scritto che il sole non si muove… e
Copernico, presso
il castello episcopale di Heilsberg, nominato segretario e medico dallo zio,
curava gratuitamente i poveri preparando la matematica che era alla base della
sua teoria rivoluzionaria e tra tanti altri interessi, coltivava le ricerche
astronomiche.
Tra l’altro
le sue osservazioni si svolgevano tra le nebbie di Frauenburg col pensiero
rivolto con invidia a Tolomeo, che aveva avuto la possibilità di fare le sue
osservazioni “dove il Nilo non soffia la
nebbia della nostra Vistola”.
Egli aveva
fondato le sue osservazioni sui dati trasmessi da Tolomeo, ma proponendosi di
dimostrare che tutti ricevevano osservazioni che si accordavano meglio con il punto di vista
eliocentrico.
Al termine
dei suoi studi (1514) riportò le sue conclusioni in un “commentariolo” intitolandolo
modestamente “De hipotesis motuum
coelestium a se consitutis commentariolus”, esponendole in maniera molto
semplice, forse neanche rendendosi conto che stesse facendo esplodere una
grande rivoluzione.
Il
manoscritto non fu neanche stampato ma alcune sue copie circolarono ugualmente.
Gli astronomi
non vi prestarono attenzione e lo stesso papa, Leone X venutone a conoscenza
gli fece chiedere una dimostrazione pratica della sua teoria.
Tra coloro
che avevano letto il “commentariolo” era il venticinquenne matematico Georg
Rheticus che aveva studiato il manoscritto sollecitandone (1539) la
pubblicazione, che Copernico rifiutò acconsentendo a far pubblicare dallo
stesso Rheticus un’analisi semplificata dei primi quattro libri.
Rheticus
tornò alla carica e finalmente Copernico, fatte alcune aggiunte, autorizzò la
pubblicazione alla quale attese Andreas Osiander (1543) “Nicolai Copernici revolutionum liber primis” e successivamente “De rivolutionibus orbium coelestium”.
Quando una copia
fu porata a Copernico egli era sul letto di morte e dopo aver letto il
frontespizio, sorridendo si spense.
I papi
rinascimentali (v. sopra) non avevano chiusure nei confronti della scienza.
Leone X e Clemente VII nulla avevano obiettato sulle idee copernicane. Paolo
III accettò la dedica che era stata scritta nel libro “De rivolutionibus”.
Fu Paolo IV Carafa,
il papa reazionario a daree impulso alla Inquisizione; il Concilio di Trento fece il resto e gli
studi scientifici divennero pericolosi dopo il 1555.
Il
protestantesimo non concesse aperture perché Lutero fondava ciecamente il suo credo nella Bibbia, basandosi su Giosué che ordinava al sole di
fermarsi, e aveva commentato: “il popolo
dà ascolto a un astrologo venuto dal nulla che tentò di dimostrare che è la
terra a girare e non il sole, la luna il cielo o il firmamento. Questo folle
vuol rovesciare l’intero schema dell’astronomia, ma la sacra scrittura dice che
“Giosué ordinò al sole di fermarsi…non alla Terra”, e il fanatismo
religioso ebbe il sopravvento!
Anche il
fanatico (oltre che spietato e vendicativo!) Calvino, rispose con un Salmo
(XCIII): “Il mondo eziandio è stabilito, e
non sarà mai mosso”. Chi oserà porre l’autorità di Copernico al di sopra
dello Spirito Santo?”
Con l’opera
di Copernico (1473-1543) è dato un
taglio al passato ed ha inizio l’astronomia moderna. Copernico introduce il
principio della rotazione della Terra intorno al Sole, con la Terra che compie
un movimento di rotazione sull’asse polare, di rivoluzione intorno al Sole e un moto conico dell’asse di rotazione, spiegando la
precessione degli equinozi e il parallelismo dell’asse stesso.
Le difficoltà per Copernico sono le orbite circolari (non
ellittiche) per cui è costretto a introdurre eccentrici mobili.
Interviene TYCHO BRAHE (1546-’1601)
l’ultimo sostenitore della fissità della Terra, il quale pur affermando che i
pianeti ruotano intorno al Sole, non conoscendo ancora la gravitazione, sosteneva
che la Terra è ferma in quanto il movimento la porterebbe a disperdersi: è il
sistema tyconico che costituisce
l’ultimo tentativo di mantenere l’interferenza della religione, con l’errato precetto biblico esteso alla scienza,
con la fissità della Terra.
Sulla base delle osservazioni di Tycho si fa riferimento al
movimento di Marte la cui orbita risulta ellittica e il sole occupa il centro.
E’ la prima delle leggi di Keplero che poi estenderà a tutti i pianeti, alla
quale segue dopo alcuni anni, la seconda delle aree descritte dal segmento congiungente
Sole-Pianeta, che risultano uguali in tempi uguali. Segue la terza legge che stabilisce una proporzionalità fra l’asse
maggiore dell’ellisse planetaria e il tempo impiegato a descriverla.
Galileo Galilei, più vecchio di Keplero, arriva all’astronomia
dopo gli studi sulla caduta dei gravi, con il cannocchiale che inventato per
essere utilizzato in marina, egli lo rivolse al cielo, osservando la Luna di
cui scopriva le montagne, il Sole, di cui scopriva le macchie e scoprendo che i
corpi celesti erano fatti della stessa materia della Terra, i quattro satelliti
di Giove (con gli attuali telescopi, Hubble, ora se ne contano 82!) che chiamò medicei e le fasi di Venere (solo
previste da Copernico). Così Galileo da aristotelico qual’era, diventa
copernicano, creando il successo del cannocchiale.
Si giunge quindi a Newton con la gravitazione che è limitata solo
alla Luna che gira intorno alla Terra,
ma manca l’accordo tra la teoria e l’osservazione in quanto non si conoscono le
esatte dimensioni della Terra che vengono fornite da Jean Picard (1620-1680).
L’idea della attrazione reciproca della Terra e della Luna non
era nuova ma era semplicemente spiegata dalla filosofia, senza che si
conoscesse la forma dell’orbita trovata da Newton. Da questo nucleo
fondamentale si muovono le ricerche moderne.
FINE