Carlo v - Tiziano


 

CARLO V

TRA RINASCIMENTO

RIFORMA

 E CONTRORIFORMA

 

MICHELE E. PUGLIA

 

 

PARTE SECONDA

 

 

IL GIOCO DELLA FORTUNA

 E L’IDEA IMPERIALE

 

 

SOMMARIO: INTRODUZIONE IL MATRIMONIO DI ISABELLA DI CASTIGLIA E FERDINANDO D’ARAGONA; IL MATRIMINIO DI GIOVANNA DI CASTIGLIA CON FILIPPO IL BELLO E LE EREDITA’ DI CARLO (In Nota: L’ETA’ MODERNA); IL DUCATO DI BORGOGNA E LE ASPIRAZIONI DI FILIPPO IL BELLO; CARLO RE DI SPAGNA ELETTO IMPERATORE DEL S.R.I.G. (In Nota E L’IMPERO SOVIETICO?); LA RIVOLTA DEI COMUNEROS E DELLA GERMANÌA LA CRISTIANITA’ E L’IDEA DELL’IMPERO UNIVERSALE (In Nota: L’AUTOTOBIOGRAFIA DI CARLO V); LA GRANDE INFLAZIONE DEI SEC. XVI E XVII: LA FALSIFICAZIONE DELLE MONETE DA PARTE DI CARLO V; LA RIVOLUZIONE DEI PREZZI; LA SPAGNA IMPOVERITA DALL’ORO E ARGENTO DEL NUOVO MONDO (CONSIDERAZIONI DI USTARIZ E BLANQUI); LA DECADENZA DELL’ITALIA; L’ORO E L’ARGENTO E LA DISASTROSA AMMINISTRAZIONE DELLA RICCHEZZA PIOVUTA DALLE INDIE (In Nota: I FUGGER); LA RIVOLUZIONE DEI PREZZI E LE BANCAROTTE DI FILIPPO II; IL COMMERCIO E E LO SCAMBIO DI PRODOTTI TRA EUROPA E NUOVO MONDO.

 

 

 

INTRODUZIONE

 

(Bella gerant alii,

tu felix Austria, nube...*)

 

 

M

ai nella secolare storia delle dinastie regnanti si era verificato  che uno dei suoi esponenti, senza alcun merito e senza aver mosso un dito,  abbia potuto ricevere una immensa estensione di territori distribuiti in mezzo mondo tra Europa e Indie Occidentali appena scoperte; la Dea Fortuna o Fato perr i greci o Destino per i gentili o Provvidenza per i cristiani (ma é solo scienza matematica, ovvero combinazioni dovute al calcolo delle infinite probabilità che dir si voglia), aveva pensato che tutta quella fortuna sarebbe andata a finire sul capo di un bambino predestinato e non ancora concepito  che sarebbe stato  Carlo di Borgogma.

La Dea Fortuna, pensando a lui già prima della sua nascita, aveva iniziato a volgere il suo sguardo all’Austria felix dove regnava l’intraprendente suo bis-avolo, Federico III d’Asburgo (1440-1493), imperatore del S.R.I.G., il quale, all’interno della sua famiglia aveva introdotto l’idea che le acquisizioni  territoriali dovessero aver luogo, non con le guerre (*), ma con i matrimoni (v. in Genealogie: Asburgo), salvo a ricorrere alle guerre solo per difendere i territori acquisiti.

Proprio l’imperatore Federico III aveva individuato la ventenne ricca ereditiera, Maria di Borgogna (1457-1482) e aveva avuto la bella idea di farla sposare (1477) al diciottenne. affascinante e squattrinato figlio Massimiliano, (1459-1519), destinato a cingere la corona imperiale del SRIG (**); la dote portata da Maria era costituita dalle ricche Fiandre (v. sotto).

Dal matrimonio di Massimiliano con Maria di Borgogna nascevano due figli Margherita e Filippo; mentre Maria dopo aver fatto il suo dovere di maternità, lasciava prematuramente il mondo dei vivi cadendo da cavallo durante una  galoppata.

I due bambini, come d’uso, furono oggetto di trattative matrimoniali incrociate con i figli dei reali di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona e mentre   Margherita era destinata all’Infante Giovanni (1496), erede della corona di Spagna, Filippo fu destinato a sposare (1497) la sorella di Giovanni, Giovanna.

Ma, udite, udite ciò che cosa avvenne: l’Infante Giovanni moriva “per strapazzi sessuali  l’anno seguente (1497) e per la giovane sposa Margherita la morte del marito non costituì un problena in quanto passava a nuove nozze con Alfonso del Portogallo; a causa della morte di Giovanni,  la carica di  Infanta” ricadeva sulla sorella Giovanna, destimata a diventare regina.

Infatti, alla morte della madre Isdabella (1504),  Giovanna ereditava i regni materni di Castiglia e Leon, che costituiva tutta la parte centrale della Spagna, (v. Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo Parte II e Geopolitica 1, Stati iberici 1492), oltre alle scoperte di qualche anno prima (1493) da parte di Cristoforo Colombo, il quale, finanziato dalla acuta e lungimirante Isabella (l’avaro Ferdinando non vi aveva partecipato!), per puro caso, invece di giungere al “Cipango”, senza neanche rendersene conto, si era trovato di fronte un altro continente a cui era stato dato  il nome iniziale di Indie Occidentali e poi di Americhe.

La Dea Fprtuna infine, aveva pensato di destinare alla unificazione tutto il patrimonio di Isabella con quello di Ferdinando d’Aragona,  unendoli in un non facile matrimonio.

 

 

 

*) All’imperatore Federico III  sarebbe infatti attribuito l’epigramma “Bella gerant alii, tu felix Austria, nube. Nam quae Mars aliis dat tibi regna Venus...Mentre   gli altri combattono, tu felice Austria, sposati; Venere, infatti ti dà i regni che Marte procura agli altri con le armi.”.

**) Massimiliano non si era recato a Roma, come tutti gli altri imperatori ma si era fatto coronare nella cattedrale di Trento (1508), dichiarando che con il consenso del papa Giulio II, assumeva il titolo di “imperatore eletto”.

 

 

 

 

IL MATRIMONIO DI

ISABELLA DI CASTIGLIA

E FERDINANDO

D’ARAGONA

 

 

 

S

eppur dopo varie vicissitudini, Isabella di Castiglia aveva sposato Ferdinando d’Aragona, lei di diciotto e lui di diciannove anni, legati da una bella storia d’amore e di regno, coronato dalla scoperta dell’America, che avrebbe rivoluzionato il futuro del mondo intero.

Per Isabella la strada per giungere al trono non era stata facile: lei era figlia di Giovanni II di Castiglia e della sua seconda moglie Isabella de Avis; dalla prima moglie Maria d’Aragona, Giovanni II aveva avuto due figli maschi che assicuravano la successione: Enrico, che sarà Enrico IV l’Impotente e Alfonso, secondogenito di riserva.

Morto Enrico, gli succedeva il fratello Alfonso, ma anche lui moriva a sedici anni di peste; la strada per Isabella non era ancora libera perché spuntava Giovanna la Beltraneja, nata dopo sei anni di matrimonio di Enrico IV (aveva ottenuto la separazione dalla prima moglie, Bianca di Navarra, che era stata trovata vergine), con la seconda moglie, Giovanna del Portogallo, nata dai rapporti avuti dalla regina con il favorito di suo marito (e pare, proprio su generoso suggerimento del marito impotente!) con Beltrand de la Cueva ... da ciò il sopranome di Beltraneja, designata regina di Castiglia; ma poi, finalmente, il regno fu assegnato a Isabella, mentre la madre, donna bella e seducente, usciva di senno e, probabilmente il suo gene di follia era stato trasmesso ad alcuni dei suoi discendenti!

Isabella, tra gli altri pretendenti, aveva scelto come suo sposo, Ferdinando, e i due monarchi avevano avuto cinque figli da mercanteggiare: Isabella (1470-1498), l’infante Giovanni (1478-1497), destinato a ereditare e riunire i regni dei genitori, di Castiglia-Leon e Aragona (con tutti i territori annessi all’uno e all’altro), Giovanna (1479-1555), Maria (1482-1517) e Caterina (1485-1536).

Era stata prevista una strategia matrimoniale che comportava alleanze fatte per bloccare il nemico francese, in base alla quale la primogenita Isabella sposava Alfonso, figlio di Giovanni II del Portogallo, il quale moriva cadendo da cavallo; il padre, privo di eredi (ne aveva uno naturale), faceva sposare Isabella col fratello minore della moglie Eleonora (1497), Manuel di Aviz detto il Fortunato (1469-1521), il quale alla sua morte saliva al trono del Portogallo come Manuel lI.

L’infante Giovanni, sposava Margherita di Borgogna, sorella di Filippo il Bello, mentre Giovanna sposava Filippo e avevano due figli maschi: il più volte baciato dalla fortuna Carlo e Ferdinando.

I varii matrimoni erano stati seguiti da una serie di mortalità, che dovevano ingrandire le eredità del primogenito Carlo di Gand; infatti, Giovanni, che aveva superato l’infanzia, la fase di maggior pericolo a causa della mortalità infantile che a quei tempi mieteva gran quantità di vittime, sembrava essere uscito fuori pericolo per aver raggiunto i diciannove anni; ma moriva a causa - era stato detto - di eccessi sessuali; egli lasciava la moglie Margherita, vedova di ventisei anni, che pare fosse  anche lei di buon appetito sessuale, come, in genere, gli Asburgo;  le speranze sui futuri regnanti, erano quindi rivolte nei confronti di Isabella e Manuel, che avevano preso il titolo di principi delle Asturie (vale a dire eredi dei regni spagnoli).

Tutto sembrava procedere per il meglio, quando Isabella moriva (1498),  lasciando un figlio, Miguel, il quale a sua volta moriva al suo secondo anno di vita;  Manuel si consolava sposando la sorella più giovane di Isabella, Maria, ma questa fu anch’essa colta dalla morte a trentacinque anni (1517), e Manuel sposava Eleonora, nipote delle due mogli e prima figlia di Giovanna e Filippo il Bello.

L’altra figlia di Isabella e Ferdinando, Caterina, era mandata in Inghilterra per sposare Arthur principe di Galles, incoronato come Enrico VII, morto senza aver consumato il matrimonio (v. in Art. “L’Inghilterra dei Tudors”.).

Caterina quindi fu sposata dal fratello, il terribile Enrico VIII (v. cit.Art.), che, facile agli innamoramenti, aveva instaurato un grosso processo per ottenere l’annullamento  del matrimonio con Caterina che il papa non volle concedere perché vi era di mezzo proprio Carlo V, nipote di Caterina, ed Enrico aveva fatto ricorso alla scissione dalla Chiesa di Roma, creando la Chiesa anglicana;  Caterina, dopo il divorzio rimaneva in Inghilterra e moriva in terra straniera all’età di cinquantuno anni.

Erano infine, saltati gli accordi matrimoniali successivamente intercorsi, con il trattato di Blois (1504), tra Ferdinando d’Aragona e Luigi XII di Francia, che non andavano nel senso voluto dai rispettivi genitori, tra i quali era stato  concordato il matrimonio di  Carlo di Gand (di quattro anni) con la piccola Claudia, prima delle figlie di Luigi XII, di cinque anni, piccola anche di statura (e deforme), che sposerà il gigante Francesco I di Valois (v. in Art. Diana di Poitiers ecc.); anche il matrimonio con la seconda figlia, Renée, successivamente destinata pure a Carlo, non  ebbe luogo!

L’anno successivo alla morte di Isabella (1504), il cinquantaduenne Ferdinando si consolava con un matrimonio strepitoso,  sposando la quindicenne Germaine de Foix, nipote del celebre Gastone de Foix.

Germaine (1490-1536) aveva il  fisico rotondetto  (che non appare dai ritratti) e col tempo andò fuori misura in quanto amante di pranzi, feste e sesso, rendendo così felice Ferdinando negli ultimi dieci anni che gli rimanevano da vivere (1516), che il monarca, spensieratamente e con l’aiuto di intrugli vivificatori della sua sessualià in declino, divise con lei.   

 

 

 

Carlo di Gand

 

 

 

 

IL MATRIMONIO DI

GIOVANNA  DI CASTIGLIA

CON FILIPPO IL BELLO

E LE EREDITA’ DI CARLO

 

 

 

                  

 

 

G

iovanna era la meno considerata delle sorelle e diciassettenne fu mandata nelle Fiandre per  sposare il diciottenne Filippo d’Asburgo detto il Bello, seppur, secondo i canoni dell’epoca, proprio bello non era in quanto aveva la mascella prognata e il labbro inferiore pendulo, difetto trasmesso (in maniera più accentuata, al figlio Carlo, che, poi limitato al labbro inferiore carnoso, si trasmetterà alle generazioni successive degli Asburgo, fino ai giorni nostri *) .

Il matrimonio, non molto felice per la povera Giovanna, destinata a subire i tradimenti e le angherìe fisiche e morali dello scapestrato Filippo, che, prima del matrimonio già viveva la sua vita libera che conduceva nelle Fiandre, tra feste, caccia e amori passeggeri, ai quali aveva aggiunto, quando andrà in Spagna, il gioco della pelota che, come vedremo,  lo porterà alla tomba.

I due si piacquero subito e Giovanna, con la straordinaria carica erotica  che l’aveva infiammata, si era data a Filippo già prima (1497) della celebrazione ufficiale del matrimonio (avevano chiamato un prete per una benedizione matrimoniale provvisoria).

Caso raro per i matrimoni combinati, Giovanna si era perdutamente innamorata di Filippo, fino al punto da determinare la propria rovina; i loro caratteri erano completamente diversi; la bella vita che piaceva fare a Filippo, lo portava a trascurare Giovanna che voleva invece averlo tutto per sé e per di più, la gelosia di cui soffriva, la condurrà alla rovina.

Questa attrazione, che durerà per tutti i dieci anni passati insieme, sarà fatale per Giovanna, mentre Filippo continuava a distrarsi con altre donne;  queste infedeltà non erano accettate da Giovanna, anche a causa dei maltrattamenti fisici che Filippo le infliggeva, fino a giungere alla segregazione.  

Si era verificato che Giovanna, presa dai morsi della gelosia, un giorno, aveva avuto una reazione isterica con una delle amanti di Filippo e aveva agito senza controllo e in maniera sconveniente per una regina; costei aveva dei bei capelli biondi e Giovanna, in pubblico, con le forbici, glieli aveva tagliati!

Il fatto poteva anche essere dimenticato, ma era in ballo il regno di Castiglia che l’ ambizioso Filippo voleva per sé, senza le interferenze della moglie.

Quell’avvenimento aveva segnato l’inizio del calvario, con la follia (che serpeggiava già da tempo nella casa di Castiglia), e in Giovanna si accentuerà dopo la morte dell’amato marito e durerà per tutti i quarant’anni della sua lunga esistenza. portandone per sempre il marchio, col nome di “Juana la Loca - Giovanna la Pazza”.

Filippo, padrone della ricca Borgogna, limitata ad essere solo un feudo, mirava a diventare re di Castiglia, mentre Giovanna, a causa del suo innamoramento per il marito, aveva finito per esasperare la sua iniziale malinconia che le suscitava  accessi d’ira, senza poter avere alcun conforto da parte dell’ambiguo e avido padre Ferdinando, smanioso di avere anch’egli per sè, il regno di Castiglia.

Ma il Fato aveva pensato a mettere ordine al suo rapporto matrimoniale: Filippo (dal gennaio del 1506), si trovava in Spagna quando, nel mese di settembre fu colto da morte improvvisa. Questa morte, nel fiore della  giovinezza a venticinque anni, aveva fatto pensare (come succedeva sempre nel caso di morti improvvise), che  fosse stato avvelenato e il maggior sospetto era ricaduto proprio su Giovanna; ma si era verificato che Filippo, dopo una partita di pelota, sudato, aveva ordinato da bere acqua gelata ed era stato fulminato da una  polmonite.

Avendo il marito laciato questo mondo, seppur libera, Giovanna dovette combattere con l’ambizioso padre Ferdinando che, come abbiamo detto, voleva avere per sé la Castiglia, e, invece di mostrarsi amorevole con la figlia, la teneva lontana dal governo del regno al quale lei aveva diritto. fino a costringerla a vivere nella segregazione.

In questo contesto, il piccolo Carlo di Gand, fisicamente malformato, era l’unico desinatario di tutto quel ben di dio di regni che stavano per cadergli addosso, vale a dire: la Borgogna della nonna paterna, passata al nonno Massimiliano e quindi al padre Filippo; tutti i reami della nonna Isabella, ereditati dalla madre, ai quali si sarebbero aggiunti quelli del nonno, Alfonso d’Aragona.

Per colmo di fortuna Carlo, si era trovato a nascere all’inizio  di un secolo (24 Febbr. 1500), tra i più belli di quelli che l’avevano preceduto e seguito, il più grande, meraviglioso e splendido dei secoli possibili, il secolo del Rinascimento (v. la P. I Sez, II e la Cronologia del “1500”) che gli era scivolato addosso; e proprio lui, legato al superato medioevo, si trovava a rappresentare questo nuovo periodo storico non avendo nulla a che vedere con i monarchi illuminati che avevano dato impulso alle epoche felici in cui erano vissuti, di sviluppo della legislazione, di promozione delle arti, di scoperte geografiche, legando i loro nomi a un intero secolo, come aveva ricordato Voltaire per i secoli di Pericle, di Augusto o di Luigi XIV.

Con l’ulteriore fortuna di essere indicato come il sovrano dell’inizio dell’età moderna (**):  senza che egli avesse avuto il merito di partecipare al suo splendore (salvo quello strettamente personale di cui si circondava), non essendo stato, come altri monarchi, un mecenate, intento com’era a far guerre per soddisfare la  propria avidità di territori (non a caso Giacinto Ronano nella “Cronaca del soggiorno di Carlo V in Italia”, lo indica come “beniamino della fortuna, la cui grandezza fu tutta d’occasione”).   

Né devono ingannare i suoi numerosi ritratti, unica passione che lo legava all’arte, per i quali ricorreva, tra gli altri, al mal pagato Tiziano, con la storiella agiografica inventata, del pennello che gli era caduto mentre dipingeva, e che l’imperatore si sarebbe degnato di raccogliere, facendo così un omaggio all’artista, il quale invece gli doveva sollecitare i pagamenti, lasciando che grandi personaggi come Cornelio  Agrippa di Nettesheim (1535), Juan Luis Vives ( a Bruges 1540), che aveva servito a Londra anche la zia Caterina, ed Erasmo da Rotterdam (1536,), (v. cit.Cronologia del “500”), morissero in miseria!

 

 

 

*) In un documentario trasmesso da Focus su “Massimiliano imperatore del Messico” era stato intervistato un Asburgo-Lorena di ultima generazione, bello come un dio, il cui viso era lo stampo degli Asburgo e sembrava di vedere Francesco Giuseppe (senza barba), con gli occhi azzurri che brillavano come diamanti e il bel labbro inferiore più grosso del superiore ... da sembrare, per la verità, non un difetto, ma un vezzo sensuale!

**) L’ETA’ MODERNA è caratterizzata dall’inizio dello sviluppo scientifico da una parte, accompagnata da un’ondata senza precedenti di intolleranza religiosa (ciò che attualmente si sta verificando nei paesi islamici e in particolare in Iran dove le donne stanno chiedendo libertà dalle imposizioni religiose e il regime sta facendo strage di queste giovani vite,  barbaramente torturate e trucidate), persecuzioni e terrore  contro minoranze etniche e contro gli strati inferiori della popolazione ritenuti depositari dei peggiori vizi e pericolo permanente per l’ordine e la stabilità sociale, minati dalle continue rivolte, determinate in ogni caso, da un fattore costante della miseria, la fame.

Mezzi di repressione, furono attuati con stragi, censura della stampa, persecuzioni e processi agli eretici ai quali si aggiunsero quelli nei confronti della stregoneria (come abbiamo visto nei diversi articoli ad essa dedicati).

E’ in questo periodo che si sviluppa, anche in modo massiccio, l’uso della tortura, già parzialmente utilizzata nel medioevo e la “demonologia”.

L’esistenza del Diavolo, che aveva avuto le sue elaborazioni nel medioevo, viene confermata (Malleus maleficarum e Bolla di Innocenzo VIII) e sviluppata nei processi per stregoneria, nei quali,  gli inquisitori estorcevano i rituali standardizzati e creati dalle loro menti malate, i rituali  dei convegni notturni col diavolo, degli accoppiamenti sessuali, dei malefici e di tutto il complesso di riti demoniaci che attestavano non solo l’esistenza del Diavolo nel mondo, ma i suoi tentativi di conquistarlo e sottomettere l’umanità al servizio della religione imperante: tenendo presente che la religione ha bisogno del Diavolo in quanto, senza Diavolo essa non avrebbe ragione di esistere. 

 

 

 

IL DUCATO DI BORGOGNA

E LE ASPIRAZIONI DI

FILIPPO IL BELLO

 

 

 

L

e Fiandre facevano parte del ducato di Borgogna la cui estensione copriva mezza Francia; verso la metà del 1400, a seguito di intrecci matrimoniali e successioni, il ducato, con Filippo il Buono (1419-1467), si era trovato ingrandito con le Fiandre, il Limburgo e il Lussemburgo (escludendo Liegi e la Frisia), la Franca Contea e l’Artois.

Le Fiandre costituivano la regione più ricca di tutta l’Europa e la corte di  Borgogna era famosa per il gusto, la raffinatezza, l’eleganza di vita e i costumi che erano liberi; i tornei, presso quella corte, erano l’occasione, non solo di sfoggio di destrezza dei cavalieri, ma di tutto lo sfarzo che era dato concepire.

L’ultima esponente della dinastia dei duchi di Borgogna era Maria (1457-1482), figlia di Carlo il Temerario, che alla morte del padre, Filippo il Buono (1467), aveva ereditato tutto quel ben di dio,  finito nella mani di Filippo d’Asburgo.

Il contratto di matrimonio di Maria prevedeva che, nel caso di morte di uno dei coniugi, sarebbe stato considerato erede solo il figlio (nascituro), con esclusione dall’eredità del coniuge superstite (ciò per non dare a Massimiliano, dilapidatore di danaro, la possibilità di prendere le redini dell’amministrazione del ducato, che avrebbe riempito di debiti!).

Maria però, nel successivo mese di settembre (il matrimonio era avvenuto a Gand nel mese d’agosto e la decisione rimane incomprensibile), aveva spontaneamente cambiato gli accordi matrimoniali, nominando erede Massimiliano, nel caso lei fosse morta senza figli!

Massimiliano era ambizioso, di carattere bizzarro, sognatore e di una prodigalità senza limiti, tale da essersi indebitato, dando fondo anche alle casse della moglie.

Pur vivendo nell’irrealtà dei suoi sogni, Massimiliano aveva realizzato i presupposti della fanteria:- Aveva infatti organizzato l’esercito, impostato sul modello dell’esercito svizzero, creaando il corpo dei lanzichenecchi (come vedremo più avanti), ponendo le basi, di quello che  in seguito, negli eserciti, costituirà la fanteria.  

Alla sua morte si aprì una controversia sulla successione del ducato, rivendicata dal re di Francia, Luigi XI, definita con il trattato di Arras (1482) con cui si stabiliva che la contea delle Fiandre (con le note città di Bruxelles, Gand, Bruges ed altre), con l’Artois e la Franca Contea, rimanevano agli Asburgo, mentre il ducato di Borgogna, portato in dote da Maria, andava considerato come feudo (v. Art. Feudalità ecc.) spettante alla Francia, con la conseguenza che Filippo, raggiungendo la maggiore età (vent’anni) anche se avesse avuto il titolo di re, avrebbe dovuto rendere omaggio, come vassallo, al re francese.

Con il trattato si combinava il matrimonio tra il delfino Carlo (futuro Carlo VIII: 1470-1498) di dodici anni e Margherita (che sposerà Giovanni di Castiglia v. sopra), che fu subito mandata (all’età di due anni) presso la corte francese, con la sua dote costituita dall’Artois, ducato di Borgogna e Franca Contea.

Caratteristica della nobiltà e delle case regnanti era l’avidità di territori; all’epoca (e non solo) l’attaccamento al feudo era tale che per i loro titolari valeva il principio, seppur non codificato, in base al quale, se il feudo o i feudi fossero stati privati di una parte di territorio, si doveva correre ai ripari, reintegrando nei modi più disparati, l’avvenuta perdita! 

Massimiliano, con il matrimonio della figlia Margherita, essendo stato privato di alcuni territori, aveva subito messo gli occhi sul ducato di Bretagna, nelle mani della ereditiera Anna di Bretagna, che sposava per procura (1490).

Carlo VIII però, come un falco, con una decisione insolita, l’anno successivo, ripudiava la piccola fidanzata Margherita e andava a sposare Anna di Bretagna, mettendo Massimiliano di fronte al fatto compiuto, in barba al suo  matrimonio per procura; non solo, ma non restituva né Margherita, né la sua dote, trattenendo, ad ogni buon conto, Margherita come ostaggio!

Poiché un oltraggio del genere (quantomeno per i territori non restituiti), valeva bene una guerra, Massimiliano si alleò subito con Enrico VII d’Inghilterra e con Ferdinando d’Aragona re di Spagna, per far guerra a Carlo VIII.

Dopo che Massimiliano aveva invaso la Franca Contea, si addivenne alla pace di Senlis  (1493) che prevedeva la restituzione di Margherita con la dote dell’Artois e della Franca Contea, mentre il ducato di Borgogna rimaneva feudo legato alla Francia, con il riconoscimento della sovranità e giurisdizione francese sui feudi francesi di Massimiliano.

L’alleanza con la Spagna, inutile dirlo, fu per Massimiliano l’occasione di combinare il duplice matrimonio tra il figlio Filippo, con una qualsiasi delle principesse spagnole, delle quali fu mandata, come abbiamo visto, Giovanna. mentre la ripudiata Margherita sposava l’infante don Giovanni.

Tutto questo intrigo di matrimoni continuò alla morte di Carlo VIII, con Luigi XII che aveva divorziato dalla moglie, figlia di Luigi XI, per sposare Anna di Bretagna, rimasta  vedova di Carlo VIII.

Con la morte di Filippo il Bello (da non confonderlo con l’altro Filippo il Bello, re di Francia, che lo aveva preceduto), Carlo eredita il ducato di Borgogna (tornato nel 1477 sotto la sovranità francese),  i Paesi Bassi, il Lussemburgo e la Franca Contea.

Con la morte di Filippo, la reggenza la assumeva l’avido padre di Giovanna, Ferdinando: - Da tener presente che, quessta storia della pazzia di Giovanna, almeno  all’inizio, era da ritenere una giustificazione di cui se ne era giovato Filippo ed ora Ferdinando, per tenerla relegata e non darle la possibilità di governare, in quanto il regno di Castiglia era enorme essednovi annesse le Antille e tutti i diritti derivanti dal trattato di Tordesillas (1494) che attribuiva alla Spagna tutte le terre situate a Occidente della linea – raya – posta a 370 leghe a ovest delle isole del Capo Verde.

Nato a Gand, Carlo aveva passato la fanciullezza a Malines con la sorella Eleonora, e successivamente era stato portato a Bruxelles dove aveva seguito gli studi umanistici con ottimi maestri spagnoli, come Juan de la Vera e Luis Vaca o fiamminghi come Adriano di Utrecht (futuro papa Adriano VI), il precettore che gli aveva inculcato  sentimenti religiosi di stretta osservanza;  ma l’allievo non aveva mostrato grandi disposizioni per lo studio. Carlo inoltre, non aveva scioltezza di linguaggio (l’accentuato prognatismo gli impediva di parlare normalmnnte) e non aveva neanche dimestichezza con le lingue, a parte il fiammingo, poco francese e quando si trasferirà in Spagna, uno spagnolo elementare. 

Durante la sua minore età le decisioni facevano capo a un “Consiglio Privato” relativamente al quale si fronteggiavano due indirizzi: uno faceva capo a Guillaume de Croy signore di Chievres, luogotenente di Filippo, che rappresentava la continuità francofila e l’altro a Margherita d’Austria, sorella di Filippo, che seguiva, come abbiamo detto, la linea borgognona, mirante al recupero dei territori ceduti alla Francia.  

Carlo aveva ricevuto una educazione fiamminga, inprontata cioé agli interessi nazionali fiamminghi, affidato (1509) com’era alle cure di Chievres, al quale era stato aggiunto Jean Le Savage,  i quali avevano privilegiato le ragioni nazionali fiamminghe e filo-francesi.

Quando Carlo raggiunse i quindici anni l’onnipotente Chievres lo fece emancipare perché si riteneva che Carlo dovesse ereditare il regno d’Austria e, nello stesso tempo,   rimanere nei Paesi Bassi, fuori dalle liti degli Stati europei.

Ma la Dea Fortuna aveva deciso diversamente in quanto l’anno seguente (1516) moriva il nonno Ferdinando d’Aragona, il quale – come aveva voluto la dea Fortuna -  aveva pensato di assegnare la sua eredità a Carlo, anziché al fratello Ferdinando che era vissuto ed era stato educato proprio alla sua corte, e il sedicenne Carlo, ereditava  l’Aragona, la Catalogna e Valenzia, la Sardegna e le corone di Napoli e Sicilia e con la Castiglia e Leon (di cui era titolare la madre Giovanna), sarebbe stata  unificata l’intera Spagna.

Il fratello Ferdinando, di carattere più aperto e molto più vicino agli spagnoli con i quali era cresciuto,  sarebbe stato accettato più volentieri come loro re (mentre in Germania era detestato proprio perché considerato spagnolo).

Egli avrebbe potuto essere un antagonista e creare a Carlo delle difficoltà, per cui alla morte di Massimiliano (1519) si era deciso di mandarlo nelle Fiandre e successivamente era nominato reggente del ducato d’Austria e dei ducati germanici di Carinzia, Carniola, Stiria e Tirolo e quando Carlo decise di abdicare lo rese titolare di questi territori; mentre al figlio Filippo II lasciava il regno di Spagna con i nuovi territori ad esso collegati ai quali Filippo aggiungerà le nuove scoperte del Pacifico che prenderanno il nome di Filippine.

La fortuna che continuava a baciare Carlo e nel 1516, con il regno di Spagna, gli pioveva addosso una cascata di 31mila ducati d’oro (come reddito spagnolo) e nel 1518 ben 120 mila ducati, ma nel 1521 a causa delle fluttuazioni si ebbe un crollo e i profitti scesero a seimila ducati; ma tutta questa ricchezza non poteva bastare se per la sua elezione a imperatore doveva versare, per convincere i  principi elettori a votare per lui, 850 mila ducati d’oro.

Nel 1509 Chievres era stato nominato primo ciambellano di Carlo, con il successivo intervento  (1515) di Jean de Sauvage (seguace della linea fiamminga) che si era dedicato alla emncipazione del principe, mentre Erasmo da Rotterdam era stato invitato a dire la sua e compose l’ “Institutio principis christiani” e con la “Querela pacis” si prestò a sostenere la politica fiamminga.

Quando Carlo fu riconosciuto (1518) re di Spagna, Mercurino Arborio Gattinara fu  nominato “Gran Cancelliere di tutte le terre e i regni del re” e, come vedremo, fu Gattinara a predisporre la mente di Carlo alla idea imperiale, sia come manifestazione della potenza politica, sia come missione religiosa e a condurre tutti i maneggi per fare ottenere al suo pupillo la corona imperiale.   

Nel 1517, Carlo si imbarcava per la Spagna, con un seguito di quaranta navi e un nutrito gruppo di borgognoni, famelici di cariche, onori e denaro, per assumere quel regno.

 

Bernard van Orley Il Giovane.
Carlo vestito alla borgognona
Galleria Borghese - Roma

 

 

 

 

CARLO RE

DI SPAGNA  

ELETTO IMPERATORE

DEL S.R.I.G.

 

 

 

 

 

 

 

C

arlo non aveva un bell’aspetto, con lo sguardo glaciale, chiuso e taciturno, incapace di parlare lo spagnolo, non aveva fatto agli spagnoli buona impressione; nei primi tempi non aveva suscitato molte simpatie a causa della vita dispendiosa che conduceva assieme ai borgognoni, considerati dagli spagnoli, stranieri, abituati a passare le giornate  tra  pranzi, feste e tornei.

Carlo, infatti, educato alla corte borgognona, celebre per il gusto e la raffinatezza, dove si viveva in un lusso senza limiti che l’imperatore, per il resto della sua vita, non si farà mai mancare.

Ciò che aveva maggiormente colpito gli spagnoli, era stato che le diverse cariche del regno, erano assegnate ai fiamminghi ad ecezione di quelle ecclesiastiche, delle quali ai fiamminghi ne erano state affidate solo tre di cui la più importante, il vescovato  di Toledo, era stata assegnata al nipote di Chievres e aveva suscitato invidia,  come l’aveva suacitata la circostanza che gli spagnoli che erano stati presso la corte dei Paesi Bassi, erano preferiti a quelli locali.

Al momento del suo arrivo Carlo aveva chiesto ducati sonanti; era questa una componente dei suoi arrivi e partenze; sempre a corto di danaro, quando doveva partire, si doveva in tutta fretta raccogliere danaro che gli serviva per coprire le spese di viaggio; ciò, alle volte, creava situazioni quasi comiche, come si verificherà,   quando doveva essere incoronato in Italia (1530), aveva dovuto accelerare i tempi del matrimonio con Isabella del Portogallo, per entrare in possesso della dote da cui avrebbe attinto le spese del viaggio.

Le “Cortes” di Valladolid (inizi del 1518) presentarono a loro volta una serie di richieste, subordinate all’omaggio che sarebbe stato reso al re, con la concessione di un tributo di seicentomila ducati, da corrispondersi in tre anni.

Carlo fu così riconosciuto re di Castiglia e Leon; la stessa cosa avvenne con le “cortes” di Saragozza e Barcellona, che versarono una prima rata di duecentomila e una seconda rata di centomila ducati.

A Chievres (1518) , era subentrato l’umanista Mercurino Arborio di Gattinara, il quale proveniva dalla corte della zia Margherita e si era attivato perché la corona imperiale andasse a Carlo; non solo, ma Gattinara aveva inculcato nel giovane re le idee dell’altissimo valore della dignità imperiale, che lo avrebbero posto al di sopra di tutti i monarchi della terra; l’orgoglio, la superbia e l’altezzosità degli “hidalgos” spagnoli avevano fatto il resto.

E, sempre Mercurino Gattinara, gli aveva suggerito di cambiare il suo più modesto motto,  Nondum” (Non ancora), con il più ambizioso “Plus oultra” - più oltre - (che si intravede nello stemma  con l’aquila bicipite che guarda ad est ed ovest, sorretta dalle colonne d’Ercole, superate con i nuovi territori delle Indie occidentali)

Nello stesso anno si incominciò a parlare della candidatura di Carlo alla nomina di imperatore; posta la candidatura, gli spagnoli si mostrarono contrari perché ritenevano che quella carica lo allontanasse dal loro paese.

La zia Margherita, dal suo canto, aveva avanzato la candidatura del fratello Ferdinando, ma Carlo, la cui ambizione era stata ben corroborata dal Gattinara, andò su tutte le furie, promettendo che si sarebbe adoperato per far avere al fratello la nomina a re dei Romani, che costituiva una sorta di designazione ereditaria per la futura nomina a imperatore.

Prima di partire per l’incoronazione, Carlo aveva chiesto ancora danaro (servicio) alle “cortes”. Queste avevano posto tre condizioni: Che il re non lasciasse la Spagna   (quindi dopo il viaggio doveva tornare in Spagna); che non esportasse oro e argento; che non affidasse cariche ufficiali a stranieri.

Carlo convocava ancora una volta le “cortes” a La Coruña, porto della Galizia, da dove si sarebbe imbarcato per i Paesi Bassi, nominando il vescovo spagnolo Mora a rappresentarlo.                                                                                                                                                                                                  

Il vescovo tenne un discorso molto diplomatico, atto a suscitare l’orgoglio degli spagnoli, sostenendo che la nomina del re a imperatore sarebbe stato un grande onore per la Spagna.Poiché”, sosteneva il vescovo, “a quest’alta carica, erano stati chiamati solo re Franchi e Tedeschi, ora per la prima volta vi era la possibilità per il loro re, di occupare il trono che era stato di Carlo Magno. Inoltre, la Spagna aveva fatto parte dell’impero romano, al quale aveva dato tre imperatori, Traiano, Adriano e Teodosio. Per gli spagnoli quindi si presentava ancora un’occasione per avere un altro imperatore”.

Questo discorso colse nel segno, e le cortes assegnarono la somma di quattrocentomila ducati e Carlo poté finalmente imbarcarsi.

Gattinara aveva preparato il suo allievo anche sul comportamento che avrebbe dovuto tenere con i principi elettori: vale a dire che egli  era superiore ai principi e la carica lo metteva al di sopra di tutti gli altri monarchi. 

La scarsezza delle conoscenze linguistiche non gli agevolavano il compito di trattare con i tedeschi dell’ impero germanico o con gli italiani del ducato di Milano e del regno di Napoli, ma gli serviva per mantenere un freddo distacco, consapevole della sua imperiale superiorità.

Il risultato fu che Carlo già freddo e taciturno per natura e non avendo neanche facoltà di eloquio, farfugliava in borgognone senza parlare né capire il tedesco; con quei principi aveva fatto pesare la sua alterigia, mantenendo le distanze con tutti e facendo valere tutto il senso della sua superiorità: insomma, era stato semplicemente scostante!  

L’elezione (28.6.1919) costituì per Gattinara il premio per tutto il suo interessamento. 

La nomina imperiale però era stata ottenuta con la corruzione, versando ai principi elettori un’ingente quantità di oro (ottocentocinquantamila fiorini d’oro, pari a otto quintali e mezzo di oro puro!), che, non avendola disponibile, Carlo l’aveva ottenuta in prestito in buona parte dai Fugger: Jakob Fugger ne aveva anticipati 500mila; 143mila i Welser; il resto dai Gualterotti di Firenze, Fornari e Vivaldi di Genova (tutti ebbero fruttuose aperture ai mercati di Germania, Spagna, Italia e Americhe), garantiti dalle entrate degli ordini cavallereschi e della Spagna (nel 1552 i Fugger gli fecero l’ultimo prestito di 400mila ducati, per poi farsi sotituire dai genovesi);  questo  debito peserà, come vedremo, sia sul resto della sua vita, sia su quello del figlio Filippo II (ma anche sui Fugger, che alla fine dichiareranno bancarotta!).

Ai Fugger si era rivolto anche il suo concorrente Francesco I di Francia, ma essi  valutando la situazione, avevano ritenuto che se la corona imperiale fosse stata data al re di Francia, ciò avrebbe costituito un pericolo per la Germania, per cui preferirono concedere il prestito a Carlo, che otterrà l’unanimità dei voti (e Jacob Fugger non mancava di ricordargli che era stato eletto imperatore con il suo appoggio: “Vostra maestà imperiale non avrebbe potuto ottenere la corona senza il mio aiuto”).

Gli elettori erano:  Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Mayence; conte  Herman di Wied, arcivescovo di Colonia; Richard de Greiffenklau, arcivescovo di Treves; Louis de Bohèm; Louis conte palatino del Reno; Fréderic duca di Sassonia e Gioacchino I, marchese di Brandeburgo.

L’oro era stato versato una parte in via ufficiale, una parte in nero (era l’inizio della  corruzione che  contrassegnerà il regno spagnolo e l’impero, assorbita dall’Italia che ne faceva tesoro anche per i tempi successivi e praticata ancora nei tempi attuali, facendo rientare l’Italia tra i Paesi ad alta vocazione di criminalità, ndr.).

Tra gli elettori, solo Federico di Sassonia, detto il Saggio, era stato l’unico a non prendere la tangente, in quanto riteneva che la carica dovesse andare a un tedesco (e si pensò che vi aspirasse lui!), ma era l’unico  a poter presentare la candidatura che gli era stata offerta, ma l’aveva rifiutata.

Tra i più avidi, che ebbero le somme maggiori, furono  l’arcivescovo di Magonza e l’elettore del Palatinato; la minor somma la ricevette Federico di Sassonia con 30mila fiorini, che però costituiva rimborso per un prestito fatto a Massimiliano.

Mentre, Gioacchino di Brandeburgo rimase fino all’ultimo sostenitore di Francesco I,  il quale gli aveva promesso il vicariato dell’impero, e non ebbe niente, ma dichiarò facendolo verbalizzare da un notaio “che votava sotto pressione della paura e non certo per scienza”, ciò che suscitò  la reazione di Federico di Sassonia, l’unico  Elettore che aveva presentato la propria candidatura. Dopo che Carlo si era impegnato a mantenere tutti i loro privilegi e promesso che non li avrebbe violati in nessuna circostanza,  ebbe l’unanimità dei voti.

Carlo governava tutti i suoi Stati, correndo dall’uno all’altro, senza sosta: Spagna, Italia, Francia, Germania, recandosi alle assemblee e alle battaglie con le quali aveva domato i castigliani (Vilabar) i ribelli fiamminghi (Gand), i francesi in Italia, i tedeschi sul Danubio e all’Elba.

Deleteria era stata per il regno di Napoli l’assenza, anzi l’inesistenza del monarca. Mentre gli altri re, quando si allontanavano lasciavano i loro vicari che normalmente erano anche consanguinei e l’allontanamento, comunque, era di breve durata in quanto ritornavano presto per riprendere il governo nelle loro mani,  la lontananza spagnola era stata invece perpetua.

E così il regno di Napoli e di Sicilia da sedi di re era divenuto sede di due vicereami separati e distinti, amministrato con la corruzione e ognuno di essi. di fatto, impediva che ai due regni separati venisse data un’impronta unitaria e l’istituzione dei vicerè era stata una jattura per il presente e per il futuro  del Meridione d’Italia, dove. come si è visto nelle più recenti elezioni, si vota in massa per l’assistenzialismo di Stato!

Le Fiandre invece erano state affidate prima alla zia  Margherita, e dopo la sua morte, alla sorella Maria vedova del re di Boemia e d’Ungheria.

Tutta questa super attività lo fece incanutire anzitempo, poi la malinconia, ereditata dalla madre era divenuta depressione e aveva preso il sopravvento, rendeendolo lento e cupo (nel 1551 aveva scritto al fratello Ferfinando dicendogli: Mi ritrovo smunto di forze ed esautorato)  e si rinchudeva in un appartamento lugubre, illuminato da torce  (come faceva la madre Giovanna);  alla fine decise di abdicare ritirandosi nel monastero di Yuste, dove aveva fatto costruire un palazzo collegato con la chiesa e il convento dei frati.

L’abdicazione aveva sorpreso gli storici, ma un lume di lucidità dovrebbe avergli rivelato quanto disastrose fossero le condizioni in cui si trovava l’impero che aveva sognato e creato (*).

Disgustato del mondo e convocati i Paesi Bassi spiegò ai sudditi i motivi della sua rinunzia (0ttobre 1555) per cercare, nella tranquillità del ritiro, quella felicità per la quale, invano aveva sudato, fra i tumulti della guerre e i disegni di una irrequieta ambizione. Disse a Filippo che gli faceva piangere il carico che gli assegnava; gli raccomandò  il grande e unico dovere di un principe, di cercare la felicità dei sudditi; gli fece presente quanto fosse preferibile reggere, facendosi amare, anziché temere dalle nazioni soggette al suo impero. Disse che la fredda riflessione dell’età matura gli mostrava la vanità delle mire di prima; avvedersi come il vano disegno di ampliare i suoi domini fosse stato causa di interminabili opposizioni e sconcerti, giacchè aveva tenuto lui i vicini e i sudditi in poerpetua inquietudine; e reso frustraneo  l’unico scopo di un buon governo, la felicità, cioé delle nazioni affidate alle sue cure, scopo più del primo, facile a conseguirsi e che può solo, qualora lo si abbia sinceramente di mira, recare durevole e solida soddisfazione (D. Hume, Storia Inghilterra,1835): ma furono parole dette al vento perché Filippo col suo popolo, rimase scostante, freddo e crudele.

Singolare era stata la circostanza, accertata presso i monaci di quel monastero, di aver  voluto assistere alle  proprie esequie funerbri, passando una notte nella cassa morturaria che si era fatto preparare, posta nella chiesa su un catafalco, circondata da ceri accesi, con i frati che cantavano le preghiere dei defunti; il giorno seguente (21 settembre) non giungeva al termine, in quanto Carlo serenamente spirava (M. Minet, Charles Quint son abdication et sa morte au monastère de Yuste, Paris, 1863): se la storia è vera, bisogna riconosacergli un ultimo sprazzo di ironico gusto per il macabro!

Come appare nella riproduzione di Tiziano, Carlo era invecchiato anzitempo; era gracile, di media statura e di salute delicata (affetto da rachitismo, scoperto  in tempi recenti, in occasione della apertura della sua tomba), pieno di acciacchi, soffriva di raffreddore, di gotta (dall’ età di trent’anni) e di asma, mentre gli fanno grazia i numerosi ritratti da giovane e da vecchio; portava infatti sul viso i segni del decadimento fisico, con denti piccoli e marci e una mascella con il labbro inferiore che gli pendeva (era il prognatismo col labbro pendente degli Asburgo) e gli lasciava la bocca semiaperta che non gli consentiva di  esprimersi, se non farfugliando. Era sempre stato di appetito vorace, ma aveva perso il senso del gusto e si faceva preparare una strana bevanda di mosto di uva fermentato con foglie di sena (che erano lassative!).

L’unica cosa viva in quel viso spento erano gli occhi vivi e penetranti e messo a cavallo diventava un’altra persona; contrastava con il fisico atletico di Francesco I che malgrado la sifilide che distribuiva generosamente tra le donne che gli si concdevano, era considerato affascinante e sebbene avesse un viso faunesco, era aitante e maestoso e in mezzo a una folla, si sarebbe subito detto che il re era lui; franco e delicato come nessuna altro cavaliere al mondo, col viso lungo e pieno e l’aspetto avvenennte; mentre Carlo rappresentava il medioevo, Francesco rappresentava il Rinascimento che si stava sviluppando in quell’epoca.

Pur non avendo un fisico resistente Carlo era dotato di forza di volontà e frequentava i tornei, andava a caccia, passando molte ore a cavallo; affrontava anche lunghe marce come si era verificato quando (1546), per la guerra di Smalcalda si era  sottoposto a una marcia di nove giorni per  recarsi a Innsbruck, stando a cavallo per oltre venti ore, e, pur avendo un attacco di gotta alla gamba che gli doleva, si era fatto legare alla sella per resistere. 

 

 

                                       

E L’IMPERO SOVIETICO ?

 

*) Le disastrose condizioni dell’impero di Carlo V, le abbiamo viste ripetersi in tempi più recenti, con il c.d. “impero sovietico” che aveva destinato all’asservimento tutti i Paesi inglobati da Stalin, liberati dopo un cinquantennio di regime, dalla dissoluzione avvenuta con la caduta del muro di Berlino (Dicembre 1991).

Il merito era stato della illuminata visione della perestrojika (riforme), di Mickail Gorbacev, ferocemente combattuta dai conservatori sovietici e rimasta incompiuta anche per  l’improvvida e cieca ostilità dei servizi statunitensi (durante la presidenza di Donald Reagan), che avevano preferito appoggiare Boris Eltsin, il quale, a causa delle pessime condizioni di salute, aveva lasciato il potere nelle mani di Vladimir Putin.

Erano stati molti gli italiani che avevano riposto in Putin le loro simpatie e speranze in una sua visione lungimirante di una Russia che, prendendo una direzione di stampo occidentale, avrebbe intrapreso la via dello sviluppo civile: ma queste aspettative erano state fortemente deluse da un Vladimir Putin che si è rivelato di vecchio stampo sovietico e perturbatore della pace mondiale.

La Russia (con i ventuno Stati etnici federati), possiede un territorio immenso, è il più grande di tutti gli altri paesi della Terra, con ben undici fusi orari (mentre gli USA ne hanno tre), ricco di risorse naturali e metalli preziosi. Sarebbe occorsa solo la buona volontà e una buona e sana amministrazione per farla uscire dall’abbrutimento e dalla miseria in cui era sprofondata in cinquant’anni di regime sovietico, sollevando la popolazione su un miglior livello di vita e dotandola, principalmente, di assistenza sanitaria, di cui è ancora carente e che anche un regime totalitario, dovrebbe essere in grado di concedere alla sua popolazione.

Ma è emerso che il pensiero di Putin, non era rivolto in questa direzione e come homo sovieticus non si è evoluto, rimanendo fermo nella mentalità dell’agente dei servizi segreti da cui proveniva, rivolto verso un misero passato ritenuto imperiale, ma nel termine più deleterio, con l’dea di riprendere i Paesi che si sono svincolati dal regime sovietico (Cecenia, Georgia e Ucraina) e anelano unirsi all’Occidente.

In venti anni di potere, il regime di Putin, pur con un notevole aumento nazionale del PIL, circondato da una cerchia di autocrati ai quali ha affidato la gesitone dei beni pubblici, da una parte e dall’altra lasciando correre la corruzione tra la burcrazia, per tenerla tranquilla; e investendo in armamenti (con oltre quattromila testate nucleari!) sfoggiati nelle parate militari del primo maggio, aveva dato l’illusione di una Russia elevata al livello di   potenza mondiale!     

Ma nella folle e insensta decisione di invadere l’Ucraina, la inattesa quanto eroica resistenza che gli è stata opposta dal popolo ucraino, ha messo in evidenza una organizzazione militare  sfaldata di uomini e mezzi, rivelando un Putin che oltre a radere inutilmente al suolo intere città, ha portato lo scompiglio nella economia mondiale. 

Con la sua guerra Putin ha messo indirettamente in evidenza le condizioni di povertà in cui vivono le famiglie dei soldati russi i quali, con i furti compiuti nelle case degli ucraini, (appropriandosi perfino la biancheria intima delle ucraine, portate alle loro ragazze), hanno dimstrato in quali condizioni vivono le loro famiglie; e non meraviglia che vi siano ancora molti nostalgici del regime sovietico che vivono in condizioni di estrema povertà, come al tempo degli zar (v. Art. Le condizioni della Russia aai tempi di Caterina II): e così vediamo, da una parte gli straricchi auttocrati con gli yacht e ville  e dall’altra la povertà che non consente di acquistare per la propria ragazza un paio di slip alla occidentale!

Con questa idea dell’impero sovietico, Putin,  mentre ha lasciato che il suo Paese continuasse ad arrangiarsi a vivere nelle misere condizioni dei tempi degli zar,  è andato a fare investimenti di puro carattere coloniale in Africa, dove ha acquistato a poco prezzo vaste estensioni di  territorio, per semplice sfruttamento che non prevedono nuovi posti di lavoro (come d’altronde ha fatto anche la Cina!).

Col risultato che quella popolazione che, per le particolari condizioni in cui si trovano i diversi Stati del continente africano (anch’esso ricco di risorse naturali), di miliardo e duecentomila abitanti (2022), in forte crescita, a causa del tribalismo, guerre intestine e corruzione dei governanti, non riesce a risollevarsi dai danni a suo tempo provocati dal colonialismo (v. in  Art. Le risorse di Leopoldo del Belgio ecc.) e in massa sta emigrando verso l’Europa (organizzata da associazioni criminali che ne traggono profitto), con una U.E. assolutamente incapace di far fronte al problema di cui dovrebbe farsi carico.

 

 

 

 

 

 

 

Stemma di Carlo V
con le colonne d’Ercole e
il motto “Plus oultra

 

 

LA RIVOLTA DEI

COMUNEROS E

DELLA GERMANìA

 

 

M

entre le navi di Carlo stavano per salpare da La Coruña, giunse la notizia che era scoppiata una rivolta.

Le nuove tasse messe per finanziare il “servicio” per il viaggio  dell’imperatore, erano state unanimemente considerate illegali; le case dei deputati che avevano votato a favore del “servicio” furono prese d’assalto da una plebe (comuneros) inferocita. A Segovia i loro rappresentanti furono uccisi;  i tentativi di repressione da parte dei soldati del re, non fecero altro che inasprire gli animi.

In questo frangente i nobili non mossero un dito, non avendo perdonato al re di aver fatto distribuire le cariche tra i borgognoni e non aver posto freno alle loro ruberie. La reggenza era stata improvvidamente affidata al fiammingo Adriano di Utrecht e questo aveva ulteriormente esasperato gli animi.

Le città ribelli, tra le quali Toledo, si unirono in una giunta (junta). Adriano di Utrecht fu cacciato da Valladolid e costretto a rifugiarsi in Castiglia presso l’ammiraglio Fadrique Enriquez. La regina Giovanna, che non si rendeva conto di ciò che stava succedendo,  fu fatta prigioniera a Tordesillas dal comandante dei rivoltosi Padilla.

Alla fine furono raggiunti accordi con i rivoltosi, in base ai quali il pagamento per le indennità all’imperatore sarebbe stato sospeso; l’ammiraglio Enriquez e il connestabile di Castiglia, Iñigo Velasco, erano nominati co-reggenti con Adriano di Utrecht, con la promessa che nessuno straniero avrebbe ricevuto ulteriori incarichi in Spagna e l’ulteriore impegno di Carlo, che sarebbe rientrato in Spagna.

Nel regno di Valenza la rivolta  aveva avuto connotazioni diverse. Mentre quella dei “comuneros” era contro il re, la “germanìa - hermandad” (fratellanza), era contro i nobili e i moriscos (i mori convertiti al cristianesimo).

Secondo quest’associazione, le idee dei nobili e dei pagani appartenevano al passato; tutto il reame doveva costituire una sola fratellanza nella pace e nella giustizia e sotto una sola legge.

Valenza non era stata visitata dal re e i nobili non erano disposti a rendere omaggio a un re assente. Gli artigiani e operai, per contro,  espressero la loro fedeltà al re.

La popolazione, da tempo addestrata a resistere alle invasioni moresche, aveva organizzato la “germanìa” (1519) che era un’associazione cristiana e popolare, diretta contro i nobili e i moriscos che coltivavano le terre dei nobili. La rivolta, capitanata da Vicente Periz, da Valenza, si estese a Jativa, poi alle Baleari; ma, alla fine le sommosse furono represse nel sangue e i capi giustiziati.

Al suo rientro, (16 luglio 1522), Carlo trovò le rivolte sedate e l’ordine ristabilito; con la permanenza in Spagna imposta dalla nobiltà; Carlo da borgognone, finirà per diventare un re spagnolo, non nel senso nazionalistico ma perché  condizionato a rimanere legato al suolo spagnolo, con tutto ciò che questo legame comportava ai fini della sua idea dell’impero universale.

 

 

 

LA CRISTIANITA’

 E L’IDEA

 DELL’IMPERO

 UNIVERSALE

 

 

 

L

’idea dell’impero universale era collegata con il cristianesimo, che guardava all’unità occidentale come unità cristiano-occidentale, vale a dire come istituzione voluta addirittura da Dio (!)  alla cui base si trovava lo “ius comune” (il diritto comune proveniente dal Corpus juris, v. in Articoli: Il corpus juris ecc.) e con Carlo Magno era sfociato (per volere del papato) nell’idea dell’impero universale romano-cristiano.

L’inizio lo troviamo nella falsa donazione di Costantino ideeata e voluta dal papa Silvestro I (314-335) per superare le resistenze di Pipino III (*) e servita alla Chiesa per appropriarsi della supremazia sull’Occidente, supremazia che da questo momento era andata lentamente maturando con l’incoronazione di Carlo Magno prima, e attraverso l’opera di Bonifacio VIII dopo, secondo il quale, l’imperatore Costantino aveva donato la supremazia dell’Occidente al papa, proclamando (nella Bolla “Unam sanctam”), la soggezione dell’impero cristiano al potere unitario e assoluto del pontefice.

Veniva così instaurandosi l’idea di un potere ecclesiastico che era maturato con gli studi di Onorio di Autun, Giovanni di Salsbury, Rufino e, con l’elaborazione di Innocenzo III, si poneva  come dottrina ufficiale della Chiesa.

La traslatio dell’impero era avvenuta con il trasferimento dell’impero dai bizantini al papa, il quale lo aveva concesso  all’imperatore. Infatti, “era dal papa che l’imperatore riceveva il potere, non da Dio; egli lo poteva concedere, come poteva toglierlo”. Così avvenne con Enrico IV al quale lo aveva rifiutato, fino a quando non vi era stata la sua assoluta e umiliante sottomissione  al papa (Canossa!).

L’unica reazione nei confronti dell’impero universale, si era avuta solo da parte della Francia, il primo Stato ad aver raggiunto la compattezza territoriale con Filippo il Bello (re di Francia), che si era imposto su Bonifacio VIII. La Francia quindi  negava l’impero universale teorizzato da Dante, sostenendo le ragioni dello Stato contro la Chiesa.

Nella Germania, rimasta fedele alla idea imperiale, i principi ne osteggiavano l’autorità, impedendo quindi il formarsi di una monarchia compatta. Con la “Bolla d’oro” (1326) essi ottennero tutti i diritti e i privilegi richiesti, con la conseguenza che l’imperatore era considerato un semplice capo onorifico; e  la Riforma, proclamando la libertà di pensiero, aveva privato l’idea imperiale della sua autorità.   

La posizione di Carlo V  fondata su vasti territori in Europa e  America, gli dava la forza morale e politica per rappresentare l’impero universale, che fu contrastato proprio da quei principi che lo sostenevano e che la Riforma gli permetteva anche di combatterlo.

La pace di Augusta (1555) segnò la fine politica e religiosa del Sacro Romano Impero con i tentativi degli Asburgo di restaurazione del cattolicesimo e della monarchia universale, perché furono ristretti i diritti dell’imperatore e riconosciuto il libero esercizio del culto protestante, poi ulteriormente ristretti in epoca posteriore  con il trattato di Westfalia (1648), che chiuse la guerra dei Trent’anni (da considerarsi l’antesignana della prima guerra europea tra cristiani e protestanti).

Dal trattato, relativamente ai rapporti interni degli Stati tedeschi,  i principi ebbero il  riconoscimento della piena sovranità territoriale, il diritto di stringere leghe tra di loro o con potenze straniere contro chiunque tranne che contro l’impero e la Germania e la dieta ebbe il compito di approvare tutte le decisioni, la guerra, la pace, le alleanze, le pubbliche imposte e la leva militare.

Molti studiosi hanno ritenuto di vedere in Carlo V qualità di lungimiranza in merito  all’ idea di una futura Europa, o  alla visione di un’Europa unitaria.

Senza dover ricorrere a sottili disquisizioni da cui distillare ciò che l’imperatore avesse potuto idealmente imaaginare per il futuro o ciò che per il futuro egli avesse potuto pensare su idee unitarie europee – che in concreto non risultano né  immaginate, né espresse (**) – non si intravedono in lui idee o progetti lungimiranti, avendo egli amministrato e governato cercando di risolvere nell’immediatezza, i problemi che riguardavano i suoi domini e l’impero.

La sola idea che egli avesse avuto sulla unità imperiale, non riguardava certamente la unione di popoli (fossero cristiani, protestanti o turchi) ma egli la vedeva come unione di un solo popolo, il cristiano, ammantato dalla  volontà divina”: la sua idea unitaria non era, quindi,  europea”, come ha voluto qualcuno, e non nella visione di un avvicendamento con altri monarchi che potessero guidare l’impero universale, ma semplicemente dinastica  ed esclusivamente asburgica; e, se si vuole, anche in chiave esoterica (ci riferiamo al possesso della lancia di Longino, acquistata dall’imperatore Rodolfo II, collezionista di anticaglie, passate per reliquie autentiche!).

La carica imperiale, dopo la morte di Federico II di Svevia si era svuotata di qualsiasi contenuto. Essa al momento dell’elezione di Rodolfo I (v. Notizia in Genealogia Absburgo) era talmente priva di prestigio e di autorità che ci si chiede come mai gli elettori si preoccupassero di  nominare ancora un re dei romani-imperatore!

Essa, dice Pirenne (in Storia d’Europa) poteva servire nella Scuola dove i professori di diritto romano, in teoria, continuavano a vedere l’imperatore come il padrone del mondo, oppure qualche idealista come Dante lo considerava un bel sogno, smentito dalla realtà.In effetti – conclude Pirenne – è un’idea morta, un residuo del passato che sarebbe stato maestoso”.   

Due sono le cose che colpiscono nella figura dell’imperatore. La prima costituita dall’insieme di circostanze fortunate che lo avevano portato a rivestire le insegne  imperiali. La seconda, costituita dalle guerre, alle quali aveva dedicato la maggior parte dei trentacinque anni del suo regno, per combattere il suo acerrimo nemico, Francesco I, fatte per la sua supremazia nei confronti della Francia, incuneata nel bel mezzo dei domini imperiali,

Mentre dal suo canto Francesco I, aveva dovuto combattere  per non farsi stringere nella morsa imperiale senza che vi fosse nessuna possibilità di una pace durevole, neanche quando Francesco I, aveva sposato la sorella di Carlo, Eleonora (1529), che sarebbe stata una buona occasione per raggiungere una pace duratura;  ma le guerre continuarono e la pace con la Francia sarebbe stata firmata, trent’anni dopo, alla sua abdicazione, con il trattato di Cateau Cambresis (1559), 

Altrettanto inutile e dispendiosa era stata la guerra condotta contro il corsaro Barbarossa senza aver potuto eliminare la piaga della pirateria  e i saccheggi dei paesi costieri del Mediterraneo (v. Specchio dell’Epoca, Khair-ad-Din ecc.), che certamente non sarebbe stata eliminata con l’idea della “crociata contro il Turco”, che sarebbe stata fuori del tempo e che Carlo, nello spirito dell’Ordine borgognone del Toson d’oro, con i cristiani, aveva continuato a sognare per tutta la vita.

Era stato detto che “dopo la caduta dell’impero romano nessuna nazione, tra quelle che avevano signoreggiato in Europa, gli si era avvicinata quanto quella spagnola”. Ma proprio il riferimento al termine “spagnolo”, ci fa capire che chi aveva espresso un simile richiamo, inconsapevolmente limitava il suo giudizio a un tipo di governo, quello spagnolo, che certamente non aveva, né poteva avere i caratteri della universalità dell’impero romano.

Con una fondamentale differenza:- Mentre i Romani portavano nei paesi conquistati la giustizia delle loro leggi, che erano accettate di buon grado e molti erano i popoli che chiedevano di essere associati all’impero, i regni e le province conquistati dagli spagnoli, erano trattati da terre di conquista, con boria e  alterigia, con una politica di rapina, sottoponendo le popolazioni, come quelle del regno di Napoli e Sicilia al pagamento di gabelle e tassazioni.

E quanto più essi avevano dato con profusione, tanto più erano ricorsi alla rapacità, gravando intere popolazioni con taglie e donativi e non era bastato l’oro del Nuovo mondo ad affrancarli dalle tante tirannie e crudeltà.

E spesso, gli stessi eserciti si ammutinavano per mancanza di paghe e gli ufficiali, mal soddisfatti, depredavano e massacravano intere popolazioni inermi, nel Nuovo mondo o nelle Fiandre o nei Regni di Napoli e Sicilia.

Ciò che più aveva allontanato gli spagnoli di Carlo V dai Romani, fu che era mancata quell’idea senza la quale ogni Stato va in rovina, vale a dire lo sviluppo economico e l’ampliamento del commercio.

Pur avendo infatti disponibili tanti famosi porti, non erano state sviluppate le loro attività con l’incremento del trasporto navale, creando centri di commercio, scali franchi, come avevano fatto gli altri Paesi di mare, tra i quali avevano primeggiato gli inglesi, i poroghesi e gli olandesi.

Carlo sin dall’inizio del suo regno, si era trovato di fronte ai debiti lasciati da Massimiliano, debiti che per la mancanza assoluta dell’idea di una politica, non tanto finanziaria che all’epoca non si era ancora formata, ma quantomeno economica. lo aveva portato a bruciare tutte le potenzialità, non solo dei territori europei, ma portate dalle enormi quantità di oro che arrivavano con i galeoni dalle terre americane.

 

 

 

 

*) Nata dalle tante leggende di cui la Chiesa si è circondata, secondo la quale il papa Silvestro aveva guarito l’imperatore Costantino dalla lebbra e lo aveva battezzato e per riconoscenza Costantino aveva donato alla Chiesa il Laterno, Roma e l’Italia, rendendo il papa superiore agli altri patriarchi!

L’AUTOBIOGRAFIA DI CARLO V

**)  L’imperatore aveva intrepreso un lungo viaggio navigando sul Reno, partendo il primo giugno 1550 da Lovanio e giungendo a Magonza il 19 successivo; lo accompagnava Guglielmo van Male, tamquam ad palum alligatus, a lui legato come un palo; nel corso delle conversazioni, letture a tavola o presso il fuoco o accanto al letto, gli aveva dettato la sua biografia che andava dagli anni 1515 al 1548.

Questa biografia, nelle sue intenzioni (dell'imperatore), doveva essere di grande respiro,  come i Commentari di Giulio Cesare, seguendo  lo stile di Tito Livio, di Cesare, di Sallustio e Tacito ma quella che aveva dettato era un arido susseguirsi di avvenimenti che non rispondeva alle ambiziose intenzioni iniziali o i canoni indicati e non sarà più rimaneggiata, rimanendo così come l’aveva dettata; egli infatti, recatosi a Innsbruck (nel 1551) città amata dal nonno Massimiliano, era stato travolto da quella bufera depressiva che lo porterà (1556) alla decisione delle dimissioni dalla carica imperiale.

Queste memorie le aveva mandate al figlio accompagnandole con una lettera (datata 1552) in cui diceva al figlio di tenerle nascoste.

Van Male aveva accompagnato l’imperatore anche al suo ritiro a Yuste, al quale, prima della sua partenza, gli giungeva l’ordine di Filippo di consegnare tutte le carte di cui egli fosse in possesso e don Luis Quijada, incaricato di eseguire l’ordine, nonostante le proteste di van Male, si impadroniva,  anche delle sue carte personali, dove si trovavano appunti sul libro.  

 Il cardinale Granvela, venuto in possesso delle carte di van Male, le fece scomparire, ma da quanto riferito da van Male la biografia di Carlo non era che un’arida cronologia degli avvenimenti della sua vita.

Ma già si èarlava dei “Commentari” e, In Italia, vi era stato Lodovico Dolce (1508-1568), grande ammiratore di Carlo che nel 1561 aveva scritto il libro “Vita dell’invittissimo e gloriosissimo imperador Carlo Quinto”, dedicato al duca Emanuele Filiberto di Savoia, in cui elogiava i “Commentari”, a imitazione di Giulio Cesare, scritti in francese che stavano per essere pubblicati in latino.

E poco dopo il veneziano Girolamo Ruscelli (1518-1566), in una lettera a Filippo II  alludeva al libro del Dolce e a quello che intendeva stampare Bernardo Tasso (1493-1569), facendo riferimento ai “Commentari” scritti in gran parte dall’imperatore  in francese; e si riteneva che  stessero  per essere stampati a Venezia, nella versione di Van Male, ma Filippo II ne avrebbe impedito la pubblicazione.

Nella biblioteca imperiale di Parigi il barone  Kervyn de Lettenhove autore dell’Histoire des Fianders 1879-80 (2 v9ll.) aveva trovato un mns. in portoghese intitolato Historia del invictissimo Emperador Carlos Quinto, rey de Hespanha, composta por sua Majestad Cesarea, come se vee do popel que vai em a seguiente folha, traduita da lingua francesae do proprio original, en Madrid Anno 1620, accompagnata dalla lettera di Carlo al figlio Filippo.

E’ da supporre che questa copia fosse stata scritta al tempo di Filippo III, quando il Potogallo era divenuto una provincia spagnola.

Di questo manoscritto si sono avute pubblicazioni in diverse lingue, portoghese, francese, inglese, alemanna col titolo Commentaires de Charles Quint publiés pour la premiere fois par le baron Kervyn de Lettenhove membre de l’Accademie royale de Belgique (Brusselles 1862).

Il libro è accompagnato da una lettera in cui l’imperatore indica il libro scritto in volgare, iniziato durante il viaggio sul Reno e terminato ad Asburgo. Egli si giustifica dicendo di non averlo scritto per vanità e se egli (Dio) si ritiene offeso l’offesa è dovuta alla mia ignoranza e non a malizia. Per cose simili egli si è sovente mostrato irritato; io vorrei che non lo fosse a causa di questo scritto ... Sono stato sul punto di bruciare tutto, ma se Dio mi darà la possibilità di vivere, conto di scrivere questa storia in modo che egli non si riterrà mal servito, Ve lo mando, dice a Filippo, mettetelo, nascondetelo in modo che nessuno possa trovarlo.

Segue l’excursus, strettamente cronologico del libro in cui egli parla scandendo i fatti in terza persona; se p. es. prendiamo gli’anni 1519-20 che sono, riteniamo importanti per la sua nomina a re di Spagna e poi a Imperatore, egli riferisce: “L’anno 1519 Sua Maestà tenne gli Stati a Barcellona dove fu proclamato (re di Spagna) e in cammino apprese la morte dell’imperatore Massimiliano, suo nonno. Quando era nel detto Stato (in Spagna), ricevette la novella della sua elezione all’impero che gli fu annunciata dal duca Federico, conte palatino. Di là egli partì per imbarcarsi a Corugna per ricevere la prima  corona a Aix la Chapelle”.

E così prosegue nella sua arida descrizione, senza commenti o considerazionini che, quelle sì, avrebbero potuto offendere Dio!

Un altro esempio di date, che riteniamo importante nella vita di Carlo,  egli la liquida in poche righe. Andando all’anno 1530 importante in quanto era stato quello non solo della sua della sua prima venuta in Italia, ma per essere incoronato imperatore dal papa, e per di più era venuto a conoscenza della occupazione dell’Ungheria e dell’assedio di Vienna, egli  senza uno sprazzo di emotività, scrive: “Dopo che l’imperatore si fu imbarcato e tutta la squadra si mise in vela, egli passò il mare di levante e abbordò per la prima volta l’Italia dove egli apprese che la pace era fatta. [...] A Genova  inviò il suo sommelier, il sire La Chaulx dove apprese che il Turco, dopo aver attraversato l’Ungheria, aveva posto l’assedio a Vienna e l’aveva assalita. Lì  avvenne per la prima volta  l’incontro del papa Clemente con l’imperatore (dove quest’ultimo ebbe il suo secondo attacco di gotta). E in questo luogo egli seppe che l’imperatrice aveva messo al mondo Ferdinando, suo secondo figlio, della cui morte fu informato l’anno seguente ad Absburgo”.... e così di seguito, aridamente;  ecco tutto!

  

 

 

LA GRANDE INFLAZIONE

DEI SEC. XVI E XVII

 

 

LA FALSIFICAZIONE

 DELLE MONETE

DA PARTE DI CARLO V

 

 

 

N

on bastarono i Tesori d'Atabalipa e di Montezuma e le continue ricchissime flotte del Perù, del Messico e di altri sì vasti Regni d'America che furono  portati nella Spagna, per supplire alle magnanime spese di Carlo V, che nelle tante e molteplici guerre che egli fece e sostenne durante la sua vita, disperse più tesori di quello che gli portasse la Fortuna, onde ardirei quasi dire, oltrepassasse quelle di ogni altro imperatore, mentre poco meno che esausto lasciò l'Erario, allorché cedè ad altri le redini dei suoi Regni (così si esprime Geminiano Montanari nel Capitolo L’ Introduzione di monete d’oro e d’argento forestiere a maggior prezzo  dell’intrinseca loro bontà. produce alzamento di quelle del Paese, ne  “La zecca e la moneta”, della Collana del Tatato di Economia politica, 1772); e così  prosegue.

Erano, dico, sì grandi le sue spese, sì vasti i suoi disegni, che non bastandogli le antiche e nuove rendite di tanta parte ch’egli possedeva nel Mondo, pensò far nuovo guadagno sulle monete e dal 1540 lo scudo d'oro di Castiglia, Valenza  ed Aragona, che prima era pari ai ducati d'Oro di Venezia. che erano di 24 Carati o poco  meno, ridusse a bontà di carati 21, soldi 18, che a conto veneto si direbbe  pezzo 108 per marca e ne diminuì eziandio di tre grani il peso, nel modo che tutt'oggi vediamo le mezze doppie di Spagna; non altro volendo dire una doppia, che una moneta da due scudi d'oro , ossia un doppio scudo d'oro.

Ma veduto da gli altri Principi lo svario di queste nuove monete e ben conoscendo che se ammettevano le mezze doppie di Carlo V, al pari dei zcchini veneziani e fiorentini, si tiravano addosso un danno irreparabile, perchè sarebbono stati portati fuori dei loro Stati gli scudi d'Oro buoni  e introdotti altri di minor peso e bontà; risolsero d'imitarle ed allora fu, che il Pontefice e gli altri Potentati quali tutti d'Italia cominciarono a battere li loro scudi d'oro, doppie e doppioni, di bontà inferiore non solo ai primi ma a quegli stessi di Carlo V, e la Corte Romana per isfuggire il pregiudizio  che portava alle sue Entrate la diminuzione dello scudo d'oro, ha ritenuto dipoi il costume di valutare lo scudo d'oro di Camera, un paolo, più dello scudo d'oro corrente, ossia della mezza doppia.

Tanto narra Bodin (Jean) nel più volte accennato Trattato (Trattato delle monete, 1568), sebbene io vedo tutt'ora, aver corso doppie e mezze doppie di Ferdinando e d'Isabella, Re di Castiglia, che sono di peggior lega e peso delle ordinarie di Spagna: onde ho dubbio grande che il male non cominciasse da Carlo V, ma bensì fosse da lui imitato nuovamente.  

Nel che è ben degno da avvertire, che avendosi gli altri Principi col battere li suoi scudi d'oro anch'essi d'inferiore bontà, in gran parte difeso dal danno che poteva loro avvenire, se ammettevano gli scudi d'oro di Castiglia a valuta eguale dei suoi primi; perchè in quel caso potevano i Ministri di Cesare incettare per tutto gli scudi d'oro dagli altri, e ribatterli in scudi d'oro di Castiglia, con quel guadagno, che porta lo svario della mezza doppia all'ungaro, ehe è sopra il dieci per cento; non restò perciò, che in tutti i luoghi non alzassero di valuta le monete; mentre ammesso per gli Stati di Cesare ed altri ancora il suo scudo d' oro, a quel numero di lire immaginarie, che in ciascun Paese valessero prima, lo scudo d’oro veneziano, detto zecchino, che religiosamente è stato sempre dalla Veneta Sapienza custodito  e mantenuto alla solita bontà  e peso, ha dipoi sempre avuto il valore fino a tre paoli di più dello scudo d'Oro, ossia mezza doppia di Castiglia, e i zecchini gigliati di Firenze hanno lungo tempo mantenuto dipoi con decoro, il valore vantaggioso in pari modo sopra quelli di Spagna, sebbene trasandato da quelle Zecche di più batterne, è restato a poco a poco abolito: ma l' ungaro e ducato d' Alemagna ed Ungheria, che è stato alquanto dalla perfetta bontà primiera peggiorato, è anche restato al disotto dello zecchino giusta la sua intrinseca proporzione. Così l' Imperadore fece guadagno per una volta tanto di dieci per cento in circa sopra tutta le monete d’oro  che correva per i suoi Regni; ma se avesse fatto meglio i suoi conti, avrebbe veduto, che quell'utile gli veniva contrapesato con la perdita di dieci per cento di tutte le sue entrate in perpetuo, conciosiacchè, con le stesse monete da lui spese una volta, venivano ogni anno pagate le loro contribuzioni dai suoi sudditi”.

 

 

LA RIVOLUZIONE

 DEI PREZZI

 

 

R

elativamente alla rivoluzione dei prezzi verificatasi nel periodo 1520-1540, si trattava solo del culmine di un processo, come ipotizzato dal citato Montanari,  iniziato già verso la fine del secolo precedente, 1480, che continuerà fino alla metà del secolo successivo.

Il periodo di regno di Isabella e Ferdinando era stato un periodo ricco di brillanti conquiste e splendide realizzazioni, ma la monarchia ne usciva con le finanze in stato comatoso, anche se la regina, almeno in Castiglia, che era il più progredito dei paesi europei, aveva effettuato con severità una forte riduzione delle spese.

Nel 1489 Isabella aveva impegnato i propri gioielli per far fronte alla guerra contro i mori e sebbene avesse disposto nelle sue ultime volontà che le entrate regie non ancora stanziate, fossero usate per pagare i debiti, ciò non fu fatto e la Spagna entrò nel nuovo secolo con tutte le sue risorse fortemente ipotecate, mentre le entrate pubbliche non erano in grado di far fronte alle spese necessarie per affrontare le necessità di governo e tantomeno svolgere un ruolo di predominio in Europa.

Le maggiori entrate derivavano dalla Castiglia e dall’Aragona, mentre le altre regioni avevano le cortes così turbolente, che venivano convocate di rado mentre il loro contributro fiscale era molto limitato.

Gli iniziali profitti derivanti dalle nuove colonie erano di scarsa incidenza sulla economia nazionale, ma il loro aumento era costante; tra il 1511 e 1513, era raddoppiato rispetto al 1503-1505. Nel decennio 1538-1548 e per quello successivo, la media fu di 165mila ducati l’anno,  tutti sperperati per pagare i debiti e finanziare le guerre. 

Questi incrementi aumentarono enormemente con Filippo II, giungendo a un milione di ducati e durante il suo regno raggiunsero picchi di 2 e tre milioni. Ma tutta questa massa d’oro non solo si volatizzò, ma portò Filippo a ripetute bancarotte.

Sebbene la quantità di oro fosse notevole ed era andata aumentando di anno in anno fin dai primi anni del secolo, l’oro e l’argento proveniente dal continente americano e finito nei paesi europei per le vie commerciali, finanziarie e mercantili, vendendo merci sul mercato spagnolo, traboccante di metalli preziosi, accumulavano grossi profitti (c.d. inflazione dei profitti), a scapito dei salari che perdevano potere d’acquisto.

I pingui guadagni andavano a profitto dei grossi speculatori e a scapito dei salariati e proprietari terrieri (*).

La popolazione era abbastanza limitata: la Spagna contava 8 milioni di individui; la Francia 16 milioni;il Portogallo un milione; i Paesi Bassi 3 milioni.

Evento di fondamentale distinzione della nuova epoca rinascimentale da quella medievale è stata la sostituzione della primaria fonte di ricchezza fondata, nel medioevo sul feudo e sulla grande estensione di terra ad esso collegata, sostituita dalla finanza fondata sullo sfruttamento dell’oro e dell’argento che consentiva grandi speculazioni. 

Più che di rivoluzione dei prezzi si deve parlare di inflazione, determinata  dall’aumento dei prezzi dei beni di consumo e contemporanea stabilizzazione dei salari, accompagnata dalla espansione demografica.

L’aumento dei prezzi era stato determinato dall’afflusso di  metalli preziosi dalle miniere del Sudamerica che comportava l’aumento dei prezzi di consumo, mentre i salari rimanevano stabili, con la conseguente impossibilità per chi percepiva il salario di acquistare beni e di far fronte alle necessità.

Del fenomeno che solo per noi posteri sembra enorme, all’epoca, se n’era avuto appena il sentore.

 

 

 

*) Come sta avvenendo in Italia mentre scriviamo (2021), in cui già da alcuni anni la congiuntura sta favorendo i ricchi che stanno aumentando a dismisura le loro ricchezze, mentre i poveri diventano ancora più poveri ... e ironia della sorte, il peso fiscale si abbatte con intollerabile “discriminazione” su questi ultimi senza che i Governi che si stanno alternando riescano a prendere opportuni provvedimenti, sulla spaventosa evasione fiscale ufficialmente indicato in cento mld., ma che si aggira tra i centoventi e centocinquanta mld., ed ha messo in ginocchio il nostro Paese!

 

 

 

LA SPAGNA IMPOVERITA

DALL’ORO E ARGENTO

DEL NUOVO MONDO

(CONSIDERAZIONI

DI USTARIZ E BLANQUI)

 

 

 

S

embrerebbe un controsenso, ma tutto l’oro e l’argento trasportato dai galeoni spagnoli,  aveva impoverito la Spagna e lo stesso Carlo V.

Si può dire (scriveva A. Blanqui in Histoire de l’Economie Politique de l’Europe, Paris 1860) che di tutto l’oro che i galeoni spagnoli portano dal Messico, Perù, Nuova Spagna, di cui sono i padroni, che si vede in Europa in sì grande abbondanza, essi ne hanno meno di tutti gli altri, ciò che dimostra che le miniere degli Stati sono il commercio.

La necessità (prosegue Blanqui) di sostenere delle guerre senza tregua  avevano ridotto questo monarca (Carlo V), dai primi anni del suo regno, a espedienti finanziari che tolsero la maggior parte dei capitali alle industrie produttive, per inghiottirle nel baratro dello sterile annientamento.

I suoi forzieri erano sempre vuoti; le truppe mal pagate avevano preso l’abitudine di vivere con il saccheggio, tutto era dominato dalla concussione, dalle tasse arbitrarie. Misure violente e oppressive rimpiazzarono dappertutto il regolare sistema della contribuzione stabilito dai finnanzieri italiani.

Cominciarono le estorsioni di ogni specie (*), gli alloggiamenti militari forzosi, le imposte eccessive sui consumi, che fecero rincarare i prezzi della mano d’opera a detrimento delle manifatture.

Aumentano i diritti di entrata sulle materie prime e sulla fabbricazione dei prodotti  in uscita; al libero esercizio delle arti è sostituito il monopolio dei mestieri e quello del commercio.

Dappertutto si elevarono, accompagnati dai privilegi, le manifatture imperiali o reali da cui derivava la necessità dell’acquisto delle licenze per avere il diritto a lavorare. Tutto questo armamentario primitivo  si insinuò poco a poco nelle leggi e nei costumi; poi giunsero i sofisti che su questo sistema crearono delle dottrine e fu così che tutte le eresie economiche di cui l’Europa è infestata sono divenute difficili da eliminare, sedimentate dalla sanzione del tempo e dal carattere dell’autorità. Carlo V le rese più funeste avedole organizzate e facendole penetrare nell’amministrazione e divenire regole di condotta e dogma inviolabile.

Una delle conseguenze più deplorevoli del sitema imperiale austro-spagnolo fu di mettere in onore “l’aristocracie de l’epée”; l’aristocrazia della spada cominciava a scomparire davanti alle nobiltazioni dell’industria e del commercio.

La nobiltà delle repubbliche italiane, delle città anseatiche, delle grandi città mercantili belghe, francesi, spagnole, che da tempo era dedita al lavoro e si onorava delle origini fondate sul lavoro, dal momento in cui Carlo V si mise a vendere titoli per ottenere argento, fu travolta dai pregiudizi castigliani che facevano consistere la nobiltà nell’ozio  e questa idea si propagò  come un fuoco in tutta l’Europa.

Un solo regno era bastato a far retrogradare le libertà pubbliche  fino ai peggiori tempi della feudalità.

Ogni giorno qualche grande industria chiudeva i battenti perché era diventato impossibile proseguire nell’attività produttiva, senza giungere a compromessi.

Se i signori avevano cessato di rapinare i passanti sulle strade (come facevano i loro predecessori medievali dall’alto delle vecchie torri), ora si rifugiavano nei privilegi che gli assicuravano la parte migliore del lavoro dei loro concittadini (Ustariz:Theorie et pratique  du commerce et de la marine, traduction de l’espagnol, Paris 1753).

Un nugolo di postulanti si faceva assegnare rendite pubbliche e uno dei governatori di Carlo V, che governava nel  ducato di Milano,  osava rispondere alle ingiunzioni reali, dicendo che “il re comanda a Madrid, io comando a Milano”.

Più discussioni pubbliche, più giurisdizioni consolari, più crediti: tutte le forme di tutela erano state abolite per far posto al regime assoluto dei pascià spagnoli.

Questo deplorevole e improvviso cambiamento nel cammino e soprattutto nelle dottrine del governo,  dall’Italia e dagli Stati di Carlo V si era trasmesso altrove.

Chiunque può ricordare la scrupolosa precisione dei veneziani, fiorentini, genovesi, e delle città anseatiche  nel mantenere i loro impegni; i rischiosi espedienti  ai quali la politica dell’imperatore di Germania, aveva coinvolto e obbligato gli altri principi  con il suo esempio e le sue continue guerre, coinvolgendoli in un futuro più funesto del danno immediato che potevano portare.

Nulla aveva potuto maggiormente contribuire a paralizzare lo sviluppo sociale che l’incertezza e la paura che si era insinuata in tutte le relazioni che avevano bisogno di garanzie e sicurezza.  

Su quali basi poteva poggiare la minima speculazione, quando le principali fonti di entrate pubbliche erano alienate in anticipo per molti anni e le monete alterate sia per la alterazione della lega, sia per i decreti predatori?

Così il contante che non trovava più un investimento uutile e certo, aveva disertato le industrie e fu immobilizzato nell’acquisto di terre.

L’agricoltura colpita al cuore per la decadenza del commercio, non tardò a decadere sotto l’impero di una legislazione che proibiva l’esportazione del grano.

Per colmo di sventura  i continui cambiamenti operati nella amministrazione degli Stati sconvolti dalle guerre, affliggevano l’Europa di una piaga che rinnovava i ricordi del Basso Impero.

 

 

 

 

 *) La falsa moneta, gli aumenti d’imposta, le esazioni di ogni genere: la più spaventosa anarchia sembrò impadronirsi di tutta l’Europa: questo era l’impero di Carlo V!     

Durante il tempo di Enrico III di Francia (1551-1589) nel periodo delle guerre civili (scriveva nel suo raro e originale libro Nicolas Fromenteau: Séret des finance de France, pubblicato nel 1581, e si riferiva non solo alla Francia, ma alle Fiandre, Italia  e Germania) che è stato il periodo migliore della produzione delle miniere d’America, ogni anno giungevano dal Messico galeoni carichi di piastre, eppur tuttavia la povertà regnava dappertutto e malgrado il benessere che proveniva dall’opulenza, da una estremità all’altra, l’Europa era in preda alla miseria e alla discordia: non si sentiva parlare che di estorsioni e di saccheggi. “Il paese è mangiato non solo dalla gendarmeria e dai gabellieri, ma da un’ora all’altra appaiono nelle cittadelle i soldati che vanno a razzolare con insolenza ed eccessi così grandi e tali che non vi è villaggio o casa che due o tre volte alla settimana non sia costretto a contribuire  all’appetito di queste canaglie; quando il soldato esce, il sergente entra e normalmente le case sono piene di gente d’arme, soldati, collettori di taglie, sergente o gabelliere, tanto che meraviglia quando la giornata sia passata senza la visita di qualcuno di costoro”.

 

 

 

LA DECADENZA

DELL’ITALIA

 

 

 

L

’abbagliante splendore delle belle arti non aveva potuto salvare l’Italia dalla decadenza che era seguita alla perdita della sua libertà, e la continua diminuzione della sua popolazione, ha sufficientemente dimostrato che i veri elementi della prosperità degli Stati consistono nelle arti utili, piuttosto che nelle arti gloriose.

Il regno di Carlo V è stato soprattutto contrario al progresso della economia, nel senso che egli aveva violentemente  deviato l’Europa  dalla via naturale della produzione, per precipitarla nell’avventura delle guerre  e nel vecchio sistema dello sfruttamento generato dalla feudalità.

Tutto ciò che oggi abbiamo di false dottrine e funesti pregiudizi da combattere, lo dobbiamo alla sua politica di  governo, continuato e peggiorato dai suoi funesti successori.

La libertà del commercio che si era andata stabilendosi e radicandosi nel mondo in una solidarietà comune di interessi del Mezzogiorno e del Nord con Carlo V  era stata sostituita dalle restrizioni e dalle proibizioni.

Le banche di Venezia e di Genova esercitavano il credito: Carlo V si mise a produrre falsa moneta e sebbene  i tesori del nuovo mondo si erano a lui aperti al punto di portargli circa cinquanta milioni di franchi all’anno, nel 1540 egli inondò l’Europa di una massa considerevole di scudi della Castiglia in pessimo oro.

Questo detestabile esempio  non trovò che troppi imitatori e giunse il momento in cui, secondo l’espressione di M. Ganilh “ l’Italia si distingueva più per la pessima moneta che per gli eccellenti stampi sulle monete”.

Non si cercava più la ricchezza nel lavoro e nell’intelligente impiego dei capitali ma nell’accumulo  del danaro, per cui se ne proibiva  l’esportazione, “come se fosse stato possibile acquistare le merci che non era possibile produrre  e tenersi il denaro che serviva per pagarlo”.

Fu allora che ebbero luogo i primi saggi  di quelle strane teorie la cui invenzione appartiene interamente agli spagnoli e che un economista del loro paese che ingenuamente, duecento anni più tardi riassumeva in questo considerevole passo: “E’ necessario impiegare con rigore tutti i mezzi  che ci possono condurre a vendere agli stranieri il massimo della nostra produzione, piuttosto che acquistarne da loro: è questo tutto il segreto e l’unica utilità del commercio (Geronymo Ustariz: Theorie e pratique du commerce et de la marine, traduction de l’espagnol, Paris 1794).

Questo è il sistema che ha dato luogo alle numerose guerre di cui l’Europa è stata teatro dopo  la comparsa sulla scena di Carlo V, e che domina ancora, a loro insaputa, la politica commerciale di quasi tutti i moderni governi.

Tutti si sono sforzati allora, di  tenersi il contante e di proscrivere le merci straniere.

Tutti hanno creduto di vedere nelle importazioni una causa di rovina, senza rendersi conto che le importazioni diventano tanto più necessarie quanto la produzione interna diminuisce  esattamente presso ciascun popolo, nella proporzione delle restrizioni  immaginate  per attivarne lo slancio. 

E’ allora, come inseguire la chimera di voler vendere, senza acquistare e ambire al monopolio delle merci, abbandonando per i prodotti delle miniere i grandi lavori delle industrie.

La Spagna ha crudelmente espiato, dopo questo fatale errore di Carlo V; essa ha perduto le sue fabbriche per aver dato troppa importanza all’oro delle sue colonie e più tardi le sue colonie l’hanno abbandonata, perché essa aveva troppo trascurato le sue fabbriche.

L’umanità ha da fare più gravi rimproveri alla sua memoria, per aver posto su una immensa scala la schiavitù che stava per cessare, e lo sfruttamento  umano che era giunto al suo termine.

La tratta dei negri fu organizzata sotto il suo regno come una istituzione legittima e regolare, rinnovando la funesta dottrina, greca e romana, in virtù della quale il profitto del lavoro sociale apparteneva di diritto alle classi privilegiate.

Milioni di uomini perirono in America. vittime di questi detestabili pegiudizi e l’Africa, dopo trecento anni (Blanqui pubblicava il suo libro nel 1860 ndr.), non ha ancora cessato di pagare il tributo di sangue e di lacrime al sistema che ne ha dato il frutto.

Per farsi una idea di tutte le assurdità che furono immaginate in quest’epoca per assicurare agli uomini della madrepatria i benefici e le rendite  delle nuove colonie (mai l’audacia del privilegio si era manifastata in una maniera così tirannica), la madrepatria imponeva i suoi prodotti alle colonie e impediva che la produzione avvenisse dal proprio stesso suolo.

Fu vietato agli americani di piantare il lino, la canapa, la vigna, di fabbricare merci, di costruire navi, di far educare i loro figli in Spagna. Nello stesso tempo si obbligavano certi consumi inutili e assoggettavano a clausole la cui storia oggi sembrerebbe una favola. La frusta del commendatore rappresentava allora tutta la civiltà spagnola.  (v. in Articoli cit.L’avorio e gli schiavi le ricchezze di Leopoldo ecc.).  

La necessità di sostenere delle guerre senza tregua  avevano ridotto questo monarca, dai primi anni del suo regno, a espedienti finanziari che tolsero la maggior parte dei capitali alle industrie produttive, per inghiottirle nel baratro dello sterile annientamento.

Carlo V nato fiammingo, divenuto re in Spagna, imperatore in Germania, rappresentava il partito ghibellino detestato dalla parte guelfa dell’Italia. Come re di Spagna era divenuto il più funesto avversario dei banchieri italiani, incapaci di opporre una qualsiasi resistenza al fortunato possessore di miniere  del Messico e Perù. Appena salito sul trono egli mise sulla bilancia del commercio, oltre al peso della sua spada, quello del nuovo mondo e di una gran parte del vecchio continente.

In politica, religione e nell’industria la sua potenza non aveva avuto rivali e nell’arco di venti anni egli si era preparato a sollevare tutte le questioni e a capovolgere tutti i reami. Non a caso gli storici lo considerano come punto di partenza di un nuovo ordine sociale in Europa.

A cominciare dal suo regno, in effetti, si opera una rapida e profonda mutazione nel cammino della civilizzazione. Le idee sono così agitate che gli imperi e per la prima volta dopo secoli il mondo,  sembra chiamato alla lotta definitiva al nepotismo e alla libertà.

La scoperta dell’America, l’espulsione dei mori dalla Spagna la riforma protestante, la tratta dei neri, sono avvenimenti contemporanei a Carlo V e ciascuno di tali avvenimenti porta in sé il germe dei venti delle rivoluzioni future.

Al regime municipale che si era stabilito sotto l’influenza delle città libere della Germania, Belgio, Spagna, e delle repubbliche italiane, si era visto succedere la dominazione di qualche potente monarchia che si era divisa l’Europa dopo la rovina.

Carlo V è stato il principale strumento di questa rivoluzione, il cui contraccolpo dovette essere così fatale all’economia politica, che metteva sotto l’influenza della forza le più funeste dottrine che avevano afflitto l’umanità.

La necessità di sostenere delle guerre senza tregua  avevano ridotto questo monarca, dai primi anni del suo regno, a espedienti finanziari che tolsero la maggior parte dei capitali alle industrie produttive, per inghiottirle nel baratro dello sterile  annientamento. (A. Blanqui, Histoire de l’ Economie Politique de les anciens jusqu’a nos jours, Paris 1860).

 

 

 

L’ORO E L’ARGENTO

E LA DISASTROSA

AMMINISTRAZIONE

DELLA RICCHEZZA PIOVUTA

 DALLE INDIE

 

 

L

e importazioni di oro (che successivamente sarà sostituito dall’argento), seppur ancora contenute (solo dopo il 1560 diventeranno straordinarie, ma il periodo che prendiamo in esame è limitato al regno di Carlo V) ebbero un continuo crescendo e fruttavano a Carlo il c.d. “quinto”.

I proventi del periodo 1503-1505 raddoppiarono nel successivo periodo 1511-1515; dal 1516 i proventi andarono aumentando da 35.ooo ducati ai 122.ooo del 1518 (con una rinduzione nel 1521 di 6.ooo ducati). con una media nel periodo 1538-1548-1558 di 165.ooo ducati (la cifra continuerà a salire fino a una media di due-tremilioni, quando Filippo avrà tre bancarotte!).

Oltre a questo quinto vi erano le ulteriori entrate, costituite dai diritti doganali, vendita di cariche pubbliche, monopoli (sale, tabacco e altri generi), decime e altre semiecclesiastiche e l’alcabala pagata nelle colonie: tutte queste entrate erano assorbite dalla burocrazia che diventava semmpre più complessa; iniszialmente nella misura del 50%, poi fino all’80% ma vi furono dei periodi in cui a Madrid non giungevano rimesse in quanto il gettito fiscale era assorbito interamente  dai vicerè e dai funzionari;  vi erano poi, anche le guerre, ad assorbire il gettito fiscale.

Le ingenti quantità di oro e di argento che giungevano dalle colonie, pur subendo perdite a causa del contrabbando, del peculato e della pirateria sempre in agguato (per Elisabetta d’Inghilterra sarà una manna!), sconvolsro il sistema economico di tutti i paesi europei e principalmente quello della Spagna, mentre non fu  di alcun giovamento alla sua popolazione, dove solo i ricchi divennero più ricchi.

Ma non fu di giovamento neanche all’imperatore che dopo il debito menzionato, di 850mila fiorini contratto (1519) per la sua elezione, nel 1552 gli fu fatto dai Fugger l’ultimo prestito di 400mila ducati, in quanto si faranno sotituire dai genovesi (Storia dei Popoli e delle civiltà, Utet).

I Fugger (*) che con Carlo V già da oltre un secolo praticavano la mercanzia, si erano sviluppati anche nell’attività bancaria legandosi a principi regnanti e in particolare a Carlo, durante il regno del quale si espanderanno a livello mondiale, ma con i ritardi nei pagamenti di Carlo e del figlio  Filippo II, finiranno col perdere l’enorme ricchezza accumulata: nel 1525 l’attivo dei Fugger, ammontava a 2.811.ooo fiorini, il passivo a 870.ooo, ma nel 1607 con la terza bancarotta di Filippo II, i debiti dei creditori insoddisfatti ammontavano a 8milioni di ducati, rimanendo solo con la proprietà fondiaria ipotecata.

L’aumento della moneta metallica circolante provocò il balzo dei prezzi (definito rvoluzione dei prezzi), che in Spagna incominciò a farsi sentire nel 1519-20 e continuò per tutto il resto del secolo.

Secondo le tabelle di J. Hamilton (American treasure and the price revolution in cit. Storia Utet) da merci importate in Spagna nel periodo 1503-05 pari a pesos (un pesos era pari a €.42,29 di argento puro) 371.055,3, si passò a 1.195.553,5 nel 1511-15, a pesos 1.038.437 nel periodo 1526-30, a 5.508.711 nel 1546-50  a 9.865.531 nel 1551-1955 anche se l’aumento non fu costante avendo subito in alcuni anni delle riduzioni e 7.998.998,5 nel periodo 1556-60. La punta massima insuperata anche nel secolo successivo, fu raggiunta nel periodo 1590-1600 di 34.428.500,5: come si vede, una vera e propria emorragia.

Come detto, il normale commercio con le colonie era riservato alla Spagna con divieto di esportazione di oro e argento in paesi stranieri, col risultato che queste misure furono semplicemente disastrose perché accentuarono in Spagna la scarsità di beni di consumo rispetto al metallo circolante.

Si pensò di porre rimedio a metà del 1500 vietando l’esportazione di merci spagnole nelle colonie che avevano sufficienti materie prime per soddisfare i propri bisogni, ma la situazione si aaggravò  in quanto il commercio e l’industria, per la perdita dei mercati esteri, fu incapace a soddisfare le richieste interne, con il risultato che essa comprava le merci necessarie dai mercati europei e pagava con l’oro del Nuovo mondo.

Ciò avveniva anche nelle colonie dove il divieto di commercio era eluso dal contrabbando o caùon, la elusione (interveniva uno spagnolo che dichiarava le merci contrattate di sua proprietà). Il risultato fu che “tutto ciò che gli spagnoli portano dalle Indie e raccolgono con pericolose navigazioni, con la loro fatica e il loro sangue, gli stranieri se lo portano via con facilità e comodo”.

La  Spagna non riuscì a contenere nè i profitti  dell’afflusso di oro e argento e le oscillazioni tra oro e argento andarono a ripercuotersi sulla economia degli altri paesi europei, creando una” inflazione dei profitti” la cui caratteristica è che i prezzi salgono precorrendo i costi di produzione sicchè la classe degli imprenditori (vale a dire  di coloro che organizzano la vendita dei beni e vive di questa attività) ne raccoglie i profitti in funzione della durata della inflazione: col risultato che la classe degli imprenditori, aristocratici e dirigenti, diventava più ricca e potente a scapito dei proprietari terrieri, da una parte e salariati dall’altra che diventavano più poveri, con la conseguenza che la classe ricca fece lievitare i salari dando luogo  a una inflazione dei redditi, più che a una inflazione dei profitti (E.E. Rich in Cambride University: Storia del Mondo Moderno).

L’oro e l’argento del continente americano, seguendo le vie commerciali e finanziarie, giunse ai paesi che vendevano merci al mercato spagnolo che traboccava di quelle due materie prime, accumulando enormi profitti che andarono a beneficio degli speculatori, non dei salariati o dei proprietari terrieri.

Il risultato fu, come abbiamo visto, che l’economia spagnola finì per dipendere completamente dai paesi europei per tutti i beni di consumo interno (si è fatto l’esempio della costruzione delle navi dell’Invincibile armada il cui legname per alberature, gomene, sartiame, pece, catrame, rame provenivano dal Baltico), mentre le sue riserve d’oro e d’argento defluivano nei paesi fornitori di quei beni di consumo.

Non solo. Ma venne al pettine anche il problema dello spopolamento della Spagna che con una popolazione ridotta a otto milioni di abitanti (l’Inghilterra ne aveva cinque milioni, la Francia sedici milioni, il Portogallo tre milioni), non era in grado di assolvere.

Gli storici avevano rilevato un flusso di piccoli artigiani e venditori ambulanti e contadini itineranti verso la Spagna. Era stato rilevato anche un movimento di contadini che erano andati a ripopolare terre abbandonate dell’Aragona come anche di lavoratori francesi che si erano recati a lavorare in Castiglia, sintomo della depressione diffusa, che non era stata percepita e di cui non si aveva consapevolezza perché non ancora si erano sviluppati gli studi e gli osservatori o le analisi finanziarie, che ebbero inizio con la polemica tra Bodin e Malestroi, in cui, mentre Jean de Malestroit (XVI sec.) con i suoi paradoxes esposti al re, sosteneva che l'aumento dei prezzi verificatosi in Francia era solo apparente in quanto i prezzi erano aumentati in termini di unità di conto, ma poiché era diminuito il contenuto metallico della moneta, essi non erano aumentati in termini di oro; Jean Bodin (1529-1596): al contrario, sosteneva che i prezzi erano aumentati sia in termini di unità di conto che in termini di metallo prezioso. Egli dimostrò quindi che la principale causa dell'aumento dei prezzi andava ricercata nell'aumento di oro in circolazione (TQM:Teoria Quantitativa dei Metalli).

Relativamente alla manodopera nelle colonie, dopo lo sfuttamento degli indigeni, fu incrementato, come abbiamo detto, il doloroso commercio degli schiavi (v. in Art, cit.  Schiavi, avorio ecc.) con il primo carico che giunse in America nel 1503 e continuò costantemente per tutto il secolo e oltre, fino alla abolizione negli Stati Uniti nel 1863, e, negli Stati del Sud,  nel 1865.

 

I FUGGER

*) I Fugger originariamenmte abitavano nel villaggio di Graben presso Asburgo e fin dal tredicesimo secolo avevano eserrcitato l’attività di tessitori e poi il commercio; il capostipite Giovanni nel 1370  per matrimonio aveva ottenuto i  diritti di borghesia.

I figli di Giovanni, Andrea e Giacomo pervennero a una grande fortuna  e quest’ulltimo aveva avuto due figli Giorgio e Giacomo che avevano raggiunto immense ricchezze  e divenuti titolari di contee, signorie e terre e la famiglia si era trasferita ad Asburgo dove avevano un magnifico palazzo rinascimentale.

L’imperatore Massimiliano aveva loro accordato patenti di nobiltà e da Carlo V erano stati nominati conti e baroni dell’impero. La linea principale di Raimondo si era divisa tra i due figli Giacomo e Giorgio nei rami di Pfirt e Wieissenhorn, il resto in quello di Zinneberg e successivamente in altre branche, tutti imparentati con le più illustri casate della Germania.

E’ noto l’avvenimento della improvvisa visita dell’imperatore Carlo quando, essendo sprovvisti di legna, per riscaldare gli ambienti, avevano bruciato fascine di una partita di cannella che valeva migliaia di zecchini e gli avevano  abbuonato i debiti da lui contratti.

Domenico Custos, incisore di Anversa, aveva pubblicato una serie di ritratti dei primari personaggi della casa col titolo “Fuggerorum et Fuggerarum  quae in familia natae, quae in familiam  transiverunt, quot extant aere expressae imagines” (il libro da bibliografi ignoranti era stato messo nei cataloghi botanici delle felci!).

Il più antico personaggio della raccolta era Giacomo detto il Vecchio morto nel 1460. Uno dei più ragguardevoli personaggi della famiglia, fu Ulderico, nato nel 1528, il quale si fece ecclesiastico e fu a Roma alle dipendenze del papa Paolo III. Da Roma, se ne tornò in Germania dove, essendo entrato in contatto con i riformatori, si convertì ai loro principi, dedicandosi allo studio delle lettere facendo pubblicare da Enrico Stefano le miglori edizioni di autori latini e greci. Aveva formato una preziosissima raccolta di manoscritti impegnando ogni anno grosse somme per aumentarla, tanto da preoccupare i suoi genitori che dissipasse il loro patrimonio, per cui lo fecero interdire. Ma riuscì a fare annullare la sentenza e confermato il testamento del fratello che lo istitituiva erede, si ritirò ad Eidelberg dove morì nel giugno del 1584. Lasciò in legato una somma per i poveri e un’altra per il mantenimento di sei secolari dell’accademia.

Molti autori, meravigliati della sua inesauribile ricchezza, ritenevano che fosse in possesso della pietra filosofale e che ne avesse lasciata la prova in diversi scritti. Ma una delle principali fonti della fortuna era il mercurio di Almaden di cui i Fugger avevano la concessione  che serviva per  ottenere l’argento delle miniere di Potosì.

Il fratello, Giovanni-Giacomo, partecipe del gusto di suo fratello per i libri, aveva formato una biblioteca di cui Girolamo Volsio era stato il conservatore. Egli era in corrispondenza epistolare con il cardinale Granvelle e una delle sue lettere fu inserita nel Trattato della Tolleranza delle religioni di Pelisson. Inoltre aveva composto in tedesco una Vera descrizione della Casa d’Absburg e d’Austria (1555) in grossi volumi in folio, arricchiti di oltre trentamila impronte di scudi gentilizi, sigilli, ritratti che si conservano nelle biblioteche di Vienna e Dresda. Lambecio e Kellar ne pubblicarono dei frammenti e Sigismondode Birken ne fece in tedesco un sommario poco pregiato col titolo Speccchio d’onore della Casa d’Austria (1608) in folio.

I fratelli Antonio e Raimondo Fugger, furono nel XVI sec., fondatori della chiesa di San Maurizio d’Augusta, in cui fecero collocare con grandi sopese, un organo, il più grande che si fosse visto in Germania. La città di Augusta va ad essi debitrice di altre istituzioni importanti, tra le altre di un ospizio per gli incurabili e un altro per i poveri vergognosi. Raimondo aveva formato un museo di antichità dei migliori artisti; aveva fatto un giardino botanico in cui venivano coltivate le più belle piante dell’Italia.

Ottone-Enrico Fugger, conte di Kirschberg e di Weissemborn, nato nel 1592, militò agli stipendi della Spagna e venne fatto colonnello nel 1617 come premio per la bella condotta innanzi a Vercelli. Egli levò le truppe a sue spese per marciare contro la Boemia sollevata e in seguito, inviato nei Paesi Bassi, dove intervenne all’assedio di Breda (1624). Le nuove turbolenze in Germania gli diedero nuove occasioni per segnalarsi; nel 1632 aiutò il generale Tilli a sottomettere la Franconia; comandò in principalità, l’esercito che aveva ordine di operare in Svevia e venne fatto, in seguito, Maestro di artriglieria. Diresse l’assedio di Ratisbona (1634) e si impadronì della piazza e fu presente a Nodlingen. Ad Augusta nell’anno seguente depolse il senato luterano e lo sostituì con uno cattolico. L’imperatore lo aveva innalzato al grado di conte dell’Impero e il re di Spagna, Filippo IV, lo omorò dell’Ordine del Toson d’Oro; morì nel 1644.

(Da Biografia Universale , Vol. XXII VE 1825).

 

 

 

LA RIVOLUZIONE

 DEI PREZZI E LE

BANCAROTTE

DI FILIPPO II

 

 

 

D

urante l’intero secolo XVI e proseguendo nel successivo XVII, l’enorme flusso di oro e argento proveniente dalle colonie, aveva determinato, senza che se ne avesse la piena consapevolezza, l’aumento incontrollato dei prezzi, definita dai posteri  rivoluzione dei prezzi, che altro non era, ciò che i moderni chiamano inflazione e recessione, determinata, non da mancanza di risorse ma da quella continua pioggia d’oro e d’argento che si riversava in continuazione sull’Europa, che pareva non avesse mai fine e aveva determinato, come abbiamo visto,  l’aumento dei prezzi dei generi di consumo, mentre i salari rimanevano gli stessi.

Le verghe d’oro e d’argento (*) giungevano con i galeoni a Siviglia dove tutte le importazioni erano registrate alla Casa de la Contractacion (organismo governativo creato nel 1503 per controllare gli scambi col Nuovo Mondo; la principale funzione era quella di ricevere i metalli preziosi grazie alle miniere e ai fiumi auriferi di Hispaniola e Portorico e con la flotta organizzata ogni anno, il convoglio faceva vela verso l’Europa, spesso intercettata dai pirati.

Giunti e registrati a Siviglia (la cui cattedrale fu ricoperta d’oro, del valore attuale di trilioni), i galeoni  proseguivano per Anversa.

Si sa che l’argento sostituiva l’oro e incominciò ad affluire dal 1530, aumentando in misura modesta negli anni successivi; ma dopo la scoperta sensazionale in Bolivia, delle miniere di Potosì (1545), si estraeva dalle rocce con un amalgama di rame e mercurio (che intossicava i minatori che morivano a centinaia); dopo il 1551 vi fu una crescita enorme della produzione e le importazioni salirono a ritmo esponenziale fino a raggiungere nel quinquennio 1571-75 gli 11.906.609 di pesos arrivando, nel quinquennio 1591-95, a 35.184.862 di pesos: l’argento finì per sostituire l’oro nelle contrattazioni e il pagamento delle truppe spagnole che si trovavano nelle Fiandre, avveniva con la spedizione di verghe d’argento.  

Le miniere erano investimenti di privati i quali chiedevano in cambio i prodotti richiesti dai coloni americani, che a loro volta inviavano anche piccole quantità di pelli, tinture e zucchero come l’olio e il vino dell’Andalusia, i tessuti di lana e di seta di Toledo, Cuenca, Mursia e Granada, gli utensili di ferro dei Paesi Baschi, il mercurio di Almadèn;  prodotti la cui richiesta si ridusse verso la fine del secolo (1580-90) quando i coloni furono in grado di produrli per conto proprio.

Questa pioggia d’oro e d’argento, invece che  diffondere in Europa benessere, dispersa in mille rivoli, servì solo da una parte a finanziare guerre e lusso e ad arricchire finanzieri e speculatori e dall’altra a rendere più poveri quelli che già di per sé erano poveri e certamente non servì ad alleviare la pressione fiscale nei domini spagnoli in Italia, che invece si inaspri, divenendo più pesante e insopportabile.

L’ enorme pozzo di debiti dei monarchi inghiottiva tutto quel ben di dio di ricchezza, giungendo all’assurdo, che i suoi principali fruitori, Carlo V e Filippo II, continuarono ad essere oberati di debiti, ambedue sottomessi ai voleri dei finanzieri che avevano portato durante il regno di Filippo II a ben quattro fallimenti, che costituivano vere e proprie bancarotte; la prima delle quali si verificava in Spagna e nei Paesi Bassi nel 1557, quando Filippo non riueiva a far fronte ai pagamenti.

I Fugger erano stati costretti ad accettare il congelamento dei debiti di Filippo, causati dalle continue guerre e impegni militari iniziati da Carlo V, durante la prima metà del 1500 ed erano proseguite con Filippo fino alla fine del secolo; i Fugger, coma abbiamo detto,  saranno anch’essi travolti dalla bancarotta e saranono sostituiti dai banchieri genovesi; la seconda si ebbe nel 1596 la terza nel 1597, infine la quarta nel 1607, dovuta anch’essa alle enormi spese della corte di Filippo.

L’esasperato fiscalismo, la corruzione, il saccheggio, l’indiscriminata e progressiva distruzione delle risorse ne erano state le gravi e profonde conseguenze;  il debito pubblico, quando Filippo salì al trono era di 35milioni di escudos, quando morì era di 140milioni di escudos.

 Della “rivoluzione dei prezzi”, che aveva avuto inizio in Spagna nel 1500 e si estenderà a tutta l’Europa con modalità diverse, alcuni stati se ne gioveranno, come i Paesi Bassi, Francia, Inghilterra per rinforzare le proprie strutture produttive, altri come Spagna e Italia, saranno coinvolte in un progressivo deterioramento economico con pesanti conseguenze sociali.

Per tutto il secolo l’incapacità dei salari a tener dietro all’aumento dei prezzi, unitamente al crescente fiscalismo che si verificava in Spagna e Italia, provocherà un sostanziale impoverimento del tenore di vita delle masse popolari.

Nel 1551-1560  l’argento assume un ruolo dominante sui mercati europei.

L’oro rappresentava solo il 15% del quantitativo medio dei metalli preziosi annualmente giunti alla Casa de Contractacion di Siviglia che aveva il monopolio delle importazioni dalle Americhe, le cui ricchezze giungevano in Europa  in continua crescita e si imponevano come elementi fondamentali che consentivano a Carlo prima e Filippo dopo, di sostenere le guerre della loro politica imperiale.

Nonostante la pressione fiscale esercitata sui sudditi spagnoli e italiani,  essi dovevano far ricorso a prestiti e anticipazioni richieste ai Fugger, che si assommavano ai debiti contratti da Carlo nel 1519 per la sua elezione a imperatore.

La situazione spagnola, nonostante l’argento del Potosi, si aggravava dove vi erano le sedi dei grandi banchieri e ad Anversa giungeva il danaro contante degli Asburgo, inviato dalla Spagna.

L’epopea dei prezzi che coincise con quella del predominio commerciale a metà secolo, che era il più elevato d’Europa (eccettuata Lisbona), raggiunse  il livello più elevato nella Francia; e nell’Inghilterra, con il prezzo di una camera d’albergo e il costo della vita, che era il doppio della Francia.

La Spagna vietava l’esportazione di oro e argento, ma questa misura si dimostrò inutile e disastrosa perché si accentuava la scarsità dei beni di consumo rispetto al denaro circolante che era conseguenza dell’importazione dei metalli preziosi.

All’esportazione delle merci nelle colonie, era seguito l’aumento dei prezzi delle merci e si pensò di porvi rimedio vietando l’esportazione, perché le colonie avevano sufficienti materie per soddisfare i propri bisogni.

E così l’industria e il commercio spagnoli non solo persero i mercati esteri, ma furono incapaci di soddisfare le richieste interne, con la conseguente necessità di doversi rifornire dai mercati europei pagando con l’oro che giungeva dal Nuovo mondo.

Anche nelle colonie era stato posto il divieto del commercio con altri paesi, con la conseguenza (che vale per tutti i divieti: come il proibizionismo dell’alccol in USA degli anni trenta, e, attualmente delle sigarette e cannabis!) che facevano arricchire i contrabbandieri (ndr.)!

La finanza aveva creato un mercato di capitali manovrato da uomini d’affari che trattavano con i governi, i sovrani, le città, mettendo loro a disposizione  anticipazioni a breve e medio termine sulle future entrate pubbliche, provvedendo così al pagamento del soldo alle truppe o alle forniture di rame per la marina da guerra, assicurando in anticipo la circolazione dei metalli preziosi prima che dalle Americhe arrivassero a Siviglia.

L’aumento della popolazione non veniva soddisfatta da uguale aumento dei beni di prima necessità, con la conseguente pressione della domanda sui beni di prima necessità.

Gran parte della popolazione, per l’alimentazione, si orientò verso i cereali (cerealizzazione: la carne dei poveri) anche se producevano calorie di valore inferiore alle calorie di origine animale.

La crisi era stata attribuita alla massa d’oro e poi dell’argento che giungeva dalle Indie occidentali (*), ma questa era stata solo una  concausa.

Nel corso del 1500 la Spagna riceveva una tale quantità di metalli preziosi, nonostante subisse perdite notevoli a causa del contrabbando, pirateria e peculato da parte dei funzionari, da sconvolgere  la bilancia commerciale di molti paesi europei.

Tutta la massa dei metalli preziosi, oro e argento (dal 1519 incominciò ad avere prevalenza l’argento), determinò il rialzo dei prezzi e il rialzo fu costante per tutto il secolo, raggiungendo livelli cinque volte maggiori dei prezzi iniziali. Il fenomeno dalla Spagna si propagò in Europa dove rimase più contenuto, mentre in Spagna raggiunse livelli disastrosi. In Francia raggiunse in quegli anni un livello pari a due volte e mezzo, mentre in Inghilterra il rialzo ebbe inizio più tardi, verso la metà del secolo (1550).

Carlo aveva disposto che il traffico commerciale passasse per Siviglia, sicché i Paesi Bassi pur essendo sotto il dominio degli Asburgo, non potevano profittare dei tesori che giungevano dal Nuovo Mondo se non nella stessa misura della Francia e dell’Inghilterra.

Ma era stata Anversa, per il commercio delle spezie, in seguito alle scoperte portoghesi nel sec. XVI, a divenire il centro del mondo finanziario.

 

 

 

*) Tra il 1503 e 1520 erano giunti 14.ooo kg. di oro: ma la quantità diminuisva mentre aumentava l’argento. Dal 1521-1540, 1.900 kg. d’oro e 86.ooo kg d’argento: tra il 1541-1560 488.ooo kg. d’argento e 67.ooo kg. d’oro.

L’estrazione dell’argento era aumentata di 5 volte. Nel 1570 i Portoghesi occupando la Guinea si impadroniscono dell’oro africano. Così l’oro e l’argento contribuirono ad aggravare l’inflazione in quanto fecero diminuire il valore del denaro.

 

 

 

IL COMMERCIO

E LO SCAMBIO

DFI PRODOTTI

TRA EUROPA

 E NUOVO MOMDO

 

 

 

L

’urbanizzazione portava forti contingenti di popolazione contadina a trasformarsi da produttori in consumatori, con l’aumento della commercializzazione interna.

Tra il 1480 e il 1560  i prezzi aumentarono di 5/6 volte. che per l’epoca era tanto, mentre i salari aumentavano solo nel Nord Italia e nelle Fiandre, perché controllati dalle corporazioni, nel resto d’Europa rimanevano fermi.

Altra causa fu l’aumento della popolazione che comportava la maggior richiesta di beni di consumo che non si era in grado di incrementare, con l’ulteriore levitazione dei prezzi.

L’inflazione ebbe due effetti contrastanti: da una parte, la perdita  di valore dei redditi da lavoro e delle rendite fisse, dall’altra, uno stimolo agli investimenti. Ne rimasero colpiti i salari che erano pagati a fine anno, quindi svalutati, e la nobiltà pagata a canone fisso dagli affittuari, anch’esso soggetto all’inflazione.

La crescita della popolazione (*) portò all’aumento dei prezzi che proseguì fino alla seconda metà del 1500. L’aumento dei prezzi colpì particolarmente i cereali, seguito, non nella stessa misura, da quello della carne: altrettanto modesto fu l’aumento dei prodotti industriali.

Tutto questo portò a un impoverimento in quanto, la mancanza di disponibilità, portava ad acquistare cereali più economici e di bassa qualità, come la segala; e il pane diventava sempre più scuro, mentre la carne scompariva dalle tavole con un peggioramento della nutrizione.

Mentre vi erano molti terreni da coltivare, il numero dei contadini non era sufficiente e ciò aveva portato all’aumento dei salari.

Comunque non tutto fu negativo

L’afflusso di ricchezza dalle Americhe, come detto, fece sì che il costo del denaro diminuisse, e questo portò l’accesso al credito con incremento degli investimenti di capitali in attività commerciali e produttive: nascevano così le basi del capitalismo.

Nel corso del secolo si stabilizzavano gli scambi di prodotti tra l’Europa e il Nuovo Mondo dove era introdotta la coltivazione della canna da zucchero, del grano, del riso, della vite, dell’ulivo e del caffè (che proveniva dall’Africa) e l’allevamento degli animali come il cavallo che, dai pochi esemplari introdotti dagli spagnoli si è giunti, nonostante la selezione durante gli ultimi secoli (della razza mustang),  agli attuali circa sessanta mila capi che vivono allo stato brado; oltre a bovini, suini, pollame, baco da seta.

Invece in Europa erano giunti il mais, le, patate, i pomodori, i fagioli, i peperoni e il peperoncino, le zucche l’ananas, le arachidi, i fichi d’india. il tabacco, il cacao che con il caffè e il tè proveniente dalla Cina, erano divenute le bevande più eleganti e diffuse dell’Occidente

I piccoli produttori che producevano per la propria famiglia vendevano il surplus dei loro prodotti, utilizzando il ricavato per pagare l’affitto, le tasse e acquistare prodotti.

L’aumento della richiesta di cereali, aveva dato la spinta all’aumento della produzione che non poteva aver luogo in quei tempi per via intensiva ma estensiva, aumentando cioè i terreni da coltivare e questi terreni furono tolti ai pascoli e con il disboscamento (intorno al 1530) al quale fecero ricorso i proprietari terrieri della Francia e della Germania, dove raggiunse dimensioni elevate, da costringere i monarchi a porre dei divieti.

In alcune zone della Francia e dell’Italia furono eliminate le vigne per far posto alla coltivazione del grano e in Boemia, Polonia, Russia e Italia del Nord furono bonificate (tra la metà 1500 e inizi 1600) distese paludose.   

In Bassa Sassonia e Schleswig-Holsteim vi fu espansione verso il mare. Nei paesi Bassi furono sottratti al mare (e lo sono tutt’ora) migliaia di ettari con la costruzione di Polders (i terreni si trovano sotto il livello del mare, salvaguardati da un sistema di dighe, collettori e idrovore, che tengono sotto controllo le acque interne).

Con il sistema estensivo non si ebbero grossi risultati in agricoltura rispetto al secolo precedente (metà ‘400, metà ‘500). L’eccezione sulla produttività si ebbe nei Paesi Bassi che avendo la possibilità di fornirsi del grano della Polonia, incrementò l’allevamento del bestiame e dei prodotti caseari (nell’Italia settentrionale si diffusero nuovi cereali come  mais  e il riso).

Si verificò comunque che i redditi derivanti dai miglioramenti produttivi  finirono per essere assorbiti dal tasso di prelievo e quindi l’estensione e l’intensificazione della produzione agricola, con le bonifiche e il disboscamento venivano sostituite dall’estensione e intensificazione del prelievo, col risultato che nel tardo ‘500 e inizi ‘600 la crescita della produzione di alimenti e materie prime avvenne con una velocità inferiore alla crescita della popolazione e nel lungo periodo il prodotto agricolo diminuì, con la conseguenza di un impoverimento e peggioramento del livello di vita della popolazione rurale.

La coltivazione dei terreni era fondata sull’affitto, il cui canone era pagato in danaro o in natura. In alcuni paesi fu introdotta la mezzadria, forma di associazione in cui si divideva la metà del prodotto con il lavoro dei contadini, mentre nella parte orientale dell’Europa si sviluppava il servaggio.

L’azienda signorile aveva dei piccoli appezzamenti  assegnati a ciascuna famiglia da cui questa ricavava il fabbisogno, con obbligo di residenza e la famiglia coltivava il resto della proprietà la cui produzione doveva servire per tutti i bisogni del proprietario e di quelli che erano a lui collegati, il resto costituiva il surplus destinato alla vendita.

 

 

 

 

*) Relativamente  alla riduzione della popolazione causata della peste (v, in Art. La peste ecc) del 1347, ridotta alla metà (30 milioni). essa si riprese, raggiungendo nel 1450 i 60 milioni di anime e tra il 1450 e 1600   raggiunse i 100 milioni

. 

 

 

 

 

 

FINE

PARTE SECONDA