Carlo v - Tiziano
TRA
RINASCIMENTO
RIFORMA
E CONTRORIFORMA
PARTE SECONDA
IL GIOCO DELLA FORTUNA
E L’IDEA IMPERIALE
SOMMARIO: INTRODUZIONE IL MATRIMONIO DI ISABELLA DI CASTIGLIA E FERDINANDO D’ARAGONA; IL MATRIMINIO DI GIOVANNA DI CASTIGLIA CON FILIPPO IL BELLO E LE EREDITA’ DI CARLO (In Nota: L’ETA’ MODERNA); IL DUCATO DI BORGOGNA E LE ASPIRAZIONI DI FILIPPO IL BELLO; CARLO RE DI SPAGNA ELETTO IMPERATORE DEL S.R.I.G. (In Nota E L’IMPERO SOVIETICO?); LA RIVOLTA DEI COMUNEROS E DELLA GERMANÌA LA CRISTIANITA’ E L’IDEA DELL’IMPERO UNIVERSALE (In Nota: L’AUTOTOBIOGRAFIA DI CARLO V); LA GRANDE INFLAZIONE DEI SEC. XVI E XVII: LA FALSIFICAZIONE DELLE MONETE DA PARTE DI CARLO V; LA RIVOLUZIONE DEI PREZZI; LA SPAGNA IMPOVERITA DALL’ORO E ARGENTO DEL NUOVO MONDO (CONSIDERAZIONI DI USTARIZ E BLANQUI); LA DECADENZA DELL’ITALIA; L’ORO E L’ARGENTO E LA DISASTROSA AMMINISTRAZIONE DELLA RICCHEZZA PIOVUTA DALLE INDIE (In Nota: I FUGGER); LA RIVOLUZIONE DEI PREZZI E LE BANCAROTTE DI FILIPPO II; IL COMMERCIO E E LO SCAMBIO DI PRODOTTI TRA EUROPA E NUOVO MONDO.
INTRODUZIONE
(Bella gerant
alii,
tu felix Austria, nube...*)
M |
ai
nella secolare storia delle dinastie regnanti si era verificato che uno dei suoi esponenti, senza alcun merito
e senza aver mosso un dito, abbia potuto
ricevere una immensa estensione di territori distribuiti in mezzo mondo tra
Europa e Indie Occidentali appena scoperte; la Dea Fortuna o Fato perr i
greci o Destino per i gentili o Provvidenza per i cristiani (ma é solo scienza matematica, ovvero combinazioni
dovute al calcolo delle infinite probabilità che dir si voglia), aveva pensato
che tutta quella fortuna sarebbe andata a finire sul capo di un bambino predestinato
e non ancora concepito che sarebbe stato
Carlo di Borgogma.
La
Dea Fortuna, pensando a lui già prima della sua nascita, aveva
iniziato a volgere il suo sguardo all’Austria
felix dove regnava l’intraprendente suo bis-avolo, Federico III d’Asburgo (1440-1493),
imperatore del S.R.I.G., il quale, all’interno della sua famiglia aveva
introdotto l’idea che le acquisizioni
territoriali dovessero aver luogo, non con le guerre (*), ma con i
matrimoni (v. in Genealogie: Asburgo), salvo a ricorrere alle guerre solo per
difendere i territori acquisiti.
Proprio
l’imperatore Federico III aveva individuato la ventenne ricca ereditiera, Maria
di Borgogna (1457-1482) e aveva avuto la bella idea di farla sposare (1477) al
diciottenne. affascinante e squattrinato figlio Massimiliano, (1459-1519),
destinato a cingere la corona imperiale del SRIG (**); la dote portata da Maria
era costituita dalle ricche Fiandre (v. sotto).
Dal
matrimonio di Massimiliano con Maria di Borgogna nascevano due figli Margherita
e Filippo; mentre Maria dopo aver fatto il suo dovere di maternità, lasciava
prematuramente il mondo dei vivi cadendo da cavallo durante una galoppata.
I
due bambini, come d’uso, furono oggetto di trattative matrimoniali incrociate
con i figli dei reali di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona e
mentre Margherita era destinata
all’Infante Giovanni (1496), erede della corona di Spagna, Filippo fu destinato
a sposare (1497) la sorella di Giovanni, Giovanna.
Ma, udite, udite ciò che cosa avvenne: l’Infante Giovanni moriva “per
strapazzi sessuali” l’anno seguente
(1497) e per la giovane sposa Margherita la morte del marito non costituì un
problena in quanto passava a nuove nozze con Alfonso del Portogallo; a causa
della morte di Giovanni, la carica di “Infanta”
ricadeva sulla sorella Giovanna,
destimata a diventare regina.
Infatti, alla morte della madre Isdabella (1504), Giovanna ereditava i regni materni di
Castiglia e Leon, che costituiva tutta la parte centrale della Spagna, (v.
Articoli: L’Europa verso la fine del medioevo Parte II e Geopolitica 1, Stati
iberici 1492), oltre alle scoperte di qualche anno prima (1493) da parte di
Cristoforo Colombo, il quale, finanziato dalla acuta e lungimirante Isabella
(l’avaro Ferdinando non vi aveva partecipato!), per puro caso, invece di
giungere al “Cipango”, senza neanche rendersene
conto, si era trovato di fronte un altro continente a cui era stato dato il nome iniziale di Indie Occidentali e poi
di Americhe.
La
Dea Fprtuna infine, aveva pensato di
destinare alla unificazione tutto il patrimonio di Isabella con quello di
Ferdinando d’Aragona, unendoli in un non
facile matrimonio.
*) All’imperatore Federico III sarebbe infatti attribuito l’epigramma “Bella gerant alii, tu felix Austria, nube.
Nam quae Mars aliis dat tibi regna Venus...Mentre gli altri combattono, tu felice Austria,
sposati; Venere, infatti ti dà i regni che Marte procura agli altri con le
armi.”.
**) Massimiliano
non si era recato a Roma, come tutti gli altri imperatori ma si era fatto
coronare nella cattedrale di Trento (1508), dichiarando che con il consenso del
papa Giulio II, assumeva il titolo di “imperatore
eletto”.
IL
MATRIMONIO DI
ISABELLA
DI CASTIGLIA
E FERDINANDO
D’ARAGONA
S |
eppur
dopo varie vicissitudini, Isabella di Castiglia aveva sposato Ferdinando
d’Aragona, lei di diciotto e lui di diciannove anni, legati da una bella storia
d’amore e di regno, coronato dalla scoperta dell’America, che avrebbe
rivoluzionato il futuro del mondo intero.
Per
Isabella la strada per giungere al trono non era stata facile: lei era figlia
di Giovanni II di Castiglia e della sua seconda moglie Isabella de Avis; dalla
prima moglie Maria d’Aragona, Giovanni II aveva avuto due figli maschi che
assicuravano la successione: Enrico, che sarà Enrico IV l’Impotente e Alfonso, secondogenito
di riserva.
Morto
Enrico, gli succedeva il fratello Alfonso, ma anche lui moriva a sedici anni di
peste; la strada per Isabella non era ancora libera perché spuntava Giovanna la
Beltraneja, nata dopo sei anni di matrimonio di Enrico IV (aveva ottenuto la
separazione dalla prima moglie, Bianca di Navarra, che era stata trovata
vergine), con la seconda moglie, Giovanna del Portogallo, nata dai rapporti
avuti dalla regina con il favorito di suo marito (e pare, proprio su generoso suggerimento
del marito impotente!) con Beltrand de la Cueva ... da ciò il sopranome di
Beltraneja, designata regina di Castiglia; ma poi, finalmente, il regno fu
assegnato a Isabella, mentre la madre, donna bella e seducente, usciva di senno
e, probabilmente il suo gene di follia era stato trasmesso ad alcuni dei suoi
discendenti!
Isabella, tra gli altri pretendenti, aveva scelto come suo sposo,
Ferdinando, e i due monarchi avevano avuto cinque figli da mercanteggiare:
Isabella (1470-1498), l’infante
Giovanni (1478-1497), destinato a ereditare e riunire i regni dei genitori, di
Castiglia-Leon e Aragona (con tutti i territori annessi all’uno e all’altro),
Giovanna (1479-1555), Maria (1482-1517) e Caterina
(1485-1536).
Era stata prevista una strategia matrimoniale che comportava
alleanze fatte per bloccare il nemico francese, in base alla quale la
primogenita Isabella sposava Alfonso, figlio di Giovanni II del Portogallo, il
quale moriva cadendo da cavallo; il padre, privo di eredi (ne aveva uno
naturale), faceva sposare Isabella col fratello minore della moglie Eleonora
(1497), Manuel di Aviz detto il Fortunato (1469-1521), il quale alla sua morte
saliva al trono del Portogallo come Manuel lI.
L’infante Giovanni,
sposava Margherita di Borgogna, sorella di Filippo il Bello, mentre Giovanna
sposava Filippo e avevano due figli maschi: il più volte baciato dalla fortuna Carlo e Ferdinando.
I varii matrimoni erano stati seguiti da una serie di mortalità,
che dovevano ingrandire le eredità del primogenito Carlo di Gand; infatti, Giovanni,
che aveva superato l’infanzia, la fase di maggior pericolo a causa della
mortalità infantile che a quei tempi mieteva gran quantità di vittime, sembrava
essere uscito fuori pericolo per aver raggiunto i diciannove anni; ma moriva a
causa - era stato detto - di eccessi sessuali; egli lasciava la moglie Margherita,
vedova di ventisei anni, che pare fosse anche lei di buon appetito sessuale, come, in
genere, gli Asburgo; le speranze sui
futuri regnanti, erano quindi rivolte nei confronti di Isabella e Manuel, che
avevano preso il titolo di principi delle
Asturie (vale a dire eredi dei regni spagnoli).
Tutto sembrava procedere per il meglio, quando Isabella moriva
(1498), lasciando un figlio, Miguel, il
quale a sua volta moriva al suo secondo anno di vita; Manuel si consolava sposando la sorella più
giovane di Isabella, Maria, ma questa fu anch’essa colta dalla morte a
trentacinque anni (1517), e Manuel sposava Eleonora, nipote delle due mogli e
prima figlia di Giovanna e Filippo il Bello.
L’altra
figlia di Isabella e Ferdinando, Caterina, era mandata in Inghilterra per
sposare Arthur principe di Galles, incoronato come Enrico VII, morto senza aver
consumato il matrimonio (v. in Art. “L’Inghilterra
dei Tudors”.).
Caterina
quindi fu sposata dal fratello, il terribile Enrico VIII (v. cit.Art.), che, facile
agli innamoramenti, aveva instaurato un grosso processo per ottenere l’annullamento del matrimonio con Caterina che il papa non
volle concedere perché vi era di mezzo proprio Carlo V, nipote di Caterina, ed
Enrico aveva fatto ricorso alla scissione dalla Chiesa di Roma, creando la Chiesa anglicana; Caterina, dopo il divorzio rimaneva in
Inghilterra e moriva in terra straniera all’età di cinquantuno anni.
Erano infine, saltati gli accordi matrimoniali successivamente
intercorsi, con il trattato di Blois (1504), tra Ferdinando d’Aragona e Luigi
XII di Francia, che non andavano nel senso voluto dai rispettivi genitori, tra
i quali era stato concordato il
matrimonio di Carlo di Gand (di quattro
anni) con la piccola Claudia, prima delle figlie di Luigi XII, di cinque anni,
piccola anche di statura (e deforme), che sposerà il gigante Francesco I di
Valois (v. in Art. Diana di Poitiers
ecc.); anche il matrimonio con la seconda figlia, Renée, successivamente
destinata pure a Carlo, non ebbe luogo!
L’anno successivo alla morte di Isabella (1504), il
cinquantaduenne Ferdinando si consolava con un matrimonio strepitoso, sposando la quindicenne Germaine de Foix, nipote del celebre Gastone de Foix.
Germaine (1490-1536) aveva il fisico rotondetto (che non appare dai ritratti) e col tempo
andò fuori misura in quanto amante di pranzi, feste e sesso, rendendo così felice
Ferdinando negli ultimi dieci anni che gli rimanevano da vivere (†1516), che il
monarca, spensieratamente e con l’aiuto di intrugli vivificatori della sua
sessualià in declino, divise con lei.
Carlo di Gand
IL MATRIMONIO DI
GIOVANNA DI CASTIGLIA
CON FILIPPO IL BELLO
E
LE EREDITA’ DI CARLO
G |
iovanna
era la meno considerata delle sorelle e diciassettenne fu mandata nelle Fiandre
per sposare il diciottenne Filippo d’Asburgo
detto il Bello, seppur, secondo i
canoni dell’epoca, proprio bello non era in quanto aveva la mascella prognata e
il labbro inferiore pendulo, difetto trasmesso (in maniera più accentuata, al
figlio Carlo, che, poi limitato al labbro inferiore carnoso, si trasmetterà
alle generazioni successive degli Asburgo, fino ai giorni nostri *) .
Il
matrimonio, non molto felice per la povera Giovanna, destinata a subire i
tradimenti e le angherìe fisiche e morali dello scapestrato Filippo, che, prima del
matrimonio già viveva la sua vita libera che conduceva nelle Fiandre, tra feste,
caccia e amori passeggeri, ai quali aveva aggiunto, quando andrà in Spagna, il
gioco della pelota che, come vedremo,
lo porterà alla tomba.
I
due si piacquero subito e Giovanna, con la straordinaria carica erotica che l’aveva infiammata, si era data a Filippo
già prima (1497) della celebrazione
ufficiale del matrimonio (avevano chiamato un prete per una benedizione matrimoniale
provvisoria).
Questa
attrazione, che durerà per tutti i dieci anni passati insieme, sarà fatale per
Giovanna, mentre Filippo continuava a distrarsi con altre donne; queste infedeltà non erano accettate da
Giovanna, anche a causa dei maltrattamenti fisici che Filippo le infliggeva, fino
a giungere alla segregazione.
Il fatto poteva anche essere
dimenticato, ma era in ballo il regno di Castiglia che l’ ambizioso
Filippo voleva per sé, senza le interferenze
della moglie.
Quell’avvenimento aveva segnato l’inizio
del calvario, con la follia (che serpeggiava già da tempo nella casa di
Castiglia), e in Giovanna si
accentuerà dopo la morte dell’amato marito e durerà per tutti i quarant’anni della sua lunga esistenza. portandone
per sempre il marchio, col nome di “Juana
la Loca - Giovanna la Pazza”.
Filippo,
padrone della ricca Borgogna, limitata ad essere solo un feudo, mirava a
diventare re di Castiglia, mentre Giovanna, a causa del suo innamoramento per
il marito, aveva finito per esasperare la sua iniziale malinconia che le
suscitava accessi d’ira, senza poter avere
alcun conforto da parte dell’ambiguo e avido padre Ferdinando, smanioso di avere
anch’egli per sè, il regno di Castiglia.
Ma
il Fato aveva pensato a mettere ordine al suo rapporto matrimoniale: Filippo (dal
gennaio del 1506), si trovava in Spagna quando, nel mese di settembre fu colto
da morte improvvisa. Questa morte, nel fiore della giovinezza a venticinque anni, aveva fatto
pensare (come succedeva sempre nel caso di morti improvvise), che fosse stato avvelenato e il maggior sospetto
era ricaduto proprio su Giovanna; ma si era verificato che Filippo, dopo una
partita di pelota, sudato, aveva
ordinato da bere acqua gelata ed era stato fulminato da una polmonite.
Avendo
il marito laciato questo mondo, seppur libera, Giovanna dovette combattere con
l’ambizioso padre Ferdinando che, come abbiamo detto, voleva avere per sé la
Castiglia, e, invece di mostrarsi amorevole con la figlia, la teneva lontana dal
governo del regno al quale lei aveva diritto. fino a costringerla a vivere nella
segregazione.
In
questo contesto, il piccolo Carlo di Gand, fisicamente malformato, era l’unico
desinatario di tutto quel ben di dio di
regni che stavano per cadergli addosso, vale a dire: la Borgogna della
nonna paterna, passata al nonno Massimiliano e quindi al padre Filippo; tutti i
reami della nonna Isabella, ereditati dalla madre, ai quali si sarebbero
aggiunti quelli del nonno, Alfonso d’Aragona.
Per
colmo di fortuna Carlo, si era trovato a nascere all’inizio di un secolo (24 Febbr. 1500), tra i più
belli di quelli che l’avevano preceduto e seguito, il più grande, meraviglioso
e splendido dei secoli possibili, il secolo del Rinascimento (v. la P. I Sez, II e la Cronologia del “1500”) che
gli era scivolato addosso; e proprio lui, legato al superato medioevo, si
trovava a rappresentare questo nuovo periodo storico non avendo nulla a che
vedere con i monarchi illuminati che avevano dato impulso alle epoche felici in
cui erano vissuti, di sviluppo della legislazione, di promozione delle arti, di
scoperte geografiche, legando i loro nomi a un intero secolo, come aveva
ricordato Voltaire per i secoli di Pericle, di Augusto o di Luigi XIV.
Con
l’ulteriore fortuna di essere indicato
come il sovrano
dell’inizio dell’età moderna (**): senza che egli avesse avuto il merito di
partecipare al suo splendore (salvo quello strettamente personale di cui si
circondava), non essendo stato, come altri monarchi, un mecenate, intento
com’era a far guerre per soddisfare la
propria avidità di territori (non a caso Giacinto Ronano nella “Cronaca del soggiorno di Carlo V in Italia”,
lo indica come “beniamino della fortuna,
la cui grandezza fu tutta d’occasione”).
Né devono
ingannare i suoi numerosi ritratti, unica passione che lo legava all’arte, per
i quali ricorreva, tra gli altri, al mal pagato Tiziano, con la storiella agiografica inventata, del pennello che
gli era caduto mentre dipingeva, e che l’imperatore
si sarebbe degnato di raccogliere, facendo così un omaggio all’artista, il
quale invece gli doveva sollecitare i pagamenti, lasciando che grandi
personaggi come Cornelio Agrippa di Nettesheim (†1535), Juan
Luis Vives († a Bruges 1540), che aveva servito a Londra anche
la zia Caterina, ed Erasmo da Rotterdam († 1536,), (v. cit.Cronologia del “500”), morissero
in miseria!
*) In un documentario trasmesso da Focus su “Massimiliano imperatore del Messico” era stato intervistato un
Asburgo-Lorena di ultima generazione, bello come un dio, il cui viso era lo
stampo degli Asburgo e sembrava di vedere Francesco Giuseppe (senza barba), con
gli occhi azzurri che brillavano come diamanti e il bel labbro inferiore più
grosso del superiore ... da sembrare, per la verità, non un difetto, ma un
vezzo sensuale!
**) L’ETA’ MODERNA è caratterizzata dall’inizio
dello sviluppo scientifico da una parte, accompagnata da un’ondata senza
precedenti di intolleranza religiosa (ciò che attualmente si sta verificando
nei paesi islamici e in particolare in Iran dove le donne stanno chiedendo
libertà dalle imposizioni religiose e il regime sta facendo strage di queste giovani
vite, barbaramente torturate e trucidate),
persecuzioni e terrore contro minoranze
etniche e contro gli strati inferiori della popolazione ritenuti depositari dei
peggiori vizi e pericolo permanente per l’ordine e la stabilità sociale, minati
dalle continue rivolte, determinate in ogni caso, da un fattore costante della
miseria, la fame.
Mezzi di
repressione, furono attuati con stragi, censura della stampa, persecuzioni e
processi agli eretici ai quali si aggiunsero quelli nei confronti della
stregoneria (come abbiamo visto nei diversi articoli ad essa dedicati).
E’ in questo
periodo che si sviluppa, anche in modo massiccio, l’uso della tortura, già
parzialmente utilizzata nel medioevo e la “demonologia”.
L’esistenza del
Diavolo, che aveva avuto le sue elaborazioni nel medioevo, viene confermata (Malleus maleficarum e Bolla di Innocenzo VIII) e sviluppata
nei processi per stregoneria, nei quali,
gli inquisitori estorcevano i rituali standardizzati e creati dalle loro
menti malate, i rituali dei convegni
notturni col diavolo, degli accoppiamenti sessuali, dei malefici e di tutto il
complesso di riti demoniaci che attestavano non solo l’esistenza del Diavolo
nel mondo, ma i suoi tentativi di conquistarlo e sottomettere l’umanità al
servizio della religione imperante: tenendo presente che la religione ha
bisogno del Diavolo in quanto, senza Diavolo essa non avrebbe ragione di esistere.
IL DUCATO DI BORGOGNA
E LE ASPIRAZIONI DI
FILIPPO IL BELLO
L |
e
Fiandre facevano parte del ducato di Borgogna la cui estensione copriva mezza
Francia; verso la metà del
Le
Fiandre costituivano la regione più ricca di tutta l’Europa e la corte di Borgogna era famosa per il gusto, la
raffinatezza, l’eleganza di vita e i costumi che erano liberi; i tornei, presso
quella corte, erano l’occasione, non solo di sfoggio di destrezza dei
cavalieri, ma di tutto lo sfarzo che era dato concepire.
L’ultima
esponente della dinastia dei duchi di Borgogna era Maria (1457-1482), figlia di
Carlo il Temerario, che alla morte del padre, Filippo il Buono (1467), aveva
ereditato tutto quel ben di dio, finito nella mani di Filippo d’Asburgo.
Il
contratto di matrimonio di Maria prevedeva che, nel caso di morte di uno dei
coniugi, sarebbe stato considerato erede solo il figlio (nascituro), con
esclusione dall’eredità del coniuge superstite (ciò per non dare a
Massimiliano, dilapidatore di danaro, la possibilità di prendere le redini
dell’amministrazione del ducato, che avrebbe riempito di debiti!).
Maria
però, nel successivo mese di settembre (il matrimonio era avvenuto a Gand nel
mese d’agosto e la decisione rimane incomprensibile), aveva spontaneamente
cambiato gli accordi matrimoniali, nominando erede Massimiliano, nel caso lei
fosse morta senza figli!
Massimiliano
era ambizioso, di carattere bizzarro, sognatore e di una prodigalità senza
limiti, tale da essersi indebitato, dando fondo anche alle casse della moglie.
Pur
vivendo nell’irrealtà dei suoi sogni, Massimiliano aveva realizzato i presupposti
della fanteria:- Aveva infatti organizzato l’esercito, impostato sul modello
dell’esercito svizzero, creaando il corpo dei lanzichenecchi (come vedremo più avanti), ponendo le basi, di
quello che in seguito, negli eserciti, costituirà
la fanteria.
Alla
sua morte si aprì una controversia sulla successione del ducato, rivendicata
dal re di Francia, Luigi XI, definita con il trattato di Arras (1482) con cui si stabiliva che la contea delle Fiandre (con
le note città di Bruxelles, Gand, Bruges ed altre), con l’Artois e
Con il trattato si combinava il
matrimonio tra il delfino Carlo (futuro
Carlo VIII: 1470-1498) di dodici anni e Margherita (che
sposerà Giovanni di Castiglia v. sopra), che fu subito mandata (all’età di due
anni) presso la corte francese, con la sua dote costituita dall’Artois, ducato
di Borgogna e Franca Contea.
Caratteristica della nobiltà e delle
case regnanti era l’avidità di territori;
all’epoca (e non solo) l’attaccamento al feudo era tale che per i loro titolari
valeva il principio, seppur non codificato, in base al quale, se il feudo o i
feudi fossero stati privati di una parte di territorio, si doveva correre ai
ripari, reintegrando nei modi più disparati, l’avvenuta perdita!
Massimiliano, con il matrimonio della
figlia Margherita, essendo stato privato di alcuni territori, aveva subito
messo gli occhi sul ducato di Bretagna, nelle mani della ereditiera Anna di
Bretagna, che sposava per procura (1490).
Carlo VIII però, come un falco, con
una decisione insolita, l’anno successivo, ripudiava la piccola fidanzata
Margherita e andava a sposare Anna di Bretagna, mettendo Massimiliano di fronte
al fatto compiuto, in barba al suo
matrimonio per procura; non solo, ma non restituva né Margherita, né la
sua dote, trattenendo, ad ogni buon conto, Margherita come ostaggio!
Poiché un oltraggio del genere
(quantomeno per i territori non restituiti), valeva bene una guerra,
Massimiliano si alleò subito con Enrico VII d’Inghilterra e con Ferdinando
d’Aragona re di Spagna, per far guerra a Carlo VIII.
Dopo che Massimiliano aveva invaso la
Franca Contea, si addivenne alla pace di Senlis
(1493) che prevedeva la restituzione
di Margherita con la dote dell’Artois e della Franca Contea, mentre il ducato
di Borgogna rimaneva feudo legato alla Francia, con il riconoscimento della
sovranità e giurisdizione francese sui feudi francesi di Massimiliano.
L’alleanza con la Spagna, inutile
dirlo, fu per Massimiliano l’occasione di combinare il duplice matrimonio tra
il figlio Filippo, con una qualsiasi delle principesse spagnole, delle quali fu
mandata, come abbiamo visto, Giovanna. mentre la ripudiata Margherita sposava l’infante don Giovanni.
Tutto questo intrigo di matrimoni
continuò alla morte di Carlo VIII, con Luigi XII che aveva divorziato dalla
moglie, figlia di Luigi XI, per sposare Anna di Bretagna, rimasta vedova di Carlo VIII.
Con la morte di Filippo il Bello (da non confonderlo con
l’altro Filippo il Bello, re di Francia, che lo aveva preceduto), Carlo eredita
il ducato di Borgogna (tornato nel 1477 sotto la sovranità francese), i Paesi Bassi, il Lussemburgo e
Con
la morte di Filippo, la reggenza la assumeva l’avido padre di Giovanna, Ferdinando:
- Da tener presente che, quessta storia della pazzia di Giovanna, almeno all’inizio, era da ritenere una
giustificazione di cui se ne era giovato Filippo ed ora Ferdinando, per tenerla
relegata e non darle la possibilità di governare, in quanto il regno di Castiglia
era enorme essednovi annesse le Antille e tutti i diritti derivanti dal
trattato di Tordesillas (1494) che attribuiva alla Spagna tutte le terre
situate a Occidente della linea – raya
– posta a 370 leghe a ovest delle isole del Capo Verde.
Nato a Gand, Carlo aveva passato la fanciullezza a Malines con la
sorella Eleonora, e successivamente era stato portato a Bruxelles dove aveva
seguito gli studi umanistici con ottimi maestri spagnoli, come Juan de la Vera
e Luis Vaca o fiamminghi come Adriano di Utrecht (futuro papa Adriano VI), il
precettore che gli aveva inculcato
sentimenti religiosi di stretta osservanza; ma l’allievo non aveva mostrato grandi
disposizioni per lo studio. Carlo inoltre, non aveva scioltezza di linguaggio
(l’accentuato prognatismo gli impediva di parlare normalmnnte) e non aveva
neanche dimestichezza con le lingue, a parte il fiammingo, poco francese e
quando si trasferirà in Spagna, uno spagnolo elementare.
Durante la sua minore età le decisioni facevano capo a un “Consiglio Privato” relativamente al
quale si fronteggiavano due indirizzi: uno faceva capo a Guillaume de Croy
signore di Chievres, luogotenente di Filippo, che rappresentava la continuità
francofila e l’altro a Margherita d’Austria, sorella di Filippo, che seguiva, come
abbiamo detto, la linea borgognona, mirante al recupero dei territori ceduti
alla Francia.
Carlo aveva ricevuto una educazione
fiamminga, inprontata cioé agli interessi nazionali fiamminghi, affidato (1509)
com’era alle cure di Chievres, al quale era stato aggiunto Jean Le Savage, i quali avevano privilegiato le ragioni
nazionali fiamminghe e filo-francesi.
Quando Carlo raggiunse i quindici
anni l’onnipotente Chievres lo fece emancipare perché si riteneva che Carlo
dovesse ereditare il regno d’Austria e, nello stesso tempo, rimanere nei Paesi Bassi, fuori dalle liti
degli Stati europei.
Ma la Dea Fortuna aveva deciso diversamente
in quanto l’anno seguente (1516) moriva
il nonno Ferdinando d’Aragona, il quale
– come aveva voluto la dea Fortuna - aveva pensato di assegnare la sua eredità a
Carlo, anziché al fratello Ferdinando che era vissuto ed era stato educato proprio
alla sua corte, e il sedicenne Carlo, ereditava l’Aragona, la Catalogna e Valenzia,
La fortuna che continuava a baciare Carlo e nel 1516,
con il regno di Spagna, gli pioveva addosso una cascata di 31mila ducati d’oro (come
reddito spagnolo) e nel 1518 ben 120 mila ducati, ma nel 1521 a causa delle
fluttuazioni si ebbe un crollo e i profitti scesero a seimila ducati; ma tutta
questa ricchezza non poteva bastare se per la sua elezione a imperatore doveva
versare, per convincere i principi
elettori a votare per lui, 850 mila ducati d’oro.
Nel 1509 Chievres era stato nominato primo ciambellano di Carlo,
con il successivo intervento (1515) di
Jean de Sauvage (seguace della linea fiamminga) che si era dedicato alla emncipazione
del principe, mentre Erasmo da Rotterdam era stato invitato a dire la sua e
compose l’ “Institutio principis
christiani” e con la “Querela pacis”
si prestò a sostenere la politica fiamminga.
Quando Carlo fu riconosciuto (1518) re di Spagna, Mercurino
Arborio Gattinara fu nominato “Gran Cancelliere di tutte le terre e i regni
del re” e, come vedremo, fu Gattinara a predisporre la mente di Carlo alla
idea imperiale, sia come manifestazione della potenza politica, sia come
missione religiosa e a condurre tutti i maneggi per fare ottenere al suo
pupillo la corona imperiale.
Nel 1517, Carlo si imbarcava per la
Spagna, con un seguito di quaranta navi e un nutrito gruppo di borgognoni,
famelici di cariche, onori e denaro, per assumere quel regno.
Bernard van Orley Il Giovane.
Carlo vestito alla borgognona
Galleria Borghese - Roma
CARLO
RE
DI
SPAGNA
ELETTO
IMPERATORE
DEL S.R.I.G.
C |
arlo non aveva un bell’aspetto, con
lo sguardo glaciale, chiuso e taciturno, incapace di parlare lo spagnolo, non
aveva fatto agli spagnoli buona impressione; nei primi tempi non aveva suscitato
molte simpatie a causa della vita dispendiosa che conduceva assieme ai
borgognoni, considerati dagli spagnoli, stranieri, abituati a passare le giornate
tra
pranzi, feste e tornei.
Carlo, infatti, educato alla corte borgognona, celebre per il
gusto e la raffinatezza, dove si viveva in un lusso senza limiti che
l’imperatore, per il resto della sua vita, non si farà mai mancare.
Ciò che aveva maggiormente colpito gli
spagnoli, era stato che le diverse cariche del regno, erano assegnate ai
fiamminghi ad ecezione di quelle ecclesiastiche, delle quali ai fiamminghi ne
erano state affidate solo tre di cui la più importante, il vescovato di Toledo, era stata assegnata al nipote di
Chievres e aveva suscitato invidia, come
l’aveva suacitata la circostanza che gli spagnoli che erano stati presso la
corte dei Paesi Bassi, erano preferiti a quelli locali.
Al momento del suo arrivo Carlo aveva chiesto
ducati sonanti; era questa una componente dei suoi arrivi e partenze; sempre a
corto di danaro, quando doveva partire, si doveva in tutta fretta raccogliere
danaro che gli serviva per coprire le spese di viaggio; ciò, alle volte, creava
situazioni quasi comiche, come si verificherà, quando
doveva essere incoronato in Italia (1530), aveva dovuto accelerare i tempi del
matrimonio con Isabella del Portogallo, per entrare in possesso della dote da
cui avrebbe attinto le spese del viaggio.
Le “Cortes” di Valladolid (inizi del 1518) presentarono a loro volta
una serie di richieste, subordinate all’omaggio
che sarebbe stato reso al re, con la concessione di un tributo di seicentomila
ducati, da corrispondersi in tre anni.
Carlo fu così riconosciuto re di
Castiglia e Leon; la stessa cosa avvenne con le “cortes” di Saragozza e Barcellona, che versarono una prima rata di duecentomila
e una seconda rata di centomila ducati.
A Chievres (1518) , era subentrato l’umanista
Mercurino Arborio di Gattinara, il quale proveniva dalla corte della zia
Margherita e si era attivato perché la corona imperiale andasse a Carlo; non
solo, ma Gattinara aveva inculcato nel giovane re le idee dell’altissimo valore
della dignità imperiale, che lo avrebbero
posto al di sopra di tutti i monarchi della terra; l’orgoglio, la superbia e
l’altezzosità degli “hidalgos”
spagnoli avevano fatto il resto.
E, sempre Mercurino Gattinara, gli
aveva suggerito di cambiare il suo più modesto motto, “Nondum”
(Non ancora), con il più ambizioso “Plus
oultra” - più oltre - (che si
intravede nello stemma con l’aquila
bicipite che guarda ad est ed ovest, sorretta dalle colonne d’Ercole, superate
con i nuovi territori delle Indie occidentali)
Prima di partire per l’incoronazione,
Carlo aveva chiesto ancora danaro (servicio)
alle “cortes”. Queste avevano posto
tre condizioni: Che il re non lasciasse
la Spagna (quindi dopo il viaggio
doveva tornare in Spagna); che non
esportasse oro e argento; che non
affidasse cariche ufficiali a stranieri.
Carlo
convocava ancora una volta le “cortes”
a La Coruña, porto
della Galizia, da dove si sarebbe imbarcato per i Paesi Bassi, nominando il
vescovo spagnolo Mora a rappresentarlo.
Il vescovo tenne un discorso molto
diplomatico, atto a suscitare l’orgoglio degli spagnoli, sostenendo che la
nomina del re a imperatore sarebbe stato un grande onore per
Questo discorso colse nel segno, e le
cortes assegnarono la somma di
quattrocentomila ducati e Carlo poté finalmente imbarcarsi.
Gattinara aveva preparato il suo
allievo anche sul comportamento che avrebbe dovuto tenere con i principi
elettori: vale a dire che egli era superiore ai principi e la carica lo
metteva al di sopra di tutti gli altri monarchi.
La
scarsezza delle conoscenze linguistiche non gli agevolavano il compito di
trattare con i tedeschi dell’ impero germanico o con gli italiani del ducato di
Milano e del regno di Napoli, ma gli serviva per mantenere un freddo distacco,
consapevole della sua imperiale superiorità.
Il risultato fu che Carlo già freddo
e taciturno per natura e non avendo neanche facoltà di eloquio, farfugliava in
borgognone senza parlare né capire il tedesco; con quei principi aveva fatto
pesare la sua alterigia, mantenendo le distanze con tutti e facendo valere
tutto il senso della sua superiorità: insomma, era stato semplicemente scostante!
La
nomina imperiale però era stata ottenuta con la corruzione, versando ai
principi elettori un’ingente quantità di oro (ottocentocinquantamila fiorini
d’oro, pari a otto quintali e mezzo di oro puro!), che, non avendola disponibile, Carlo l’aveva ottenuta in
prestito in buona parte dai Fugger: Jakob Fugger ne aveva anticipati 500mila;
143mila i Welser; il resto dai Gualterotti di Firenze, Fornari e Vivaldi di
Genova (tutti ebbero fruttuose aperture ai mercati di Germania, Spagna, Italia
e Americhe), garantiti dalle entrate degli ordini cavallereschi e della Spagna
(nel 1552 i Fugger gli fecero l’ultimo prestito di 400mila ducati, per poi
farsi sotituire dai genovesi); questo debito peserà, come vedremo, sia sul resto della
sua vita, sia su quello del figlio Filippo II (ma anche sui Fugger, che alla
fine dichiareranno bancarotta!).
Ai Fugger si era rivolto anche il suo concorrente
Francesco I di Francia, ma essi
valutando la situazione, avevano ritenuto che se la corona imperiale
fosse stata data al re di Francia, ciò avrebbe costituito un pericolo per la
Germania, per cui preferirono concedere il prestito a Carlo, che otterrà
l’unanimità dei voti (e Jacob Fugger non mancava di ricordargli che
era stato eletto imperatore con il suo appoggio: “Vostra maestà imperiale non avrebbe potuto ottenere la corona senza il
mio aiuto”).
Gli
elettori erano: Alberto di Brandeburgo,
arcivescovo di Mayence; conte Herman di
Wied, arcivescovo di Colonia; Richard de Greiffenklau, arcivescovo di Treves; Louis
de Bohèm; Louis conte palatino del Reno; Fréderic duca di Sassonia e Gioacchino
I, marchese di Brandeburgo.
L’oro
era stato versato una parte in via ufficiale, una parte in nero (era l’inizio della corruzione che contrassegnerà il regno spagnolo e l’impero,
assorbita dall’Italia che ne faceva tesoro anche per i tempi successivi e
praticata ancora nei tempi attuali, facendo rientare l’Italia tra i Paesi ad
alta vocazione di criminalità, ndr.).
Tra
gli elettori, solo Federico di Sassonia, detto il Saggio, era stato l’unico a
non prendere la tangente, in quanto riteneva che la carica dovesse andare a un
tedesco (e si pensò che vi aspirasse lui!), ma era l’unico a poter presentare la candidatura che gli era
stata offerta, ma l’aveva rifiutata.
Tra
i più avidi, che ebbero le somme maggiori, furono l’arcivescovo di Magonza e l’elettore del
Palatinato; la minor somma la ricevette Federico di Sassonia con 30mila
fiorini, che però costituiva rimborso per un prestito fatto a Massimiliano.
Mentre,
Gioacchino di Brandeburgo rimase fino all’ultimo sostenitore di Francesco I, il quale gli aveva promesso il vicariato
dell’impero, e non ebbe niente, ma dichiarò facendolo verbalizzare da un notaio
“che votava sotto pressione della paura e
non certo per scienza”, ciò che suscitò
la reazione di Federico di Sassonia, l’unico Elettore che aveva presentato la propria
candidatura. Dopo che Carlo si era impegnato a mantenere tutti i loro privilegi
e promesso che non li avrebbe violati in nessuna circostanza, ebbe l’unanimità dei voti.
Carlo governava tutti i suoi Stati,
correndo dall’uno all’altro, senza sosta: Spagna, Italia, Francia, Germania,
recandosi alle assemblee e alle battaglie con le quali aveva domato i
castigliani (Vilabar) i ribelli fiamminghi (Gand), i francesi in Italia, i
tedeschi sul Danubio e all’Elba.
Deleteria era stata per il regno di
Napoli l’assenza, anzi l’inesistenza del monarca. Mentre gli altri re, quando
si allontanavano lasciavano i loro vicari che normalmente erano anche
consanguinei e l’allontanamento, comunque, era di breve durata in quanto ritornavano
presto per riprendere il governo nelle loro mani, la lontananza spagnola era stata invece
perpetua.
E così il regno di Napoli e di Sicilia da sedi di re era
divenuto sede di due vicereami separati e distinti, amministrato con la
corruzione e ognuno di essi. di fatto, impediva che ai due regni separati
venisse data un’impronta unitaria e l’istituzione dei vicerè era stata una
jattura per il presente e per il futuro
del Meridione d’Italia, dove. come si è visto nelle più recenti
elezioni, si vota in massa per l’assistenzialismo di Stato!
Tutta
questa super attività lo fece incanutire anzitempo, poi la malinconia, ereditata dalla madre era divenuta depressione e aveva preso il sopravvento, rendeendolo lento e cupo
(nel 1551 aveva scritto al fratello Ferfinando dicendogli: Mi ritrovo smunto di forze ed esautorato) e si rinchudeva in un appartamento lugubre,
illuminato da torce (come faceva la
madre Giovanna); alla fine decise di
abdicare ritirandosi nel monastero di Yuste, dove aveva fatto costruire un
palazzo collegato con la chiesa e il convento dei frati.
L’abdicazione
aveva sorpreso gli storici, ma un lume di lucidità dovrebbe avergli rivelato
quanto disastrose fossero le condizioni in cui si trovava l’impero che aveva
sognato e creato (*).
Disgustato
del mondo e convocati i Paesi Bassi spiegò ai sudditi i motivi della sua
rinunzia (0ttobre 1555) per cercare, nella tranquillità del ritiro, quella
felicità per la quale, invano aveva sudato, fra i tumulti della guerre e i
disegni di una irrequieta ambizione. Disse a Filippo che gli faceva piangere il carico
che gli assegnava; gli raccomandò il
grande e unico dovere di un principe, di cercare la felicità dei sudditi; gli
fece presente quanto fosse preferibile reggere, facendosi amare, anziché temere
dalle nazioni soggette al suo impero. Disse che la fredda riflessione dell’età
matura gli mostrava la vanità delle mire di prima; avvedersi come il vano
disegno di ampliare i suoi domini fosse stato causa di interminabili
opposizioni e sconcerti, giacchè aveva tenuto lui i vicini e i sudditi in
poerpetua inquietudine; e reso frustraneo
l’unico scopo di un buon governo, la felicità, cioé delle nazioni
affidate alle sue cure, scopo più del primo, facile a conseguirsi e che può
solo, qualora lo si abbia sinceramente di mira, recare durevole e solida
soddisfazione (D. Hume, Storia Inghilterra,1835): ma furono parole dette al
vento perché Filippo col suo popolo, rimase scostante, freddo e crudele.
Singolare
era stata la circostanza, accertata presso i monaci di quel monastero, di
aver voluto assistere alle proprie esequie funerbri, passando una notte
nella cassa morturaria che si era fatto preparare, posta nella chiesa su un
catafalco, circondata da ceri accesi, con i frati che cantavano le preghiere
dei defunti; il giorno seguente (21 settembre) non giungeva al termine, in
quanto Carlo serenamente spirava (M. Minet, Charles
Quint son abdication et sa morte au monastère de Yuste, Paris, 1863): se la
storia è vera, bisogna riconosacergli un ultimo sprazzo di ironico gusto per il
macabro!
Come appare nella riproduzione di Tiziano, Carlo era invecchiato
anzitempo; era gracile, di media statura e di salute delicata (affetto da
rachitismo, scoperto in tempi recenti, in
occasione della apertura della sua tomba), pieno di acciacchi, soffriva di
raffreddore, di gotta (dall’ età di trent’anni) e di asma, mentre gli fanno
grazia i numerosi ritratti da giovane e da vecchio; portava infatti sul viso i
segni del decadimento fisico, con denti piccoli e marci e una mascella con il
labbro inferiore che gli pendeva (era il prognatismo col labbro pendente degli
Asburgo) e gli lasciava la bocca semiaperta che non gli consentiva di esprimersi, se non farfugliando. Era sempre
stato di appetito vorace, ma aveva perso il senso del gusto e si faceva
preparare una strana bevanda di mosto di uva fermentato con foglie di sena (che
erano lassative!).
L’unica cosa viva in quel viso spento erano gli occhi vivi e
penetranti e messo a cavallo diventava un’altra persona; contrastava con il
fisico atletico di Francesco I che malgrado la sifilide che distribuiva generosamente
tra le donne che gli si concdevano, era considerato affascinante e sebbene
avesse un viso faunesco, era aitante e maestoso e in mezzo a una folla, si
sarebbe subito detto che il re era lui; franco e delicato come nessuna altro
cavaliere al mondo, col viso lungo e pieno e l’aspetto avvenennte; mentre Carlo
rappresentava il medioevo, Francesco rappresentava il Rinascimento che si stava
sviluppando in quell’epoca.
Pur non avendo un fisico resistente Carlo era dotato di forza di
volontà e frequentava i tornei, andava a caccia, passando molte ore a cavallo;
affrontava anche lunghe marce come si era verificato quando (1546), per la
guerra di Smalcalda si era sottoposto a
una marcia di nove giorni per recarsi a Innsbruck,
stando a cavallo per oltre venti ore, e, pur avendo un attacco di gotta alla
gamba che gli doleva, si era fatto legare alla sella per resistere.
E
L’IMPERO SOVIETICO ?
*) Le disastrose condizioni dell’impero di Carlo V, le
abbiamo viste ripetersi in tempi più recenti, con il c.d. “impero sovietico” che aveva destinato all’asservimento tutti i
Paesi inglobati da Stalin, liberati dopo un cinquantennio di regime, dalla dissoluzione avvenuta con
la caduta del muro di Berlino (Dicembre 1991).
Il merito era stato della illuminata visione della perestrojika (riforme), di Mickail
Gorbacev, ferocemente combattuta dai conservatori sovietici e rimasta
incompiuta anche per l’improvvida e cieca
ostilità dei servizi statunitensi (durante la presidenza di Donald Reagan), che
avevano preferito appoggiare Boris Eltsin, il quale, a causa delle pessime
condizioni di salute, aveva lasciato il potere nelle mani di Vladimir Putin.
Erano stati molti gli italiani che avevano riposto in Putin le
loro simpatie e speranze in una sua visione lungimirante di una Russia che,
prendendo una direzione di stampo occidentale, avrebbe intrapreso la via dello
sviluppo civile: ma queste aspettative erano state fortemente deluse da un
Vladimir Putin che si è rivelato di vecchio stampo sovietico e perturbatore
della pace mondiale.
La Russia (con i ventuno Stati etnici federati), possiede un
territorio immenso, è il più grande di tutti gli altri paesi della Terra, con
ben undici fusi orari (mentre gli USA ne hanno tre), ricco di risorse naturali
e metalli preziosi. Sarebbe occorsa solo la buona volontà e una buona e sana
amministrazione per farla uscire dall’abbrutimento e dalla miseria in cui era
sprofondata in cinquant’anni di regime
sovietico, sollevando la popolazione su un miglior livello di vita e
dotandola, principalmente, di assistenza sanitaria, di cui è ancora carente e
che anche un regime totalitario, dovrebbe essere in grado di concedere alla sua
popolazione.
Ma è emerso che il pensiero di Putin, non era rivolto in questa
direzione e come homo sovieticus non
si è evoluto, rimanendo fermo nella mentalità dell’agente dei servizi segreti
da cui proveniva, rivolto verso un misero passato ritenuto imperiale, ma nel termine più deleterio, con l’dea di riprendere i
Paesi che si sono svincolati dal regime sovietico (Cecenia, Georgia e Ucraina)
e anelano unirsi all’Occidente.
In venti anni di potere, il regime di Putin, pur con un notevole
aumento nazionale del PIL, circondato da una cerchia di autocrati ai quali ha affidato la gesitone dei beni pubblici, da
una parte e dall’altra lasciando correre la corruzione tra la burcrazia, per
tenerla tranquilla; e investendo in armamenti (con oltre quattromila testate nucleari!)
sfoggiati nelle parate militari del primo maggio, aveva dato l’illusione di una
Russia elevata al livello di potenza
mondiale!
Ma nella folle e insensta decisione di invadere l’Ucraina, la
inattesa quanto eroica resistenza che gli è stata opposta dal popolo ucraino,
ha messo in evidenza una organizzazione militare sfaldata di uomini e mezzi, rivelando un Putin
che oltre a radere inutilmente al suolo intere città, ha portato lo scompiglio
nella economia mondiale.
Con la sua guerra Putin ha messo indirettamente in evidenza le
condizioni di povertà in cui vivono le famiglie dei soldati russi i quali, con
i furti compiuti nelle case degli ucraini, (appropriandosi perfino la
biancheria intima delle ucraine, portate alle loro ragazze), hanno dimstrato in
quali condizioni vivono le loro famiglie; e non meraviglia che vi siano ancora
molti nostalgici del regime sovietico che vivono in condizioni di estrema
povertà, come al tempo degli zar (v. Art. Le
condizioni della Russia aai tempi di Caterina II): e così vediamo, da una
parte gli straricchi auttocrati con gli yacht e ville e dall’altra la povertà che non consente di
acquistare per la propria ragazza un paio di slip alla occidentale!
Con questa idea dell’impero
sovietico, Putin, mentre ha lasciato
che il suo Paese continuasse ad arrangiarsi a vivere nelle misere condizioni
dei tempi degli zar, è andato a fare
investimenti di puro carattere coloniale in Africa, dove ha acquistato a poco
prezzo vaste estensioni di territorio,
per semplice sfruttamento che non prevedono nuovi posti di lavoro (come
d’altronde ha fatto anche la Cina!).
Col risultato che quella popolazione che, per le particolari
condizioni in cui si trovano i diversi Stati del continente africano (anch’esso
ricco di risorse naturali), di miliardo e duecentomila abitanti (2022), in
forte crescita, a causa del tribalismo, guerre intestine e corruzione dei
governanti, non riesce a risollevarsi dai danni a suo tempo provocati dal
colonialismo (v. in Art. Le risorse di Leopoldo del Belgio ecc.)
e in massa sta emigrando verso l’Europa (organizzata da associazioni criminali
che ne traggono profitto), con una U.E. assolutamente incapace di far fronte al
problema di cui dovrebbe farsi carico.
Stemma di Carlo V
con le colonne
d’Ercole e
il motto “Plus oultra”
LA RIVOLTA DEI
COMUNEROS E
DELLA GERMANìA
M
|
Alla
fine furono raggiunti accordi con i rivoltosi, in base ai quali il pagamento
per le indennità all’imperatore sarebbe stato sospeso; l’ammiraglio Enriquez e
il connestabile di Castiglia, Iñigo Velasco, erano nominati co-reggenti con
Adriano di Utrecht, con la promessa che nessuno straniero avrebbe ricevuto
ulteriori incarichi in Spagna e l’ulteriore impegno di Carlo, che sarebbe
rientrato in Spagna.
Nel
regno di Valenza la rivolta aveva avuto
connotazioni diverse. Mentre quella dei “comuneros”
era contro il re, la “germanìa - hermandad” (fratellanza), era contro i
nobili e i moriscos (i mori
convertiti al cristianesimo).
Secondo
quest’associazione, le idee dei nobili e dei pagani appartenevano al passato;
tutto il reame doveva costituire una sola fratellanza nella pace e nella
giustizia e sotto una sola legge.
Valenza
non era stata visitata dal re e i nobili non erano disposti a rendere omaggio a
un re assente. Gli artigiani e operai, per contro, espressero la loro fedeltà al re.
La
popolazione, da tempo addestrata a resistere alle invasioni moresche, aveva organizzato
la “germanìa” (1519) che era
un’associazione cristiana e popolare, diretta contro i nobili e i moriscos che coltivavano le terre dei
nobili. La rivolta, capitanata da Vicente Periz, da Valenza, si estese a Jativa,
poi alle Baleari; ma, alla fine le sommosse furono represse nel sangue e i capi
giustiziati.
Al
suo rientro, (16 luglio 1522), Carlo trovò le rivolte sedate e l’ordine
ristabilito; con la permanenza in Spagna imposta dalla nobiltà; Carlo da
borgognone, finirà per diventare un re spagnolo, non nel senso nazionalistico
ma perché condizionato a rimanere legato
al suolo spagnolo, con tutto ciò che questo legame comportava ai fini della sua
idea dell’impero universale.
L |
’idea dell’impero
universale era collegata con il cristianesimo, che guardava all’unità
occidentale come unità cristiano-occidentale,
vale a dire come istituzione voluta addirittura da Dio (!) alla cui base si trovava lo “ius comune” (il diritto comune
proveniente dal Corpus juris, v. in
Articoli: Il corpus juris ecc.) e con
Carlo Magno era sfociato (per volere del papato) nell’idea dell’impero
universale romano-cristiano.
L’inizio lo troviamo nella falsa donazione di Costantino ideeata e voluta dal papa Silvestro I
(314-335) per superare le resistenze di Pipino III (*) e servita alla Chiesa per
appropriarsi della supremazia sull’Occidente, supremazia che da questo momento
era andata lentamente maturando con l’incoronazione di Carlo Magno prima, e
attraverso l’opera di Bonifacio VIII dopo, secondo il quale, l’imperatore
Costantino aveva donato la supremazia dell’Occidente al papa, proclamando
(nella Bolla “Unam sanctam”), la
soggezione dell’impero cristiano al potere unitario e assoluto del pontefice.
Veniva così instaurandosi l’idea di un potere ecclesiastico che
era maturato con gli studi di Onorio di Autun, Giovanni di Salsbury, Rufino e,
con l’elaborazione di Innocenzo III, si poneva
come dottrina ufficiale della Chiesa.
La traslatio
dell’impero era avvenuta con il trasferimento dell’impero dai bizantini al papa,
il quale lo aveva concesso
all’imperatore. Infatti, “era dal
papa che l’imperatore riceveva il potere, non da Dio; egli lo poteva concedere,
come poteva toglierlo”. Così avvenne con Enrico IV al quale lo aveva
rifiutato, fino a quando non vi era stata la sua assoluta e umiliante
sottomissione al papa (Canossa!).
L’unica reazione nei confronti dell’impero universale, si era avuta solo da parte della Francia, il
primo Stato ad aver raggiunto la compattezza territoriale con Filippo il Bello
(re di Francia), che si era imposto su Bonifacio VIII.
Nella Germania, rimasta fedele alla idea imperiale, i principi ne osteggiavano l’autorità, impedendo quindi il formarsi di una monarchia compatta.
Con la “Bolla d’oro” (1326) essi
ottennero tutti i diritti e i privilegi richiesti, con la conseguenza che
l’imperatore era considerato un semplice capo onorifico; e la Riforma,
proclamando la libertà di pensiero, aveva privato l’idea imperiale della sua autorità.
La posizione di Carlo V
fondata su vasti territori in Europa e America, gli dava la forza morale e politica
per rappresentare l’impero universale, che fu contrastato proprio da quei
principi che lo sostenevano e che
La pace di Augusta
(1555) segnò la fine politica e religiosa del Sacro Romano Impero con i tentativi degli Asburgo di restaurazione
del cattolicesimo e della monarchia universale, perché furono ristretti i
diritti dell’imperatore e riconosciuto il libero esercizio del culto
protestante, poi ulteriormente ristretti in epoca posteriore con il trattato
di Westfalia (1648), che chiuse la guerra dei Trent’anni (da considerarsi
l’antesignana della prima guerra europea tra cristiani e protestanti).
Dal trattato, relativamente ai rapporti interni degli Stati
tedeschi, i principi ebbero il riconoscimento della piena sovranità
territoriale, il diritto di stringere leghe tra di loro o con potenze straniere
contro chiunque tranne che contro l’impero e la Germania e la dieta ebbe il compito di approvare tutte
le decisioni, la guerra, la pace, le alleanze, le pubbliche imposte e la leva
militare.
Molti studiosi hanno ritenuto di vedere in Carlo V qualità di
lungimiranza in merito all’ idea di una
futura Europa, o alla visione di
un’Europa unitaria.
Senza dover ricorrere a sottili
disquisizioni da cui distillare ciò che l’imperatore avesse potuto idealmente
imaaginare per il futuro o ciò che per il futuro egli avesse potuto pensare su
idee unitarie europee – che in concreto non risultano né immaginate, né espresse (**) – non si intravedono
in lui idee o progetti lungimiranti, avendo egli amministrato e governato cercando
di risolvere nell’immediatezza, i problemi che riguardavano i suoi domini e
l’impero.
La sola idea che egli avesse avuto
sulla unità imperiale, non riguardava
certamente la unione di popoli (fossero cristiani, protestanti o turchi) ma egli
la vedeva come unione di un solo popolo, il cristiano, ammantato dalla “volontà
divina”: la sua idea unitaria non era, quindi, “europea”,
come ha voluto qualcuno, e non nella
visione di un avvicendamento con altri monarchi che potessero guidare l’impero universale, ma semplicemente dinastica ed esclusivamente asburgica; e, se si vuole,
anche in chiave esoterica (ci riferiamo al possesso della lancia di Longino, acquistata dall’imperatore Rodolfo II, collezionista
di anticaglie, passate per reliquie autentiche!).
La carica imperiale, dopo la morte di Federico II di Svevia si era svuotata
di qualsiasi contenuto. Essa al momento dell’elezione di Rodolfo I (v. Notizia
in Genealogia Absburgo) era talmente priva di prestigio e di autorità che ci si
chiede come mai gli elettori si preoccupassero di nominare ancora un re dei romani-imperatore!
Essa, dice Pirenne (in Storia d’Europa) poteva servire nella Scuola
dove i professori di diritto romano, in teoria, continuavano a vedere
l’imperatore come il padrone del mondo, oppure qualche idealista come Dante lo
considerava un bel sogno, smentito dalla realtà. “In effetti – conclude Pirenne
– è un’idea morta, un residuo del passato che sarebbe stato maestoso”.
Due
sono le cose che colpiscono nella figura dell’imperatore. La prima costituita
dall’insieme di circostanze fortunate che lo avevano portato a rivestire le
insegne imperiali. La seconda,
costituita dalle guerre, alle quali aveva dedicato la maggior parte dei trentacinque
anni del suo regno, per combattere il suo acerrimo nemico, Francesco I, fatte
per la sua supremazia nei confronti della Francia, incuneata nel bel mezzo dei
domini imperiali,
Altrettanto
inutile e dispendiosa era stata la guerra condotta contro il corsaro Barbarossa
senza aver potuto eliminare la piaga della pirateria e i saccheggi dei paesi costieri del
Mediterraneo (v. Specchio dell’Epoca, Khair-ad-Din ecc.), che certamente non
sarebbe stata eliminata con l’idea della “crociata
contro il Turco”, che sarebbe stata fuori del tempo e che Carlo, nello
spirito dell’Ordine borgognone del Toson
d’oro, con i cristiani, aveva continuato a sognare per tutta la vita.
Era stato detto che “dopo la caduta dell’impero romano nessuna
nazione, tra quelle che avevano signoreggiato in Europa, gli si era avvicinata
quanto quella spagnola”. Ma proprio il riferimento al termine “spagnolo”, ci fa capire che chi aveva
espresso un simile richiamo, inconsapevolmente limitava il suo giudizio a un
tipo di governo, quello spagnolo, che certamente non aveva, né poteva avere i
caratteri della universalità dell’impero
romano.
Con una fondamentale differenza:- Mentre
i Romani portavano nei paesi conquistati la giustizia delle loro leggi, che
erano accettate di buon grado e molti erano i popoli che chiedevano di essere
associati all’impero, i regni e le province conquistati dagli spagnoli, erano
trattati da terre di conquista, con boria e
alterigia, con una politica di rapina, sottoponendo le popolazioni, come
quelle del regno di Napoli e Sicilia al pagamento di gabelle e tassazioni.
E quanto più essi avevano dato con
profusione, tanto più erano ricorsi alla rapacità, gravando intere popolazioni
con taglie e donativi e non era bastato l’oro del Nuovo mondo ad affrancarli
dalle tante tirannie e crudeltà.
E spesso, gli stessi eserciti si
ammutinavano per mancanza di paghe e gli ufficiali, mal soddisfatti, depredavano
e massacravano intere popolazioni inermi, nel Nuovo mondo o nelle Fiandre o nei
Regni di Napoli e Sicilia.
Ciò che più aveva allontanato gli
spagnoli di Carlo V dai Romani, fu che era mancata quell’idea senza la quale
ogni Stato va in rovina, vale a dire lo sviluppo economico e l’ampliamento del
commercio.
Pur avendo infatti disponibili tanti
famosi porti, non erano state sviluppate le loro attività con l’incremento del
trasporto navale, creando centri di commercio, scali franchi, come avevano
fatto gli altri Paesi di mare, tra i quali avevano primeggiato gli inglesi, i
poroghesi e gli olandesi.
Carlo sin dall’inizio del suo regno, si
era trovato di fronte ai debiti lasciati da Massimiliano, debiti che per la
mancanza assoluta dell’idea di una politica, non tanto finanziaria che
all’epoca non si era ancora formata, ma quantomeno economica. lo aveva portato
a bruciare tutte le potenzialità, non solo dei territori europei, ma portate dalle
enormi quantità di oro che arrivavano con i galeoni dalle terre americane.
*) Nata dalle tante leggende di cui
la Chiesa si è circondata, secondo la quale il papa Silvestro aveva guarito
l’imperatore Costantino dalla lebbra e lo aveva battezzato e per riconoscenza
Costantino aveva donato alla Chiesa il Laterno, Roma e l’Italia, rendendo il
papa superiore agli altri patriarchi!
L’AUTOBIOGRAFIA DI CARLO V
**) L’imperatore aveva intrepreso un lungo viaggio
navigando sul Reno, partendo il primo giugno 1550 da Lovanio e giungendo a
Magonza il 19 successivo; lo accompagnava Guglielmo van Male, tamquam ad palum alligatus, a lui legato
come un palo; nel corso delle conversazioni, letture a tavola o presso il fuoco
o accanto al letto, gli aveva dettato la sua biografia che andava dagli anni
1515 al 1548.
Questa biografia, nelle sue
intenzioni (dell'imperatore), doveva essere di grande respiro, come i Commentari
di Giulio Cesare, seguendo lo stile di
Tito Livio, di Cesare, di Sallustio e Tacito ma quella che aveva dettato era un
arido susseguirsi di avvenimenti che non rispondeva alle ambiziose intenzioni
iniziali o i canoni indicati e non sarà più rimaneggiata, rimanendo così come
l’aveva dettata; egli infatti, recatosi a Innsbruck (nel 1551) città amata dal
nonno Massimiliano, era stato travolto da quella bufera depressiva che lo
porterà (1556) alla decisione delle dimissioni dalla carica imperiale.
Queste memorie le aveva mandate al
figlio accompagnandole con una lettera (datata 1552) in cui diceva al figlio di
tenerle nascoste.
Van Male aveva accompagnato
l’imperatore anche al suo ritiro a Yuste, al quale, prima della sua partenza, gli
giungeva l’ordine di Filippo di consegnare tutte le carte di cui egli fosse in
possesso e don Luis Quijada, incaricato di eseguire l’ordine, nonostante le
proteste di van Male, si impadroniva, anche
delle sue carte personali, dove si trovavano appunti sul libro.
Il cardinale Granvela, venuto in possesso
delle carte di van Male, le fece scomparire, ma da quanto riferito da van Male
la biografia di Carlo non era che un’arida cronologia degli avvenimenti della
sua vita.
Ma già si èarlava dei “Commentari” e, In Italia, vi era stato
Lodovico Dolce (1508-1568), grande ammiratore di Carlo che nel 1561 aveva
scritto il libro “Vita dell’invittissimo
e gloriosissimo imperador Carlo Quinto”, dedicato al duca Emanuele
Filiberto di Savoia, in cui elogiava i “Commentari”,
a imitazione di Giulio Cesare, scritti in francese che stavano per essere
pubblicati in latino.
E poco dopo il veneziano Girolamo
Ruscelli (1518-1566), in una lettera a Filippo II alludeva al libro del Dolce e a quello che
intendeva stampare Bernardo Tasso (1493-1569), facendo riferimento ai “Commentari” scritti in gran parte dall’imperatore in francese; e si riteneva che stessero
per essere stampati a Venezia, nella versione di Van Male, ma Filippo II
ne avrebbe impedito la pubblicazione.
Nella biblioteca imperiale di Parigi
il barone Kervyn de Lettenhove autore
dell’Histoire des Fianders 1879-80 (2 v9ll.) aveva trovato
un mns. in portoghese intitolato Historia
del invictissimo Emperador Carlos Quinto, rey de Hespanha, composta por sua Majestad Cesarea, come se
vee do popel que vai em a seguiente folha, traduita da lingua francesae do
proprio original, en Madrid Anno 1620, accompagnata dalla lettera di Carlo
al figlio Filippo.
E’ da supporre che questa copia fosse
stata scritta al tempo di Filippo III, quando il Potogallo era divenuto una
provincia spagnola.
Di questo manoscritto si sono avute
pubblicazioni in diverse lingue, portoghese, francese, inglese, alemanna col
titolo Commentaires de Charles Quint publiés
pour la premiere fois par le baron Kervyn de Lettenhove membre de l’Accademie
royale de Belgique (Brusselles 1862).
Il libro è accompagnato da una
lettera in cui l’imperatore indica il libro scritto in volgare, iniziato
durante il viaggio sul Reno e terminato ad Asburgo. Egli si giustifica dicendo di non averlo scritto per vanità e se egli
(Dio) si ritiene offeso l’offesa è dovuta alla mia ignoranza e non a malizia.
Per cose simili egli si è sovente mostrato irritato; io vorrei che non lo fosse
a causa di questo scritto ... Sono stato sul punto di bruciare tutto, ma se Dio
mi darà la possibilità di vivere, conto di scrivere questa storia in modo che
egli non si riterrà mal servito, Ve lo mando, dice a Filippo, mettetelo,
nascondetelo in modo che nessuno possa trovarlo.
Segue l’excursus, strettamente cronologico del libro in cui egli parla
scandendo i fatti in terza persona; se p. es. prendiamo gli’anni 1519-20 che
sono, riteniamo importanti per la sua nomina a re di Spagna e poi a Imperatore,
egli riferisce: “L’anno 1519 Sua Maestà tenne gli Stati a Barcellona dove fu
proclamato (re di Spagna) e in cammino
apprese la morte dell’imperatore Massimiliano, suo nonno. Quando era nel detto
Stato (in Spagna), ricevette la
novella della sua elezione all’impero che gli fu annunciata dal duca Federico,
conte palatino. Di là egli partì per imbarcarsi a Corugna per ricevere la
prima corona a Aix la Chapelle”.
E così prosegue nella sua
arida descrizione, senza commenti o considerazionini che, quelle sì, avrebbero
potuto offendere Dio!
Un altro esempio di date, che
riteniamo importante nella vita di Carlo, egli la liquida in poche righe. Andando
all’anno 1530 importante in quanto era stato quello non solo della sua della
sua prima venuta in Italia, ma per essere incoronato imperatore dal papa, e per
di più era venuto a conoscenza della occupazione dell’Ungheria e dell’assedio
di Vienna, egli senza uno sprazzo di emotività,
scrive: “Dopo che l’imperatore si fu
imbarcato e tutta la squadra si mise in vela, egli passò il mare di levante e
abbordò per la prima volta l’Italia dove egli apprese che la pace era fatta. [...] A Genova inviò il suo sommelier, il sire La Chaulx
dove apprese che il Turco, dopo aver attraversato l’Ungheria, aveva posto
l’assedio a Vienna e l’aveva assalita. Lì
avvenne per la prima volta
l’incontro del papa Clemente con l’imperatore (dove quest’ultimo ebbe il
suo secondo attacco di gotta). E in questo luogo egli seppe che l’imperatrice
aveva messo al mondo Ferdinando, suo secondo figlio, della cui morte fu
informato l’anno seguente ad Absburgo”.... e così di
seguito, aridamente; ecco tutto!
LA GRANDE INFLAZIONE
DEI
SEC. XVI E XVII
LA
FALSIFICAZIONE
DELLE MONETE
DA PARTE DI
CARLO V
N |
on bastarono i
Tesori d'Atabalipa e di Montezuma e le continue ricchissime flotte del Perù,
del Messico e di altri sì vasti Regni d'America che furono portati nella Spagna, per supplire alle
magnanime spese di Carlo V, che nelle tante e molteplici guerre che egli fece e
sostenne durante la sua vita, disperse più tesori di quello che gli portasse la
Fortuna, onde ardirei quasi dire, oltrepassasse quelle di ogni altro imperatore,
mentre poco meno che esausto lasciò l'Erario, allorché cedè ad altri le redini
dei suoi Regni (così si esprime Geminiano Montanari nel Capitolo L’ Introduzione di monete d’oro e d’argento forestiere a maggior
prezzo dell’intrinseca loro bontà. produce
alzamento di quelle del Paese, ne “La
zecca e la moneta”, della Collana del Tatato
di Economia politica, 1772); e così prosegue.
“Erano, dico, sì grandi le
sue spese, sì vasti i suoi disegni, che non bastandogli le antiche e nuove
rendite di tanta parte ch’egli possedeva nel Mondo, pensò far nuovo guadagno
sulle monete e dal 1540 lo scudo d'oro di Castiglia, Valenza ed Aragona, che prima era pari ai ducati
d'Oro di Venezia. che erano di 24 Carati o poco
meno, ridusse a bontà di carati 21, soldi 18, che a conto veneto si
direbbe pezzo 108 per marca e ne diminuì
eziandio di tre grani il peso, nel modo che tutt'oggi vediamo le mezze doppie di Spagna; non altro volendo dire una doppia, che una moneta da due
scudi d'oro , ossia un doppio scudo
d'oro.
Ma veduto da gli altri Principi lo svario di queste nuove monete
e ben conoscendo che se ammettevano le
mezze doppie di Carlo V, al pari dei zcchini
veneziani e fiorentini, si
tiravano addosso un danno irreparabile, perchè sarebbono stati portati fuori dei
loro Stati gli scudi d'Oro buoni e introdotti altri di minor peso e bontà;
risolsero d'imitarle ed allora fu, che il Pontefice e gli altri Potentati quali
tutti d'Italia cominciarono a battere li loro scudi d'oro, doppie e doppioni, di bontà inferiore non solo ai primi ma a quegli
stessi di Carlo V, e la Corte Romana per isfuggire il pregiudizio che portava alle sue Entrate la diminuzione
dello scudo d'oro, ha ritenuto dipoi
il costume di valutare lo scudo d'oro di
Camera, un paolo, più dello scudo
d'oro corrente, ossia della mezza doppia.
Tanto narra Bodin (Jean) nel più volte accennato Trattato (Trattato delle monete, 1568),
sebbene io vedo tutt'ora, aver corso doppie
e mezze doppie di Ferdinando e d'Isabella, Re di Castiglia, che sono di
peggior lega e peso delle ordinarie di Spagna: onde ho dubbio grande che il
male non cominciasse da Carlo V, ma bensì fosse da lui imitato nuovamente.
Nel che è ben degno da avvertire, che avendosi gli altri Principi
col battere li suoi scudi d'oro anch'essi d'inferiore bontà, in gran parte
difeso dal danno che poteva loro avvenire, se ammettevano gli scudi d'oro di
Castiglia a valuta eguale dei suoi primi; perchè in quel caso potevano i
Ministri di Cesare incettare per tutto gli scudi
d'oro dagli altri, e ribatterli in scudi d'oro di Castiglia, con quel
guadagno, che porta lo svario della mezza doppia
all'ungaro, ehe è sopra il dieci per cento; non restò perciò, che in tutti i
luoghi non alzassero di valuta le monete; mentre ammesso per gli Stati di
Cesare ed altri ancora il suo scudo d' oro, a quel numero di lire immaginarie,
che in ciascun Paese valessero prima, lo scudo d’oro veneziano, detto zecchino, che religiosamente è stato
sempre dalla Veneta Sapienza custodito e
mantenuto alla solita bontà e peso, ha
dipoi sempre avuto il valore fino a tre paoli
di più dello scudo d'Oro, ossia mezza doppia
di Castiglia, e i zecchini gigliati
di Firenze hanno lungo tempo mantenuto dipoi con decoro, il valore vantaggioso
in pari modo sopra quelli di Spagna, sebbene trasandato da quelle Zecche di più
batterne, è restato a poco a poco abolito: ma l' ungaro e ducato d'
Alemagna ed Ungheria, che è stato alquanto dalla perfetta bontà primiera
peggiorato, è anche restato al disotto dello zecchino giusta la sua intrinseca proporzione. Così l' Imperadore
fece guadagno per una volta tanto di dieci per cento in circa sopra tutta le
monete d’oro che correva per i suoi
Regni; ma se avesse fatto meglio i suoi conti, avrebbe veduto, che quell'utile
gli veniva contrapesato con la perdita di dieci per cento di tutte le sue
entrate in perpetuo, conciosiacchè, con le stesse monete da lui spese una
volta, venivano ogni anno pagate le loro contribuzioni dai suoi sudditi”.
LA RIVOLUZIONE
DEI PREZZI
R |
elativamente alla rivoluzione dei prezzi verificatasi nel periodo 1520-1540, si
trattava solo del culmine di un processo, come ipotizzato dal citato Montanari,
iniziato già verso la fine del secolo
precedente, 1480, che continuerà fino alla metà del secolo successivo.
Il periodo di regno di Isabella e Ferdinando era
stato un periodo ricco di brillanti conquiste e splendide realizzazioni, ma la
monarchia ne usciva con le finanze in stato comatoso, anche se la regina,
almeno in Castiglia, che era il più progredito dei paesi europei, aveva
effettuato con severità una forte riduzione delle spese.
Nel 1489 Isabella aveva impegnato i propri
gioielli per far fronte alla guerra contro i mori e sebbene avesse disposto
nelle sue ultime volontà che le entrate regie non ancora stanziate, fossero
usate per pagare i debiti, ciò non fu fatto e la Spagna entrò nel nuovo secolo con
tutte le sue risorse fortemente ipotecate, mentre le entrate pubbliche non
erano in grado di far fronte alle spese necessarie per affrontare le necessità
di governo e tantomeno svolgere un ruolo di predominio in Europa.
Le maggiori entrate derivavano dalla Castiglia e
dall’Aragona, mentre le altre regioni avevano le cortes così turbolente, che venivano convocate di rado mentre il
loro contributro fiscale era molto limitato.
Gli iniziali profitti derivanti dalle nuove
colonie erano di scarsa incidenza sulla economia nazionale, ma il loro aumento era
costante; tra il 1511 e 1513, era raddoppiato rispetto al 1503-1505. Nel
decennio 1538-1548 e per quello successivo, la media fu di 165mila ducati l’anno,
tutti sperperati per pagare i debiti e
finanziare le guerre.
Questi incrementi aumentarono enormemente con
Filippo II, giungendo a un milione di ducati e durante il suo regno raggiunsero
picchi di 2 e tre milioni. Ma tutta questa massa d’oro non solo si volatizzò,
ma portò Filippo a ripetute bancarotte.
Sebbene la quantità di oro fosse notevole ed era
andata aumentando di anno in anno fin dai primi anni del secolo, l’oro e
l’argento proveniente dal continente americano e finito nei paesi europei per
le vie commerciali, finanziarie e mercantili, vendendo merci sul mercato
spagnolo, traboccante di metalli preziosi, accumulavano grossi profitti (c.d.
inflazione dei profitti), a scapito dei salari che perdevano potere d’acquisto.
I pingui guadagni andavano a profitto dei grossi
speculatori e a scapito dei salariati e proprietari terrieri (*).
La popolazione era abbastanza limitata: la Spagna
contava 8 milioni di individui; la Francia 16 milioni;il Portogallo un milione;
i Paesi Bassi 3 milioni.
Evento di fondamentale distinzione della nuova
epoca rinascimentale da quella medievale è stata la sostituzione della
primaria fonte di ricchezza fondata, nel medioevo sul feudo e sulla grande
estensione di terra ad esso collegata, sostituita dalla finanza fondata sullo
sfruttamento dell’oro e dell’argento che consentiva grandi speculazioni.
Più che di rivoluzione dei prezzi si deve parlare
di inflazione, determinata dall’aumento dei prezzi dei beni di consumo e
contemporanea stabilizzazione dei salari, accompagnata dalla espansione
demografica.
L’aumento dei prezzi era stato determinato
dall’afflusso di metalli preziosi dalle
miniere del Sudamerica che comportava l’aumento dei prezzi di consumo, mentre i
salari rimanevano stabili, con la conseguente impossibilità per chi percepiva
il salario di acquistare beni e di far fronte alle necessità.
Del fenomeno che solo per noi posteri sembra
enorme, all’epoca, se n’era avuto appena il sentore.
*) Come sta
avvenendo in Italia mentre scriviamo (2021), in cui già da alcuni anni la
congiuntura sta favorendo i ricchi che stanno aumentando a dismisura le loro
ricchezze, mentre i poveri diventano ancora più poveri ... e ironia della
sorte, il peso fiscale si abbatte con intollerabile “discriminazione” su questi ultimi senza che i Governi che si stanno
alternando riescano a prendere opportuni provvedimenti, sulla spaventosa
evasione fiscale ufficialmente indicato in cento mld., ma che si aggira tra i centoventi
e centocinquanta mld., ed ha messo in ginocchio il nostro Paese!
LA
SPAGNA IMPOVERITA
DALL’ORO
E ARGENTO
DEL
NUOVO MONDO
(CONSIDERAZIONI
DI
USTARIZ E BLANQUI)
S |
embrerebbe
un controsenso, ma tutto l’oro e l’argento trasportato dai galeoni spagnoli, aveva impoverito
Si può dire (scriveva A. Blanqui in Histoire de l’Economie Politique de l’Europe, Paris 1860) che di tutto l’oro che i galeoni spagnoli
portano dal Messico, Perù, Nuova Spagna, di cui sono i padroni, che si vede in
Europa in sì grande abbondanza, essi ne hanno meno di tutti gli altri, ciò che
dimostra che le miniere degli Stati sono il commercio.
La
necessità (prosegue Blanqui) di sostenere delle guerre senza tregua avevano ridotto questo monarca (Carlo V), dai
primi anni del suo regno, a espedienti finanziari che tolsero la maggior parte
dei capitali alle industrie produttive, per inghiottirle nel baratro dello
sterile annientamento.
I
suoi forzieri erano sempre vuoti; le truppe mal pagate avevano preso
l’abitudine di vivere con il saccheggio, tutto era dominato dalla concussione, dalle
tasse arbitrarie. Misure violente e oppressive rimpiazzarono dappertutto il
regolare sistema della contribuzione stabilito dai finnanzieri italiani.
Cominciarono
le estorsioni di ogni specie (*), gli alloggiamenti militari forzosi, le
imposte eccessive sui consumi, che fecero rincarare i prezzi della mano d’opera
a detrimento delle manifatture.
Aumentano
i diritti di entrata sulle materie prime e sulla fabbricazione dei
prodotti in uscita; al libero esercizio
delle arti è sostituito il monopolio dei mestieri e quello del commercio.
Dappertutto
si elevarono, accompagnati dai privilegi, le manifatture imperiali o reali da
cui derivava la necessità dell’acquisto delle licenze per avere il diritto a
lavorare. Tutto questo armamentario primitivo
si insinuò poco a poco nelle leggi e nei costumi; poi giunsero i sofisti
che su questo sistema crearono delle dottrine e fu così che tutte le eresie economiche di cui
l’Europa è infestata sono divenute difficili da eliminare, sedimentate dalla
sanzione del tempo e dal carattere dell’autorità. Carlo V le rese più funeste
avedole organizzate e facendole penetrare nell’amministrazione e divenire
regole di condotta e dogma inviolabile.
Una delle conseguenze più deplorevoli del sitema
imperiale austro-spagnolo fu di mettere in onore “l’aristocracie de l’epée”; l’aristocrazia della spada cominciava a scomparire davanti alle
nobiltazioni dell’industria e del commercio.
La nobiltà delle repubbliche
italiane, delle città anseatiche, delle grandi città mercantili belghe,
francesi, spagnole, che da tempo era dedita al lavoro e si onorava delle
origini fondate sul lavoro, dal momento in cui Carlo V si mise a vendere titoli
per ottenere argento, fu travolta dai pregiudizi castigliani che facevano
consistere la nobiltà nell’ozio e questa
idea si propagò come un fuoco in tutta
l’Europa.
Un
solo regno era bastato a far retrogradare le libertà pubbliche fino ai peggiori tempi della feudalità.
Ogni
giorno qualche grande industria chiudeva i battenti perché era diventato
impossibile proseguire nell’attività produttiva, senza giungere a compromessi.
Se
i signori avevano cessato di rapinare i passanti sulle strade (come facevano i
loro predecessori medievali dall’alto delle vecchie torri), ora si rifugiavano
nei privilegi che gli assicuravano la parte migliore del lavoro dei loro
concittadini (Ustariz:Theorie et
pratique du commerce et de la marine,
traduction de l’espagnol, Paris 1753).
Un
nugolo di postulanti si faceva assegnare rendite pubbliche e uno dei governatori
di Carlo V, che governava nel ducato di
Milano, osava rispondere alle
ingiunzioni reali, dicendo che “il re
comanda a Madrid, io comando a Milano”.
Più
discussioni pubbliche, più giurisdizioni consolari, più crediti: tutte le forme
di tutela erano state abolite per far posto al regime assoluto dei pascià spagnoli.
Questo
deplorevole e improvviso cambiamento nel cammino e soprattutto nelle dottrine
del governo, dall’Italia e dagli Stati
di Carlo V si era trasmesso altrove.
Chiunque
può ricordare la scrupolosa precisione dei veneziani, fiorentini, genovesi, e
delle città anseatiche nel mantenere i
loro impegni; i rischiosi espedienti ai
quali la politica dell’imperatore di Germania, aveva coinvolto e obbligato gli
altri principi con il suo esempio e le
sue continue guerre, coinvolgendoli in un futuro più funesto del danno
immediato che potevano portare.
Nulla
aveva potuto maggiormente contribuire a paralizzare lo sviluppo sociale che
l’incertezza e la paura che si era insinuata in tutte le relazioni che avevano
bisogno di garanzie e sicurezza.
Su
quali basi poteva poggiare la minima speculazione, quando le principali fonti
di entrate pubbliche erano alienate in anticipo per molti anni e le monete
alterate sia per la alterazione della lega, sia per i decreti predatori?
Così
il contante che non trovava più un investimento uutile e certo, aveva disertato
le industrie e fu immobilizzato nell’acquisto di terre.
L’agricoltura
colpita al cuore per la decadenza del commercio, non tardò a decadere sotto
l’impero di una legislazione che proibiva l’esportazione del grano.
Per
colmo di sventura i continui cambiamenti
operati nella amministrazione degli Stati sconvolti dalle guerre, affliggevano
l’Europa di una piaga che rinnovava i ricordi del Basso Impero.
*) La falsa moneta, gli aumenti d’imposta, le esazioni di ogni
genere: la più spaventosa anarchia sembrò impadronirsi di tutta l’Europa:
questo era l’impero di Carlo V!
Durante il tempo di Enrico III di Francia (1551-1589) nel periodo
delle guerre civili (scriveva nel suo raro e originale libro Nicolas Fromenteau:
Séret des finance de France,
pubblicato nel 1581, e si riferiva non solo alla Francia, ma alle Fiandre,
Italia e Germania) che è stato il
periodo migliore della produzione delle miniere d’America, ogni anno giungevano
dal Messico galeoni carichi di piastre, eppur tuttavia la povertà regnava
dappertutto e malgrado il benessere che proveniva dall’opulenza, da una
estremità all’altra, l’Europa era in preda alla miseria e alla discordia: non si
sentiva parlare che di estorsioni e di saccheggi. “Il paese è mangiato non solo dalla gendarmeria e dai
gabellieri, ma da un’ora all’altra appaiono nelle cittadelle i soldati che
vanno a razzolare con insolenza ed eccessi così grandi e tali che non vi è villaggio
o casa che due o tre volte alla settimana non sia costretto a contribuire all’appetito di queste canaglie; quando il
soldato esce, il sergente entra e normalmente le case sono piene di gente
d’arme, soldati, collettori di taglie, sergente o gabelliere, tanto che
meraviglia quando la giornata sia passata senza la visita di qualcuno di
costoro”.
LA
DECADENZA
DELL’ITALIA
L |
’abbagliante
splendore delle belle arti non aveva potuto salvare l’Italia dalla decadenza
che era seguita alla perdita della sua libertà, e la continua diminuzione della
sua popolazione, ha sufficientemente dimostrato che i veri elementi della
prosperità degli Stati consistono nelle arti utili, piuttosto che nelle arti
gloriose.
Il
regno di Carlo V è stato soprattutto contrario al progresso della economia, nel
senso che egli aveva violentemente
deviato l’Europa dalla via
naturale della produzione, per precipitarla nell’avventura delle guerre e nel vecchio sistema dello sfruttamento
generato dalla feudalità.
Tutto
ciò che oggi abbiamo di false dottrine e funesti pregiudizi da combattere, lo
dobbiamo alla sua politica di governo,
continuato e peggiorato dai suoi funesti successori.
La
libertà del commercio che si era andata stabilendosi e radicandosi nel mondo in
una solidarietà comune di interessi del Mezzogiorno e del Nord con Carlo V era stata sostituita dalle restrizioni e
dalle proibizioni.
Le
banche di Venezia e di Genova esercitavano il credito: Carlo V si mise a produrre falsa moneta e
sebbene i tesori del nuovo mondo si
erano a lui aperti al punto di portargli circa cinquanta milioni di franchi
all’anno, nel 1540 egli inondò l’Europa di una massa considerevole di scudi
della Castiglia in pessimo oro.
Questo
detestabile esempio non trovò che troppi
imitatori e giunse il momento in cui, secondo l’espressione di M. Ganilh “ l’Italia si distingueva più per la pessima
moneta che per gli eccellenti stampi sulle monete”.
Non
si cercava più la ricchezza nel lavoro e nell’intelligente impiego dei capitali
ma nell’accumulo del danaro, per cui se
ne proibiva l’esportazione, “come se fosse stato possibile acquistare le
merci che non era possibile produrre e
tenersi il denaro che serviva per pagarlo”.
Fu
allora che ebbero luogo i primi saggi di
quelle strane teorie la cui invenzione appartiene interamente agli spagnoli e
che un economista del loro paese che ingenuamente, duecento anni più tardi
riassumeva in questo considerevole passo: “E’
necessario impiegare con rigore tutti i mezzi
che ci possono condurre a vendere agli stranieri il massimo della nostra
produzione, piuttosto che acquistarne da loro: è questo tutto il segreto e l’unica utilità del commercio (Geronymo Ustariz:
Theorie e pratique du commerce et de la
marine, traduction de l’espagnol, Paris 1794).
Questo
è il sistema che ha dato luogo alle numerose guerre di cui l’Europa è stata
teatro dopo la comparsa sulla scena di
Carlo V, e che domina ancora, a loro insaputa, la politica commerciale di quasi
tutti i moderni governi.
Tutti
si sono sforzati allora, di tenersi il
contante e di proscrivere le merci straniere.
Tutti
hanno creduto di vedere nelle importazioni una causa di rovina, senza rendersi
conto che le importazioni diventano tanto più necessarie quanto la produzione
interna diminuisce esattamente presso ciascun
popolo, nella proporzione delle restrizioni
immaginate per attivarne lo
slancio.
E’
allora, come inseguire la chimera di voler vendere, senza acquistare e ambire
al monopolio delle merci, abbandonando per i prodotti delle miniere i grandi
lavori delle industrie.
L’umanità
ha da fare più gravi rimproveri alla sua memoria, per aver posto su una immensa
scala la schiavitù che stava per cessare, e lo sfruttamento umano che era giunto al suo termine.
La
tratta dei negri fu organizzata sotto il suo regno come una istituzione
legittima e regolare, rinnovando la funesta dottrina, greca e romana, in virtù
della quale il profitto del lavoro sociale apparteneva di diritto alle classi
privilegiate.
Milioni
di uomini perirono in America. vittime di questi detestabili pegiudizi e
l’Africa, dopo trecento anni (Blanqui pubblicava il suo libro nel 1860 ndr.), non ha ancora cessato di pagare
il tributo di sangue e di lacrime al sistema che ne ha dato il frutto.
Per
farsi una idea di tutte le assurdità che furono immaginate in quest’epoca per
assicurare agli uomini della madrepatria i benefici e le rendite delle nuove colonie (mai l’audacia del
privilegio si era manifastata in una maniera così tirannica), la madrepatria
imponeva i suoi prodotti alle colonie e impediva che la produzione avvenisse
dal proprio stesso suolo.
Fu
vietato agli americani di piantare il lino, la canapa, la vigna, di fabbricare
merci, di costruire navi, di far educare i loro figli in Spagna. Nello stesso
tempo si obbligavano certi consumi inutili e assoggettavano a clausole la cui
storia oggi sembrerebbe una favola. La
frusta del commendatore rappresentava allora tutta la civiltà spagnola. (v. in Articoli cit.L’avorio e gli schiavi le ricchezze di Leopoldo ecc.).
La
necessità di sostenere delle guerre senza tregua avevano ridotto questo monarca, dai primi
anni del suo regno, a espedienti finanziari che tolsero la maggior parte dei
capitali alle industrie produttive, per inghiottirle nel baratro dello sterile
annientamento.
Carlo
V nato fiammingo, divenuto re in Spagna, imperatore in Germania, rappresentava
il partito ghibellino detestato dalla parte guelfa dell’Italia. Come re di
Spagna era divenuto il più funesto avversario dei banchieri italiani, incapaci
di opporre una qualsiasi resistenza al fortunato possessore di miniere del Messico e Perù. Appena salito sul trono
egli mise sulla bilancia del commercio, oltre al peso della sua spada, quello
del nuovo mondo e di una gran parte del vecchio continente.
In
politica, religione e nell’industria la sua potenza non aveva avuto rivali e
nell’arco di venti anni egli si era preparato a sollevare tutte le questioni e
a capovolgere tutti i reami. Non a caso gli storici lo considerano come punto
di partenza di un nuovo ordine sociale in Europa.
A
cominciare dal suo regno, in effetti, si opera una rapida e profonda mutazione
nel cammino della civilizzazione. Le idee sono così agitate che gli imperi e
per la prima volta dopo secoli il mondo,
sembra chiamato alla lotta definitiva al nepotismo e alla libertà.
La scoperta dell’America,
l’espulsione dei mori dalla Spagna la riforma protestante, la tratta dei neri, sono avvenimenti contemporanei a Carlo V e
ciascuno di tali avvenimenti porta in sé il germe dei venti delle rivoluzioni
future.
Al
regime municipale che si era stabilito sotto l’influenza delle città libere
della Germania, Belgio, Spagna, e delle repubbliche italiane, si era visto
succedere la dominazione di qualche potente monarchia che si era divisa
l’Europa dopo la rovina.
Carlo
V è stato il principale strumento di questa rivoluzione, il cui contraccolpo
dovette essere così fatale all’economia politica, che metteva sotto l’influenza della forza le più
funeste dottrine che avevano afflitto l’umanità.
La
necessità di sostenere delle guerre senza tregua avevano ridotto questo monarca, dai primi
anni del suo regno, a espedienti finanziari che tolsero la maggior parte dei
capitali alle industrie produttive, per inghiottirle nel baratro dello sterile annientamento. (A. Blanqui, Histoire de l’ Economie Politique de les anciens
jusqu’a nos jours, Paris 1860).
L’ORO
E L’ARGENTO
E
LA DISASTROSA
AMMINISTRAZIONE
DELLA
RICCHEZZA PIOVUTA
DALLE INDIE
L |
e
importazioni di oro (che successivamente sarà sostituito dall’argento), seppur
ancora contenute (solo dopo il 1560 diventeranno straordinarie, ma il periodo
che prendiamo in esame è limitato al regno di Carlo V) ebbero un continuo
crescendo e fruttavano a Carlo il c.d. “quinto”.
I
proventi del periodo 1503-1505 raddoppiarono nel successivo periodo 1511-1515;
dal 1516 i proventi andarono aumentando da 35.ooo ducati ai 122.ooo del 1518
(con una rinduzione nel 1521 di 6.ooo ducati). con una media nel periodo
1538-1548-1558 di 165.ooo ducati (la cifra continuerà a salire fino a una media
di due-tremilioni, quando Filippo avrà tre bancarotte!).
Oltre
a questo quinto vi erano le ulteriori entrate, costituite dai diritti doganali,
vendita di cariche pubbliche, monopoli (sale, tabacco e altri generi), decime e
altre semiecclesiastiche e l’alcabala
pagata nelle colonie: tutte queste entrate erano assorbite dalla burocrazia che
diventava semmpre più complessa; iniszialmente nella misura del 50%, poi fino
all’80% ma vi furono dei periodi in cui a Madrid non giungevano rimesse in
quanto il gettito fiscale era assorbito interamente dai vicerè e dai funzionari; vi erano poi, anche le guerre, ad assorbire
il gettito fiscale.
Le
ingenti quantità di oro e di argento che giungevano dalle colonie, pur subendo
perdite a causa del contrabbando, del peculato e della pirateria sempre in
agguato (per Elisabetta d’Inghilterra sarà una manna!), sconvolsro il sistema
economico di tutti i paesi europei e principalmente quello della Spagna, mentre
non fu di alcun giovamento alla sua popolazione,
dove solo i ricchi divennero più ricchi.
Ma
non fu di giovamento neanche all’imperatore che dopo il debito menzionato, di
850mila fiorini contratto (1519) per la sua elezione, nel 1552 gli fu fatto dai
Fugger l’ultimo prestito di 400mila ducati, in quanto si faranno sotituire dai genovesi
(Storia dei Popoli e delle civiltà, Utet).
I
Fugger (*) che con Carlo V già da oltre un secolo praticavano la mercanzia, si
erano sviluppati anche nell’attività bancaria legandosi a principi regnanti e
in particolare a Carlo, durante il regno del quale si espanderanno a livello
mondiale, ma con i ritardi nei pagamenti di Carlo e del figlio Filippo II, finiranno col perdere l’enorme
ricchezza accumulata: nel 1525 l’attivo dei Fugger, ammontava a 2.811.ooo
fiorini, il passivo a 870.ooo, ma nel 1607 con la terza bancarotta di Filippo
II, i debiti dei creditori insoddisfatti ammontavano a 8milioni di ducati,
rimanendo solo con la proprietà fondiaria ipotecata.
L’aumento
della moneta metallica circolante provocò il balzo dei prezzi (definito rvoluzione dei prezzi), che in Spagna
incominciò a farsi sentire nel 1519-20 e continuò per tutto il resto del
secolo.
Secondo
le tabelle di J. Hamilton (American
treasure and the price revolution in cit. Storia Utet) da merci importate in Spagna nel periodo 1503-05 pari a pesos (un
pesos era pari a €.42,29 di argento puro) 371.055,3, si passò a 1.195.553,5 nel
1511-
Come
detto, il normale commercio con le colonie era riservato alla Spagna con
divieto di esportazione di oro e argento in paesi stranieri, col risultato che
queste misure furono semplicemente disastrose perché accentuarono in Spagna la
scarsità di beni di consumo rispetto al metallo circolante.
Si
pensò di porre rimedio a metà del 1500 vietando l’esportazione di merci
spagnole nelle colonie che avevano sufficienti materie prime per soddisfare i
propri bisogni, ma la situazione si aaggravò
in quanto il commercio e l’industria, per la perdita dei mercati esteri,
fu incapace a soddisfare le richieste interne, con il risultato che essa
comprava le merci necessarie dai mercati europei e pagava con l’oro del Nuovo
mondo.
Ciò
avveniva anche nelle colonie dove il divieto di commercio era eluso dal
contrabbando o caùon, la elusione
(interveniva uno spagnolo che dichiarava le merci contrattate di sua
proprietà). Il risultato fu che “tutto
ciò che gli spagnoli portano dalle Indie e raccolgono con pericolose
navigazioni, con la loro fatica e il loro sangue, gli stranieri se lo portano
via con facilità e comodo”.
L’oro
e l’argento del continente americano, seguendo le vie commerciali e
finanziarie, giunse ai paesi che vendevano merci al mercato spagnolo che
traboccava di quelle due materie prime, accumulando enormi profitti che
andarono a beneficio degli speculatori, non dei salariati o dei proprietari
terrieri.
Il
risultato fu, come abbiamo visto, che l’economia spagnola finì per dipendere
completamente dai paesi europei per tutti i beni di consumo interno (si è fatto
l’esempio della costruzione delle navi dell’Invincibile
armada il cui legname per alberature, gomene, sartiame, pece, catrame, rame
provenivano dal Baltico), mentre le sue riserve d’oro e d’argento defluivano
nei paesi fornitori di quei beni di consumo.
Non
solo. Ma venne al pettine anche il problema dello spopolamento della Spagna che
con una popolazione ridotta a otto milioni di abitanti (l’Inghilterra ne aveva
cinque milioni,
Gli
storici avevano rilevato un flusso di piccoli artigiani e venditori ambulanti e
contadini itineranti verso la Spagna. Era stato rilevato anche un movimento di
contadini che erano andati a ripopolare terre abbandonate dell’Aragona come anche
di lavoratori francesi che si erano recati a lavorare in Castiglia, sintomo
della depressione diffusa, che non era stata percepita e di cui non si aveva
consapevolezza perché non ancora si erano sviluppati gli studi e gli
osservatori o le analisi finanziarie, che ebbero inizio con la polemica tra
Bodin e Malestroi, in cui, mentre Jean de Malestroit (XVI sec.) con i suoi paradoxes esposti al re, sosteneva che
l'aumento dei prezzi verificatosi in Francia era solo apparente in quanto i
prezzi erano aumentati in termini di unità di conto, ma poiché era diminuito il
contenuto metallico della moneta, essi non erano aumentati in termini di oro;
Jean Bodin (1529-1596): al contrario, sosteneva che i prezzi erano aumentati
sia in termini di unità di conto che in termini di metallo prezioso. Egli
dimostrò quindi che la principale causa dell'aumento dei prezzi andava
ricercata nell'aumento di oro in circolazione (TQM:Teoria Quantitativa dei
Metalli).
Relativamente
alla manodopera nelle colonie, dopo
lo sfuttamento degli indigeni, fu incrementato, come abbiamo detto, il doloroso
commercio degli schiavi (v. in Art, cit. Schiavi, avorio ecc.) con il primo carico che
giunse in America nel 1503 e continuò costantemente per tutto il secolo e
oltre, fino alla abolizione negli Stati Uniti nel 1863, e, negli Stati del Sud, nel 1865.
I
FUGGER
*) I Fugger
originariamenmte abitavano nel villaggio di Graben presso Asburgo e fin dal
tredicesimo secolo avevano eserrcitato l’attività di tessitori e poi il
commercio; il capostipite Giovanni nel 1370
per matrimonio aveva ottenuto i
diritti di borghesia.
I figli di
Giovanni, Andrea e Giacomo pervennero a una grande fortuna e quest’ulltimo aveva avuto due figli Giorgio
e Giacomo che avevano raggiunto immense ricchezze e divenuti titolari di contee, signorie e
terre e la famiglia si era trasferita ad Asburgo dove avevano un magnifico palazzo
rinascimentale.
L’imperatore
Massimiliano aveva loro accordato patenti di nobiltà e da Carlo V erano stati
nominati conti e baroni dell’impero. La linea principale di Raimondo si era
divisa tra i due figli Giacomo e Giorgio nei rami di Pfirt e Wieissenhorn, il
resto in quello di Zinneberg e successivamente in altre branche, tutti imparentati
con le più illustri casate della Germania.
E’ noto
l’avvenimento della improvvisa visita dell’imperatore Carlo quando, essendo
sprovvisti di legna, per riscaldare gli ambienti, avevano bruciato fascine di
una partita di cannella che valeva migliaia di zecchini e gli avevano abbuonato i debiti da lui contratti.
Domenico Custos,
incisore di Anversa, aveva pubblicato una serie di ritratti dei primari
personaggi della casa col titolo “Fuggerorum
et Fuggerarum quae in familia natae, quae in familiam
transiverunt, quot extant aere expressae imagines” (il libro da
bibliografi ignoranti era stato messo nei cataloghi botanici delle felci!).
Il più antico
personaggio della raccolta era Giacomo detto il Vecchio morto nel 1460. Uno dei
più ragguardevoli personaggi della famiglia, fu Ulderico, nato nel 1528, il
quale si fece ecclesiastico e fu a Roma alle dipendenze del papa Paolo III. Da
Roma, se ne tornò in Germania dove, essendo entrato in contatto con i
riformatori, si convertì ai loro principi, dedicandosi allo studio delle
lettere facendo pubblicare da Enrico Stefano le miglori edizioni di autori
latini e greci. Aveva formato una preziosissima raccolta di manoscritti
impegnando ogni anno grosse somme per aumentarla, tanto da preoccupare i suoi
genitori che dissipasse il loro patrimonio, per cui lo fecero interdire. Ma
riuscì a fare annullare la sentenza e confermato il testamento del fratello che
lo istitituiva erede, si ritirò ad Eidelberg dove morì nel giugno del 1584.
Lasciò in legato una somma per i poveri e un’altra per il mantenimento di sei
secolari dell’accademia.
Molti autori,
meravigliati della sua inesauribile ricchezza, ritenevano che fosse in possesso
della pietra filosofale e che ne avesse lasciata la prova in diversi scritti.
Ma una delle principali fonti della fortuna era il mercurio di Almaden di cui i
Fugger avevano la concessione che
serviva per ottenere l’argento delle
miniere di Potosì.
Il fratello,
Giovanni-Giacomo, partecipe del gusto di suo fratello per i libri, aveva
formato una biblioteca di cui Girolamo Volsio era stato il conservatore. Egli
era in corrispondenza epistolare con il cardinale Granvelle e una delle sue
lettere fu inserita nel Trattato della
Tolleranza delle religioni di Pelisson.
Inoltre aveva composto in tedesco una Vera
descrizione della Casa d’Absburg e d’Austria (1555) in grossi volumi in folio, arricchiti di oltre trentamila
impronte di scudi gentilizi, sigilli, ritratti che si conservano nelle
biblioteche di Vienna e Dresda. Lambecio e
Kellar ne pubblicarono dei frammenti e Sigismondode Birken ne fece in tedesco un
sommario poco pregiato col titolo Speccchio d’onore della Casa d’Austria
(1608) in folio.
I fratelli
Antonio e Raimondo Fugger, furono nel XVI sec., fondatori della chiesa di San
Maurizio d’Augusta, in cui fecero collocare con grandi sopese, un organo, il
più grande che si fosse visto in Germania. La città di Augusta va ad essi
debitrice di altre istituzioni importanti, tra le altre di un ospizio per gli
incurabili e un altro per i poveri vergognosi. Raimondo aveva formato un museo
di antichità dei migliori artisti; aveva fatto un giardino botanico in cui
venivano coltivate le più belle piante dell’Italia.
Ottone-Enrico
Fugger, conte di Kirschberg e di Weissemborn, nato nel 1592, militò agli
stipendi della Spagna e venne fatto colonnello nel 1617 come premio per la
bella condotta innanzi a Vercelli. Egli levò le truppe a sue spese per marciare
contro la Boemia sollevata e in seguito, inviato nei Paesi Bassi, dove
intervenne all’assedio di Breda (1624). Le nuove turbolenze in Germania gli
diedero nuove occasioni per segnalarsi; nel 1632 aiutò il generale Tilli a sottomettere
la Franconia; comandò in principalità, l’esercito che aveva ordine di operare
in Svevia e venne fatto, in seguito, Maestro di artriglieria. Diresse l’assedio
di Ratisbona (1634) e si impadronì della piazza e fu presente a Nodlingen. Ad Augusta
nell’anno seguente depolse il senato luterano e lo sostituì con uno cattolico.
L’imperatore lo aveva innalzato al grado di conte dell’Impero e il re di Spagna,
Filippo IV, lo omorò dell’Ordine del Toson d’Oro; morì nel 1644.
(Da Biografia
Universale , Vol. XXII VE 1825).
LA RIVOLUZIONE
DEI PREZZI E
LE
BANCAROTTE
DI FILIPPO II
D |
urante
l’intero secolo XVI e proseguendo nel successivo XVII, l’enorme flusso di oro e
argento proveniente dalle colonie, aveva determinato, senza che se ne avesse la
piena consapevolezza, l’aumento incontrollato dei prezzi, definita dai posteri rivoluzione
dei prezzi, che altro non era, ciò che i moderni chiamano inflazione e recessione, determinata, non da mancanza di risorse ma da quella
continua pioggia d’oro e d’argento che si riversava in continuazione
sull’Europa, che pareva non avesse
mai fine e aveva determinato, come abbiamo visto, l’aumento dei prezzi dei generi di consumo,
mentre i salari rimanevano gli stessi.
Le
verghe d’oro e d’argento (*) giungevano con i galeoni a Siviglia dove tutte
le importazioni erano registrate alla Casa
de la Contractacion (organismo governativo creato nel 1503 per controllare
gli scambi col Nuovo Mondo; la principale funzione era quella di ricevere i
metalli preziosi grazie alle miniere e ai fiumi auriferi di Hispaniola e
Portorico e con la flotta organizzata ogni anno, il convoglio faceva vela verso
l’Europa, spesso intercettata dai pirati.
Giunti
e registrati a Siviglia (la cui cattedrale fu ricoperta d’oro, del valore
attuale di trilioni), i galeoni proseguivano per Anversa.
Si
sa che l’argento sostituiva l’oro e incominciò ad affluire dal 1530, aumentando
in misura modesta negli anni successivi; ma dopo la scoperta sensazionale in
Bolivia, delle miniere di Potosì (1545), si estraeva dalle rocce con un
amalgama di rame e mercurio (che intossicava i minatori che morivano a
centinaia); dopo il 1551 vi fu una crescita enorme della produzione e le
importazioni salirono a ritmo esponenziale fino a raggiungere nel quinquennio
1571-75 gli 11.906.609 di pesos arrivando, nel quinquennio 1591-95, a
35.184.862 di pesos: l’argento finì per sostituire l’oro nelle contrattazioni e
il pagamento delle truppe spagnole che si trovavano nelle Fiandre, avveniva con
la spedizione di verghe d’argento.
Le
miniere erano investimenti di privati i quali chiedevano in cambio i prodotti
richiesti dai coloni americani, che a loro volta inviavano anche piccole
quantità di pelli, tinture e zucchero come l’olio e il vino dell’Andalusia, i
tessuti di lana e di seta di Toledo, Cuenca, Mursia e Granada, gli utensili di
ferro dei Paesi Baschi, il mercurio di Almadèn; prodotti la cui richiesta si ridusse verso la
fine del secolo (1580-90) quando i coloni furono in grado di produrli per conto
proprio.
Questa
pioggia d’oro e d’argento, invece che
diffondere in Europa benessere, dispersa in mille rivoli, servì solo da
una parte a finanziare guerre e lusso e ad arricchire finanzieri e speculatori
e dall’altra a rendere più poveri quelli che già di per sé erano poveri e
certamente non servì ad alleviare la pressione fiscale nei domini spagnoli in
Italia, che invece si inaspri, divenendo più pesante e insopportabile.
L’
enorme pozzo di debiti dei monarchi inghiottiva tutto quel ben di dio di
ricchezza, giungendo all’assurdo, che i suoi principali fruitori, Carlo V e
Filippo II, continuarono ad essere oberati di debiti, ambedue sottomessi ai
voleri dei finanzieri che avevano portato durante il regno di Filippo II a ben
quattro fallimenti, che costituivano vere e proprie bancarotte; la prima delle quali si verificava in Spagna e nei
Paesi Bassi nel 1557, quando Filippo non riueiva a far fronte ai pagamenti.
I
Fugger erano stati costretti ad accettare il congelamento dei debiti di Filippo,
causati dalle continue guerre e impegni militari iniziati da Carlo V, durante
la prima metà del 1500 ed erano proseguite con Filippo fino alla fine del
secolo; i Fugger, coma abbiamo detto, saranno
anch’essi travolti dalla bancarotta e saranono sostituiti dai banchieri
genovesi; la seconda si ebbe nel 1596 la terza nel 1597, infine la quarta nel
1607, dovuta anch’essa alle enormi spese della corte di Filippo.
L’esasperato
fiscalismo, la corruzione, il saccheggio, l’indiscriminata e progressiva distruzione
delle risorse ne erano state le gravi e profonde conseguenze; il debito pubblico, quando Filippo salì al
trono era di 35milioni di escudos, quando morì era di 140milioni di escudos.
Della “rivoluzione dei prezzi”, che aveva avuto inizio in Spagna nel 1500 e si
estenderà a tutta l’Europa con modalità diverse, alcuni stati se ne gioveranno,
come i Paesi Bassi, Francia, Inghilterra per rinforzare le proprie strutture
produttive, altri come Spagna e Italia, saranno coinvolte in un progressivo
deterioramento economico con pesanti conseguenze sociali.
Per tutto il secolo l’incapacità dei salari a
tener dietro all’aumento dei prezzi, unitamente al crescente fiscalismo che si
verificava in Spagna e Italia, provocherà un sostanziale impoverimento del
tenore di vita delle masse popolari.
Nel 1551-1560
l’argento assume un ruolo dominante sui mercati europei.
L’oro rappresentava solo il 15% del quantitativo
medio dei metalli preziosi annualmente giunti alla Casa de Contractacion di Siviglia che aveva il monopolio delle
importazioni dalle Americhe, le cui ricchezze giungevano in Europa in continua crescita e si imponevano come elementi
fondamentali che consentivano a Carlo prima e Filippo dopo, di sostenere le
guerre della loro politica imperiale.
Nonostante la pressione fiscale esercitata sui
sudditi spagnoli e italiani, essi dovevano
far ricorso a prestiti e anticipazioni richieste ai Fugger, che si assommavano
ai debiti contratti da Carlo nel 1519 per la sua elezione a imperatore.
La situazione spagnola, nonostante l’argento del
Potosi, si aggravava dove vi erano le sedi dei grandi banchieri e ad Anversa
giungeva il danaro contante degli Asburgo, inviato dalla Spagna.
L’epopea dei prezzi che coincise con quella del
predominio commerciale a metà secolo, che era il più elevato d’Europa (eccettuata
Lisbona), raggiunse il livello più
elevato nella Francia; e nell’Inghilterra, con il prezzo di una camera
d’albergo e il costo della vita, che era il doppio della Francia.
La Spagna vietava l’esportazione di oro e
argento, ma questa misura si dimostrò inutile e disastrosa perché si accentuava
la scarsità dei beni di consumo rispetto al denaro circolante che era
conseguenza dell’importazione dei metalli preziosi.
All’esportazione delle merci nelle colonie, era
seguito l’aumento dei prezzi delle merci e si pensò di porvi rimedio vietando
l’esportazione, perché le colonie avevano sufficienti materie per soddisfare i
propri bisogni.
E così l’industria e il commercio spagnoli non
solo persero i mercati esteri, ma furono incapaci di soddisfare le richieste
interne, con la conseguente necessità di doversi rifornire dai mercati europei
pagando con l’oro che giungeva dal Nuovo mondo.
Anche nelle colonie era stato posto il divieto
del commercio con altri paesi, con la conseguenza (che vale per tutti i
divieti: come il proibizionismo dell’alccol in USA degli anni trenta, e,
attualmente delle sigarette e cannabis!) che facevano arricchire i
contrabbandieri (ndr.)!
La finanza aveva creato un mercato di capitali
manovrato da uomini d’affari che trattavano con i governi, i sovrani, le città,
mettendo loro a disposizione
anticipazioni a breve e medio termine sulle future entrate pubbliche,
provvedendo così al pagamento del soldo alle truppe o alle forniture di rame
per la marina da guerra, assicurando in anticipo la circolazione dei metalli
preziosi prima che dalle Americhe arrivassero a Siviglia.
L’aumento della popolazione non veniva
soddisfatta da uguale aumento dei beni di prima necessità, con la conseguente
pressione della domanda sui beni di prima necessità.
Gran parte della popolazione, per
l’alimentazione, si orientò verso i cereali (cerealizzazione: la carne dei poveri) anche se producevano calorie
di valore inferiore alle calorie di origine animale.
La crisi era stata attribuita alla massa d’oro e
poi dell’argento che giungeva dalle Indie occidentali (*), ma questa era stata solo
una concausa.
Nel corso del 1500 la Spagna riceveva una tale
quantità di metalli preziosi, nonostante subisse perdite notevoli a causa del
contrabbando, pirateria e peculato da parte dei funzionari, da sconvolgere la bilancia commerciale di molti paesi
europei.
Tutta la massa dei metalli preziosi, oro e
argento (dal 1519 incominciò ad avere prevalenza l’argento), determinò il
rialzo dei prezzi e il rialzo fu costante per tutto il secolo, raggiungendo
livelli cinque volte maggiori dei prezzi iniziali. Il fenomeno dalla Spagna si
propagò in Europa dove rimase più contenuto, mentre in Spagna raggiunse livelli
disastrosi. In Francia raggiunse in quegli anni un livello pari a due volte e
mezzo, mentre in Inghilterra il rialzo ebbe inizio più tardi, verso la metà del
secolo (1550).
Carlo aveva disposto che il traffico commerciale
passasse per Siviglia, sicché i Paesi Bassi pur essendo sotto il dominio degli
Asburgo, non potevano profittare dei tesori che giungevano dal Nuovo Mondo se
non nella stessa misura della Francia e dell’Inghilterra.
Ma era stata Anversa, per il commercio delle
spezie, in seguito alle scoperte portoghesi nel sec. XVI, a divenire il centro
del mondo finanziario.
*) Tra il 1503 e 1520 erano giunti 14.ooo kg. di oro: ma la
quantità diminuisva mentre aumentava l’argento. Dal 1521-1540, 1.900 kg. d’oro
e 86.ooo kg d’argento: tra il 1541-1560 488.ooo kg. d’argento e 67.ooo kg.
d’oro.
L’estrazione dell’argento era aumentata di 5 volte. Nel 1570 i
Portoghesi occupando la Guinea si impadroniscono dell’oro africano. Così l’oro
e l’argento contribuirono ad aggravare l’inflazione in quanto fecero diminuire
il valore del denaro.
IL COMMERCIO
E LO SCAMBIO
DFI PRODOTTI
TRA EUROPA
E NUOVO MOMDO
L |
’urbanizzazione portava forti contingenti di
popolazione contadina a trasformarsi da produttori in consumatori, con
l’aumento della commercializzazione interna.
Tra il 1480 e il 1560 i prezzi aumentarono di 5/6 volte. che per
l’epoca era tanto, mentre i salari aumentavano solo nel Nord Italia e nelle
Fiandre, perché controllati dalle corporazioni, nel resto d’Europa rimanevano
fermi.
Altra causa fu l’aumento della popolazione che
comportava la maggior richiesta di beni di consumo che non si era in grado di incrementare,
con l’ulteriore levitazione dei prezzi.
L’inflazione ebbe due effetti contrastanti: da
una parte, la perdita di valore dei
redditi da lavoro e delle rendite fisse, dall’altra, uno stimolo agli
investimenti. Ne rimasero colpiti i salari che erano pagati a fine anno, quindi
svalutati, e la nobiltà pagata a canone fisso dagli affittuari, anch’esso
soggetto all’inflazione.
La crescita della popolazione (*) portò
all’aumento dei prezzi che proseguì fino alla seconda metà del 1500. L’aumento
dei prezzi colpì particolarmente i cereali, seguito, non nella stessa misura,
da quello della carne: altrettanto modesto fu l’aumento dei prodotti
industriali.
Tutto questo portò a un impoverimento in quanto, la
mancanza di disponibilità, portava ad acquistare cereali più economici e di
bassa qualità, come la segala; e il pane diventava sempre più scuro, mentre la
carne scompariva dalle tavole con un peggioramento della nutrizione.
Mentre vi erano molti terreni da coltivare, il
numero dei contadini non era sufficiente e ciò aveva portato all’aumento dei
salari.
Comunque non tutto fu negativo
L’afflusso di ricchezza dalle Americhe, come
detto, fece sì che il costo del denaro diminuisse, e questo portò l’accesso al
credito con incremento degli investimenti di capitali in attività commerciali e
produttive: nascevano così le basi del capitalismo.
Nel corso del secolo si stabilizzavano gli scambi
di prodotti tra l’Europa e il Nuovo Mondo dove era introdotta la coltivazione
della canna da zucchero, del grano, del riso, della vite, dell’ulivo e del
caffè (che proveniva dall’Africa) e l’allevamento degli animali come il cavallo
che, dai pochi esemplari introdotti dagli spagnoli si è giunti, nonostante la
selezione durante gli ultimi secoli (della razza mustang), agli attuali circa
sessanta mila capi che vivono allo stato brado; oltre a bovini, suini, pollame,
baco da seta.
Invece in Europa erano giunti il mais, le,
patate, i pomodori, i fagioli, i peperoni e il peperoncino, le zucche l’ananas,
le arachidi, i fichi d’india. il tabacco, il cacao che con il caffè e il tè
proveniente dalla Cina, erano divenute le bevande più eleganti e diffuse dell’Occidente
I piccoli produttori che producevano per la
propria famiglia vendevano il surplus
dei loro prodotti, utilizzando il ricavato per pagare l’affitto, le tasse e
acquistare prodotti.
L’aumento della richiesta di cereali, aveva dato
la spinta all’aumento della produzione che non poteva aver luogo in quei tempi
per via intensiva ma estensiva, aumentando cioè i terreni da coltivare e questi
terreni furono tolti ai pascoli e con il disboscamento (intorno al 1530) al
quale fecero ricorso i proprietari terrieri della Francia e della Germania,
dove raggiunse dimensioni elevate, da costringere i monarchi a porre dei
divieti.
In alcune zone della Francia e dell’Italia furono
eliminate le vigne per far posto alla coltivazione del grano e in Boemia,
Polonia, Russia e Italia del Nord furono bonificate (tra la metà 1500 e inizi
1600) distese paludose.
In Bassa Sassonia e Schleswig-Holsteim vi fu
espansione verso il mare. Nei paesi Bassi furono sottratti al mare (e lo sono
tutt’ora) migliaia di ettari con la costruzione di Polders (i terreni si trovano sotto il livello del mare,
salvaguardati da un sistema di dighe, collettori e idrovore, che tengono sotto
controllo le acque interne).
Con il sistema estensivo non si ebbero grossi
risultati in agricoltura rispetto al secolo precedente (metà ‘400, metà ‘500).
L’eccezione sulla produttività si ebbe nei Paesi Bassi che avendo la
possibilità di fornirsi del grano della Polonia, incrementò l’allevamento del
bestiame e dei prodotti caseari (nell’Italia settentrionale si diffusero nuovi
cereali come mais e il riso).
Si verificò comunque che i redditi derivanti dai
miglioramenti produttivi finirono per
essere assorbiti dal tasso di prelievo e quindi l’estensione e
l’intensificazione della produzione agricola, con le bonifiche e il
disboscamento venivano sostituite dall’estensione e intensificazione del
prelievo, col risultato che nel tardo ‘500 e inizi ‘600 la crescita della
produzione di alimenti e materie prime avvenne con una velocità inferiore alla
crescita della popolazione e nel lungo periodo il prodotto agricolo diminuì,
con la conseguenza di un impoverimento e peggioramento del livello di vita
della popolazione rurale.
La coltivazione dei terreni era fondata
sull’affitto, il cui canone era pagato in danaro o in natura. In alcuni paesi
fu introdotta la mezzadria, forma di associazione in cui si divideva la metà
del prodotto con il lavoro dei contadini, mentre nella parte orientale
dell’Europa si sviluppava il servaggio.
L’azienda signorile aveva dei piccoli
appezzamenti assegnati a ciascuna
famiglia da cui questa ricavava il fabbisogno, con obbligo di residenza e la
famiglia coltivava il resto della proprietà la cui produzione doveva servire
per tutti i bisogni del proprietario e di quelli che erano a lui collegati, il
resto costituiva il surplus destinato
alla vendita.
*) Relativamente alla
riduzione della popolazione causata della peste (v, in Art. La peste ecc) del
1347, ridotta alla metà (30 milioni). essa si riprese, raggiungendo nel 1450 i
60 milioni di anime e tra il 1450 e 1600
raggiunse i 100 milioni
.
FINE
PARTE SECONDA