Dalla Edizione Illustrata Ubieini – MI- 1841

 

 

 

I LIBRI DELLA BIBLIOTECA DI

DON CHISCIOTTE

 

a cura di

Michele E. Puglia

 

 

SOMMARIO: INTRODUZIONE (In Nota: II DIALOGO TRA L’OSTE E IL CURATO FULCRO DELLE FINALITA’ DEL ROMANZO);  PER I GIOVANI: INVITO ALLA LETTURA (In Nota: I PRIMI DIECI LIBRI FORMATIVI); L’EPOCA DELLA CAVALLERIA E DEL CAVALIERE ERRANTE: L’ORIGINE LA CERIMONIA LA GALANTERIA IL LIBERTINAGGIO E LE PUNIZIONI; I ROMANZI DI CAVALLERIA IN SPAGNA; IL DON CHISCIOTTE: PREMESSA; IL SESTO CAPITOLO: DEL BELLO E GRANDE SCRUTINIO CHE FECERO IL CURATO E IL BARBIERE ALLA LIBRERIA DEL NOSTRO INGEGNOSO IDALGO; IL DON CHISCIOTTE VISTO DALLA CRITICA MONDIALE- CONSIDERAZIONI REDAZIONALI SU FIDEL CASTRO L’ULTIMO DON CHISCIOTTE DEL ‘900; I LIBRI DI CAVALLERIA DEL DON CHISCIOTTE.

 

                            

INTRODUZIONE

 

 

V

olendo evitare di fare un arido elenco delle opere della biblioteca di don Chisciotte (menzionate nel VI capitolo ripreso dalla Edizione Bairon MI, 1929) e rendere il testo più vivace (la vivacità, ahinoi, é di Cervantes!), abbiamo pensato di riportare i dialoghi dei tre personaggi che partecipano alla loro mattanza, vale a dire: dell’intellettuale curato (*) don Pedro Perez, che vediamo come il principale promotore della distruzione dei libri di cavalleria, il colto  barbiere (maestro Nicolò) e la vivace serva ai quali non inosservata è da aggiungere la fondamentalista nipote di don Chisciotte depositaria delle chiavi della biblioteca dello zio, che si mostra sempre contraria al perdono degli autori dei libri, causa del grave danno procurato allo zio, avendolo fatto uscire di senno!

Non solo; ma quando il curato, (bontà sua!**), voleva salvare i libri di poesia, vi era stata la sua fiera opposizione, in quanto lei era convinta che: -“Non sarebbe gran maraviglia che, riuscendoci di sanare il mio signor zio dalla malattia cavalleresca, si desse a leggere questi libri e gli venisse il capriccio di farsi pastore e di andarsene per boschi e per prati, cantando e sonando, o ciò che è peggio, diventar poeta, che a quanto si dice, è un’altra malattia insanabile e contagiosa”.

Questa ragazza parla del miglior senno”, aveva ribadito il curato (***), il quale, per salvare questo genere di libri, riesce a trovare l’escamotage disponendo la eliminazione di tutti i versi, sì che di essi rimanesse solo la sua prosa eccellente.

E così furono salvati, oltre alla “Dianadi Montemayor, laDiana, detta “Seconda del Salamantinoe l’altro libro intitolato “Diana innamorata” di Gil Polo, oltre a “I Dieci libri della fortuna di Amore, del poeta sardo Antonio Lofraso, esaltato dal curato come “il migliore e più singolare di quanti videro la luce del mondo ... contento di aver trovato questo libro come se qualcuno mi avesse regalato una veste di raso di Firenze”.

Ma gli altri che seguono, come “Il Pastore d’Iberia, “Le ninfe di Henares, e “I Rimedi della gelosia, furono consegnati al braccio secolare della servente, “e non me ne domandate la ragione – disse il curato – che non finirei mai più”, e per “Il Pastore di Fidia,  precisava che non si trattassde di un “pastore” ma di un “valente cortigiano”, e con il libro “Il Tesoro di varie poesie”, ritenne fossero custoditi, perché “l’autore è mio amico e per riverenza per altre sue opere da lui composte”, unitamente a “Il Canzonieredi Lopez Maldonado (anche questo autore era suo amico), “i cui versi destavano l’ammirazione di chi li ascoltava e la soavità della voce è un incantesimo; nelle egloghe è alquanto prolisso, ma il buono non fu mai troppo: si serbi con gli altri che già si sono messi da canto”.

Quanto ai romanzi cavallereschi, nel citato paragrafo del Cap. VI, che segue, è stato  riportato per ciascun libro che capitava loro a tiro, il dialogo tra i vari personaggi e dopo il titolo, in corsivo seguono le annotazioni riguardanti ciascuno di essi; è stata omessa la loro trama, salvo un accenno per qualcuno, per non appesantire la lettura, comunque facilmente reperibile in Internet o, se si preferisce il cartaceo, nel fondamentale “Dizionario delle opere e dei personaggi della Bompiani”.

Infine, in fondo a queste pagine, è stato riportato l’elenco completo delle opere citate nel romanzo.

Non sappiamo quali e quanti libri di cavalleria si trovino nelle biblioteche italiane, ma, per chi volesse fare la fine del glorioso idalgo, risulta che tutti quei libri erano stati specificamente e puntigliosamente raccolti dalle biblioteche di Francia (Parigi) e Spagna (Madrid), ad esclusione della Historia del valoroso cavaliere Tirante il Bianco che, è stato detto (v. nella apposita nota) non si trova in nessuna delle due.

 

*)  Carvantes aveva fatto del curato un uomo dotto, laureato presso l’università di “Siguenza”, cittadina medievale (facente parte della comunità autonoma della Castilla-La Mancha), fondata (nel 1489 e chiusa nel 1824) dal potente cardinale Pedro Gonzàlez de Mendoza (1428-1495).

Per bocca del curato parla lo stesso Cervantes quando critica i fantasiosi libri di cavalleria che intende bruciare: è dal colloquio con l’oste (in nota seguente) che emerge il pensiero del curato sui libri, che, in simbiosi col pensiero di Cervantes, ritiene vadano distrutti quelli fantasiosi e non ancorati alla realtà e alla storia; infatti egli esprime (parzialmente!) la sua ammirazione per lo stile del romanzo Tirante il bianco, che “supera ogni altro libro del mondo”, e nello stesso tempo apprezza il romanzo in quanto in esso “i cavalieri man­giano, dormono, muoiono sul loro letto, fanno il loro testamento prima di morire, e vi si trovano tante e tan­te altre cose non mentovate neppure in altri libri simi­li”. Ciò nonostante lo affida al barbiere perché si renda conto, che, senza necessità vi si trovano scritte “tante scempiaggini”!

 

**) Al curato oltre a non piacere i libri di cavalleria, non piacevano neanche le commedie come riferisce al canonico (capp. XLVII-XLVIII), il quale riscuote la sua fiducia dopo avergli detto di “avere più sulle dita (in antipatia!) i libri di cavalleria che  le Sommole di Viglialpando”.

Si trattava di Gaspare Cardillo de Villalpando (1527-1581), umanista, laureato in  teologia presso l'Università di Alcalà dove insegnava dialettica, eloquenza e filosofia aristotelica; la sua opera “Sumas de Sumalas”, nella quale dà importanza alla dialettica distinguendola dalla logica aristotelica, l’aveva scritta riprendendola dal trattato di Pedro Hispano (XIII sec.), “Summulae logicalis magistri Petri Hispani”, utilizzato nelle università fino al XVII sec. (la "summa" è un "compendio" che nel caso  è un compendio di logica).

 

***) IL DIALOGO TRA L’OSTE E IL CURATO FULCRO DELLE FINALITA’ DEL ROMANZO.

 

Dal dialogo tra l’acuto oste (che rappresenta i lettori dei romanzi di cavalleria) e il curato (Cap. XXXII), sui tre libri da lui posseduti (Don Cirongilio di Tracia, Felis Marte di Ircania e la Storia del Gran Capitano con l’ aggiunta della Vita di Garzia Paredes, brillante guerriero, che il Gran capitano aveva preso nel suo esercito), dal quale emerge, da una parte l’entusiasmo dei lettori per quel genere di libri, e la loro critica , rappresentata dal curato.

L’oste infatti si meraviglia di quanto gli dice il curato, sulla lettura dei libri di cavalleria “ che avevano guastato il cervello di don Chisciotte” e spiega la sua entusiastica passione per quei libri: Non so come possa essere, perché  la verità è che non vi è lettura migliore al mondo”; aggiungendo che “quando si raccolgono le messi, a mezzogiorno, nell'ora del riposo, i mietitori (segatori) fanno cerchio in più di trenta e ascoltano la lettura che manda al diavolo la malinconia.”  E: – “Quando sento raccontare i terribili e furiosi colpi tirati da quei cavalieri mi viene la frega di fare altrettanto e starei giorno e notte a udirli”.

Per il curato invece (come per Cervantes) è proprio quello il genere di libri da bruciare e dice: Per i due primi libri, Don Cirongilio di Tracia e Felis Marte di Ircania, ci vorrebbero la nipote e la serva del nostro amico (  che lo avrebbero bruciati immediatamente!)... – “Io brucerei i primi due, disse il curato” aggiungendo “questi due libri sono bugiardi e pieni zeppi di spropositi e chimere, laddove il Gran capitano è storia vera”. Mentre l’oste ribadisce che lascerebbe bruciare il figliolo piuttosto che veder bruciati qualcuno di essi! E aggiunge: Legga piuttosto il Felice Marte d'Ircania  che con un solo manrovescio tagliò per metà cinque giganti, come se fossero stati di ricotta; un'altra volta assalì un grandissimo esercito di un milione seicentomila soldati e li sbaragliò e li fece fuggire. E dove lasciamo il buon don Cirongilio di Tracia? Che navigando in un fiume, pur essendo uscito dall'acqua un drago, gli saltò in groppa  e gli strinse con ambedue le mani la gola in modo che sentendosi il drago strozzato, cercò scampo nel fondo del fiume portando seco il cavaliere che sul fondo si trovò in un palazzo con un giardino meraviglioso a vederli... e il drago si trasformò in un vecchio decrepito... Se vostra signoria leggesse queste imprese impazzirebbe di piacere” ... .

Il curato tornò a dire: Badate bene fratel mio che non vi furono al  mondo né Felice Marte d'Ircania né Cirongilio di Tracia né gli altri cavalieri dei libri di cavalleria tutti composti e immaginati da oziosi cervelli intenti solo a dare passatempo agli sfaccendati ... Risponde l’oste: A me non si vendono lucciole per lanterne ... e non creda vostra signoria di ingannarmi... E’ ben singolare che ella voglia persuadermi che il contenuto di questi buoni libri sia un impasto di menzogne, quando sono belli stampati con licenza del Consiglio reale; come se quelle fossero persone da permettere che si stampassero tante battaglie, tanti incantesimi e tante bugie da far perdere il giudizio”. Il curato (riassumiamo) cerca di giustificare che quei libri hanno lo scopo di concedere una forma di trattenimento ai nostri oziosi pensieri, allo stesso modo in cui nei vari Stati  si permettono i giochi degli scacchi, della pallacorda e del trucco (gioco delle bocce fatto per terra), ma per passatempo di coloro che non vogliono, non debbono o non possono lavorare, e si permette la stampa di quei libri ritenendo che non vi sia uomo di tanto crassa ignoranza che non consideri veritiera qualcuna di quelle storie ... .

All’entusiasmo degli uomini per la lettura dei libri di cavalleria, corrisponde lo stesso entusiasmo delle donne, che Cervantes mette in bocca alla figlia dell’oste, Maritorna che dice: Ho un gran gusto a sentire che  un cavaliere e una dama risposano sotto un alloro... in coscienza mia, io pure loi sento leggere e in verità, ad onta che non li intendo, ne provo diletto,  per altro non mi vanno a sangue quei colpi che piacciono a mio padre, ma mi interessano i lamenti dei cavalieri quando si trovano lontani dalle loro signore e mi commuovono fino a farmi piangere di compassione. – Di maniera che (riassumiamo), disse il curato, se piangessero per causa vostra voi gli offrireste il rimedio? – Non so quello che farei, rispose la ragazza e posso dire soltanto che tra quelle signore ve ne sono alcune tanto crudeli che meritano dai cavalieri il nome di tigri, di leonesse e di altri siffatti. Dio buono, non so come possa darsi gente così spietata e di sì poca coscienza, che per non voler consolare un uomo di onore, lo lascino morire e diventar matto, e io non arriverò mai a capire perché facciano tanto le schizzinose: se le intenzioni dei cavalieri sono oneste, si facciano con essi spose, che questo dev’'essere l'unico loro scopo ... per altro non mi vanno a sangue quei colpi che piacciono a mio padre, ma mi interessano i lamenti dei cavalieri quando si trovano lontani dalle loro signore e mi commuovono fino a farmi piangere di compassione.

 

   PER I GIOVANI:

INVITO ALLA LETTURA

 

L

eggere libri di cavalleria oggigiorno sarebbe certamente fuori luogo e, per di più, una tale lettura non darebbe alcun apporto dal punto di vista culturale; ma dare un’occhiata a quanto scriviamo nel presente articolo, considerandola come una pagina di letteratura per inquadrare il tempo del Don Chisciotte, e per soddisfare una curiosità intellettuale stimolante.

Nel primo dei due libri del don Chisciotte, Cervantes ha dedicato il capitolo sesto alla biblioteca dell’idalgo, e, attraverso la cernita fatta dal curato, con l’aiuto del barbiere, sono stati indicati i più famosi libri di cavalleria dell’epoca.

Per questa operazione di distruzione di libri che ricorda gli auto–da–fé  della inquisizione spagnola (v. in Art. L’Inquisizione ecc.), sul curato incombe l’arbitrio della loro distruzione o della loro salvezza, probabilmente per ricordare i roghi di libri e persone compiuti dalla Inquisizione.

I libri – nel bene o nel male - sono testimonianza della cultura di un popolo e bruciarli è sempre un delitto e il curato, sebbene di scuola aristotelica, ma di stretto rigore riformista del Concilio tridentino (con tutta la simpatia che può suscitare), rimanda alla storia dei grandi roghi di libri, verificatasi prima e dopo di lui, sia per motivi religiosi (con l’esempio della Biblioteca di Alessandria, voluto dal fanatico vescovo Teofilo (**)), sia per motivi politici (con l’esempio del Bücherverbrennungen” di Hitler del 1933).

Come è oramai risaputo, Cervantes con la sua satira, che percorre tutto il testo, aveva voluto porre in ridicolo i libri di cavalleria, che durante la sua epoca, partendo da quella precedente, si era diffusa come una forma di psicosi collettiva per quel genere di lettura che aveva coinvolto uomini e donne di tutte le categorie sociali, dai contadini (come abbiamo visto nella nota, sopra, del dialogo tra l’oste e il curato) fino all’imperatore Carlo V, che mentre emetteva disposizioni intese a proibirli, li leggeva di nascosto (come si vedrà più avanti) e Cervantes mettendoli in ridicolo, era riuscito là dove non erano riusciti i divieti dell’autorità, facendo così cessare la loro pubblicazione!

Il messaggio che vogliamo trasmettere ai giovani, ai quali dedichiamo queste pagine (*) é che essa sia da considerare fondamentale nella vita di un essere umano e qualsiasi cosa essi scelgano di fare nella vita, devono sapere che la lettura è elemento imprescindibile dal punto di vista formativo, non solo come base culturale, ma anche perché ha l’effetto, come suol dirsi, di allargare la visione della mente, vale a dire dando alla mente una visione più aperta di tutte le cose e una intelligenza anch’essa più aperta, oltre a contribuire allo sviluppo della loro personalità.

Il nostro suggerimento ai genitori, ai quali spetta il gravoso compito di allevare ed educare i loro figli (mentre compito della Scuola è quello di istruirli), trasmettendo loro le proprie personali esperienze, che costituiscono i necessari insegnamenti di vita di cui i giovani hanno bisogno, insegnando loro a saper accettare anche i loro rimproveri (che non devono mancare quando sono necessari!), ma anche quelli dei loro insegnanti  (**).

Tra i compiti dei genitori vi è anche quello di seguire i figli e non lasciarli liberi di fare quello che vogliono, come scrive Giampaolo Pansa nel suo Bestiario sulla tragedia di Corinaldo (Panorama): “Stiamo assistendo alla distruzione degli adolescenti e la responsabilità è delle famiglie”; tra i loro compiti vi è anche quello di invogliarli alla lettura; basta l’avvio dei primi due-tre libri, gli altri sono come le ciliege, presa una, seguono le altre!

Si tenga presente che, secondo Freud, la personalità dei ragazzi si forma fino all’età  di sette anni ... e negli USA dove sono sempre all’avanguardia, le mamme stanno prendendo l’abitudine di insegnare e leggere ai neonati!

                                                                                                    

 

*) Ai quali suggeriamo anche la lettura in Specchio dell’Epoca: de “l’Educazione del giovane feudatario ecc., non solo ma il suggerimento maggiore vuole essere di formarsi una cultura classica, rivolgendo la loro attenzione alla matematica e alle scienze (apposta abbiamo scritto i due articoli che sono brevi e semplici sull’Universo in poche righe e L’Universo secondo Hawking)) perché rivolgendo i loro studi in queste materie (aiutati, si spera, da bravi insegnanti!), possano allargare la schiera degli scienziati che stanno facendo onore al nostro Paese.

 

**) La biblioteca di Alessandria era divisa in due parti; una all’interno del Palazzo, il Museo, destinata ai dotti e l’altra all’interno del tempio di Serapide Serapeo destinata al pubblico; gli incendi furono tre, il primo causato da Cesare che aveva  ordinato l’incendio delle navi che erano nel porto (48-47) e si era esteso alla città; il secondo, voluto dal vescovo Teofilo che per fanatismo aveva ordinato la distruzione del paganesimo (391);  il terzo, provocato dagli arabi quando avevano conquistato la città (640).

 

***) Evitando il cattivo e barbaro esempio (generalizzato al Nord come al Sud), di telefonare al papà per dirgli di essere stati rimproverati e il papà corre immediatamente a scuola a malmenare l’insegnate ... ma si verifica anche che insegnanti degli asili, di animo malvagio e crudele, degno delle kapò dei lager nazisti, maltrattano, bistrattano e schiaffeggiano i bambini, nell’assenza di provvedimenti disciplinari da parte dei direttori che fingendo di ignorare, meriterebbero anch’essi la galera, come la meriterebbero gli insegnanti che per questi inaccettabili comportamenti, invece della semplice sospensione, meritano la galera!

 

I PRIMI DIECI LIBRI FORMATIVI:

 

Senza voler avere la presunzione di stabilire delle priorità sui capolavori  mondiali, le dieci opere che ci sembrano formative di una base culturale, salvo poi l’indirizzo che sarà  determinato  dalle scelte personali, il nostro suggerimento sarebbe quello di leggere le opere che suggeriamo, prima nel Dizionario delle Opere e Personaggi Bompiani, per poi passare agli originali che potranno interessare dopo questa prima lettura.

Essi sono: Omero, con Iliade e Odissea in prosa; Dante, Divina Commedia, in prosa l’Inferno, Purgatorio o Paradiso e poi a scelta, qualche canto in versi; Marco Polo: Il Milione; Cervantes: Don Chisciotte; Rabelais, Gargantua e Pantagruel; Voltaire, Racconti, a scelta; Erasmo, Elogio della Pazzia; Rousseau, Le Confessioni; Shakespeare: in prosa a scelta, ma non deve mancare l’Amleto; Stendhal, Il rosso e il nero ( o a scelta....) 8. James Joyce, Ulisse 9. Oscar Wilde (per acquisire il senso dell’humor in cui eccelleva): a scelta; 10. Bulgakov: Il maestro e Margherita.

 

 

 

L’EPOCA

DELLA CAVALLERIA

E DEL

 CAVALIERE ERRANTE

 

L’ORIGINE

 

P

resso i romani, e successivamente presso i goti, franchi e germani "miles" era l'uomo a cavallo mentre "pedites" il soldato a piedi; successivamente con il termine "milites" erano designati i cavalieri che con particolari cerimonie avevano conseguito il "cingolo militare", che costituiva la patente per far parte dell’Ordine della cavalleria; poi, ancora, in epoca feudale "miles" designerà il vassallo o nobile.

Il cavaliere era “armato” con una particolare cerimonia che aveva anch’essa  origini romane; secondo Tacito,  era costume che nessuno potesse portare armi fino a quando non fosse giudicato abile a farlo, e allora o il capo o il padre o un parente dava al giovane lo scudo e la spada, e questo costituiva il primo grado d'onore che si conferiva alla gioventù; questa usanza introdotta nelle popolazioni del Nord andò man mano perfezionandosi con l’introduzione della cerimonia religiosa.

Non vi è dubbio che la cerimonia fosse conosciuta nell’epoca di Carlomagno il quale aveva armato personalmente (791) Luigi (poi detto il Buono, v. in Art. I Carolingi e la dissoluzione dell’impero e Gli ultimi Carolingi) all’età di tredici anni, nel castello di Regensburg; la cerimonia, andò man mano perfezionandosi, anche con il sorgere dei romanzi che alla cavalleria si ispiravano ed ebbero come fonte iniziale lo stesso Carlomagno e (con colui che fu considerato suo nipote), il siciliano Rolando (o Orlando) di Chiaromonte (736-778), morto eroicamente a Roncisvalle.

 

LA CERIMONIA

 

I

l titolo di cavaliere incomincia a mostrarsi come dignità verso la fine della seconda dinastia dei re francesi, i quali, oltre al privilegio ad essi assegnato,  di sedere alla tavola del re, avevano anche quello di abitare nel suo palazzo dove assumevano il nome di “paladini” e qualche autore (uniformandosi alla storia di Carlomagno dello pseudo Turpino), aveva avanzato l’ipotesi che l’imperatore avesse eletto dodici valenti uomini per combattere la fede, nominandoli conti (ossia comiti-compagni di palazzo) e chiamandoli paladini, da cui si sviluppò l’idea della Tavola Rotonda.

Successivamente, il re Filippo-Augusto (1165-1223), per aggiungere solennità ai processi regi e dare maggior pompa alle cerimonie come quelle di consacrazione e associazione dell’erede al trono, senza annullare il diritto degli altri pari, ne scelse sei, tra i suoi vassalli e a questi aggiunse altrettanti vescovi, tutti destinati ad assisterlo in quelle particolari occasioni.

Dai primi cavalieri creati dal sovrano, si era passati ai cavalieri creati dagli altri cavalieri (vassalli titolari di feudi che creavano i valvassori e questi a loro volta, i valvassini (v. in cit. Carlomagno ecc.) ai quali erano assegnati sub-feudi, con cerimonie fastose durante le quali erano donati abiti, preziose pellicce, ricche stoffe, magnifici manti, armi, gioielli e doni di ogni specie, oltre all’oro e all’argento dispensati a profusione.

Dai sentimenti religiosi ai quali si ispirava la cavalleria (v. Art. Corone, blasoni e nobiltà, P. I)  era derivato l’uso del lavacro del futuro cavaliere, al quale partecipavano altri cavalieri, che si preparava per laveglia d’armi”, della sera precedente alla funzione religiosa, il quale digiunava e in chiesa passava la notte in preghiera; a questo modo i cavalieri acquisivano quei sentimenti religiosi che li portavano alla difesa dei deboli, degli oppressi e delle vedove.

La mattina seguiva la fastosa cerimonia religiosa, durante la quale i cavalieri rimanevano in piedi e alla lettura del Vangelo tenevano la spada con la punta verso l’alto, a testimoniare la loro disposizione a difendere la fede; con la consegna del cingolo e della spada terminava la cerimonia e seguivano i festeggiamenti con pranzi, balli e giostre.

Si distinguevano quindi quattro tipi di cavalieri: i cavalieri bagnati, quelli lavati da ogni vizio; i cavalieri di corredo, si distinguevano per la veste verdebruna che indossavano e per la ghirlanda dorata; cavalieri di scudo erano quelli divenuti cavalieri per elezione di popolo o di un signore e cavalieri d’arme, quelli divenuti cavalieri prima di una battaglia o durante una battaglia.

Alcuni di questi cavalieri, alla vita del castello, che in ogni caso non era sedentaria ma si svolgeva tra allenamenti alle armi, cacce e quando occorreva, combattimenti, preferivano quella all’aria aperta e si mettevano in viaggio, di norma accompagnati da un ristretto seguito (*), per dedicarsi alla difesa degli sventurati e alla protezione degli oppressi, seguendo il codice della cavalleria che prima di tutto imponeva l’obbligo di fedeltà nei confronti di colui che lo aveva armato cavaliere, al quale, tornando da imprese o spedizioni, erano tenuti a raccontare tutte le vicissitudini del loro viaggio e delle loro imprese, registrate dagli ufficiali d’armi o dagli araldi.

 

*) Accanto al cavaliere non poteva mancare lo scudiero (ve n’erano di diversi tipi secondo le mansioni) che lo seguiva e assisteva in ogni momento e montava il destriero così chiamato perché seguiva il cavaliere alla sua destra ed era il cavallo di battaglia di alta statura, portando l’elmo del cavaliere sul pomo della sella, mentre il cavaliere montava il palafreno, dall’andatura facile e comoda, detto cortaldo in quanto aveva le orecchie e la coda mozzate; durante il combattimento lo scudiero gli forniva le armi e se necessario correva a rialzarlo o gli forniva un cavallo fresco; se si facevano prigionieri, era lo scudiero a prendersene cura; mentre il cavaliere era armato di tutto punto con corazza, spada, lancia, daga e scudo e montava il cavallo di battaglia, gli scudieri avevano solo la spada e lo scudo e combattevano a piedi, ma non erano pedites; i pedites, erano i villani che  combattevano con bastoni e coltello che maneggiavano con destrezza (Meyer).

Riguardo ai cavalli, i cavalieri montavano solo stalloni; montare una femmina era ritenuto un disonore;  le femmine erano infatti destinate al lavoro dei campi o alla riproduzione oppure erano montati da ignobili e cavalieri degradati.

 

 

LA GALANTERIA

IL LIBERTINAGGIO

E LE PUNIZIONI

 

 

Q

uesti cavalieri vestivano di verde, e questo colore rappresentava la freschezza della loro età e il vigore del loro coraggio; poiché la loro vocazione li portava a visitare paesi stranieri, essi si perfezionavano nelle differenti maniere di giostrare dei paesi che visitavano.

Durante questa vita avventurosa gli capitava di combattere banditi che desolavano le grandi strade o cacciare dai loro nascondigli i briganti della classe nobiliare che dai loro castelli edificati sulle cime delle rocce si abbattevano come falchi sulle facili prede dei passanti disarmati; o capitava di liberare dalle catene dei prigionieri o strappare degli innocenti al supplizio; spesso costoro si arruolavano presso capitani che essi ritenevano combattessero per la giustizia.    

D'altra parte, le donne che i pubblici costumi non ancora ne difendevano la  debolezza, erano il principale oggetto della generosa protezione di questi cavalieri di ventura, che i romanzi avevano definito erranti.

Essi, alla galanteria, che costituiva una forma di amore, sconosciuta all'antichità, alla quale aveva dato nascita il cristianesimo, mescolandolo ai piaceri sensuali, al rispetto per la donna e alla fede, in una specie di culto religioso; a questo modo la vita del cavaliere si alternava tra l'amore e le sanguinose avventure o le guerre e non era raro che sposando una giovane e bella titolare di un feudo ne divenissero i feudatari (come abbiamo visto verificarsi in Terrasanta per Raimondo di Poitiers e Rinaldo di Chatillion v. ASrt. I mille anni dell’impero di Bisanzio Cap. VIII, P. II).

Ma sia per quanto riguarda le donne sia per le loro azioni, non tutti i cavalieri erano così angelici: Vi era in ambedue i casi anche il rovescio della medaglia.

Per le damigelle il libertinaggio diffuso in tutta Europa  (come testimoniato dall’abate Vely),  sostituiva la galanteria che portava le dame, a offrire,  per stravagante cortesia” ai cavalieri che le visitavano, le loro damigelle d’onore, per condividere con loro il letto e spesso le damigelle erano anche rapite dai loro cavalieri spasimanti o anche stuprate; e in questo contesto di erotismo diffuso, non deve meravigliare che all’inizio del XIII sec., nell’esercito di Luigi VIII di Francia, i campioni che combattevano per la religione, avevano al seguito ben millecinquecento concubine.

Nell’XI sec. i grandi di Francia, oltre a darsi “sfrontatamente ai vizi più vergognosi” (tra i quali era annoverato l’incesto che per l’epoca non era proprio una rarità, con gli esempi dati dallo stesso Carlomagno, (v. cit. art.) finivano per comportarsi da banditi.

Il duca di Borgogna, assaltava il vescovo di Caterbury, Ugo di Pamplona, conte di Rochefort rapinava i viandanti sulle strade maestre, togliendo loro denari e cavalli; l’abate Sugero riferiva che i signori di Roche-Guyon, padre e nonno rubavano e saccheggiavano, e il giovane Guido (rispettivamente figlio e nipote) era probo e leale e si asteneva dal rubare, ma perché era morto giovane (il cognato lo uccise assieme alla sorella, che era sua moglie), ma se fosse vissuto più a lungo sarebbe diventato come il padre e il nonno.

La religione dei cavalieri spesso impartita da religiosi ignoranti, era superficiale ed essi erano convinti che qualunque delitto potessero commettere, alla fine, arrivava l'assoluzione che gli salvava l’anima o con qualche pellegrinaggio in luoghi santi, o combattendo gli infedeli o in vecchiaia ritirandosi come monaci in un monastero o più semplicemente facendosi mettere il saio quando erano in punto di morte o appena esalato l'ultimo respiro.

Un esempio è dato  dalla preghiera fatta dal cavaliere Stefano Vignoles detto La-Hire nel 1427, che con il conte di Dunois sdo stava recando a liberare la città assediata di Montargis, il quale aveva chiesto al cappellano l'assoluzione dei suoi peccati, ma il cappellano gli rispose che doveva confessarsi, egli però gli disse che doveva andare a combattere e non aveva tempo e così ottenne l'assoluzione e dopo, con le mani giunte, fece questa preghiera: “Dio  ti prego di fare oggi per La-Hire quello che tu vorresti che La-Hire facesse se fosse Dio e che tu fossi La-Hire”.

La punizione prevista per i cavalieri che si macchiavano di viltà e disonore, quando vi era una autorità forte e rigorosa, era terribile: Condotto sul palco dell’infamia, le sue armi venivano spezzate e i suoi emblemi cancellati; gli araldi lo ricoprivano di ingiurie chiamandolo traditore, sleale, marrano; coperto con una cappa da morto, era trasportato in chiesa e su di lui si recitavano le preci dei defunti; una volta rilasciato, non  poteva farsi vedere in nessun luogo e se fosse andato in una mensa di cavalieri, la parte di tovaglia che aveva toccato era tagliata e lui veniva scacciato; per questo l’onore, particolarmente in Francia, era rigorosamente osservato.

L’epoca in cui si suppone sia sorta questa cavalleria errante, in cui fioriscono le avventure dei paladini, incrementate dalla fervida immaginazione e fantasia dei romanzieri, si può inquadrare verso la fine del periodo in cui termina l’antica civiltà di barbarie.

In questo periodo era prevalso il diritto del più forte. l'anarchia feudale desolava il territorio e la giustizia era data dalla prova del duello (espressione del giudizio di Dio (*) ), mentre il potere religioso, chiamato in soccorso dell'autorità civile, trovava nella tregua di Dio il solo modo di concedere periodi di pace.

La nuova epoca, ha inizio con la rinascenza carolingia (v. Art. “Carlomagno e l’idea dell’Europa”) e costituisce l’epoca della civilizzazione.

Con le crociate, l'Oriente si apriva con tutte le sue meraviglie alla fervida immaginazione dei romanzieri; è questo il punto  in cui si erano soffermati gli autori dei libri di cavalleria, i quali facevano prevalere esclusivamente la fantasia, senza alcun rispetto per la verità e senza neanche avvicinarsi alla realtà.

Essi infatti, intessevano a piacere i loro racconti ignorando la storia, la geografia, la fisica e lo stesso valeva per ciò che coinvolgeva la morale; ad essi bastava descrivere i colpi di lancia, di spada, le battaglie perpetue, le avventure, costruite senza un piano organico, senza alcuna connessione, mettendo insieme debolezza e ferocia, vizio e superstizione, chiamando in aiuto, nel momento più opportuno del racconto, giganti, mostri e incantatori; i romanzieri non sognavano altro che a superare con l'esagerazione l'impossibile e il meraviglioso, e questo genere di racconti affascinava i lettori.

Così, la figura del cavaliere errante era stata idealizzata da romanzieri, poeti, menestrelli e trovatori, che descrivevano e trovavano spunto da feste, tornei, dalla giustizia galante delle corti d'amore o dai pellegrinaggi religiosi o dai viaggi in Terrasanta.

Dei romanzi di cavalleria ebbero particolare successo quelli prodotti in Spagna, dove più che altrove era sentito il gusto per la vita cavalleresca.

 

*) Il duello era istituzionalizzato principalmente presso i germani sia nelle cause civili sia in quelle criminali; in Francia Filippo il Bello pur avendolo abolito (1303), si continuò a farvi ricorso; l’ultimo duello ordinato dal Parlamento di Parigi durante il regno di Enrico II (1519-1559) alla metà del sedicesimo secolo, fu quello tra Jarnac e Chateigneraie.

Sebbene molti papi fossero contrari, solo Giulio II lo proibì formalmente nei suoi Stati (1505); in Germania e Paesi Bassi si seguirono le proibizioni della Chiesa; in Inghilterra ne rimaneva ancora traccia nel diciassettesimo secolo, ma il procuratore generale annunciava alla Camera bassa (1818) che ne avrebbe proposta la abolizione nelle cause di omicidio.

Accanto al duello vi era l’ordalia la prova alla quale l’imputato doveva sottoporsi per acquistare la libertà, percorrendo una certa distanza impugnando un ferro rovente, poi veniva fasciato per alcuni giorni entro i quali dimostrare che Dio avesse miracolosamente guarito la ferita, oppure immergendo il braccio in acqua bollente e dimostrare la pronta guarigione, oppure era prevista la immersione in acqua fredda e solo  se affondava il colpevole era considerato innocente, oppure veniva fatto ingoiare un grosso tozzo di pane in un solo boccone, se non soffocava era considerato innocente.

 

 

I ROMANZI

DI CAVALLERIA

IN SPAGNA

 

 

A

gli otto secoli di dominazione araba (711/18-1492) con le continue guerre per la cacciata dei mori, era seguita la scoperta del Nuovo Mondo, poi le guerre d'Italia, delle Fiandre e d'Africa: Come si spiega  che la passione dei libri di cavalleria si affermava in un paese in cui il loro esempio era stato messo effettivamente in pratica?

Don Chisciotte non era certamente il primo della sua specie e l'immaginario eroe della Mancia, aveva avuto dei precursori viventi, dei modelli in carne e ossa, come, raccontava l'opera “Gli uomini illustri di Castiglia” di Hernando del Pulgar (1430-1494) in cui si cita la stravaganza di don Suero de Quiñones figlio di un grande balì delle Asturie, il quale aveva convenuto il riscatto dalle catene, con trecento lance (ogni lancia comprendeva gli aiutanti per cui il numero si deve duplicare o triplicare), della sua dama.

Lo stesso cronista, vissuto durante il regno di Giovanni II (1407-1454)  cita una folla di guerrieri da lui personalmente conosciuti, quali Gonzalo de Guzman, Juan de Merlo, Gutierre Quejada, Juan de Polanco, Pero Vasquez de Sayavedra, Diego Varela, .... “che si recavano non solo a visitare i loro vicini, i mori di Granada, ma percorsero, come cavalieri erranti paesi stranieri come la Francia, la Germania, l'Italia, offrendo a chiunque accettasse la loro sfida, di rompere una lancia in onore delle dame”.

Lo smoderato gusto dei romanzi cavallereschi portò i suoi frutti: Le giovani generazioni tralasciando lo studio della storia, che non offriva  nessun alimento alla loro sregolata curiosità, presero come modello il linguaggio e le azioni dei romanzi da loro scelti. Obbedienza ai capricci delle donne, amori adulteri, falsi punti d'onore, sanguinose vendette per le più piccole ingiurie, lusso sfrenato, disprezzo per l'ordine sociale, tutto ciò fu messo in pratica  e i libri di cavalleria divennero non meno funesti per i buoni costumi, quanto per il buon gusto.

Nello stesso romanzo queste critiche sono mosse dal canonico che nella sua “filippica” (in cap. XLVII) sui libri di cavalleria pur sostenendo che “sono di grave pregiudizio allo Stato, confessa che, ciò nonostante anch'io spinto da falso piacere li ho conosciuti quasi tutti ma di tutti non sono riuscito a leggerne uno dal principio alla fine, trovandoli pressappoco tutti della stesa pasta e non avendo l'uno maggior merito dell'altro; mi sembra – prosegue il canonico – che essi cadano nel novero di quei racconti di favole dette "milesie" che sono racconti spropositati che mirano a dilettare e non a dare un insegnamento ... e se il loro fine è quello di ricreare lo spirito non so come si possa raggiungerlo essendo piene di tante stoltezze fuori di ogni proporzione o credibilità ... come quando un ragazzo di sedici anni dà un colpo a un gigante grande quanto una casa e lo divide in due come fosse pasta di zucchero”!

A queste critiche si aggiunsero quelle dei moralisti: Luis Vives, Alexo Venegas, Diegi Gracian, Melchor Cano, Fray Luis de Granada, Malom de Chaide, Arias-Montano e altri scrittori che elevarono a gara la loro indignazione contro i mali che produceva la lettura di questi libri e seppur le leggi vennero in loro aiuto, non ottennero risultati soddisfacenti.

Un decreto di Carlo V del 1543, infatti,  dava l'ordine ai viceré e alle autorità del Nuovo Mondo di non lasciar stampare, vendere o leggere alcun romanzo di cavalleria ad alcuno spagnolo o indiano.

Nel 1555 le Cortes di Valladolid, reclamarono, con una energica petizione, lo stesso divieto per tutta la penisola, chiedendo per di più che si raccogliessero e si bruciassero tutti i libri esistenti; “che erano ben noti i gravi danni che essi facevano al regno, ai ragazzi e alle ragazze che  prendevano gusto per quei sogni e agli avvenimenti ivi descritti e all’amore e alle guerre e altre vanità, sulle quali, una volta lette, vi si buttavano a capofitto”!; la stessa regina Giovanna aveva promesso una legge che però, probabilmente per le sue condizioni di salute, non fu emanata.

Ma, gli appelli di retori e moralisti e gli anatemi dei legislatori non riuscirono ad arrestare il contagio; tutti questi rimedi rimasero impotenti contro il gusto del meraviglioso, contro il gusto del quale il ragionamento, la scienza, la filosofia non potevano trionfare, perché non si faceva altro che  continuare a scrivere e leggere i romanzi di cavalleria.

Principi e grandi prelati ne accettavano le dediche; perfino santa Teresa  (1515-1582) – durante la sua giovinezza – affezionatissima a queste letture, aveva composto un romanzo cavalleresco, prima di scrivere "Il castello  interiore" e le altre opere mistiche; per non parlare di Carlo V – fanatico dei tornei – il quale divorava di nascosto il Don Belianis di Grecia (*), uno dei più mostruosi prodotti di questa demenziale letteratura (come era stato scritto), mentre, come abbiamo visto, emetteva decreti di proscrizione di quei libri.

Quando sua sorella Maria, regina d'Ungheria, volle festeggiare il suo ritorno nelle Fiandre (con le feste di Bins), non trovò di meglio che organizzare una rappresentazione vivente di un libro di cavalleria, nella quale ebbero dei ruoli tutti i signori della corte, compreso l'austero Filippo II.

Questo gusto era penetrato anche nei conventi dove si leggevano o si componevano romanzi: un frate  francescano, fratello Gabriel de Mata, fece stampare – non nel tredicesimo secolo, ma nel 1589 un poema cavalleresco il cui eroe era san Francesco, patrono del suo Ordine, che  aveva per titolo “El caballero Asisio”, Il cavaliere di Assisi, con riprodotto sul frontespizio, il ritratto del santo ... a cavallo e armato di tutto punto alla maniera delle immagini che decoravano gli Amadigi e gli Esplandiani.

Il suo cavallo era bardato e parato di magnifici pennacchi, e lui portava sul cimiero dell'elmo una croce col chiodo e la corona di spine, con sullo scudo  disegnate le cinque piaghe e sul guidone della lancia vi era l'immagine della fede con la croce e il calice, con una frase spagnola traducibile: Contro la fede, nessuno può; questo libro singolare era dedicato al connestabile di Castiglia.

Non essendovi stato modo di bloccare questa forma di pandemia, l’arma formidabile l’aveva trovata Cervantes con la satira del don Chisciotte: – Dal momento della sua pubblicazione, non fu più pubblicato alcun libro di cavalleria; l’ultimo era stato un libro stravagante intitolato “Cronaca del principe e don Policismo di Boezia”  di Don Juan de Sylva y Toledo, signore di Cañada-Hermosa, gentiluomo della corte di Filippo III, stampato nel 1602.

 

 

*) Il titolo completo è Historia del magnanimo e invincibile principe don Belianis, figliolo dell’imperatore don Belanio di Grecia,  nella quale si narrano le strane e pericolose avventure che gli successero con gli amori che hebbe con la principessa  Floribella, figliola del Soldano di Babilonia & come fu ritrovata la principessa Polisena, figliola del re Priamo di Troia.

Tradotta dal greco in castigliano e dal castigliano in italiano da Orazio Rinaldi Bolognese, in Ferrara, per Vittorio Baldini, Stampatore Ducale – 1586.   

Questo libro si può scaricare, messo a disposizione dei lettori da Google libri, nei cui confronti non finiremo mai di esser grati per i tanti libri che ci dà la possibilità di scaricare (v. in Recensioni: La grande biblioteca virtuale di Google).

E non pensate che questo libro, tutto italiano, sia stato messo a disposizione da qualche sonnolenta Biblioteca italiana, come sarebbe stato logico! (Oh Italia, un tempo Bel Paese, come la barbarie politica ti ha ridotto!). ù

Esso invece proviene (come tanti altri libri italiani che si trovano in Google, messi a disposizione dalle biblioteche universitarie degli USA!) dalla Hofblibliotek di Vienna!

 

 

IL DON CHISCIOTTE

 

PREMESSA

 

 

N

el quarto capitolo, don Chisciotte subisce la sua seconda disavventura, in  quanto, avendo incrociato un gruppo di mercanti che da Toledo si stavano recando a Murcia, dopo aver creato un alterco, voleva caricarli con la sua lancia,n ma il suo Ronzinante precipitava per terra e il padrone rotolava e non poteva rialzarsi, impedito dalla sua armatura; uno dei mercanti, che doveva essere uomo di poco buon cuore, dopo aver spezzato la lancia, con uno di questi pezzi... lo macinò come grano al mulino; don Chisciotte è lasciato così malconcio ... che non poteva rizzarsi in piedi,  tanto il suo corpo era fracassato dalle percosse ricevute.

Nel successivo capitolo quinto lo troviamo, che pur in queste condizioni, egli  canta le strofe di una romanza:

Questa romanza, di autore ignoto si trovava nel “Cancionaro” stampato in Anversa nel 1555; in essa si raccontava che: Carlotto figliuolo di Carionvagno attirò Baldovino nel Bosco della sventura con l’intenzione di ucciderlo per divenir poi marito della sua vedova. Lo lasciò infatti morto nei bosco con ventidue ferite nel corpo.

Segue il sunto del racconto del don Chisciotte:

La sorte volle che in quel momento passasse un contadino del suo paese e suo vicino di casa, preso da don Chisciotte (che seguiva con la sua mente la trama della romanza), per suo zio il marchese di Mantova, il quale, dopo averlo riconosciuto lo chiama signor Chisciada, come lo chiamavano nel suo paese quando era in senno, lo carica di traverso sul suo asino e si dirige verso la sua casa; il fascio delle armi lo mette su Ronzinante; il contadino gli chiese che male si sentisse e don Chisciotte, dimenticando Baldovino (della romanza), si ricorda del moro Abindarraéz (si tenga presente che Cervantes, nella sua vita avventurosa, aveva partecipato alla battaglia di Lepanto (v. in Specchio dell’Epoca) dove era stato ferito rimanendo con un braccio storpio; era stato poi fatto prigioniero e tenuto come schiavo in Algeri dal 1575 al 1580; una parte di queste avventure sono messe in bocca al racconto dello schiavo, nelle pagine coinvolgenti dei capp. XXXIX-XL), quando il castellano di Antechera, Rodrigo di Narvaez, lo prese e lo condusse prigioniero al proprio castello. E quando il contadino gli chiede del suo stato, don Chisciotte gli risponde con le stesse parole del prigioniero Abindarraéz, che aveva detto a Rodrigo  di Narvaez, riportando ciò che aveva letto nella Diana di Giorgio di Montemayor:

Jorge de Montemayor era portoghese e aveva cambiato il suo cognome (Nontemor-o-Velo) in castigliano, scrivendo le sue opere in spagnolo e l’opera indicata è una pastorale in prosa dal titolo “Los siete libros de Diana” I sette libri di Diana, che ebbe moltissimi imitatori .

 

Quando vi giunge, la casa di don Chisciotte era tutta in subbuglio in quanto il padrone mancava da sei giorni.

Qui si erano riuniti il curato, don Pietro Perez, il barbiere, maestro Nicolò, la nipote di don Chisciotte e la serva, che credeva fermamente, “com’è vero che io sono nata”, che erano stati quei maledetti libri di cavalleria che l’avevano fatto uscir di senno e che gli aveva sentito dire diverse volte “che bramava di diventar cavaliere e andare per il mondo in cerca di avventure...e Satano o Barabba li portassero via codesti libri, che hanno guasto e sconvolto il più fino cervello che potesse vantar la Mancia”.

La nipote ripeteva le stesse cose e aggiungeva rivolgendosi al barbiere: “Sappia signor maestro Nicolò che mille volte è avvenuto al signor zio di spendere nella lettura di codesti libri due notti e due giorni continui, a capo dei quali li gettava da parte e impugnata la spada se la pigliava con le pareti finché stanco e spossato diceva di aver ammazzato quattro giganti come quattro torri  e il sudore che lo copriva per la grande fatica voleva che fosse sangue delle ferite da lui ricevute in battaglia. Dava allora di piglio a un gran boccale d’acqua fresca e se la beveva sino all’ultima goccia e con quella guariva e si rimetteva tranquillo, affermando che quell’acqua era una bevanda preziosissima dono del savio Eschifo, celebre incantatore e suo amico.

Il nome di Eschifo, storpiato dalla nipote, era Alchife, autore della “Cronaca di Amadigi di Gaula”.

 

Ah – continuava la nipote – io debbo accusare me stessa di tanto male; ché se avessi informate le signorie vostre delle follie del mio signor zio,  avrebbero posto rimedio prima che fosse giunto a questo termine; e que' suoi scomunicati libri li avrebbero dati alle fiamme: ché molti ne ha certamente degni di essere abbruciati come i libri degli eresiarchi.

— Sono anch' io dello stesso avviso, soggiunse il curato, e vi giuro in fede mia, che non passerà dimani senza averne fatto un auto-da-fé, dannandoli tutti al fuoco, affinché non siano occasione a qualche altro di fare ciò che il mio povero amico deve aver fatto.

 

 

 

 

 

IL SESTO CAPITOLO

 

DEL BELLO E GRANDE SCRITINIO CHE FECERO

IL CURATO E IL BARBIERE ALLA LIBRERIA

DEL NOSTRO INGEGNOSO IDALGO

 

 

 

M

entre don Chisciotte dormiva, il curato domandò alla nipote le chiavi della stanza dove si trovavano i libri, cagione di tanti malanni; ed essa gliele diede vo­lentieri. Subito entrarono tutti e con essi anche la ser­va; e trovarono più di cento volumi grandi, assai ben rilegati, ed altri di piccola mole (don Chisciotte in pagine successive, riferendosi ai libri di cavalleria, della sua biblioteca, dice di averne più di trecento). 

Non appena la serva li ebbe veduti, uscì frettolosa della stanza, poi tornò subito con una scodella d'acqua benedetta e l'aspersorio, dicendo: Prenda la signoria vostra, signor curato, e bene­dica questa stanza, affinché non resti qui nessuno degli incantatori di cui sono zeppi cotesti libri e non ci fac­ciano addosso qualche incantesimo per vendicarsi con­tro di noi, che vogliam cacciarli dal mondo.

La semplicità della serva mosse a riso il curato ed ordinò al barbiere che gli porgesse i libri uno alla volta, per vedere di che trattassero, potendo darsi che qualche opera non meritasse la pena del fuoco.

No, no, — disse la nipote — non si deve perdo­nare a nessuno di essi, perché tutti hanno contribuito a questo danno: il meglio sarebbe gettarli dalla finestra nell'atrio, farne un mucchio ed appiccarvi il fuoco o per evitare il fastidio del fumo, sarebbe anche meglio trasportarli in corte e bruciarli colà.

Lo stesso disse la serva, tanto grande era in ambedue la smania di veder distrutti quei libracci; ma il curato non lo permise senza leggerne almeno i titoli.

Il primo, pertanto, che maestro Nicolò gli porse, fu quello dei Quattro libri di Amadigi di Gaula:  

Non si conosce precisamente il primo autore dell'Amadigi di Gaula, nè qual fosse il paese dove questo libro tanto famoso venne alla luce la prima volta; ma si è certi che questo paese non fosse la Spagna, alla quale dicono che fosse giunto o dalle Fiandre o dalla Francia o dal Portogallo. Quest'ultima opinione pare che abbia maggior fondamento delle altre; e finché non si abbiano nuove notizie, si può ritenere che l’autore fosse il portoghese  Vasco de Lobeira vissuto secondo alcuni  alla fine del sec. XIII, secondo altri alla fine del sec. XIV.

In questo periodo cominciarono a circolare, manoscritte, le traduzioni spagnole di alcuni frammenti, che poi si stamparono separati nel secolo XV; finché nel 1525 Garcia Ordóñez Montalvo, raccolti e ordinati questi frammenti, ne fece la sua compiuta edizione.

Nel 1540 d'Herberey pubblicò una tra­duzione francese dell'Amadigi, seppur apprezzata al suo tempo, era poi caduta in oblio da che il conte di Tressan fece una sua libera imitazione.

Una traduzione italiana fu stampata in Venezia nel 1572.

 

Sembra, disse il curato che qui vi sia qualche mistero, da che, a quanto intesi dire, questo fu il primo libro dì cavalleria stampato in Ispagna, e tutti gli altri che poi gli tennero dietro ebbero principio e origine da questo. Perciò mi pare che, come capo di mala setta, si debba dare alle fiamme senza remissione.

Signor no soggiunse il barbiere mi fu detto che questo è il migliore di tutti i libri di queste specie che furono composti sinora e perciò, unico, può meri­tare perdono.

E vero, disse il curato e perciò abbia salva la vita, per ora. Vediamo quest'altro accanto.

Sono disse il barbiere le Prodezze di Splandia­no, figlio legittimo do Amadigi di Gaula :

Questo libro si trova sotto il titolo dì “Ramo che proviene dai quattro libri di Amadigi di Gaula” (Gaula è il Galles ndr.), detto “Le prodezze del valorosissimo cavaliere Esplandiano, figliuolo dell'eccellente re Amadigi di Gaula”. Alcala 1588.

L’autore è stato lo stesso Carcía Ordóñez de Montalvo, che pubblicò l’Amadigi.

All’inizio del libro si dice che queste prodezze furono scritte in greco dal maestro Helisabad (o Alquise) chirurgo di Amadigi e che costui le aveva tradotte dando  al suo libro il titolo di “las Sergas” che sta per “gesta”, deducendolo un po' stranamente dal greco “erga”; il libro fu successivamente tradotto in latino, poi in lingua romanza e in italiano da Mambrino Roseo.

Nicolas Antonio in Biblioteca spagnola (tom. XI , p. 391) an­novera ben venti libri di cavalleria scritti sulle avventure  provenienti da Amadigi.

 

 La serva obbedì con molto piacere; e così il buon Splandiano volò nella corte, attendendo pazientemente il fuoco da cui   era minacciato.

 

Tiriamo innanzi — disse il curato.

Questo che viene, — soggiunse il barbiere Amadigi di Grecia, e per quanto mi pare tutti quelli che sono da questa parte, appartengono alla dinastia de­gli Amadigi:

La storia di Amadigi di Grecia ha questo titolo: Cronaca del valentissimo principe e cavaliere dalla Spada-ardente, Amadigi di Grecia ecc. Lisbona 1596. L'autore dice che fu scritta in greco dal saggio Alquife, poi tradotta in latino, poi ancora nella lingua romanza. Anche di quest'opera esiste una traduzione italiana.

Nicolàs Antonio, nella sua Biblio­teca spagnola (tom. XI, p. 394), annovera ben venti libri di cavalleria scritti sulle avventure dei discendenti di Amadigi.

L'autore di queste due opere è Antonio de Torquemada (da non confondere con l’inquisitore Tomàs Torquemada ndr.).

Orbene replicò il curato vadano tutti in corte; ché per poter abbruciare la regina Pintichiniestra e il pastor Darinello con le sue egloghe e coi lambiccati concettini del suo autore, brucerei con essi anche il pa­dre che m'ha generato, se mi comparisse davanti in figura di cavaliere errante.

Sono del medesimo sentimento — soggiunse il bar­biere. Ed io pure replicò la nipote. Quand'è così, disse la serva vadano in corte; e presili tutti insieme, che erano molti, per rispar­miare la fatica di far la scala, li gettò dalla finestra.

Che è cotesto grosso volume? domandò il cu­rato. È, rispose il barbiere  don Ulivante di Laura.

L'autore di questo libro  soggiunse il curato è quello stesso che compose il “Giardino dei fiori”; e in fede mia non saprei dire quale dei due sia più veritiero, o piuttosto meno bugiardo. So bene che andrà in corte per le sue scimunitaggini e per la sua arroganza.

Questo che gli vien dietro è Florismarte d'Irca­nia disse barbiere:

Il traduttore francese pone a questo punto in nota: “ou Félix Mars d'Ircanie-oppure Florins-mars-Florismante”.

Nella bibliografia dei romanzi pubblicata dal conte Gaetano Melzi, si tro­va indicato questo libro, sulla testimonianza dell'Henrion, con queste parole: «Istoria di don Florismante d'Ircania ecc. tradotta dallo spagnolo, senza editore e data».

Fu pubblicata da Melchor de Ortega cavaliere d'Ulbeda in Valladolid, 1556.

 

Ah! è qui il signor Florismarte? replicò il cu­rato:  oh sì, sì, s'affretti d'andare in corte a dispetto della sua straordinaria nascita:

La madre di Florismarte, Marcellina, moglie del principe Florasan di Misia, lo diede  alla luce in un bosco e lo affidò a una donna selvaggia chiamata Balsagina, la quale dai nomi dei genitori lo chiamò Florismarte e poi Felice-Marte.

 

e delle sue fantastiche avventure, ché altro non meritano la durezza e l'infe­condità del suo stile: alla corte, signora serva, insieme con quest'altro. Oh, tutto questo, signor mio, mi va molto a san­gue — rispose ella; e contentissima eseguiva quanto le si ordinava.

 

Questi è il Cavalier Platir  disse il barbiere:

Cronaca del valorosissimo cavaliere Platir, figliuolo dell'imperatore Primaleone. Valladolid 1533.

L'autore 'di questo libro è sconosciuto, come quasi tutti coloro che scrissero libri di cavalleria. Vi è una tra­duzione italiana di Mambrino Roseo. 

 

È libro d'antica data rispose il curato né trovo in lui nulla che gli possa ottenere perdono; senz'altro vada a far compagnia agli altri; e così fu fatto.

Fu aperto un libro, e si trovò ch'era intitolato il Ca­valiere della Croce:

Il titolo completo è: “Libro dell'invincibile cavalier Lepolemo e delle imprese ch'ei fece chiamandosi il cavaliere della Croce”. Toledo 1562 e 1563.

Questo libro ha due parti, una delle quali, secondo l'autore, fu scritta in arabo per ordine del sultano Zulema, da un moro detto Xarton e tradotta da un prigioniero di Tunisi; l'altra scritta in greco dal re Artidoro.

Esiste una traduzione italiana di Pietro Lacero, modenese. Venezia 1606.

 

In grazia del santo nome che porta, gli si po­trebbe perdonare la sua ignoranza; ma si dice che tal volta il diavolo si nasconde dietro la croce; perciò vada alle fiamme.

Il barbiere prese un altro libro e disse: Questo è lo Specchio della Cavalleria:

Quest'opera è divisa in quattro parti. La prima, composta da Diego Ordóñez de Calchora, fu pubblicata nel 1562 e dedicata a Martino Cor­tez, figliuolo di Ferdinando. La seconda, scritta da Pedro de la Scierra, fu stampata a Saragozza nel 1580. Le ultime due, composte da Marco Martinez, videro pure la luce in Saragozza l'anno 1603.

 

Ah! lo conosco molto bene rispose il curato; ecco qua il signor Rinaldo di Montalbano, cogli amici e compagni suoi più ladri di Caco, e i dodici paladini col loro storico veritiero Turpino (sopra menzionato per la pseudostoria di Carlomagno ndr.)! In verità, sarei per condannarli soltanto ad eterno bando, non per altro che per avere avuto gran parte nella invenzione del celebre Matteo Bojardo (), d'onde ha poi ordita la sua tela il poe­ta cristiano Lodovico Ariosto (). Se il suo libro si trovasse qui, e parlasse un idioma diverso dal suo proprio, non gli porterei rispetto, ma se fosse nel suo linguaggio originale, me lo porrei sulla testa:

 

E’ noto che il Bojardo compose l'Orlando innamorato e l'Ario­sto l'Orlando Furioso, valendosi molto dei romanzi spagnoli.

Il traduttore dell'Ariosto, a cui allude l'autore, è il capitano don Gero­nimo Ximenes de Urrea, di cui don Diego de Mendoza aveva detto: «E don Gerónimo de Urrea non ottenne forse fama di nobile scrittore e, ciò che più importa, molto danaro, traducendo l'Orlando Furioso, cioè mettendo caballeros in luogo di cavalieri, armcs in luogo di arme, amores in luogo di amori? Di questo modo io scriverei più libri che non ne fece Matu­salem».

                  

Io l'ho in italiano, disse il barbiere ma non l'intendo. Non è necessario che voi lo intendiate  rispose il curato; e perdoniamo per ora a quel signor capi­tano che lo ha tradotto in lingua castigliana, togliendo­gli gran parte del nativo suo pregio: ma così avverrà a tutti coloro che s'impegnano a tradurre libri di poesia, chè, per quanto studio vi pongano, per quanta attitudine abbiano, non potranno mai darceli tali quali essi nacquero. Giudico, pertanto, che questo e tutti gli altri libri. che troveremo, che trattino di simili cose di Fran­cia, si raccolgano e si dispongano entro un pozzo senz'acqua, finché si decida ponderatamente quale dovrà essere il loro destino.

Questo non vale per Bernardo del Car­pio che vedo qui:

 

Questo poema in ottave è di Agostino Alonzo di Salamanca, (pubblicato in Tole­do il 1585).

Da non  confondere con altro del vescovo Balbuena, venuto in luce dopo la morte di Cervantes,

 

né per un altro chiamato Roncisvalle,

 

di Francesco Garrido de Villena, Toledo, 1585.

 

i quali, se capitano nelle mie mani, han da pas­sare in quelle della serva, e da queste senza remissione alle fiamme.

Il barbiere consentì: pienamente, riconoscendo che il curato era proprio un buon cristiano, e così affezionato alla verità, che non l'avrebbe tradita per tutto l'oro del mondo.

Aprendo. un altro libro, vide ch'era Palmerino d'Uliva; poi subito dopo Palmerino d'Inghilterra:

 

Il primo dei Palmerini è intitolato: “Libro del famoso cavaliere Palmerino d'Uliva, che fece nel mondo grandi imprese d'armi, senza sapere di chi egli fosse figlio”; Medina del Campo, 1563.

Si crede che lo scrivesse una donna portoghese, il cui nome è ignoto.

Il secondo, “Storia del molto famoso e gagliardo cavaliere Palmerino d'Inghilterra”, è composto di sei parti.

Le prime due sono da alcuni attribuite al re Giovanni II, da altri all'infante don Luigi, padre del priore de Ocrato, che disputò la corona del Portogallo a Filippo II, da alcuni altresì a Francisco de Moraes.

La terza e la quarta furono composte da Diego Fernandez. La quinta e la sesta da Baldassare Gonzales Lobato, tutti portoghesi.

Queste opere furono ambedue tradotte in italiano.

 

per cui il curato soggiunse: Si rompa in minute parti questa uliva, e sia con­sunta dal fuoco, per modo che non ne resti nemmen la cenere; ma venga, come cosa unica, conservata questa palma d'Inghilterra, e si faccia per essa una cassettina come quella che trovò Alessandro fra le spoglie di Dario e la destinò per custodia delle opere di Omero.  

Questo libro, signor compare merita la più grande consi­derazione, prima perché pregevolissimo in se stesso; poi perché corre fama che ne sia stato autore un re porto­ghese di gran saggezza. Hanno gran merito per la com­plicata loro orditura le avventure del castello di Miraguarda, vivaci, evidenti e pieni di decoro sono i discorsi dei personaggi che parlano, con grande proprietà e avvedimento. Conchiudo quindi, (avuto, però, riguardo al vostro savio parere, signor maestro Nicolò) che questo e Amadigi di Gaula si salvino dal fuoco; e tutti gli altri, senza riserve, sieno bruciati.

Oibò, signor compare replicò il barbiere ho qui il famoso don Belianigi:

 

L’autore era Geronimo Fernandez, avvocato di Madrid. L'opera. pubblicata in Burgos (1579) era divisa in quattro parti. Le prime due furono tradotte in italiano e stampate, la prima in Bologna, la seconda in Verona nel 1586 e I587.

 

Quanto a questo libro, — riprese il curato — la seconda, terza e quarta parte han bisogno d'una buona dose di rabarbaro che le purghi dalla disordinata collera che hanno, e occorre tagliare tutto ciò che vi si trova intorno al castello della fama e ad altre sconvenienze di maggior importanza; e perciò gli si conceda quel lun­go termine che si dà a chi abita oltremare per emen­darsi ed ottenere quindi misericordia o giustizia; frattanto, custoditelo in casa vostra, compare, e non per­mettete che nessuno lo legga.

Sono ben contento — rispose il barbiere; e senza leggere altri libri, comandò alla serva che pigliasse i più grossi e li gettasse in corte.

La serva non fece né la stupida, né la sorda, ma aven­do più voglia di dar quei libri alle fiamme che di tessere una tela per grande e fina che fosse, ne prese otto in una volta e li gettò fuori della finestra. Ma avendone presi molti ad un tempo, uno ne cadde ai piedi del bar­biere, il quale volle sapere che libro fosse, e lesse: Istoria del famoso cavaliere Tirante il bianco.

Oh perbacco baccone! — esclamò il curato; — è possibile che qui si trovi Tirante il bianco? A me a me, compare, fo conto d'aver trovato un tesoro da rendermi beato, ed una fonte perenne di svago. Qui si legge la storia di don Kirieleisonne da Montalbano, va­loroso cavaliere, e di suo fratello Tommaso; poi il cavaliere Fonseca, e la battaglia del forte Detriano con l'Alano, e le sottigliezze d'ingegno della donzella Pia­cerdimiavita, con gli amori e gl'intrighi della vedova Riposata, e finalmente la signora Imperatrice innamo­rata d'Ippolito suo scudiero. A onore del vero devo dire, signor compare, che quanto allo stile, questo supera ogni altro libro del. mondo. Qui, poi, i cavalieri man­giano, dormono, muoiono sul loro letto; fanno il loro testamento prima di morire, e vi si trovano tante e tan­te altre cose non mentovate neppure in altri libri simi­li. Nondimeno chi lo scrisse (perché senza necessità scrisse tante scempiaggini) meriterebbe la galera a vita. Portatelo a casa vostra; e vedrete voi stesso se io m'in­ganno:

Il titolo del libro è “Storia del valoroso cavaliere Tirante il bianco principe e cesare  dell’impero greco di Costantinopoli” - (cesare era il vice imperatore ndr.) - , era stato tradotto dall’inglese in portoghese e poi in volgare valenciano da Juhanot Martorell di Valenza il quale tradusse le prime tre parti e non poté tradurre la quarta per la sua morte improvvisa; la quarta parte fu tradotta  da Marì Johan de Galba.

Il traduttore francese (!) faceva sapere che il libro mancava nella collezione dei romanzi originali di cavalleria, posseduta dalla Biblioteca Reale di Parigi e che fu cercato inutilmente in tutta la Spagna per la Biblioteca di Madrid.

Il libro fu tradotto in italiano da Lelio Manfredi, e stampato in Venezia 1528 e ebbe diverse edizioni.

 

Non mi oppongo, —  disse il barbiere — ma che faremo di questi altri piccoli libri che rimangono?

Questi, rispose il. curato non debbono esser libri di cavalleria, ma piuttosto di poesia; ed apren­done uno, vide ch'era la Diana di  Giorgio di Montemayor. Disse allora, supponendoli tutti dello stesso genere: Questi non meritano, come gli altri, d'es­sere dati alle fiamme, perché non fanno, né faranno mai il danno de' libri di cavalleria; ma sono libri di svago, senza pregiudizio d'alcuno.

O. signore! soggiunse la nipote il meglio sarà di mandarli al fuoco come gli altri, perché non sarebbe gran maraviglia, che riuscendo a guarire il mio signor zio dalla malattia cavalleresca, egli si desse a leggere questi libri, e quindi gli venisse il capriccio di farsi pa­store e di andarsene per boschi e per prati cantando e sonando, o, ciò che sarebbe peggio, diventar poeta; ché, a quanto si dice, è un'altra malattia insanabile e contagiosa.

Questa ragazza parla con senno disse il curato e quindi sarà bene evitare al nostro amico questo pe­ricolo di ricadere. E giacché abbiamo cominciato dalla Diana di Montemaggiore, credo che non si debba bru­ciare, purché se ne levi la parte che si riferisce alla savia Felicia e all'Acqua incantata, con quasi tutti i ver­si, per modo che le resti la sua prosa eccellente e l'o­nore di essere stato il primo libro di questa specie.

Questo che viene, disse il barbiere è la Diana, chiamata Seconda del Salamantino:

Salamantino vuol dire di Salamanca, si trattava Alonzo Pérez. medico in quella città.

 

e di quest'altro, che porta lo stesso titolo, è autore Gil Polo (poeta e novellista di Valenza):

Poeta di Valenza, 'che continuò l'opera del Montemayor sotto il titolo di Diana innamorata.

 

Quanto a quella del Salamantino disse il. cu­rato accompagni ed accresca pure il numero de' con­dannati alla corte; quello di Gil Polo si conservi gelo­samente, come se derivasse da Apollo medesimo. Ma vada avanti, signor compare, e affrettiamoci, ché si va facendo tardi.

Questi disse il barbiere aprendo un altro volu­me sono i Dieci libri della fortuna di Amore, composti da Antonio di Lofraso, poeta sardo:

Il titolo completo era: “I dieci libri della Fortuna d'amore, dove si troveranno gli onesti e pacifici amori del pastore Pressano e dell'avvenente pastorella Fortuna”. Barcellona, 1573.

 

Per quanto vale il mio giudizio disse il curato da che Apollo è Apollo, muse le muse e Poeti i poe­ti, non fu composto mai un libro tanto grazioso e spro­positato al tempo stesso quanto questo; per la sua in­venzione è il migliore e il più singolare di quanti n'usci­rono alla luce, e chi non lo ha letto può far conto di non aver letto mai un libro veramente gustoso: datelo qua, compare, chè sono più contento d'aver trovato questo libro che se qualcuno mi avesse regalata una veste di raso di Firenze.

Lietissimo, lo mise da parte, e il barbiere proseguì leggendo Il Pastore d'Iberia, Le Ninfe di Henares e  i Rinedii della gelosia:  

Autore de “Il Pastore d’Iberia” era don Fernando de la Vega, canonico di Tucumón. Siviglia, 1591;  de “Le Ninfe di Henares”, Bernardo Gonzales di Bobadilla, Alcala, 1587; dei “Rimedii della gelosia”, Bartolomeo López de Enciso. Madrid, 1586.

 

Per questi non occorre disse il curato che consegnarli al braccio secolare della serva; e non me ne domandate la ragione, ché non la finirei più.

Questo che viene è Il Pastore di Filida:

di Luigi Galvez di Montalvo  (Madrid, 1552).

 

disse il barbiere.

Non è un pastore,  rispose il curato ma un cortigiano valente: sia custodito come un oggetto prezioso.

Questo grosso volume che lo segue s’intitola disse il barbiere, Tesoro di varie poesie,

di don Pedro Pedilla, (Madrid 1575).


Se non fossero tante, soggiunse il. curato sarebbero tenute in maggior conto: bisogna purgar questo libro scartandone le bassezze che vi sono frammischiate al molto bello: sia conservato, e, perché il suo autore è mio amico, e per rispetto ad altre opere migliori da lui composte.

Questo seguitò il barbiere  è il Canzoniere di Lopez Maldonado:

Pubblicato a Madrid nel 1526.

 

Anche l’autore di questo libro disse il curato è mio grande amico. I versi ch’egli recita destano l’ammirazione di chi li ascolta, e la soavità della voce con cui li modula un incanto. Nelle egloghe è alquanto prolisso; ma il buono non fu mai troppo: si conservi cogli altri che già furono messi in disparte.

Ma che libro è questo che gli sta sì vicino?            

La Galatea di Michele Cervantes  disse il barbiere.

Da molti anni questo Cervantes è mio grande amico soggiunse il curato e so ch’egli s’intende più di sventure che di versi. Convengo che gli si può concedere qualche lode nell’invenzione; ma egli propone sempre e non conclude mai: attenderemo la seconda parte che  ci promette :

Cervantes ribadì questa promessa anche poco prima di morire, nella dedica della sua opera “Pérsiles y Sigismonda”, ma la seconda parte della “Galatea” non fu poi trovata tra le sue carte; fu pubblicata  (1585) la sola prima parte, col titolo “La Galatea” Primera parte: il testo è in prosa e in versi, secondo il modello dell’Arcadia di Sannazzaro, che Cervantes ricalca (l’ulteriore illustrazione di questo testo è magnificamente riportato nel cit. Dizionario delle Opere Bompiani ndr.).

 

e forse, migliorando, si meriterà quel perdono che per ora gli rifiutiamo; ma fin a tanto che si veda come andrà a fluire la faccenda, custoditelo in casa vostra, signor compare.

Ne sono lietissimo rispose il barbiere. Qui seguono tre libri uniti, insieme  La Araucana di don Alonzo de Ercilla; l’Austriada di Giovanni Rufo  di Cordova e Il Monserrato di Cristoforo dì Virués, poeta di Valenza:

Il poema epico dell' “Araucana” è il racconto della conquista dell'Arauco, provincia del Chili, fatta dagli spagnoli, l’autore Alonzo de Ercilla, prese parte a quella spedizione.

L'Austriada” è la storia eroica di don Giovanni d'Austria, dalla ribellione dei mori di Granata, fino alla bat­taglia di Lepanto.

Nel “Monserrato” è descritta la penitenza di san Garino e la 'fondazione del monastero di Monserrato di Catalogna, nel secolo IX.

 

Non esistono disse il curato libri di poesia eroica, scritti in lingua castigliana, più pregiati di que­sti, e possono reggere il confronto coi più illustri d'Ita­lia. Si custodiscano come le gemme più preziose che vanti la poesia spagnola.

Ma il curato era ormai stanco di vedere altri libri, e senza esaminarne altri, ordinò 'che tutti in fascio fosse­ro bruciati.

Ma il barbiere ne teneva aperto uno intitolato: Le lagrime d'Angelica:

Poema in dodici canti di Luigi Barahona de Soto, 1586.

 

Il curato, vedendolo, disse: Lo avrei pianto, se per mio ordine fosse stato dato alle fiamme, poiché il suo autore fu uno de' più celebri poeti del mondo, non tanto nelle opere sue originali spagnuole, quanto nelle eccellenti sue traduzioni di alcune favole di Ovidio.

           

A questo punto termina il capitolo sesto, ma in quello successivo sono menzionati altri tre libri: 

 

.... agli schiamazzi di don Chisciotte, fu interrotto l’esame dei libri che restavano ancora da vedere e si crede che andassero al fuoco senza essere visti né intesi La Carolea e Il Leone di Spagna con Le gesta dell’imperadore:

 

Al tempo di Cervantes, della “Carolea”  si  conoscevano due poemi con lo stesso titolo sulle vittorie di Carlo V; l'uno di Girolamo Sampere, Valenza 1580; l'altro di Giovanni Ocboa de la Saude. Lisbona 1585.

“El Leon de Espagna”, poema in ottave di Pedro de la Vacilla Castellanos, sugli eroi e i martiri dell’antico regno di Leone. Salamanca 1588.

“Le gesta dell’imperatore” (Los hechos del emperador) è un altro poema (Carlo famoso) in onore di Carlo V, composto da don Luigi Zapata, non già da don Luigi de Avila, come si legge nel testo, per errore o dell'autore o dei tipografo.

 

Nel corso del romanzo sono inoltre indicati altri libri di cui riportiamo l’elenco in fondo al testo.  

 

                                     

 

 

 

 

IL DON CHISCIOTTE VISTO

DALLA CRITICA MONDIALE

 [Don Quijote de la Mancha]

 di Angel Valbena Prat (*)

 

 CONSIDERAZIONI

REDAZIONALI

SU FIDEL CASTRO

L’ULTIMO DON CHISCIOTTE

DEL ‘900

 

P

rima di introdurre il saggio di Prat, riteniamo poter dire con estrema semplicità, che nel corso della storia, la figura di don Chisciotte ha avuto molti imitatori che hanno combattuto contro giganti e mulini a vento, per affermare le proprie idee, giuste o sbagliate che fossero, di umanità e di giustizia.

L’ultimo esempio del secolo che ci ha lasciato, toccando appena il nuovo secolo, è stato quello di Fidel Castro (1926-2016) l’uomo politico più longevo del ‘900, che ha dedicato tutta la sua vita alla “revolucion”,  parola che sulle sue labbra si è spenta con la sua morte.

Egli è stato ugualmente, amato e odiato (subendo ben seicentotrentotto attentati)  e su questi contrastanti sentimenti e sulle luci e ombre del suo operato, un giudizio potrà esser dato solo dalla storia.

Ciò che non riteniamo umano  nei confronti della popolazione di Cuba, è stato l’embargo sancito dagli USA (1963), che si è prolungato per oltre cinquant’anni, strozzando l’economia dell’isola, e tutto il lavoro di rappacificazione condotto dal presidente Barack Obama e dal papa Francesco (2015), è stato ora rimesso in discussione dall’attuale nuovo presidente Donald Trump.

Vogliamo augurarci che questo clima di odio venga sostituito da una tanto auspicata fratellanza tra i popoli, essendo veramente assurdo, dopo oltre mezzo secolo, voler insistere con un embargo che oltre a essere disumano, non ha più  alcun senso.

Non si spiega, infatti, come un grande Paese come gli Stati Uniti, possa accanirsi contro una piccola isola come Cuba che non può rappresentare più alcun  pericolo nucleare o militare, come si paventava negli anni della guerra fredda con l’URSS  (che molti generali del Pentagono dalla testa quadrata vorrebbero anche oggi ... se non di più!), quando si temeva che l’isola costituisse una testa di ponte per una invasione degli USA da parte dei sovietici!

AGGIUNTA DELL’ULTIMA ORA: - Abbiamo appena terminato questo lavoro quando i mezzi di informazione hanno lanciato la notizia della decisione dell’effervescente Presidente USA, di rompere gli accordi (firmati da Reagan e Gorbaciov nel 1987) di non proliferazione delle armi nucleari.

Questa decisione, per chi ha vissuto l’epoca della guerra fredda come chi scrive, è da considerare deleteria per l’umanità messa di fronte a un sovvertimento della pace nel mondo (a parte i vari focolai!), di cui abbiamno goduto in questi ultimi quarant’anni ... e sembra che nessuno le abbia dato peso, in particolare la sonnolenta Unione Europea (che non prende decisioni di alcun genere e in nessun campo!), che sarebbe la più interessata, in quanto sarà la prima a essere invasa dai missili dalla Nato (si legga USA!), da puntare  contro la Russia (che ha dato subito la sua risposta!) .

Tutto ciò dà credito a quanto qualcuno aveva scritto sui presidenti degli USA: Che appena eletti, diventano prigionieri del Pentagono (e CIA ed FBI!), che il Presidente Trump, appena insediato, aveva annunciato enfaticamente di voler riformare, ma che i generali dalle teste quadrate (ai quali ci siamo riferiti nel chiudere l’argomento), come ci aspettavamo, gli hanno fatto fare una dichiarazione così terribile e tragica!

 

 

     

 

 

D

on Chisciotte è il prototipo dell'uomo buono e nobile che vuole imporre il suo ideale al di sopra delle convenzioni sociali e delle bassezze della vita quotidiana, specie di redentore umano della prosaica verità di ogni giorno che lo percuote e lo ferisce, per difendere le più pure essenze dell'amore, dell'onore e della giustizia.

Alonso Quijano, "el bueno", convertito nella sua pazzia per l'ideale, in don Chisciotte della Mancha, è soprattutto un uomo e, come tale, in carne e ossa, precisamente in virtù della sua umanità, penetra come Amleto nel mondo dell'universale e dei simboli.

Don Chisciotte che, alla sua prima sortita, va solo contro il mondo, ha bisogno di una figura, al tempo stesso, di contrasto e di fratellanza: il Sancio Panza, che dal cap. VII sarà la "llamada del buen sentido", il richiamo alle cose della terra, che se alcune volte sbarra la fantasia del suo signore errante, altre la lascerà più profondamente abbandonata alla sua umanità primaria e infantile.

Don Chisciotte e Sancio resteranno ormai inseparabili e opposti, fratelli e gerarchicamente diversi, nella migliore legge della varietà e del chiaro-scuro barocco.

Don Chisciotte irraggia splendori della sua grandezza, in contrasto con la tecnica dell'umorismo, sin dalla sua prima solitaria sortita per gli aridi campi della Mancha, nel polveroso sole di luglio, incidendo nella nostra memoria le immagini della sua investitura a cavaliere nell'osteria fra mulattieri e ragazze di malaffare; nelle brutali bastonature che soffre a opera di maldicenti e arroganti, in groppa al secco e stilizzato Ronzinante, tanto vero nella sua tragedia animale, quanto sarebbe falso il cavallo dalla lignea carcassa intellettuale che il Quevedo descrive in un episodio del Pitocco (v.). Ecco don Chisciotte, nostro fratello e simbolo di amore e di giustizia, in lotta con i mulini a vento, eterni castelli di Spagna, il più profondo mito letterario nato da un episodio.

Appunto perché è concretamente un uomo, dal sublime al grottesco, don Chisciotte può elevarsi alla categoria di simbolo e mito letterario, come Amleto, suo pallido fratello, che gli è più prossimo dell'astratto Sigismondo, (v.) di Calderón e dello stesso Faust goethiano.

Il personaggio di don Chisciotte, e il suo scudiero Sancio, appaiono in funzione del romanzo nel quale si trovano, in modo distinto nelle sue due Parti.

Nella Prima, unitamente agli episodi che si riferiscono direttamente alle due figure centrali, e che in gran parte sono i più famosi, come mito letterario, di tutta l'opera mulini a vento, mandrie di pecore, avventura del corpo morto, conquista dell'elmo di Mambrino, libertà dei galeotti, avvenimenti vari dell'osteria, ecc. una grande varietà di motivi si inseriscono o indirettamente, o in forma completamente laterale e del tutto estranea, nella storia di don Chisciotte e di Sancio. 

Questi episodi riuniscono tutti i generi romanzeschi di moda: quello pastorale, quello amoroso al modo italiano, quello moresco, il tipo "novella esemplare", ecc.

In tutta la Seconda Parte, vi è una evoluzione verso la saggezza di don Chisciotte che a don Diego de Miranda sembrava "un cuerdo loco, y un loco que tiraba a cuerdo" disviata dalla propria fantasmagoria costruita di proposito negli episodi dei Duchi.

Sbaragliato il protagonista a Barcellona, il romanzo termina col dolore della peggiore sconfitta per il cavaliere errante, l'angoscioso ritorno al villaggio e la ragione ricuperata sul letto di morte.

Per Unamuno (Miguel de Unamuno 1864-1936), la morte di don Chisciotte si avvicina al terzo atto della Vita è sogno (v.), dove Sigismondo, vinto se stesso, respinge le finte ombre dei suoi sogni e accoglie la verità dell'altra vita, la sicura tavola della fede che appaga la sua ansia di immortalità.

Nel prologo alla sua versione tedesca del romanzo, Heine dice che da fanciullo piangeva leggendo le sconfitte e bastonature dell'eroe; ma nella maturità ne comprese il duplice piano fatto di umorismo e di dolore, di emozione e di ridicolo, da cui scaturisce "la satira più formidabile contro l'esaltazione umana".

A.W. vide in don Chisciotte l'eterna lotta fra la prosa e la poesia della vita; Schelling, il quadro più universale, più profondo e pittoresco della vita stessa. La sua essenza è nella lotta dell'ideale con il reale e, per questo, vede nel Quijote il modello del romanzo più adatto alla sua epoca.

J. P. Richter ne sottolinea l'aspetto umoristico. Turgenev, nel suo saggio “Amleto e don Chisciotte”, fissa la temperie ammirativa della sua generazione di grandi romanzieri: don Chisciotte è il problema della fede in qualcosa di eterno e immutabile, della fede in qualcosa di superiore all'individuo. Vive per far trionfare la giustizia sulla terra. Amleto fa del suo "io" il centro del mondo, mentre don Chisciotte si sacrifica per gli altri.

Il profondo saggio di Unamuno, Vita di don Chisciotte e di Sancio (v.) applica il "sentimento tragico della vita" al libro di Cervantes: don Chisciotte vive il suo desiderio di fama e di immortalità, Dulcinea simbolizza la gloria: e attraverso il saggio si segnalano i molti punti di contatto con la vita di Sant'Ignazio di Loyola. già messi in rilievo da un commentatore olandese.

Rubén Dario gli dedica la sua magnifica “Letanía de Nuestro Señor don Quijote”, ove l'eroe appare "coronado de àureo yelmo de ilusión, - que nadie ha podido vencer todavía, - por la adarga al brazo, toda fantasía, - y la lanza en ristre toda corazón" (coronato dall’aureo elmo dell’illusione, che  nessuno ha potuto vincere ancora con lo scudo al braccio, tutto fantasia   e la lancia in resta, tutta cuore ndr.).

Nella nuova poesia spagnola don Chisciotte è il mito della libertà, e dell'essenza della Spagna, nei versi anarchici ed esaltati di León Felipe. Si è detto che "ci sono tanti Amleti quante malinconie".

La storia della cultura dimostra il costante rinnovarsi del mito di don Chisciotte, per gli assetati di ideale e di giustizia di tutti i modi e di tutte le confessioni. A.V.P

                                    

*) Estratto dal Dizionario delle Opere e dei Personaggi Bompiani Opera immortale e insostituibile, dovuta a Valentino Bompiani; la (v.) indica che le opere sono riportate nel Dizionario.

Angel Valbuena Prat (1900-1977).

 

 

I LIBRI DI CAVALLERIA

DEL DON CHISCIOTTE

 

 

n  Amadigi di Gaula: non si conosce precisamente l’autore, è certo che il suo paese di origine non fosse la Spagna e si ritiene provenisse dalle Fiandre o dalla Francia o più certamente dal Portogallo essendo ritenuto suo autore il portoghese Vasco de Lobeira vissuto tra il XIII e XIV sec.; inizialmente circolarono traduzioni spagnole e nel 1525 Garzia Ordóñez de Montalvo ne fece una prima edizione; nel 1540 d’Herberey  pubblicò una traduzione francese poi caduta nell’oblio; il conte di Tressan ne fece una libera imitazione; una traduzione italiana fu stampata a Venezia nel 1572.

n  Amadigi di Grecia di Feliciano de Silva (14911554) scrittore spagnolo fu uno dei più importanti autori di romanzi cavallereschi nella prima metà del XVI secolo. Esordì nel 1514 con Lisuarte di Grecia, incentrato sulle vicende del nipote di Amadigi di Gaula per poi scrivere nel 1530 Amadigi di Grecia, storia dell'omonimo cavaliere, figlio di Lisuarte e di Onoloria di Trebisonda e paladino della Spada Ardente che ama e sposa, nell’ordine, Lucilla di Francia, Nichea di Tebe e Wikip.

n  Belianis de Grecia, di Jeronimo Fernandez (v. nota sopra).

         Comentario de la guerra de Alemania hecha por Carlos V en 1546 y 1547,    

         máximo emperador romano, rey de España, di Luis de Avila y Zúñiga;  ù

         pubblicato 1548, fu tradotto in francese, olandese, tedesco, italiano e

         latino.

n  Desengaño de celos (Disinganno della gelosia), di Bartolomé Lopez de Enciso.

n  Diana, di Jorge Montemayor (Montemor-o-Velho) del 1520; la versione italiana è, Torino 1561.

n  Diana de Montemayor – Segunda parte:  di Jorge di Montemayor.

n  Diana enamorada, di Gaspar Gil Polo (1535-1591) v. sopra.

n  Don Cirongilio di Tracia, di Bernardo de Vergas, titolo completo: I quattro libri del valoroso don Cirongilio di Tracia figlio del nobile re Elefron di Macedonia, scritto in greco e tradotto in latino in Siviglia, 1545 (Google offre la bella edizione cinquecentesca della Biblioteca Regia Monacensis, senza data). 

n  Don Olivante de Laura  di Antonio de Torquemada (1507 c.ca–1569),

umanista, poeta e scrittore spagnolo, studiò a Salamanca, visse in Italia fra il 1528 ed il 1530 dove fu segretario di Antonio Alonso Pimentel; la paternità di quest’opera gli fu attribuita da Cervantes.

n  El Caballero de la Cruz (v. sopra in Cap. VI, Libro dell’invincibile cavaliere Lepolemo e delle sue prodezze, che si chiamava Cavaliere della Croce), di Alonzo de Salazar con la sua continuazione Leandro el Bel, di Pietro Lauro.

n  El Cancionero (Il Canzoniere) di Gabriel Lopez Maldonado.

n  Espejo de caballeria (Specchio della Cavallería), di Pedro López de Reinosa o di Santa Caterina.

n  El Leon de España, poema sugli eroi e i martiri dell’antico regno di Leon (1586) di Pedro de la Vecilla Castellanos.

n  El Monserrate di Cristobal de Virués.

n  El pastor de Filidia, di Luis Gàlvo de Montalvo.

n  El pastor de Iberia (1591), di Bernardo de la Vega.

n  El verdadero suceso de la famosa batalla de Roncesvalles con la muerte des los doce Pares de Francia (Il veritiero successo della famosa battaglia di Roncisvalle con la morte dei dodici Pari di Francia), di Francisco Garrido de Villena, poeta spagnolo (1585).

n  Espejo de caballerias (Specchio della Cavalleria), di Pero López de Reinosa, o di Santa Caterina.

n  Felismarte (o Felx Marte) di Ircania (1556) di Melchor Ortega Platir, cavaliere di Ubéda, Valladolid 1556.

n  Historia del valoroso cavaliere Tirante il Bianco di Joanot Martorell (1410-1465), considerato uno dei primi romanzi moderni della letteratura europea.

n  Historia de las hazanas y hechos del invincibile caballero Bernardo del Carpio (Storia delle prodezze e dei fatti dell’invincibile cavaliere Bernardo del Carpio), di Augustin Alonso.

n  I Dieci libri della fortuna di Amore, di Antonio Lofraso, poeta sardo (Barcellona 1573).

n  I Rimedi della gelosia di Bartolomeo Lopez de Enciso, Madrid 1586.

n  Il Canzoniere di Lopez Maldonado  (Madrid 1586).

n  Il Pastore d’Iberia  di don Bernardo de la Vega di Tucuman, Siviglia 1591.

n  Il Pastore di Fidia di Luigi Galvez di Montalvo, Madrid 1582).

n  I Rimedi della gelosia di Bartolomeo Lopez de Enciso, Madrid 1586.

n  La Araucana, di Alonzo de Ercilla y Zúñiga (1533-1594), poeta, scrittore ed esploratore spagnolo, appartenente a una nobile famiglia  di Biscaglia; era stato paggio dell'infante don Filippo poi Filippo II e all’età di quindici anni il re Filippo II in Italia e Germania; poi     accompagnò la madre in Boemia, e visitò l’Austria, l’Ungheria, oltre all’Italia, Germania e Paesi Bassi, e fu presente (1554) al matrimonio di Filippo II con la regina Maria d’Inghilterra.

n  La Austriada, di Juan Rufo Gutierrez (1547 c.ca-1620).

n  La Carolea (1560) di Jéronimo Sempere, elogiata da Cervantes nel don Chisciotte, ma considerata mediocre opera epica su Carlo V e Francesco I con inizio dalla battaglia di Pavia e termine poco prima della rotta turca di Buda, con figure allegoriche come la Fama e la Speranza; fu scritta anche un’altra opera con lo stesso titolo diJuan de Ochoa de la Saide (1585). 

n  La Galatea, romanzo pastorale di Miguel de Cervantes Saavedra di  maggior successo in Spagna (con la Diana del Montemayor e Diana enamorada di Gil Polo), e costituisce un piacevole, e nello stesso tempo impegnativo esercizio letterario.

Diviso in sei capitoli; la trama è data da due personaggi, Elicio ed Erastro innamorati della pastorella Galatea, il cui padre aveva però deciso di darla in sposa a un pastore forestiero. Elicio convoca allora tutti i suoi amici per cercare di convincerla a cambiare idea. A questo punto il libro si interrompe e Cervantes avrebbe dovuto scrivere la seconda parte che non fu scritta. 

n  Las lagrimas de Angélica, di Luis Barahona de Soto.

n  Las sergas di Esplandiàn (Le avventure di Esplandián), di Garcìa Rodriguez de Montalvo (1450-1501).

n  Le ninfe di Henares di Bernardo Gonzalez di Bobadilla, Alcala, 1597.

n  Los diez libros de Fortuna de Amor (I dieci libri della Fortuna dell’Amore), è un romanzo di tema bucolico del poeta e militare sardo Antonio Lo Frasso (1540-1600); Cervantes probabilmente aveva preso ispirazione per il nome di Dulcinea del Toboso dal nome dei due pastori, che compaiono on quet’opera, Dulcineo e Dulcina.

n  Palmerin de Oliva, di Francisco Velasquez.

n  Palmerin de Inglaterra di Francisco de Moraes, scrittore portoghese (1500?-1572).

n  Platir, attribuita a Francisco de Enciso Zarate (n. 1532)

n  Primera parte de las ninfas y pastores di Henares, di Bernardo Gonzàles de Bobadilla (m. 1587).

n  Segunda parte de la Diana di Jorge de Montemayor, di Alonzo Pérez (1550–1615).

n  Storia del gran capitano Gonzalo Fernando di Cordova con la Vita di Diego Garcia Parades.

n  Titolo completo: Cronica del gran capitan Gonçalo Fernandez de Cordova y Aguilar ne la qual se cintienen las dos conquistas del Reyno de Napoles con las escarecidas victorias que en ellas alcaço y los heredos illustres de Don Diego de Mendoça, don Ugo de Cardona, el Conde Pedro Navarro y otros caballeros y capitanes de aquel tiempo. Con la vida del famoso cavallero Diego Garcia de Paredes. Nuevamente añadida a esta historia (Siviglia 1580).

n  Tesoro de varias poesias- Tesoro di varie poesie (Madrid 1575), di Pedro de Padilla (Talavera de la Reina ?–Granada, 1599), generale e poeta spagnolo che nel 1571 combatté contro i turchi nella Battaglia di Lepanto.

 

 

FINE