Dalla Edizione Illustrata Ubieini
– MI- 1841
I LIBRI
DELLA BIBLIOTECA DI
DON
CHISCIOTTE
a cura di
Michele E. Puglia
SOMMARIO: INTRODUZIONE (In Nota: II DIALOGO TRA L’OSTE E IL CURATO
FULCRO DELLE FINALITA’ DEL ROMANZO);
PER I GIOVANI: INVITO ALLA LETTURA (In Nota: I PRIMI DIECI LIBRI
FORMATIVI); L’EPOCA DELLA CAVALLERIA E DEL CAVALIERE ERRANTE:
L’ORIGINE –
LA CERIMONIA – LA GALANTERIA – IL LIBERTINAGGIO E LE PUNIZIONI; I
ROMANZI DI CAVALLERIA IN SPAGNA; IL DON CHISCIOTTE: PREMESSA; IL SESTO
CAPITOLO: DEL
BELLO E GRANDE SCRUTINIO CHE FECERO IL CURATO E IL BARBIERE ALLA LIBRERIA DEL
NOSTRO INGEGNOSO IDALGO; IL DON CHISCIOTTE VISTO DALLA CRITICA
MONDIALE- CONSIDERAZIONI
REDAZIONALI SU FIDEL CASTRO L’ULTIMO DON CHISCIOTTE DEL ‘900; I LIBRI DI CAVALLERIA DEL DON CHISCIOTTE.
INTRODUZIONE
V |
olendo evitare di fare un arido elenco delle opere
della biblioteca di don Chisciotte (menzionate nel VI capitolo ripreso dalla
Edizione Bairon MI, 1929) e rendere il testo più vivace (la
vivacità, ahinoi, é di Cervantes!), abbiamo pensato di riportare
i dialoghi dei tre personaggi che partecipano alla loro mattanza, vale a dire:
dell’intellettuale curato (*) don Pedro Perez, che vediamo come il
principale promotore della distruzione dei libri di cavalleria, il colto barbiere (maestro Nicolò) e la
vivace serva ai quali –
non inosservata – è da aggiungere la fondamentalista nipote di don Chisciotte depositaria delle chiavi
della biblioteca dello zio, che si mostra sempre contraria al perdono degli
autori dei libri, causa del grave danno procurato allo zio, avendolo fatto
uscire di senno!
Non solo; ma quando il curato, (bontà sua!**), voleva salvare i
libri di poesia, vi era stata la sua fiera opposizione, in quanto lei era
convinta che: -“Non sarebbe gran
maraviglia che, riuscendoci di sanare il mio signor zio dalla malattia
cavalleresca, si desse a leggere questi libri e gli venisse il capriccio di
farsi pastore e di andarsene per boschi e per prati, cantando e sonando, o
ciò che è peggio, diventar poeta, che a quanto si dice, è
un’altra malattia insanabile e contagiosa”.
“Questa ragazza parla del
miglior senno”, aveva ribadito il curato (***), il quale, per salvare questo genere di libri,
riesce a trovare l’escamotage
disponendo la eliminazione di tutti i versi, sì che di essi rimanesse
solo la sua prosa eccellente.
E così furono salvati, oltre alla “Diana” di Montemayor, la “Diana”, detta “Seconda del Salamantino” e l’altro libro intitolato
“Diana innamorata” di Gil
Polo, oltre a “I Dieci libri della fortuna di Amore”, del poeta sardo Antonio Lofraso, esaltato dal curato come “il migliore e più singolare di quanti
videro la luce del mondo ... contento di aver trovato questo libro come se
qualcuno mi avesse regalato una veste di raso di Firenze”.
Ma gli altri che seguono, come “Il Pastore d’Iberia”, “Le ninfe di Henares”, e “I Rimedi
della gelosia”, furono consegnati al braccio secolare della servente,
“e non me ne domandate la ragione –
disse il curato – che non finirei
mai più”, e per “Il Pastore di Fidia”, precisava che non si trattassde di un
“pastore” ma di un
“valente cortigiano”, e
con il libro “Il Tesoro di varie poesie”, ritenne fossero custoditi,
perché “l’autore
è mio amico e per riverenza per altre sue opere da lui composte”, unitamente
a “Il Canzoniere” di Lopez Maldonado (anche questo autore era suo amico), “i cui versi destavano l’ammirazione di
chi li ascoltava e la soavità della voce è un incantesimo; nelle egloghe è alquanto prolisso, ma
il buono non fu mai troppo: si serbi con gli altri che già si sono messi
da canto”.
Quanto ai romanzi cavallereschi, nel citato paragrafo del Cap. VI, che segue, è stato riportato per ciascun libro che capitava loro a tiro, il dialogo tra i vari personaggi e dopo il titolo, in corsivo seguono le annotazioni riguardanti ciascuno di essi; è stata omessa la loro trama, salvo un accenno per qualcuno, per non appesantire la lettura, comunque facilmente reperibile in Internet o, se si preferisce il cartaceo, nel fondamentale “Dizionario delle opere e dei personaggi della Bompiani”.
Infine, in fondo a queste
pagine,
è stato riportato l’elenco completo delle opere citate nel romanzo.
Non sappiamo quali
e quanti libri di cavalleria si trovino nelle biblioteche italiane, ma, per chi
volesse fare la fine del glorioso idalgo,
risulta che tutti quei libri erano stati specificamente e puntigliosamente
raccolti dalle biblioteche di Francia (Parigi) e Spagna (Madrid), ad esclusione
della Historia del valoroso cavaliere
Tirante il Bianco che, è stato detto (v. nella apposita nota) non si
trova in nessuna delle due.
*) Carvantes aveva fatto del curato un uomo dotto, laureato presso
l’università di “Siguenza”,
cittadina medievale (facente parte della comunità autonoma della
Castilla-La Mancha), fondata (nel
1489 e chiusa nel 1824) dal potente cardinale Pedro Gonzàlez de Mendoza
(1428-1495).
Per bocca del curato parla lo stesso Cervantes quando critica i
fantasiosi libri di cavalleria che intende bruciare: è dal colloquio con
l’oste (in nota seguente) che emerge il pensiero del curato sui libri,
che, in simbiosi col pensiero di Cervantes, ritiene vadano distrutti quelli
fantasiosi e non ancorati alla realtà e alla storia; infatti egli
esprime (parzialmente!) la sua ammirazione per lo stile del romanzo Tirante il bianco, che “supera ogni altro libro del
mondo”, e nello stesso tempo apprezza il romanzo in quanto in esso
“i cavalieri mangiano, dormono, muoiono sul loro letto, fanno il
loro testamento prima di morire, e vi si trovano tante e tante altre cose
non mentovate neppure in altri libri simili”. Ciò
nonostante lo affida al barbiere perché si renda conto, che, senza
necessità vi si trovano scritte “tante scempiaggini”!
**) Al curato oltre a non piacere i libri di cavalleria, non
piacevano neanche le commedie come riferisce al canonico (capp. XLVII-XLVIII), il quale riscuote la sua fiducia
dopo avergli detto di “avere
più sulle dita (in antipatia!) i
libri di cavalleria che le Sommole di Viglialpando”.
Si trattava di Gaspare Cardillo de Villalpando (1527-1581),
umanista, laureato in teologia
presso l'Università di Alcalà dove insegnava dialettica,
eloquenza e filosofia aristotelica; la sua opera “Sumas de Sumalas”, nella quale dà importanza alla
dialettica distinguendola dalla logica aristotelica, l’aveva scritta
riprendendola dal trattato di Pedro Hispano (XIII sec.), “Summulae logicalis magistri Petri Hispani”, utilizzato
nelle università fino al XVII sec. (la "summa" è un "compendio"
che nel caso è un compendio
di logica).
***) IL DIALOGO TRA L’OSTE E IL CURATO
FULCRO DELLE FINALITA’ DEL ROMANZO.
Dal dialogo tra l’acuto oste (che rappresenta i lettori dei
romanzi di cavalleria) e il curato (Cap. XXXII), sui tre libri da lui posseduti
(Don Cirongilio di Tracia, Felis Marte di Ircania e la Storia del Gran Capitano con l’ aggiunta della Vita di Garzia Paredes, brillante
guerriero, che il Gran capitano aveva preso nel suo esercito), dal quale
emerge, da una parte l’entusiasmo dei lettori per quel genere di libri, e
la loro critica , rappresentata dal curato.
L’oste infatti si meraviglia di quanto gli dice il curato, sulla lettura dei libri di cavalleria “ che avevano guastato il cervello di don Chisciotte” e spiega la sua entusiastica passione per quei libri: – “Non so come possa essere, perché la verità è che non vi è lettura migliore al mondo”; – aggiungendo – che “quando si raccolgono le messi, a mezzogiorno, nell'ora del riposo, i mietitori (segatori) fanno cerchio in più di trenta e ascoltano la lettura che manda al diavolo la malinconia.” E: – “Quando sento raccontare i terribili e furiosi colpi tirati da quei cavalieri mi viene la frega di fare altrettanto e starei giorno e notte a udirli”.
Per il curato invece (come per Cervantes) è proprio quello
il genere di libri da bruciare e dice: – Per i due primi libri, Don
Cirongilio di Tracia e Felis Marte di Ircania, ci vorrebbero la nipote e la
serva del nostro amico ( che lo
avrebbero bruciati immediatamente!)... – “Io brucerei i primi due, disse il
curato” –
aggiungendo – “questi due libri sono bugiardi e pieni zeppi di spropositi e
chimere, laddove il Gran capitano è storia vera”. – Mentre l’oste ribadisce che lascerebbe bruciare il figliolo
piuttosto che veder bruciati qualcuno di essi! E aggiunge: – “Legga piuttosto il Felice Marte d'Ircania che con un solo manrovescio
tagliò per metà cinque giganti, come se fossero stati di ricotta;
un'altra volta assalì un grandissimo esercito di un milione seicentomila
soldati e li sbaragliò e li fece fuggire. E dove lasciamo il buon don
Cirongilio di Tracia? Che navigando in un fiume, pur essendo uscito dall'acqua
un drago, gli saltò in groppa
e gli strinse con ambedue le mani la gola in modo che sentendosi il
drago strozzato, cercò scampo nel fondo del fiume portando seco il
cavaliere che sul fondo si trovò in un palazzo con un giardino
meraviglioso a vederli... e il drago si trasformò in un vecchio
decrepito... Se vostra signoria leggesse queste imprese impazzirebbe di piacere”
... .
– Il curato tornò a dire: – Badate bene fratel mio che non vi
furono al mondo né Felice
Marte d'Ircania né Cirongilio di Tracia né gli altri cavalieri
dei libri di cavalleria tutti composti e immaginati da oziosi cervelli intenti
solo a dare passatempo agli sfaccendati ... – Risponde l’oste: – A me non si vendono lucciole per
lanterne ... e non creda vostra signoria di ingannarmi... E’ ben
singolare che ella voglia persuadermi che il contenuto di questi buoni libri
sia un impasto di menzogne, quando sono belli stampati con licenza del
Consiglio reale; come se quelle fossero persone da permettere che si stampassero
tante battaglie, tanti incantesimi e tante bugie da far perdere il
giudizio”. –
Il curato
(riassumiamo) cerca di giustificare che quei libri hanno lo scopo di concedere
una forma di trattenimento ai nostri oziosi pensieri, allo stesso
modo in cui nei vari Stati si
permettono i giochi degli scacchi, della pallacorda e del trucco (gioco delle
bocce fatto per terra), ma per passatempo di coloro che non vogliono, non
debbono o non possono lavorare, e si permette la stampa di quei libri ritenendo
che non vi sia uomo di tanto crassa ignoranza che non consideri veritiera
qualcuna di quelle storie ... .
All’entusiasmo degli uomini per la lettura dei libri di cavalleria,
corrisponde lo stesso entusiasmo delle donne, che Cervantes mette in bocca alla
figlia dell’oste, Maritorna che dice: – Ho un gran gusto a sentire
che un cavaliere e una dama
risposano sotto un alloro... in coscienza mia, io pure loi sento leggere e in
verità, ad onta che non li intendo, ne provo diletto, per altro
non mi vanno a sangue quei colpi che piacciono a mio padre, ma mi interessano i
lamenti dei cavalieri quando si trovano lontani dalle loro signore e mi
commuovono fino a farmi piangere di compassione. – Di maniera che (riassumiamo), disse il curato, se
piangessero per causa vostra voi gli offrireste il rimedio? – Non so quello che farei, rispose la ragazza
e posso dire soltanto che tra quelle signore ve ne sono alcune tanto crudeli
che meritano dai cavalieri il nome di tigri, di leonesse e di altri siffatti.
Dio buono, non so come possa darsi gente così spietata e di sì
poca coscienza, che per non voler consolare un uomo di onore, lo lascino morire
e diventar matto, e io non arriverò mai a capire perché facciano
tanto le schizzinose: se le intenzioni dei cavalieri sono oneste, si facciano
con essi spose, che questo dev’'essere l'unico loro scopo ... per altro
non mi vanno a sangue quei colpi che piacciono a mio padre, ma mi interessano i
lamenti dei cavalieri quando si trovano lontani dalle loro signore e mi
commuovono fino a farmi piangere di compassione.
PER I
GIOVANI:
INVITO
ALLA LETTURA
L |
eggere libri di
cavalleria oggigiorno sarebbe certamente fuori luogo e, per di più, una tale
lettura non darebbe alcun apporto dal punto di vista culturale; ma dare
un’occhiata a quanto scriviamo nel presente articolo, considerandola come
una pagina di letteratura per inquadrare il tempo del Don Chisciotte, e per
soddisfare una curiosità intellettuale stimolante.
Nel primo dei due libri del don
Chisciotte, Cervantes ha dedicato il capitolo sesto alla biblioteca
dell’idalgo, e, attraverso la cernita fatta dal curato, con l’aiuto
del barbiere, sono stati indicati i più famosi libri di cavalleria
dell’epoca.
Per questa operazione di
distruzione di libri che ricorda gli auto–da–fé della inquisizione spagnola (v. in Art.
L’Inquisizione ecc.), sul curato incombe l’arbitrio della loro
distruzione o della loro salvezza, probabilmente per ricordare i roghi di libri
e persone compiuti dalla Inquisizione.
I libri – nel bene o nel
male - sono testimonianza della cultura di un popolo e bruciarli è
sempre un delitto e il curato, sebbene di scuola aristotelica, ma di stretto
rigore riformista del Concilio tridentino (con tutta la simpatia che può
suscitare), rimanda alla storia dei grandi roghi di libri, verificatasi prima e
dopo di lui, sia per motivi religiosi (con l’esempio della Biblioteca di
Alessandria,
voluto dal fanatico vescovo Teofilo (**)), sia per motivi politici (con
l’esempio del “Bücherverbrennungen” di
Hitler del 1933).
Come è oramai risaputo,
Cervantes con la sua satira, che percorre tutto il testo, aveva voluto porre in
ridicolo i libri di cavalleria, che durante la sua epoca, partendo da quella
precedente, si era diffusa come una forma di psicosi collettiva per quel genere
di lettura che aveva coinvolto uomini e donne di tutte le categorie sociali,
dai contadini (come abbiamo visto nella nota, sopra, del dialogo tra
l’oste e il curato) fino all’imperatore Carlo V, che mentre
emetteva disposizioni intese a proibirli, li leggeva di nascosto (come si
vedrà più avanti) e Cervantes mettendoli in ridicolo, era
riuscito là dove non erano riusciti i divieti dell’autorità,
facendo così cessare la loro pubblicazione!
Il messaggio che vogliamo
trasmettere ai giovani, ai quali dedichiamo queste pagine (*) é che essa
sia da considerare fondamentale nella vita di un essere umano e qualsiasi cosa
essi scelgano di fare nella vita, devono sapere che la lettura è
elemento imprescindibile dal punto di vista formativo, non solo come base
culturale, ma anche perché ha l’effetto, come suol dirsi, di allargare la visione della mente,
vale a dire dando alla mente una visione più aperta di tutte le cose e
una intelligenza anch’essa più aperta, oltre a contribuire allo
sviluppo della loro personalità.
Il nostro suggerimento ai
genitori, ai quali spetta il gravoso compito di allevare ed educare i loro
figli (mentre compito della Scuola è quello di istruirli), trasmettendo
loro le proprie personali esperienze, che costituiscono i necessari insegnamenti di vita di cui i giovani
hanno bisogno, insegnando loro a saper accettare anche i loro rimproveri (che
non devono mancare quando sono necessari!), ma anche quelli dei loro insegnanti (**).
Tra i compiti dei genitori vi
è anche quello di seguire i figli e non lasciarli liberi di fare quello
che vogliono, come scrive Giampaolo Pansa nel suo Bestiario sulla tragedia di Corinaldo (Panorama): “Stiamo assistendo alla distruzione degli
adolescenti e la
responsabilità è delle famiglie”; tra i loro compiti vi
è anche quello di invogliarli alla lettura; basta l’avvio dei
primi due-tre libri, gli altri sono come le ciliege, presa una, seguono le
altre!
Si tenga presente che, secondo
Freud, la personalità dei ragazzi si forma fino
all’età di sette anni
... e negli USA dove sono sempre all’avanguardia, le mamme stanno
prendendo l’abitudine di insegnare e leggere ai neonati!
*) Ai quali suggeriamo anche la
lettura in Specchio dell’Epoca: de “l’Educazione del giovane feudatario ecc., non solo ma il
suggerimento maggiore vuole essere di formarsi una cultura classica, rivolgendo
la loro attenzione alla matematica e alle scienze (apposta abbiamo scritto i
due articoli che sono brevi e semplici sull’Universo in poche righe e L’Universo
secondo Hawking)) perché rivolgendo i loro studi in queste materie
(aiutati, si spera, da bravi insegnanti!), possano allargare la schiera degli
scienziati che stanno facendo onore al nostro Paese.
**) La biblioteca di Alessandria era divisa in due parti;
una all’interno del Palazzo, il Museo, destinata ai dotti e l’altra
all’interno del tempio di Serapide – Serapeo –
destinata al pubblico; gli incendi furono tre, il primo causato da Cesare che
aveva ordinato l’incendio
delle navi che erano nel porto (48-47) e si era esteso alla città; il
secondo, voluto dal vescovo Teofilo che per fanatismo aveva ordinato la
distruzione del paganesimo (391);
il terzo, provocato dagli arabi quando avevano conquistato la
città (640).
***) Evitando il cattivo e
barbaro esempio (generalizzato al Nord come al Sud), di telefonare al
papà per dirgli di essere stati rimproverati e il papà corre
immediatamente a scuola a malmenare l’insegnate ... ma si verifica anche
che insegnanti degli asili, di animo malvagio e crudele, degno delle kapò dei lager nazisti,
maltrattano, bistrattano e schiaffeggiano i bambini, nell’assenza di
provvedimenti disciplinari da parte dei direttori che fingendo di ignorare,
meriterebbero anch’essi la galera, come la meriterebbero gli insegnanti
che per questi inaccettabili comportamenti, invece della semplice sospensione,
meritano la galera!
I PRIMI DIECI LIBRI FORMATIVI:
Senza voler avere la presunzione
di stabilire delle priorità sui capolavori mondiali, le dieci opere che ci sembrano
formative di una base culturale, salvo poi l’indirizzo che
sarà determinato dalle scelte personali, il nostro
suggerimento sarebbe quello di leggere le opere che suggeriamo, prima nel
Dizionario delle Opere e Personaggi Bompiani, per poi passare agli originali
che potranno interessare dopo questa prima lettura.
Essi sono: Omero, con Iliade e
Odissea in prosa; Dante, Divina Commedia, in prosa l’Inferno, Purgatorio
o Paradiso e poi a scelta, qualche canto in versi; Marco Polo: Il Milione;
Cervantes: Don Chisciotte; Rabelais, Gargantua e Pantagruel; Voltaire,
Racconti, a scelta; Erasmo, Elogio della Pazzia; Rousseau, Le Confessioni;
Shakespeare: in prosa a scelta, ma non deve mancare l’Amleto; Stendhal,
Il rosso e il nero ( o a scelta....) 8. James Joyce, Ulisse 9. Oscar Wilde (per
acquisire il senso dell’humor in
cui eccelleva): a scelta; 10. Bulgakov: Il maestro e Margherita.
L’EPOCA
DELLA CAVALLERIA
E DEL
CAVALIERE ERRANTE
L’ORIGINE
P |
resso i romani, e successivamente presso i
goti, franchi e germani "miles" era l'uomo a cavallo mentre
"pedites" il soldato a piedi; successivamente con il termine "milites" erano designati i cavalieri
che con particolari cerimonie avevano conseguito il "cingolo militare",
che costituiva la patente per far parte dell’Ordine
della cavalleria; poi, ancora, in epoca feudale "miles" designerà il vassallo o nobile.
Il cavaliere era “armato”
con una particolare cerimonia che aveva anch’essa origini romane; secondo Tacito, era
costume che nessuno potesse portare armi fino a quando non fosse giudicato
abile a farlo, e allora o il capo o il padre o un parente dava al giovane lo
scudo e la spada, e questo costituiva il primo grado d'onore che si
conferiva alla gioventù; questa usanza introdotta nelle popolazioni del
Nord andò man mano perfezionandosi con l’introduzione della
cerimonia religiosa.
Non vi è dubbio che la cerimonia fosse conosciuta
nell’epoca di Carlomagno il quale aveva armato personalmente (791) Luigi (poi detto il Buono, v. in Art. I Carolingi e la dissoluzione
dell’impero e Gli ultimi
Carolingi) all’età di tredici anni, nel castello di
Regensburg; la cerimonia, andò man mano perfezionandosi, anche con il
sorgere dei romanzi che alla cavalleria si ispiravano ed ebbero come fonte
iniziale lo stesso Carlomagno e (con colui che fu considerato suo nipote), il
siciliano Rolando (o Orlando) di Chiaromonte (736-778), morto eroicamente a
Roncisvalle.
LA
CERIMONIA
I |
l titolo di cavaliere incomincia a mostrarsi come dignità
verso la fine della seconda dinastia dei re francesi, i quali, oltre al
privilegio ad essi assegnato, di
sedere alla tavola del re, avevano anche quello di abitare nel suo palazzo dove
assumevano il nome di “paladini”
e qualche autore (uniformandosi alla storia di Carlomagno dello pseudo Turpino), aveva avanzato
l’ipotesi che l’imperatore avesse eletto dodici valenti uomini per
combattere la fede, nominandoli conti (ossia
comiti-compagni di palazzo) e chiamandoli paladini, da cui si sviluppò l’idea della Tavola Rotonda.
Successivamente, il re Filippo-Augusto (1165-1223), per aggiungere
solennità ai processi regi e dare maggior pompa alle cerimonie come
quelle di consacrazione e associazione dell’erede al trono, senza
annullare il diritto degli altri pari, ne scelse sei, tra i suoi vassalli e a
questi aggiunse altrettanti vescovi, tutti destinati ad assisterlo in quelle
particolari occasioni.
Dai primi cavalieri creati dal sovrano, si era passati ai cavalieri
creati dagli altri cavalieri (vassalli titolari di feudi che creavano i
valvassori e questi a loro volta, i valvassini (v. in cit. Carlomagno ecc.) ai
quali erano assegnati sub-feudi, con cerimonie fastose durante le quali erano
donati abiti, preziose pellicce, ricche stoffe, magnifici manti, armi, gioielli
e doni di ogni specie, oltre all’oro e all’argento dispensati a
profusione.
Dai sentimenti religiosi ai
quali si ispirava la cavalleria (v. Art. Corone, blasoni e nobiltà, P. I) era derivato l’uso del lavacro del futuro cavaliere, al quale
partecipavano altri cavalieri, che si preparava per la “veglia
d’armi”, della sera precedente alla funzione religiosa, il quale
digiunava e in chiesa passava la notte in preghiera; a questo modo i cavalieri
acquisivano quei sentimenti religiosi che li portavano alla difesa dei deboli,
degli oppressi e delle vedove.
La mattina seguiva la fastosa
cerimonia religiosa, durante la quale i cavalieri rimanevano in piedi e alla
lettura del Vangelo tenevano la spada con la punta verso l’alto, a
testimoniare la loro disposizione a difendere la fede; con la consegna del
cingolo e della spada terminava la cerimonia e seguivano i festeggiamenti con
pranzi, balli e giostre.
Si distinguevano quindi quattro
tipi di cavalieri: i cavalieri bagnati, quelli lavati da ogni vizio; i cavalieri
di corredo, si distinguevano per la veste verdebruna che indossavano e per la
ghirlanda dorata; cavalieri di scudo erano quelli divenuti cavalieri per
elezione di popolo o di un signore e cavalieri d’arme, quelli divenuti
cavalieri prima di una battaglia o durante una battaglia.
Alcuni di questi cavalieri, alla
vita del castello, che in ogni caso non era sedentaria ma si svolgeva tra
allenamenti alle armi, cacce e quando occorreva, combattimenti, preferivano
quella all’aria aperta e si mettevano in viaggio, di norma accompagnati
da un ristretto seguito (*), per dedicarsi alla difesa degli sventurati e alla
protezione degli oppressi, seguendo il codice della cavalleria che prima di
tutto imponeva l’obbligo di fedeltà nei confronti di colui che lo
aveva armato cavaliere, al quale, tornando da imprese o spedizioni, erano
tenuti a raccontare tutte le vicissitudini del loro viaggio e delle loro
imprese, registrate dagli ufficiali d’armi o dagli araldi.
*) Accanto al cavaliere non
poteva mancare lo scudiero (ve
n’erano di diversi tipi secondo le mansioni) che lo seguiva e assisteva
in ogni momento e montava il destriero così chiamato perché
seguiva il cavaliere alla sua destra ed era il cavallo di battaglia di alta
statura, portando l’elmo del cavaliere sul pomo della sella, mentre il
cavaliere montava il palafreno, dall’andatura facile e comoda, detto
cortaldo in quanto aveva le orecchie e la coda mozzate; durante il
combattimento lo scudiero gli forniva le armi e se necessario correva a
rialzarlo o gli forniva un cavallo fresco; se si facevano prigionieri, era lo
scudiero a prendersene cura; mentre il cavaliere era armato di tutto punto con
corazza, spada, lancia, daga e scudo e montava il cavallo di battaglia, gli
scudieri avevano solo la spada e lo scudo e combattevano a piedi, ma non erano
pedites; i pedites, erano i villani
che combattevano con bastoni e
coltello che maneggiavano con destrezza (Meyer).
Riguardo ai cavalli, i cavalieri
montavano solo stalloni; montare una femmina era ritenuto un disonore; le femmine erano infatti destinate al
lavoro dei campi o alla riproduzione oppure erano montati da ignobili e
cavalieri degradati.
LA GALANTERIA
IL LIBERTINAGGIO
E LE PUNIZIONI
Q |
uesti cavalieri vestivano di
verde, e questo colore rappresentava la freschezza della
loro età e il vigore del loro coraggio; poiché la loro vocazione
li portava a visitare paesi stranieri, essi si perfezionavano nelle differenti
maniere di giostrare dei paesi che visitavano.
Durante questa vita avventurosa
gli capitava di combattere banditi che desolavano le grandi strade o cacciare
dai loro nascondigli i briganti della classe nobiliare che dai loro castelli
edificati sulle cime delle rocce si abbattevano come falchi sulle facili prede
dei passanti disarmati; o capitava di liberare dalle catene dei prigionieri o
strappare degli innocenti al supplizio; spesso costoro si arruolavano presso
capitani che essi ritenevano combattessero per la giustizia.
D'altra
parte, le donne che i pubblici costumi non ancora ne difendevano la debolezza, erano il principale oggetto
della generosa protezione di questi cavalieri
di ventura, che i romanzi avevano definito erranti.
Essi,
alla galanteria, che costituiva una forma di amore, sconosciuta
all'antichità, alla quale aveva dato nascita il cristianesimo,
mescolandolo ai piaceri sensuali, al rispetto per la donna e alla fede, in una
specie di culto religioso; a questo modo la vita del cavaliere si alternava tra
l'amore e le sanguinose avventure o le guerre e non era raro che sposando una
giovane e bella titolare di un feudo ne divenissero i feudatari (come abbiamo
visto verificarsi in Terrasanta per Raimondo di Poitiers e Rinaldo di Chatillion
v. ASrt. I mille anni dell’impero di Bisanzio Cap. VIII, P. II).
Ma sia
per quanto riguarda le donne sia per le loro azioni, non tutti i cavalieri
erano così angelici: Vi era in ambedue i casi anche il rovescio della
medaglia.
Per le
damigelle il libertinaggio diffuso in tutta Europa (come testimoniato dall’abate
Vely), sostituiva la galanteria che
portava le dame, a offrire, “per stravagante cortesia” ai
cavalieri che le visitavano, le loro damigelle d’onore, per condividere
con loro il letto e spesso le damigelle erano anche rapite dai loro cavalieri
spasimanti o anche stuprate; e in questo contesto di erotismo diffuso, non deve
meravigliare che all’inizio del XIII sec., nell’esercito di Luigi
VIII di Francia, i campioni che combattevano per la religione, avevano al
seguito ben millecinquecento concubine.
Nell’XI
sec. i grandi di Francia, oltre a darsi “sfrontatamente ai vizi più vergognosi” (tra i quali
era annoverato l’incesto che per l’epoca non era proprio una
rarità, con gli esempi dati dallo stesso Carlomagno, (v. cit. art.)
finivano per comportarsi da banditi.
Il
duca di Borgogna, assaltava il vescovo di Caterbury, Ugo di Pamplona, conte di
Rochefort rapinava i viandanti sulle strade maestre, togliendo loro denari e
cavalli; l’abate Sugero riferiva che i signori di Roche-Guyon, padre e
nonno rubavano e saccheggiavano, e il giovane Guido (rispettivamente figlio e
nipote) era probo e leale e si asteneva dal rubare, ma perché era morto
giovane (il cognato lo uccise assieme alla sorella, che era sua moglie), ma se
fosse vissuto più a lungo sarebbe diventato come il padre e il nonno.
La
religione dei cavalieri spesso impartita da religiosi ignoranti, era
superficiale ed essi erano convinti che qualunque delitto potessero commettere,
alla fine, arrivava l'assoluzione che gli salvava l’anima o con qualche
pellegrinaggio in luoghi santi, o combattendo gli infedeli o in vecchiaia
ritirandosi come monaci in un monastero o più semplicemente facendosi
mettere il saio quando erano in punto di morte o appena esalato l'ultimo
respiro.
Un
esempio è dato dalla
preghiera fatta dal cavaliere Stefano Vignoles detto La-Hire nel 1427, che con
il conte di Dunois sdo stava recando a liberare la città assediata di
Montargis, il quale aveva chiesto al cappellano l'assoluzione dei suoi peccati,
ma il cappellano gli rispose che doveva confessarsi, egli però gli disse
che doveva andare a combattere e non aveva tempo e così ottenne
l'assoluzione e dopo, con le mani giunte, fece questa preghiera: “Dio ti prego di fare oggi per La-Hire quello
che tu vorresti che La-Hire facesse se fosse Dio e che tu fossi La-Hire”.
La
punizione prevista per i cavalieri che si macchiavano di viltà e
disonore, quando vi era una autorità forte e rigorosa, era terribile:
Condotto sul palco dell’infamia, le sue armi venivano spezzate e i suoi
emblemi cancellati; gli araldi lo ricoprivano di ingiurie chiamandolo
traditore, sleale, marrano; coperto con una cappa da morto, era trasportato in
chiesa e su di lui si recitavano le preci dei defunti; una volta rilasciato,
non poteva farsi vedere in nessun
luogo e se fosse andato in una mensa di cavalieri, la parte di tovaglia che
aveva toccato era tagliata e lui veniva scacciato; per questo l’onore,
particolarmente in Francia, era rigorosamente osservato.
L’epoca in cui si suppone
sia sorta questa cavalleria errante,
in cui fioriscono le avventure dei paladini,
incrementate dalla fervida immaginazione e fantasia dei romanzieri, si
può inquadrare verso la fine del periodo in cui termina l’antica
civiltà di barbarie.
In questo periodo era prevalso
il diritto del più forte. l'anarchia feudale desolava il territorio e la
giustizia era data dalla prova del duello (espressione del giudizio di Dio (*) ), mentre il potere religioso, chiamato in
soccorso dell'autorità civile, trovava nella tregua di Dio il solo modo di concedere periodi di pace.
La nuova epoca, ha inizio con la
rinascenza carolingia (v. Art.
“Carlomagno e l’idea
dell’Europa”) e costituisce l’epoca della civilizzazione.
Con le
crociate, l'Oriente si apriva con tutte le sue meraviglie alla fervida
immaginazione dei romanzieri; è questo il punto in cui si erano soffermati gli autori
dei libri di cavalleria, i quali facevano prevalere esclusivamente la fantasia,
senza alcun rispetto per la verità e senza neanche avvicinarsi alla
realtà.
Essi
infatti, intessevano a piacere i loro racconti ignorando la storia, la
geografia, la fisica e lo stesso valeva per ciò che coinvolgeva la
morale; ad essi bastava descrivere i colpi di lancia, di spada, le battaglie
perpetue, le avventure, costruite senza un piano organico, senza alcuna
connessione, mettendo insieme debolezza e ferocia, vizio e superstizione,
chiamando in aiuto, nel momento più opportuno del racconto, giganti,
mostri e incantatori; i romanzieri non sognavano altro che a superare con
l'esagerazione l'impossibile e il meraviglioso, e questo genere di racconti
affascinava i lettori.
Così,
la figura del cavaliere errante era
stata idealizzata da romanzieri, poeti, menestrelli e trovatori, che
descrivevano e trovavano spunto da feste, tornei, dalla giustizia galante delle
corti d'amore o dai pellegrinaggi religiosi o dai viaggi in Terrasanta.
Dei
romanzi di cavalleria ebbero particolare successo quelli prodotti in Spagna,
dove più che altrove era sentito il gusto per la vita cavalleresca.
*) Il duello era
istituzionalizzato principalmente presso i germani sia nelle cause civili sia
in quelle criminali; in Francia Filippo il Bello pur avendolo abolito (1303),
si continuò a farvi ricorso; l’ultimo duello ordinato dal
Parlamento di Parigi durante il regno di Enrico II (1519-1559) alla metà
del sedicesimo secolo, fu quello tra Jarnac e Chateigneraie.
Sebbene molti papi fossero
contrari, solo Giulio II lo proibì formalmente nei suoi Stati (1505); in
Germania e Paesi Bassi si seguirono le proibizioni della Chiesa; in Inghilterra
ne rimaneva ancora traccia nel diciassettesimo secolo, ma il procuratore
generale annunciava alla Camera bassa (1818) che ne avrebbe proposta la
abolizione nelle cause di omicidio.
Accanto al duello vi era
l’ordalia la prova alla quale
l’imputato doveva sottoporsi per acquistare la libertà,
percorrendo una certa distanza impugnando un ferro rovente, poi veniva fasciato
per alcuni giorni entro i quali dimostrare che Dio avesse miracolosamente
guarito la ferita, oppure immergendo il braccio in acqua bollente e
dimostrare la pronta guarigione, oppure era prevista la immersione in acqua
fredda e solo se affondava il
colpevole era considerato innocente, oppure veniva fatto ingoiare un grosso
tozzo di pane in un solo boccone, se non soffocava era considerato innocente.
I
ROMANZI
DI
CAVALLERIA
IN
SPAGNA
A |
gli otto secoli di dominazione araba (711/18-1492)
con le continue guerre per la
cacciata dei mori, era seguita la scoperta del Nuovo Mondo, poi le guerre
d'Italia, delle Fiandre e d'Africa: – Come si spiega che la passione dei libri di cavalleria
si affermava in un paese in cui il loro esempio era stato messo effettivamente
in pratica?
Don Chisciotte non era certamente il
primo della sua specie e l'immaginario eroe della Mancia, aveva avuto dei
precursori viventi, dei modelli in carne e ossa, come, raccontava l'opera
“Gli uomini illustri di
Castiglia” di Hernando del Pulgar (1430-1494) in cui si cita la
stravaganza di don Suero de Quiñones figlio di un grande balì delle Asturie, il quale aveva
convenuto il riscatto dalle catene, con trecento lance (ogni lancia comprendeva
gli aiutanti per cui il numero si deve duplicare o triplicare), della sua dama.
Lo stesso cronista, vissuto durante il
regno di Giovanni II (1407-1454)
cita una folla di guerrieri da lui personalmente conosciuti, quali
Gonzalo de Guzman, Juan de Merlo, Gutierre Quejada, Juan de Polanco, Pero Vasquez
de Sayavedra, Diego Varela, .... “che
si recavano non solo a visitare i loro vicini, i mori di Granada, ma percorsero, come cavalieri erranti paesi
stranieri come la Francia, la Germania, l'Italia, offrendo a chiunque
accettasse la loro sfida, di rompere una lancia in onore delle dame”.
Lo smoderato gusto dei romanzi cavallereschi portò i suoi
frutti: – Le giovani generazioni
tralasciando lo studio della storia, che non offriva nessun alimento alla loro sregolata
curiosità, presero come modello il linguaggio e le azioni dei romanzi da
loro scelti. Obbedienza ai capricci delle donne, amori adulteri, falsi punti
d'onore, sanguinose vendette per le più piccole ingiurie, lusso
sfrenato, disprezzo per l'ordine sociale, tutto ciò fu messo in pratica e i libri di cavalleria divennero non
meno funesti per i buoni costumi, quanto per il buon gusto.
Nello stesso romanzo queste critiche sono mosse dal canonico che nella sua “filippica” (in cap. XLVII) sui
libri di cavalleria pur sostenendo che “sono di grave pregiudizio allo Stato, confessa che, ciò nonostante anch'io spinto da
falso piacere li ho conosciuti quasi tutti ma di tutti non sono riuscito a
leggerne uno dal principio alla fine, trovandoli pressappoco tutti della stesa
pasta e non avendo l'uno maggior merito dell'altro; mi sembra –
prosegue il canonico – che essi cadano nel novero di quei
racconti di favole dette "milesie" che sono racconti spropositati che
mirano a dilettare e non a dare un insegnamento ... e se il loro fine è
quello di ricreare lo spirito non so come si possa raggiungerlo essendo piene
di tante stoltezze fuori di ogni proporzione o credibilità ... come
quando un ragazzo di sedici anni dà un colpo a un gigante grande quanto
una casa e lo divide in due come fosse pasta di zucchero”!
A queste critiche si aggiunsero quelle dei moralisti: Luis Vives,
Alexo Venegas, Diegi Gracian, Melchor Cano, Fray Luis de Granada, Malom de
Chaide, Arias-Montano e altri scrittori che elevarono a gara la loro
indignazione contro i mali che produceva la lettura di questi libri e seppur le
leggi vennero in loro aiuto, non ottennero risultati soddisfacenti.
Un decreto di Carlo V del 1543, infatti, dava l'ordine ai viceré e alle
autorità del Nuovo Mondo di non lasciar stampare, vendere o leggere
alcun romanzo di cavalleria ad alcuno spagnolo o indiano.
Nel 1555 le Cortes di Valladolid, reclamarono, con una energica
petizione, lo stesso divieto per tutta la penisola, chiedendo per di più
che si raccogliessero e si bruciassero tutti i libri esistenti; “che erano ben noti i gravi danni che essi
facevano al regno, ai ragazzi e alle ragazze che prendevano gusto per quei sogni e agli
avvenimenti ivi descritti e all’amore e alle guerre e altre vanità,
sulle quali, una volta lette, vi si buttavano a capofitto”!; la
stessa regina Giovanna aveva promesso una legge che però, probabilmente
per le sue condizioni di salute, non fu emanata.
Ma, gli appelli di retori e moralisti e gli anatemi dei legislatori
non riuscirono ad arrestare il contagio; tutti questi rimedi rimasero impotenti
contro il gusto del meraviglioso, contro il gusto del quale il ragionamento, la
scienza, la filosofia non potevano trionfare, perché non si faceva altro
che continuare a scrivere e leggere
i romanzi di cavalleria.
Principi e grandi prelati ne accettavano le dediche; perfino santa
Teresa (1515-1582) – durante
la sua giovinezza – affezionatissima a queste letture, aveva composto un
romanzo cavalleresco, prima di scrivere "Il castello interiore"
e le altre opere mistiche; per non parlare di Carlo V – fanatico dei
tornei – il quale divorava di nascosto il Don Belianis di Grecia (*), uno
dei più mostruosi prodotti di questa demenziale letteratura (come era
stato scritto), mentre, come abbiamo visto, emetteva decreti di
proscrizione di quei libri.
Quando sua sorella Maria, regina d'Ungheria, volle festeggiare il
suo ritorno nelle Fiandre (con le feste di Bins), non trovò di meglio
che organizzare una rappresentazione vivente di un libro di cavalleria, nella
quale ebbero dei ruoli tutti i signori della corte, compreso l'austero Filippo
II.
Questo gusto era penetrato anche nei conventi dove si leggevano o
si componevano romanzi: un frate
francescano, fratello Gabriel de Mata, fece stampare – non nel
tredicesimo secolo, ma nel 1589 – un poema cavalleresco il cui eroe era san Francesco, patrono del suo Ordine, che aveva per titolo “El caballero Asisio”, Il cavaliere
di Assisi, con riprodotto sul frontespizio, il ritratto del santo ... a cavallo e armato di tutto punto alla
maniera delle immagini che decoravano gli Amadigi e gli Esplandiani.
Il suo cavallo era bardato e parato di magnifici pennacchi, e lui
portava sul cimiero dell'elmo una croce col chiodo e la corona di spine, con
sullo scudo disegnate le cinque
piaghe e sul guidone della lancia vi era l'immagine della fede con la croce e
il calice, con una frase spagnola traducibile: Contro la fede, nessuno può; questo libro singolare era
dedicato al connestabile di Castiglia.
Non essendovi stato modo di bloccare
questa forma di pandemia, l’arma formidabile l’aveva trovata
Cervantes con la satira del don Chisciotte: – Dal momento della sua pubblicazione, non
fu più pubblicato alcun libro di cavalleria; l’ultimo era stato un
libro stravagante intitolato “Cronaca
del principe e don Policismo di Boezia” di Don Juan de Sylva y Toledo, signore di
Cañada-Hermosa,
gentiluomo della corte di Filippo III, stampato nel 1602.
*) Il titolo completo è Historia
del magnanimo e invincibile principe don Belianis, figliolo
dell’imperatore don Belanio di Grecia, nella quale si narrano le strane e
pericolose avventure che gli successero con gli amori che hebbe con la
principessa Floribella, figliola
del Soldano di Babilonia & come fu ritrovata la principessa Polisena,
figliola del re Priamo di Troia.
Tradotta dal greco in castigliano e dal castigliano in italiano da Orazio
Rinaldi Bolognese, in Ferrara, per Vittorio Baldini, Stampatore Ducale –
1586.
Questo libro si può scaricare, messo a disposizione dei
lettori da Google libri, nei cui confronti non finiremo mai di esser grati per
i tanti libri che ci dà la possibilità di scaricare (v. in
Recensioni: La grande biblioteca virtuale di Google).
E non pensate che questo libro, tutto italiano, sia stato messo a
disposizione da qualche sonnolenta Biblioteca italiana, come sarebbe stato
logico! (Oh Italia, un tempo Bel Paese,
come la barbarie politica ti ha ridotto!). ù
Esso invece proviene (come tanti altri libri italiani che si
trovano in Google, messi a disposizione dalle biblioteche universitarie degli
USA!) dalla Hofblibliotek di Vienna!
IL DON
CHISCIOTTE
PREMESSA
N |
el quarto capitolo, don Chisciotte subisce la sua seconda
disavventura, in quanto, avendo
incrociato un gruppo di mercanti che da Toledo si stavano recando a Murcia,
dopo aver creato un alterco, voleva caricarli con la sua lancia,n ma il suo
Ronzinante precipitava per terra e il padrone rotolava e non poteva rialzarsi,
impedito dalla sua armatura; uno dei mercanti, che doveva essere uomo di poco
buon cuore, dopo aver spezzato la lancia, con uno di questi pezzi... lo macinò come grano al mulino;
don Chisciotte è lasciato così malconcio ... che non poteva rizzarsi in piedi,
tanto il suo corpo era fracassato dalle percosse ricevute.
Nel successivo capitolo quinto lo troviamo, che pur in queste
condizioni, egli canta le strofe di
una romanza:
☻ Questa romanza, di autore ignoto si trovava nel “Cancionaro” stampato in Anversa
nel 1555; in essa si raccontava che: Carlotto
figliuolo di Carionvagno attirò Baldovino nel Bosco della sventura con
l’intenzione di ucciderlo per divenir poi marito della sua vedova. Lo
lasciò infatti morto nei bosco con ventidue ferite nel corpo.
Segue il sunto del racconto del don
Chisciotte:
La sorte volle che in quel momento passasse un contadino del suo
paese e suo vicino di casa, preso da don Chisciotte (che seguiva con la sua
mente la trama della romanza), per suo zio il marchese di Mantova, il quale,
dopo averlo riconosciuto lo chiama signor
Chisciada, come lo chiamavano nel suo paese quando era in senno, lo carica
di traverso sul suo asino e si dirige verso la sua casa; il fascio delle armi
lo mette su Ronzinante; il contadino gli chiese che male si sentisse e don
Chisciotte, dimenticando Baldovino (della
romanza), si ricorda del moro Abindarraéz (si tenga presente che
Cervantes, nella sua vita avventurosa, aveva partecipato alla battaglia di
Lepanto (v. in Specchio dell’Epoca) dove era stato ferito rimanendo con
un braccio storpio; era stato poi fatto prigioniero e tenuto come schiavo in
Algeri dal 1575 al 1580; una parte di queste avventure sono messe in bocca al
racconto dello schiavo, nelle pagine coinvolgenti dei capp. XXXIX-XL), quando
il castellano di Antechera, Rodrigo di Narvaez, lo prese e lo condusse
prigioniero al proprio castello. E quando il contadino gli chiede del suo
stato, don Chisciotte gli risponde con le stesse parole del prigioniero
Abindarraéz, che aveva detto a Rodrigo di Narvaez, riportando ciò che
aveva letto nella Diana di Giorgio di Montemayor:
☻ Jorge de Montemayor era portoghese e aveva cambiato il
suo cognome (Nontemor-o-Velo)
in castigliano,
scrivendo le sue opere in spagnolo e l’opera indicata è una
pastorale in prosa dal titolo “Los
siete libros de Diana” I sette libri di Diana, che ebbe moltissimi
imitatori .
Quando vi giunge, la casa di don Chisciotte era tutta in subbuglio
in quanto il padrone mancava da sei giorni.
Qui si erano riuniti il curato, don Pietro Perez, il barbiere,
maestro Nicolò, la nipote di don Chisciotte e la serva, che credeva
fermamente, “com’è
vero che io sono nata”, che erano stati quei maledetti libri di
cavalleria che l’avevano fatto uscir di senno e che gli aveva sentito
dire diverse volte “che bramava di
diventar cavaliere e andare per il mondo in cerca di avventure...e Satano o
Barabba li portassero via codesti libri, che hanno guasto e sconvolto il
più fino cervello che potesse vantar la Mancia”.
La nipote ripeteva le stesse cose e aggiungeva rivolgendosi al
barbiere: “Sappia signor maestro
Nicolò che mille volte è avvenuto al signor zio di spendere nella
lettura di codesti libri due notti e due giorni continui, a capo dei quali li
gettava da parte e impugnata la spada se la pigliava con le pareti
finché stanco e spossato diceva di aver ammazzato quattro giganti come
quattro torri e il sudore che lo
copriva per la grande fatica voleva che fosse sangue delle ferite da lui
ricevute in battaglia. Dava allora di piglio a un gran boccale d’acqua
fresca e se la beveva sino all’ultima goccia e con quella guariva e si
rimetteva tranquillo, affermando che quell’acqua era una bevanda
preziosissima dono del savio Eschifo, celebre incantatore e suo amico.
☻ Il nome di Eschifo, storpiato dalla
nipote, era Alchife, autore della “Cronaca di Amadigi di Gaula”.
Ah – continuava la nipote – io
debbo accusare me stessa di tanto male; ché se avessi informate le
signorie vostre delle follie del mio signor zio, avrebbero posto rimedio prima che fosse
giunto a questo termine; e que' suoi scomunicati libri li avrebbero dati alle
fiamme: ché molti ne ha certamente degni di essere abbruciati come i
libri degli eresiarchi.
— Sono anch' io dello
stesso avviso, soggiunse il curato, e vi giuro in fede mia, che non
passerà dimani senza averne fatto un auto-da-fé, dannandoli tutti
al fuoco, affinché non siano occasione a qualche altro di fare
ciò che il mio povero amico deve aver fatto.
IL SESTO CAPITOLO
DEL BELLO
E GRANDE SCRITINIO CHE FECERO
IL CURATO
E IL BARBIERE ALLA LIBRERIA
DEL NOSTRO INGEGNOSO IDALGO
M |
entre don Chisciotte dormiva, il curato domandò alla nipote le
chiavi della stanza dove si trovavano i libri, cagione di tanti malanni; ed
essa gliele diede volentieri. Subito entrarono tutti e con essi anche la
serva; e trovarono più di cento volumi grandi, assai ben rilegati,
ed altri di piccola mole (don Chisciotte in pagine successive, riferendosi ai
libri di cavalleria, della sua biblioteca, dice di averne più di
trecento).
Non appena la serva li ebbe veduti, uscì frettolosa della
stanza, poi tornò subito con una scodella d'acqua benedetta e
l'aspersorio, dicendo: Prenda la signoria
vostra, signor curato, e benedica questa stanza, affinché non resti
qui nessuno degli incantatori di cui sono zeppi cotesti libri e non ci facciano
addosso qualche incantesimo per vendicarsi contro di noi, che vogliam
cacciarli dal mondo.
La semplicità della
serva mosse a riso il curato ed ordinò al barbiere che gli porgesse i
libri uno alla volta, per vedere di che trattassero, potendo darsi che qualche
opera non meritasse la pena del fuoco.
No, no, — disse la nipote — non si deve perdonare a nessuno di
essi, perché tutti hanno contribuito a questo danno: il meglio sarebbe
gettarli dalla finestra nell'atrio, farne un mucchio ed appiccarvi il fuoco o
per evitare il fastidio del fumo, sarebbe anche meglio trasportarli in corte e
bruciarli colà.
Lo stesso disse la serva, tanto grande
era in ambedue la smania di veder distrutti quei libracci; ma il curato non lo
permise senza leggerne almeno i titoli.
Il primo, pertanto, che maestro
Nicolò gli porse, fu quello dei Quattro libri di Amadigi
di Gaula:
☻Non si conosce precisamente
il primo autore dell'Amadigi di Gaula, nè qual fosse il paese dove
questo libro tanto famoso venne alla luce la prima volta; ma si è certi
che questo paese non fosse la Spagna, alla quale dicono che fosse giunto o
dalle Fiandre o dalla Francia o dal Portogallo. Quest'ultima opinione pare che
abbia maggior fondamento delle altre; e finché non si abbiano nuove
notizie, si può ritenere che l’autore fosse il portoghese Vasco de Lobeira vissuto secondo alcuni alla fine del sec. XIII, secondo altri
alla fine del sec. XIV.
In
questo periodo cominciarono a circolare, manoscritte, le traduzioni spagnole di
alcuni frammenti, che poi si stamparono separati nel secolo XV; finché
nel 1525 Garcia Ordóñez
Montalvo, raccolti e ordinati questi frammenti, ne fece la sua compiuta
edizione.
Nel
1540 d'Herberey pubblicò una traduzione francese dell'Amadigi,
seppur apprezzata
al suo tempo, era poi caduta in oblio da che il conte di Tressan fece una sua
libera imitazione.
Una
traduzione italiana fu stampata in Venezia nel 1572.
Sembra, –
disse il curato – che qui vi sia qualche
mistero, da che, a quanto intesi dire, questo fu il primo libro dì
cavalleria stampato in Ispagna, e tutti gli altri che poi gli tennero dietro
ebbero principio e origine da questo. Perciò mi pare che, come capo di
mala setta, si debba dare alle fiamme senza remissione.
Signor no –
soggiunse il barbiere –
mi fu detto che questo è il migliore di tutti i libri di
queste specie che furono composti sinora e perciò, unico, può
meritare perdono.
E vero, – disse il curato –
e perciò abbia salva la vita, per ora. Vediamo quest'altro
accanto.
Sono – disse il barbiere –
le Prodezze di Splandiano, figlio legittimo do
Amadigi di Gaula :
☻ Questo
libro si trova sotto il titolo dì “Ramo che proviene dai quattro
libri di Amadigi di Gaula” (Gaula è il Galles ndr.), detto “Le prodezze del valorosissimo cavaliere
Esplandiano, figliuolo dell'eccellente re Amadigi di Gaula”. Alcala
1588.
L’autore è stato lo stesso Carcía
Ordóñez de Montalvo, che pubblicò l’Amadigi.
All’inizio del libro si dice che queste prodezze furono
scritte in greco dal maestro Helisabad (o
Alquise) chirurgo di Amadigi e che costui le aveva tradotte dando al suo libro il titolo di “las
Sergas” che sta per “gesta”, deducendolo un po' stranamente
dal greco “erga”; il libro fu successivamente tradotto in latino,
poi in lingua romanza e in italiano da Mambrino Roseo.
Nicolas Antonio in Biblioteca
spagnola (tom. XI , p. 391) annovera ben venti libri di cavalleria
scritti sulle avventure provenienti
da Amadigi.
La serva obbedì con molto piacere;
e così il buon Splandiano volò nella corte, attendendo pazientemente
il fuoco da cui era
minacciato.
Tiriamo innanzi — disse il curato.
Questo che viene, — soggiunse il barbiere – Amadigi
di Grecia, e per quanto mi pare tutti quelli che sono
da questa parte, appartengono alla dinastia degli Amadigi:
☻ La storia di Amadigi di Grecia ha questo
titolo: Cronaca del valentissimo principe e cavaliere dalla Spada-ardente,
Amadigi di Grecia ecc. Lisbona 1596. L'autore dice che fu scritta in greco dal
saggio Alquife, poi tradotta in latino, poi ancora nella lingua romanza. Anche
di quest'opera esiste una traduzione italiana.
Nicolàs Antonio, nella
sua Biblioteca spagnola (tom. XI, p. 394), annovera ben venti libri di
cavalleria scritti sulle avventure dei discendenti di Amadigi.
L'autore di queste due opere
è Antonio de Torquemada (da non confondere con l’inquisitore Tomàs Torquemada ndr.).
Orbene –
replicò il curato –
vadano tutti in corte; ché per poter abbruciare la regina
Pintichiniestra e il pastor Darinello con le sue egloghe e coi lambiccati
concettini del suo autore, brucerei con essi anche il padre che m'ha
generato, se mi comparisse davanti in figura di cavaliere errante.
Sono del medesimo sentimento
— soggiunse il barbiere. Ed io pure –
replicò la nipote. Quand'è così, –
disse la serva – vadano in corte; –
e presili tutti insieme, che erano molti, per risparmiare la
fatica di far la scala, li gettò dalla finestra.
Che è cotesto grosso
volume? –
domandò il curato.
È, –
rispose il barbiere – don Ulivante di Laura.
L'autore di questo libro
– soggiunse il curato – è
quello stesso che compose il “Giardino dei fiori”; e in fede mia
non saprei dire quale dei due sia più veritiero, o piuttosto meno bugiardo.
So bene che andrà in corte per le sue scimunitaggini e per la sua
arroganza.
Questo che gli vien dietro
è Florismarte d'Ircania – disse barbiere:
☻ Il traduttore francese pone a questo
punto in nota: “ou Félix Mars d'Ircanie-oppure
Florins-mars-Florismante”.
Nella bibliografia dei
romanzi pubblicata dal conte Gaetano Melzi, si trova indicato questo
libro, sulla testimonianza dell'Henrion, con queste parole: «Istoria di
don Florismante d'Ircania ecc. tradotta dallo spagnolo, senza editore e
data».
Fu pubblicata da Melchor de
Ortega cavaliere d'Ulbeda in Valladolid, 1556.
Ah! è qui il signor
Florismarte? –
replicò il curato: – oh
sì, sì, s'affretti d'andare in corte a dispetto della sua
straordinaria nascita:
☻ La madre di Florismarte, Marcellina,
moglie del principe Florasan di Misia, lo diede alla luce in un bosco e lo affidò
a una donna selvaggia chiamata Balsagina, la quale dai nomi dei genitori lo
chiamò Florismarte e poi Felice-Marte.
e delle sue fantastiche
avventure, ché altro non meritano la durezza e l'infecondità
del suo stile: alla corte, signora serva, insieme con quest'altro. Oh, tutto
questo, signor mio, mi va molto a sangue — rispose ella; e contentissima eseguiva quanto le si
ordinava.
Questi è il Cavalier Platir –
disse il barbiere:
☻ Cronaca del valorosissimo cavaliere
Platir, figliuolo dell'imperatore Primaleone. Valladolid 1533.
L'autore 'di questo libro
è sconosciuto, come quasi tutti coloro che scrissero libri di
cavalleria. Vi è una traduzione italiana di Mambrino Roseo.
È libro d'antica data – rispose il curato –
né trovo in lui nulla che gli possa ottenere perdono;
senz'altro vada a far compagnia agli altri; – e
così fu fatto.
Fu aperto un libro, e si
trovò ch'era intitolato il Cavaliere della Croce:
☻ Il titolo completo è:
“Libro dell'invincibile cavalier Lepolemo e delle imprese ch'ei fece
chiamandosi il cavaliere della Croce”. Toledo 1562 e 1563.
Questo libro ha due parti,
una delle quali, secondo l'autore, fu scritta in arabo per ordine del sultano
Zulema, da un moro detto Xarton e tradotta da un prigioniero di Tunisi; l'altra
scritta in greco dal re Artidoro.
Esiste una traduzione
italiana di Pietro Lacero, modenese. Venezia 1606.
In grazia del santo nome che
porta, gli si potrebbe perdonare la sua ignoranza; ma si dice che tal
volta il diavolo si nasconde dietro la croce; perciò vada alle fiamme.
Il barbiere prese un altro
libro e disse: Questo è lo Specchio della Cavalleria:
☻ Quest'opera è divisa
in quattro parti. La prima, composta da Diego Ordóñez de Calchora, fu pubblicata
nel 1562 e dedicata a Martino Cortez, figliuolo di Ferdinando. La seconda,
scritta da Pedro de la Scierra, fu stampata a Saragozza nel 1580. Le ultime
due, composte da Marco Martinez, videro pure la luce in Saragozza l'anno 1603.
Ah! lo conosco molto bene – rispose il curato; ecco qua il signor Rinaldo di Montalbano, cogli amici e compagni suoi
più ladri di Caco, e i dodici paladini col loro storico veritiero
Turpino (sopra menzionato per la pseudostoria di Carlomagno ndr.)! In verità, sarei per condannarli soltanto ad eterno bando, non
per altro che per avere avuto gran parte nella invenzione del celebre Matteo
Bojardo (☻), d'onde
ha poi ordita la sua tela il poeta cristiano Lodovico Ariosto (☻). Se il suo libro si
trovasse qui, e parlasse un idioma diverso dal suo proprio, non gli porterei
rispetto, ma se fosse nel suo linguaggio originale, me lo porrei sulla testa:
☻ E’ noto che il Bojardo compose
l'Orlando innamorato e l'Ariosto l'Orlando Furioso, valendosi molto dei
romanzi spagnoli.
Il traduttore dell'Ariosto, a
cui allude l'autore, è il capitano don Geronimo Ximenes de Urrea,
di cui don Diego de Mendoza aveva detto: «E don Gerónimo de Urrea
non ottenne forse fama di nobile scrittore e, ciò che più
importa, molto danaro, traducendo l'Orlando Furioso, cioè mettendo
caballeros in luogo di cavalieri, armcs in luogo di arme, amores in luogo di amori?
Di questo modo io scriverei più libri che non ne fece Matusalem».
Io l'ho in italiano, – disse il barbiere –
ma non l'intendo. Non è necessario che voi lo
intendiate –
rispose il curato; e perdoniamo per ora a quel signor capitano
che lo ha tradotto in lingua castigliana, togliendogli gran parte del
nativo suo pregio: ma così avverrà a tutti coloro che s'impegnano
a tradurre libri di poesia, chè, per quanto studio vi pongano, per
quanta attitudine abbiano, non potranno mai darceli tali quali essi nacquero.
Giudico, pertanto, che questo e tutti gli altri libri. che troveremo, che
trattino di simili cose di Francia, si raccolgano e si dispongano entro un
pozzo senz'acqua, finché si decida ponderatamente quale dovrà
essere il loro destino.
Questo non vale per Bernardo del Carpio che vedo qui:
☻ Questo poema in ottave è di
Agostino Alonzo di Salamanca, (pubblicato in Toledo il 1585).
Da non confondere con altro del vescovo
Balbuena, venuto in luce dopo la morte di Cervantes,
né per un altro
chiamato Roncisvalle,
☻ di Francesco Garrido de Villena, Toledo,
1585.
i quali, se capitano nelle
mie mani, han da passare in quelle della serva, e da queste senza
remissione alle fiamme.
Il barbiere consentì:
pienamente, riconoscendo che il curato era proprio un buon cristiano, e
così affezionato alla verità, che non l'avrebbe tradita per tutto
l'oro del mondo.
Aprendo. un altro libro, vide
ch'era Palmerino d'Uliva; poi
subito dopo Palmerino d'Inghilterra:
☻ Il primo dei Palmerini
è intitolato: “Libro del famoso cavaliere Palmerino d'Uliva, che
fece nel mondo grandi imprese d'armi, senza sapere di chi egli fosse
figlio”; Medina del Campo, 1563.
Si
crede che lo scrivesse una donna portoghese, il cui nome è ignoto.
☻ Il secondo, “Storia del
molto famoso e gagliardo cavaliere Palmerino d'Inghilterra”, è
composto di sei parti.
Le
prime due sono da alcuni attribuite al re Giovanni II, da altri all'infante don
Luigi, padre del priore de Ocrato, che disputò la corona del Portogallo
a Filippo II, da alcuni altresì a Francisco de Moraes.
La
terza e la quarta furono composte da Diego Fernandez. La quinta e la sesta da
Baldassare Gonzales Lobato, tutti portoghesi.
Queste
opere furono ambedue tradotte in italiano.
per cui il curato soggiunse: –
Si rompa in minute parti questa uliva, e sia consunta dal
fuoco, per modo che non ne resti nemmen la cenere; ma venga, come cosa unica,
conservata questa palma d'Inghilterra, e si faccia per essa una cassettina come
quella che trovò Alessandro fra le spoglie di Dario e la destinò
per custodia delle opere di Omero.
Questo libro, signor compare
merita la più grande considerazione, prima perché
pregevolissimo in se stesso; poi perché corre fama che ne sia stato
autore un re portoghese di gran saggezza. Hanno gran merito per la complicata
loro orditura le avventure del castello di Miraguarda, vivaci, evidenti e pieni
di decoro sono i discorsi dei personaggi che parlano, con grande
proprietà e avvedimento. Conchiudo quindi, (avuto, però, riguardo
al vostro savio parere, signor maestro Nicolò) che questo e Amadigi di
Gaula si salvino dal fuoco; e tutti gli altri, senza riserve, sieno bruciati.
Oibò, signor compare – replicò il barbiere –
ho qui il famoso don Belianigi:
☻ L’autore era Geronimo Fernandez,
avvocato di Madrid. L'opera. pubblicata in Burgos (1579) era divisa in quattro
parti. Le prime due furono tradotte in italiano e stampate, la prima in
Bologna, la seconda in Verona nel 1586 e I587.
Quanto a questo libro, — riprese il curato — la seconda, terza e quarta parte han bisogno
d'una buona dose di rabarbaro che le purghi dalla disordinata collera che
hanno, e occorre tagliare tutto ciò che vi si trova intorno al castello della fama e ad altre
sconvenienze di maggior importanza; e perciò gli si conceda quel lungo
termine che si dà a chi abita oltremare per emendarsi ed ottenere
quindi misericordia o giustizia; frattanto, custoditelo in casa vostra,
compare, e non permettete che nessuno lo legga.
Sono ben contento — rispose il barbiere; e senza leggere altri libri, comandò
alla serva che pigliasse i più grossi e li gettasse in corte.
La serva non fece né
la stupida, né la sorda, ma avendo più voglia di dar quei
libri alle fiamme che di tessere una tela per grande e fina che fosse, ne prese
otto in una volta e li gettò fuori della finestra. Ma avendone presi
molti ad un tempo, uno ne cadde ai piedi del barbiere, il quale volle
sapere che libro fosse, e lesse: Istoria del famoso cavaliere Tirante il bianco.
Oh perbacco baccone! — esclamò il curato;
— è possibile che qui si
trovi Tirante il bianco? A me a me, compare, fo conto d'aver
trovato un tesoro da rendermi beato, ed una fonte perenne di svago. Qui si
legge la storia di don
Kirieleisonne da Montalbano, valoroso cavaliere, e di suo fratello
Tommaso; poi il cavaliere Fonseca, e la
battaglia del forte Detriano con l'Alano, e le sottigliezze d'ingegno della
donzella Piacerdimiavita, con gli amori e gl'intrighi della vedova
Riposata, e finalmente la signora Imperatrice innamorata d'Ippolito suo
scudiero. A onore del vero devo dire, signor compare, che quanto allo stile,
questo supera ogni altro libro del. mondo. Qui, poi, i cavalieri mangiano,
dormono, muoiono sul loro letto; fanno il loro testamento prima di morire, e vi
si trovano tante e tante altre cose non mentovate neppure in altri libri
simili. Nondimeno chi lo scrisse (perché senza necessità
scrisse tante scempiaggini) meriterebbe la galera a vita. Portatelo a casa
vostra; e vedrete voi stesso se io m'inganno:
☻ Il titolo del libro è “Storia del valoroso cavaliere Tirante il
bianco principe e cesare
dell’impero greco di Costantinopoli” - (cesare era il vice
imperatore ndr.) - , era stato tradotto dall’inglese in portoghese e poi
in volgare valenciano da Juhanot Martorell di Valenza il quale
tradusse le prime tre parti e non poté tradurre la quarta per la sua
morte improvvisa; la quarta parte fu tradotta da Marì Johan de Galba.
Il traduttore francese (!)
faceva sapere che il libro mancava nella collezione dei romanzi originali di
cavalleria, posseduta dalla Biblioteca Reale di Parigi e che fu cercato
inutilmente in tutta la Spagna per la Biblioteca di Madrid.
Il libro fu tradotto in
italiano da Lelio Manfredi, e stampato in Venezia 1528 e ebbe diverse edizioni.
Non mi oppongo, — disse il barbiere — ma che faremo di questi altri piccoli libri
che rimangono?
Questi, – rispose il. curato –
non debbono esser libri di cavalleria, ma piuttosto di poesia; – ed
aprendone uno, vide ch'era la Diana di
Giorgio di Montemayor. Disse
allora, supponendoli tutti dello stesso genere: –
Questi non meritano, come gli altri, d'essere dati alle
fiamme, perché non fanno, né faranno mai il danno de' libri di
cavalleria; ma sono libri di svago, senza pregiudizio d'alcuno.
O. signore! – soggiunse la nipote –
il meglio sarà di mandarli al fuoco come gli altri,
perché non sarebbe gran maraviglia, che riuscendo a guarire il mio signor
zio dalla malattia cavalleresca, egli si desse a leggere questi libri, e quindi
gli venisse il capriccio di farsi pastore e di andarsene per boschi e per
prati cantando e sonando, o, ciò che sarebbe peggio, diventar poeta;
ché, a quanto si dice, è un'altra malattia insanabile e
contagiosa.
Questa ragazza parla con
senno –
disse il curato –
e quindi sarà bene evitare al nostro amico questo pericolo
di ricadere. E giacché abbiamo cominciato dalla Diana di Montemaggiore,
credo che non si debba bruciare, purché se ne levi la parte che si
riferisce alla savia Felicia e all'Acqua incantata, con quasi tutti i versi,
per modo che le resti la sua prosa eccellente e l'onore di essere stato il
primo libro di questa specie.
Questo che viene, – disse il barbiere – è
la Diana, chiamata Seconda del Salamantino:
☻ Salamantino vuol dire di Salamanca, si
trattava Alonzo Pérez. medico in quella città.
e di quest'altro, che porta
lo stesso titolo, è autore Gil Polo (poeta e novellista
di Valenza):
☻ Poeta di Valenza, 'che continuò
l'opera del Montemayor sotto il titolo di Diana innamorata.
Quanto a quella del
Salamantino –
disse il. curato –
accompagni ed accresca pure il numero de' condannati alla
corte; quello di Gil Polo si conservi gelosamente, come se derivasse da
Apollo medesimo. Ma vada avanti, signor compare, e affrettiamoci, ché si
va facendo tardi.
Questi – disse il barbiere aprendo un altro volume
– sono i Dieci libri della
fortuna di Amore, composti da Antonio di Lofraso, poeta sardo:
☻ Il titolo completo era:
“I dieci libri della Fortuna d'amore, dove si troveranno gli onesti e
pacifici amori del pastore Pressano e dell'avvenente pastorella Fortuna”.
Barcellona, 1573.
Per quanto vale il mio
giudizio –
disse il curato –
da che Apollo è Apollo, muse le muse e Poeti i poeti,
non fu composto mai un libro tanto grazioso e spropositato al tempo stesso
quanto questo; per la sua invenzione è il migliore e il più
singolare di quanti n'uscirono alla luce, e chi non lo ha letto può
far conto di non aver letto mai un libro veramente gustoso: datelo qua,
compare, chè sono più contento d'aver trovato questo libro che se
qualcuno mi avesse regalata una veste di raso di Firenze.
Lietissimo, lo mise da parte,
e il barbiere proseguì leggendo Il Pastore d'Iberia, Le Ninfe
di Henares e i Rinedii della gelosia:
☻ Autore de “Il Pastore
d’Iberia” era don Fernando de la Vega, canonico di
Tucumón. Siviglia, 1591; de
“Le Ninfe di Henares”, Bernardo Gonzales di Bobadilla, Alcala,
1587; dei “Rimedii della gelosia”, Bartolomeo López de
Enciso. Madrid, 1586.
Per questi non occorre – disse il curato –
che consegnarli al braccio secolare della serva; e non me ne
domandate la ragione, ché non la finirei più.
Questo che viene è Il
Pastore di Filida:
☻ di Luigi Galvez di Montalvo (Madrid, 1552).
disse il barbiere.
Non è un pastore,
– rispose il curato – ma un cortigiano valente: sia
custodito come un oggetto prezioso.
Questo grosso volume che lo
segue s’intitola –
disse il barbiere, Tesoro di varie poesie,
☻ di
don Pedro Pedilla, (Madrid 1575).
Se non fossero tante, – soggiunse il. curato – sarebbero
tenute in maggior conto: bisogna purgar questo libro scartandone le bassezze
che vi sono frammischiate al molto bello: sia conservato, e, perché il
suo autore è mio amico, e per rispetto ad altre opere migliori da lui
composte.
Questo – seguitò il barbiere – è
il Canzoniere di Lopez Maldonado:
☻ Pubblicato
a Madrid nel 1526.
Anche l’autore di
questo libro –
disse il curato –
è mio grande amico. I versi ch’egli recita destano
l’ammirazione di chi li ascolta, e la soavità della voce con cui
li modula un incanto. Nelle egloghe è alquanto prolisso; ma il buono non
fu mai troppo: si conservi cogli altri che già furono messi in disparte.
Ma
che libro è questo che gli sta sì vicino?
La Galatea di
Michele Cervantes – disse il barbiere.
Da molti anni questo
Cervantes è mio grande amico – soggiunse il curato – e so ch’egli
s’intende più di sventure che di versi. Convengo che gli si
può concedere qualche lode nell’invenzione; ma egli propone sempre
e non conclude mai: attenderemo la seconda parte che ci promette :
☻ Cervantes ribadì questa promessa
anche poco prima di morire, nella dedica della sua opera “Pérsiles
y Sigismonda”, ma la seconda parte della “Galatea” non fu poi
trovata tra le sue carte; fu pubblicata
(1585) la sola prima parte, col titolo “La Galatea” Primera
parte: il testo è in prosa e in versi, secondo il modello
dell’Arcadia di Sannazzaro, che Cervantes ricalca (l’ulteriore
illustrazione di questo testo è magnificamente riportato nel cit.
Dizionario delle Opere Bompiani ndr.).
e forse, migliorando, si
meriterà quel perdono che per ora gli rifiutiamo; ma fin a tanto che si
veda come andrà a fluire la faccenda, custoditelo in casa vostra, signor
compare.
Ne sono lietissimo – rispose il barbiere. Qui seguono tre
libri uniti, insieme La Araucana di don Alonzo de Ercilla; l’Austriada di Giovanni Rufo di
Cordova e Il Monserrato di Cristoforo dì Virués,
poeta di Valenza:
☻ Il poema epico dell'
“Araucana” è il racconto della conquista dell'Arauco,
provincia del Chili, fatta dagli spagnoli, l’autore Alonzo de Ercilla,
prese parte a quella spedizione.
☻ “L'Austriada”
è la storia eroica di don Giovanni d'Austria, dalla ribellione dei mori
di Granata, fino alla battaglia di Lepanto.
☻ Nel
“Monserrato” è descritta la penitenza di san Garino e la
'fondazione del monastero di Monserrato di Catalogna, nel secolo IX.
Non esistono – disse il curato –
libri di poesia eroica, scritti in lingua castigliana, più
pregiati di questi, e possono reggere il confronto coi più illustri
d'Italia. Si custodiscano come le gemme più preziose che vanti la
poesia spagnola.
Ma il curato era ormai stanco
di vedere altri libri, e senza esaminarne altri, ordinò 'che tutti in
fascio fossero bruciati.
Ma il barbiere ne teneva
aperto uno intitolato: Le lagrime d'Angelica:
☻ Poema in dodici canti di Luigi Barahona
de Soto, 1586.
Il curato, vedendolo, disse: – Lo
avrei pianto, se per mio ordine fosse stato dato alle fiamme, poiché il
suo autore fu uno de' più celebri poeti del mondo, non tanto nelle opere
sue originali spagnuole, quanto nelle eccellenti sue traduzioni di alcune
favole di Ovidio.
A questo punto termina il capitolo sesto, ma in quello successivo
sono menzionati altri tre libri:
.... agli schiamazzi di don
Chisciotte, fu interrotto l’esame dei libri che restavano ancora da
vedere e si crede che andassero al fuoco senza essere visti né intesi La Carolea e Il Leone di Spagna con Le gesta dell’imperadore:
☻Al tempo di Cervantes, della
“Carolea” si conoscevano due poemi con lo stesso
titolo sulle vittorie di Carlo V; l'uno di Girolamo Sampere, Valenza 1580;
l'altro di Giovanni Ocboa de la Saude. Lisbona 1585.
“El Leon de
Espagna”, poema in ottave di Pedro de la Vacilla Castellanos, sugli eroi
e i martiri dell’antico regno di Leone. Salamanca 1588.
“Le gesta
dell’imperatore” (Los hechos del emperador)
è un altro poema (Carlo famoso) in onore di Carlo V, composto da don
Luigi Zapata, non già da don Luigi de Avila, come si legge nel testo,
per errore o dell'autore o dei tipografo.
☻ Nel corso del romanzo sono inoltre indicati
altri libri di cui riportiamo l’elenco in fondo al testo.
IL DON CHISCIOTTE VISTO
DALLA CRITICA MONDIALE
[Don Quijote de la Mancha]
di Angel Valbena Prat
(*)
CONSIDERAZIONI
REDAZIONALI
SU FIDEL CASTRO
L’ULTIMO DON CHISCIOTTE
DEL ‘900
P |
rima di introdurre il saggio di Prat, riteniamo poter dire con
estrema semplicità, che nel corso della storia, la figura di don
Chisciotte ha avuto molti imitatori che hanno combattuto contro giganti e
mulini a vento, per affermare le proprie idee, giuste o sbagliate che fossero,
di umanità e di giustizia.
L’ultimo esempio del secolo che ci ha lasciato, toccando
appena il nuovo secolo, è stato quello di Fidel Castro (1926-2016)
l’uomo politico più longevo del ‘900, che ha dedicato tutta
la sua vita alla “revolucion”, parola che sulle sue labbra si è
spenta con la sua morte.
Egli è stato ugualmente, amato e odiato (subendo ben
seicentotrentotto attentati) e su questi
contrastanti sentimenti e sulle luci e ombre del suo operato, un giudizio
potrà esser dato solo dalla storia.
Ciò che non riteniamo umano nei confronti della popolazione di Cuba,
è stato l’embargo
sancito dagli USA (1963), che si è prolungato per oltre
cinquant’anni, strozzando l’economia dell’isola, e tutto il
lavoro di rappacificazione condotto dal presidente Barack Obama e dal papa
Francesco (2015), è stato ora rimesso in discussione dall’attuale
nuovo presidente Donald Trump.
Vogliamo augurarci che questo clima di odio venga sostituito da
una tanto auspicata fratellanza tra i popoli, essendo veramente assurdo, dopo
oltre mezzo secolo, voler insistere con un embargo
che oltre a essere disumano, non ha più alcun senso.
Non si spiega, infatti, come un grande Paese come gli Stati
Uniti, possa accanirsi contro una piccola isola come Cuba che non può
rappresentare più alcun
pericolo nucleare o militare, come si paventava negli anni della guerra
fredda con l’URSS (che molti
generali del Pentagono dalla testa quadrata vorrebbero anche oggi ... se non di
più!), quando si temeva che l’isola costituisse una testa di ponte
per una invasione degli USA da parte dei sovietici!
AGGIUNTA DELL’ULTIMA ORA: - Abbiamo appena terminato questo
lavoro quando i mezzi di informazione hanno lanciato la notizia della decisione
dell’effervescente Presidente USA, di rompere gli accordi (firmati da
Reagan e Gorbaciov nel 1987) di non proliferazione delle armi nucleari.
Questa decisione, per chi ha vissuto l’epoca della guerra
fredda come chi scrive, è da considerare deleteria per l’umanità messa di fronte a un
sovvertimento della pace nel mondo (a parte i vari focolai!), di cui abbiamno
goduto in questi ultimi quarant’anni ... e sembra che nessuno le abbia
dato peso, in particolare la sonnolenta Unione Europea (che non prende
decisioni di alcun genere e in nessun campo!), che sarebbe la più
interessata, in quanto sarà la prima a essere invasa dai missili dalla
Nato (si legga USA!), da puntare
contro la Russia (che ha dato subito la sua risposta!) .
Tutto ciò dà credito a quanto qualcuno aveva
scritto sui presidenti degli USA: Che appena eletti, diventano prigionieri del
Pentagono (e CIA ed FBI!), che il Presidente Trump, appena insediato, aveva
annunciato enfaticamente di voler riformare, ma che i generali dalle teste
quadrate (ai quali ci siamo riferiti nel chiudere l’argomento), come ci
aspettavamo, gli hanno fatto fare una dichiarazione così terribile e tragica!
☻ ☻ ☻
D |
on Chisciotte è il prototipo
dell'uomo buono e nobile che vuole imporre il suo ideale al di sopra delle
convenzioni sociali e delle bassezze della vita quotidiana, specie di redentore
umano della prosaica verità di ogni giorno che lo percuote e lo ferisce,
per difendere le più pure essenze dell'amore, dell'onore e della
giustizia.
Alonso Quijano, "el bueno", convertito nella sua pazzia
per l'ideale, in don Chisciotte della Mancha, è soprattutto un uomo e,
come tale, in carne e ossa, precisamente in virtù della sua
umanità, penetra come Amleto nel mondo dell'universale e dei simboli.
Don Chisciotte che, alla sua prima sortita, va solo contro il
mondo, ha bisogno di una figura, al tempo stesso, di contrasto e di
fratellanza: il Sancio Panza, che dal cap. VII sarà la "llamada del
buen sentido", il richiamo alle cose della terra, che se alcune volte
sbarra la fantasia del suo signore errante, altre la lascerà più
profondamente abbandonata alla sua umanità primaria e infantile.
Don Chisciotte e Sancio resteranno ormai inseparabili e opposti,
fratelli e gerarchicamente diversi, nella migliore legge della varietà e
del chiaro-scuro barocco.
Don Chisciotte irraggia splendori della sua grandezza, in contrasto
con la tecnica dell'umorismo, sin dalla sua prima solitaria sortita per gli
aridi campi della Mancha, nel polveroso sole di luglio, incidendo nella nostra
memoria le immagini della sua investitura a cavaliere nell'osteria fra
mulattieri e ragazze di malaffare; nelle brutali bastonature che soffre a opera
di maldicenti e arroganti, in groppa al secco e stilizzato Ronzinante, tanto
vero nella sua tragedia animale, quanto sarebbe falso il cavallo dalla lignea
carcassa intellettuale che il Quevedo descrive in un episodio del Pitocco (v.).
Ecco don Chisciotte, nostro fratello e simbolo di amore e di giustizia, in
lotta con i mulini a vento, eterni castelli di Spagna, il più profondo
mito letterario nato da un episodio.
Appunto perché è concretamente un uomo, dal sublime
al grottesco, don Chisciotte può elevarsi alla categoria di simbolo e
mito letterario, come Amleto, suo pallido fratello, che gli è più
prossimo dell'astratto Sigismondo, (v.) di Calderón e dello stesso Faust
goethiano.
Il personaggio di don Chisciotte, e il suo scudiero Sancio,
appaiono in funzione del romanzo nel quale si trovano, in modo distinto nelle
sue due Parti.
Nella Prima, unitamente agli episodi che si riferiscono
direttamente alle due figure centrali, e che in gran parte sono i più
famosi, come mito letterario, di tutta l'opera – mulini a vento, mandrie di pecore,
avventura del corpo morto, conquista dell'elmo di Mambrino, libertà dei
galeotti, avvenimenti vari dell'osteria, ecc. – una grande varietà di motivi si
inseriscono o indirettamente, o in forma completamente laterale e del tutto
estranea, nella storia di don Chisciotte e di Sancio.
Questi episodi riuniscono tutti i generi romanzeschi di moda:
quello pastorale, quello amoroso al modo italiano, quello moresco, il tipo
"novella esemplare", ecc.
In tutta la Seconda Parte, vi è una evoluzione verso la
saggezza di don Chisciotte – che a don Diego de Miranda sembrava "un cuerdo loco, y un
loco que tiraba a cuerdo" – disviata dalla propria fantasmagoria costruita di proposito negli
episodi dei Duchi.
Sbaragliato il protagonista a Barcellona, il romanzo termina col
dolore della peggiore sconfitta per il cavaliere errante, l'angoscioso ritorno
al villaggio e la ragione ricuperata sul letto di morte.
Per Unamuno (Miguel de Unamuno 1864-1936), la morte di don
Chisciotte si avvicina al terzo atto della Vita
è sogno (v.), dove Sigismondo, vinto se stesso, respinge le finte
ombre dei suoi sogni e accoglie la verità dell'altra vita, la sicura
tavola della fede che appaga la sua ansia di immortalità.
Nel prologo alla sua versione tedesca del romanzo, Heine dice che
da fanciullo piangeva leggendo le sconfitte e bastonature dell'eroe; ma nella
maturità ne comprese il duplice piano fatto di umorismo e di dolore, di
emozione e di ridicolo, da cui scaturisce "la satira più
formidabile contro l'esaltazione umana".
A.W. vide in don Chisciotte l'eterna lotta fra la prosa e la poesia
della vita; Schelling, il quadro più universale, più profondo e
pittoresco della vita stessa. La sua essenza è nella lotta dell'ideale
con il reale e, per questo, vede nel Quijote il modello del romanzo più
adatto alla sua epoca.
J. P. Richter ne sottolinea l'aspetto umoristico. Turgenev, nel suo
saggio “Amleto e don
Chisciotte”, fissa la temperie ammirativa della sua generazione di
grandi romanzieri: don Chisciotte è il problema della fede in qualcosa
di eterno e immutabile, della fede in qualcosa di superiore all'individuo. Vive
per far trionfare la giustizia sulla terra. Amleto fa del suo "io" il
centro del mondo, mentre don Chisciotte si sacrifica per gli altri.
Il profondo saggio di Unamuno, Vita
di don Chisciotte e di Sancio (v.) applica il "sentimento tragico
della vita" al libro di Cervantes: don Chisciotte vive il suo desiderio di
fama e di immortalità, Dulcinea simbolizza la gloria: e attraverso il
saggio si segnalano i molti punti di contatto con la vita di Sant'Ignazio di
Loyola. già messi in rilievo da un commentatore olandese.
Rubén Dario gli dedica la sua magnifica “Letanía de Nuestro Señor don
Quijote”, ove l'eroe appare "coronado de àureo yelmo de
ilusión, - que nadie ha podido vencer todavía, - por la adarga al
brazo, toda fantasía, - y la lanza en ristre toda corazón"
(coronato dall’aureo elmo dell’illusione, –
che nessuno ha potuto vincere ancora – con lo scudo al braccio, tutto fantasia – e la lancia in resta, tutta cuore ndr.).
Nella nuova poesia spagnola don Chisciotte è il mito della
libertà, e dell'essenza della Spagna, nei versi anarchici ed esaltati di
León Felipe. Si è detto che "ci sono tanti Amleti quante
malinconie".
La storia della cultura dimostra il costante rinnovarsi del mito di
don Chisciotte, per gli assetati di ideale e di giustizia di tutti i modi e di
tutte le confessioni. A.V.P
*) Estratto dal Dizionario delle Opere e dei Personaggi Bompiani – Opera immortale e insostituibile, dovuta
a Valentino Bompiani; la (v.) indica che le opere sono riportate nel
Dizionario.
Angel Valbuena Prat (1900-1977).
I LIBRI DI CAVALLERIA
DEL DON CHISCIOTTE
n Amadigi di Gaula: non si conosce precisamente
l’autore, è certo che il suo paese di origine non fosse la Spagna
e si ritiene provenisse dalle Fiandre o dalla Francia o più certamente
dal Portogallo essendo ritenuto suo autore il portoghese Vasco de Lobeira
vissuto tra il XIII e XIV sec.; inizialmente circolarono traduzioni spagnole e
nel 1525 Garzia Ordóñez de Montalvo ne fece una prima edizione; nel
1540 d’Herberey
pubblicò una traduzione francese poi caduta nell’oblio; il
conte di Tressan ne fece una libera imitazione; una traduzione italiana fu
stampata a Venezia nel 1572.
n Amadigi di Grecia di Feliciano de Silva (1491–1554) scrittore spagnolo
fu uno dei più importanti autori di romanzi cavallereschi nella prima
metà del XVI secolo.
Esordì nel 1514 con Lisuarte di Grecia, incentrato sulle vicende del
nipote di Amadigi di Gaula per poi scrivere nel 1530
Amadigi di Grecia, storia dell'omonimo cavaliere, figlio di Lisuarte e di
Onoloria di Trebisonda e paladino della Spada Ardente che ama e sposa,
nell’ordine, Lucilla di Francia, Nichea di Tebe e Wikip.
n Belianis de Grecia, di Jeronimo Fernandez (v. nota sopra).
Comentario de la guerra de Alemania hecha por Carlos V en 1546 y 1547,
máximo emperador romano, rey de España, di Luis de Avila y
Zúñiga; ù
pubblicato 1548, fu tradotto in francese, olandese, tedesco, italiano e
latino.
n Desengaño de celos (Disinganno della gelosia), di Bartolomé Lopez de Enciso.
n Diana, di Jorge Montemayor (Montemor-o-Velho) del 1520; la versione italiana
è, Torino 1561.
n Diana de Montemayor – Segunda parte: di Jorge di Montemayor.
n Diana enamorada, di Gaspar Gil Polo (1535-1591) v.
sopra.
n Don Cirongilio di Tracia, di Bernardo de Vergas, titolo completo: I quattro libri del valoroso don
Cirongilio di Tracia figlio del nobile re Elefron di Macedonia, scritto in greco e tradotto in latino
in Siviglia, 1545 (Google offre la bella edizione cinquecentesca della
Biblioteca Regia Monacensis, senza data).
n Don Olivante de Laura di Antonio de Torquemada (1507 c.ca–1569),
umanista, poeta e scrittore spagnolo,
studiò a Salamanca, visse in Italia fra il 1528 ed il 1530 dove fu
segretario di Antonio Alonso Pimentel; la paternità di quest’opera
gli fu attribuita da Cervantes.
n El Caballero de la Cruz (v. sopra in Cap. VI, Libro
dell’invincibile cavaliere Lepolemo e delle sue prodezze, che si chiamava
Cavaliere della Croce), di
Alonzo de Salazar con la sua continuazione Leandro
el Bel, di Pietro Lauro.
n El Cancionero (Il Canzoniere) di Gabriel Lopez Maldonado.
n Espejo de caballeria (Specchio
della Cavallería), di
Pedro López de Reinosa o di Santa Caterina.
n El Leon de España, poema
sugli eroi e i martiri dell’antico regno di Leon (1586) di Pedro de la
Vecilla Castellanos.
n El Monserrate di Cristobal de Virués.
n El pastor de Filidia, di Luis Gàlvo de Montalvo.
n El pastor de Iberia (1591), di Bernardo de la Vega.
n El verdadero suceso de la famosa batalla
de Roncesvalles con la muerte des los doce Pares de Francia (Il veritiero
successo della famosa battaglia di Roncisvalle con la morte dei dodici Pari di
Francia), di
Francisco Garrido de Villena, poeta spagnolo (1585).
n Espejo de caballerias (Specchio della
Cavalleria), di Pero López de Reinosa, o di Santa Caterina.
n Felismarte (o Felx Marte) di Ircania (1556) di Melchor Ortega Platir, cavaliere di Ubéda,
Valladolid 1556.
n Historia del valoroso cavaliere Tirante il
Bianco di
Joanot Martorell (1410-1465), considerato uno dei primi romanzi moderni della
letteratura europea.
n Historia de las hazanas y hechos del
invincibile caballero Bernardo del Carpio (Storia delle prodezze e dei fatti
dell’invincibile cavaliere Bernardo del Carpio), di Augustin Alonso.
n I Dieci libri della fortuna di Amore, di Antonio Lofraso, poeta sardo (Barcellona
1573).
n I Rimedi della gelosia” di Bartolomeo Lopez de Enciso, Madrid 1586.
n Il Canzoniere di Lopez Maldonado (Madrid 1586).
n Il Pastore d’Iberia di don Bernardo de la Vega di Tucuman,
Siviglia 1591.
n Il Pastore di Fidia di Luigi Galvez di Montalvo, Madrid
1582).
n I Rimedi della gelosia di Bartolomeo Lopez de Enciso, Madrid
1586.
n La Araucana, di Alonzo de Ercilla y Zúñiga (1533-1594), poeta, scrittore ed esploratore spagnolo, appartenente a una nobile famiglia di Biscaglia; era stato paggio dell'infante don Filippo poi Filippo II e all’età di quindici anni il re Filippo II in Italia e Germania; poi accompagnò la madre in Boemia, e visitò l’Austria, l’Ungheria, oltre all’Italia, Germania e Paesi Bassi, e fu presente (1554) al matrimonio di Filippo II con la regina Maria d’Inghilterra.
n La Austriada, di Juan Rufo Gutierrez (1547 c.ca-1620).
n La Carolea (1560) di Jéronimo Sempere, elogiata da Cervantes nel don
Chisciotte, ma considerata mediocre opera epica su Carlo V e Francesco I con
inizio dalla battaglia di Pavia e termine poco prima della rotta turca di Buda,
con figure allegoriche come la Fama e la Speranza; fu scritta anche
un’altra opera con lo stesso titolo diJuan de Ochoa de la Saide
(1585).
n La Galatea, romanzo pastorale di Miguel de Cervantes
Saavedra di maggior successo in
Spagna (con la Diana
del Montemayor e Diana enamorada di Gil Polo), e costituisce un piacevole, e nello
stesso tempo impegnativo esercizio letterario.
Diviso in sei capitoli; la trama è
data da due personaggi, Elicio ed Erastro innamorati della pastorella Galatea,
il cui padre aveva però deciso di darla in sposa a un pastore
forestiero. Elicio convoca allora tutti i suoi amici per cercare di convincerla
a cambiare idea. A questo punto il libro si interrompe e Cervantes avrebbe
dovuto scrivere la seconda parte che non fu scritta.
n Las lagrimas de Angélica, di Luis Barahona de Soto.
n Las sergas di Esplandiàn (Le
avventure di Esplandián), di
Garcìa Rodriguez de Montalvo (1450-1501).
n Le ninfe di Henares di Bernardo Gonzalez di Bobadilla,
Alcala, 1597.
n Los diez libros de Fortuna de Amor (I dieci libri della Fortuna dell’Amore), è
un romanzo di tema bucolico del poeta e militare sardo Antonio Lo Frasso
(1540-1600); Cervantes probabilmente aveva preso ispirazione per il nome di
Dulcinea del Toboso dal nome dei due pastori, che compaiono on
quet’opera, Dulcineo e Dulcina.
n Palmerin de Oliva, di Francisco Velasquez.
n Palmerin de Inglaterra di Francisco de Moraes, scrittore
portoghese (1500?-1572).
n Platir, attribuita a Francisco de Enciso Zarate (n. 1532)
n Primera parte de las ninfas y pastores di
Henares, di
Bernardo Gonzàles de Bobadilla (m. 1587).
n Segunda parte de la Diana di Jorge de
Montemayor, di
Alonzo Pérez (1550–1615).
n Storia del gran capitano Gonzalo Fernando
di Cordova con la Vita
di Diego Garcia Parades.
n Titolo completo: Cronica del gran capitan Gonçalo Fernandez de Cordova y Aguilar ne la
qual se cintienen las dos conquistas del Reyno de Napoles con las escarecidas
victorias que en ellas alcaço y los heredos illustres de Don Diego de Mendoça, don Ugo de Cardona, el Conde Pedro
Navarro y otros caballeros y capitanes de aquel tiempo. Con la vida del famoso
cavallero Diego Garcia de Paredes. Nuevamente añadida a esta historia
(Siviglia 1580).
n Tesoro de varias poesias- Tesoro di varie
poesie (Madrid 1575), di Pedro de Padilla (Talavera de la Reina
?–Granada, 1599),
generale e poeta spagnolo che nel 1571 combatté contro i turchi nella
Battaglia di Lepanto.
FINE