RIVISTA STORICA VIRTUALE
Bronzino - Cosimo I - Palazzo
Pitti - Firenze
LA CACCIATA DA FIRENZE
DI PIERO DE’ MEDICI
L’ASSASSINIO DI ALESSANDRO
E LA TIRANNIA DI COSIMO I
1494 # 1537
Michele E. Puglia
SOMMARIO: MORTE DI LORENZO IL
MAGNIFICO E SUCCESSIONE DEL FIGLIO PIERO; L’AMBASCERIA PRESSO IL RE CARLO VIII
DI FRANCIA; FIRENZE IN RIVOLTA E FUGA DI PIERO; L’ASSEDIO DI FIRENZE E LA
CAPITOLAZIONE; LA NUOVA COSTITUZIONE E L’ASSASSINIO DI ALESSANDRO; CELEBRAZIONE
DEL MATRIMONIO DI ALESSANDRO E MARGHERITA E UCCISIONE DI ALESSANDRO; SUCCESSIONE
DI COSIMO I E SUA TIRANNIA; LE VENDETTE DI COSIMO E LA MORTE DI FILIPPO STROZZI.
MORTE DI LORENZO IL MAGNIFICO
E SUCCESSIONE DEL FIGLIO PIERO
G |
erolamo Savonarola (v. Articoli:L’Europa verso
la fine del Medioevo, P. III Par. FàGerolamo
Savonarola) per dare l’assoluzione a Lorenzo il Magnifico (v. in Specchio
dell’Epoca: Congiura de’ Pazzi) in punto di morte, gli aveva chiesto tre cose:-
Se aveva fede nella misericordia di Dio; se era pronto a restituire ciò che
aveva illegittimamente acquistato, e se intendeva ristabilire la libertà
fiorentina e il governo popolare della repubblica.
Lorenzo alle prime due richieste rispondeva di
sentire nell’intimo del suo cuore la misericordia di Dio e che era disposto a
restituire tutto ciò che aveva acquistato illegittimamente, ma alla terza condizione
rispondeva di no; al che il frate andò via senza dargli l’assoluzione.
Morto Lorenzo (1492) gli succedeva Piero
(1472-1503), il maggiore dei suoi tre figli maschi. Degli altri due, uno era Giovanni
(n. 1475), il quale a sette anni era stato segretamente nominato cardinale da
papa Innocenzo VIII Cibo (1484-1492), e veniva eletto papa a trentotto anni (1513)
col nome di Leone X (morirà nel 1521 dopo soli otto anni di regno). Appena
eletto papa aveva concesso la porpora al cugino Giulio de’ Medici figlio
illegittimo di Giuliano (l’altro figlio di Lorenzo) che dopo il breve periodo
di regno di Adriano VI di Utrecht (1522-23) diveniva papa col nome di Clemente VII (1523-1534).
L’altro figlio di Lorenzo, era Giuliano, che
aveva raggiunto l’età di ventun anni e non era ancora in grado di governare, già
sotto il governo di Lorenzo, dai Consigli, era stato dispensato e dichiarato
idoneo a ricoprire la magistratura.
I vent’anni di quei tempi erano più che maturi
(ben diversi da quelli degli attuali bamboccioni),
e Piero era dedito ai piaceri della vita, aveva ereditato dal padre Lorenzo la
passione per l’arte e la passione per la raccolta di cammei e intagli, che Lorenzo lo incaricava di andare ad
acquistarli per ogni dove. Trovandosi ancora presso la corte Michelangelo
Buonarroti, essendovi stata d’inverno una forte nevicata, nel cortile del suo
palazzo Piero gli fece fare una statua, che a dire del Vasari era bellissima.
Piero era di media statura con petto e spalle
larghe amava curare il corpo e amava le donne; aveva forza e destrezza, amava
il gioco della palla, la lotta, gli sport equestri, e organizzava tornei e
rappresentazioni di finte battaglie per mostrare la sua bravura, pensando,
nelle intenzioni, di ingraziarsi a questo modo il popolo. Era sciolto nella
parola e contrariamente al padre, aveva una voce gradevole; insomma, nonostante
il giudizio negativo di alcuni storici, aveva dei talenti.
Aveva infatti vivacità d’ingegno e aveva
studiato lettere latine e greche con il maestro Angelo Poliziano, dal quale
aveva appreso l’arte di verseggiare in cui aveva facilità di improvvisazione.
Di carattere, avendo ereditato l’arroganza degli Orsini dalla madre Clarice e
dalla moglie Alfonsina, era orgoglioso e
s’infuriava quando veniva contraddetto.
Riteneva che la repubblica dovesse obbedire
ciecamente ai suoi ordini ma non si curava personalmente degli affari di
governo lasciandoli tutti nelle mani di Pietro Bibbiena, fratello del più
famoso letterato, che era stato segretario del padre, del quale si fidava ciecamente anteponendolo a tutti gli
altri magistrati della repubblica.
Piero era anche molto sospettoso,
particolarmente degli esponenti della famiglia che avrebbero potuto aspirare ad
occupare il suo posto. Vi era infatti un altro ramo della sua famiglia che
cominciava ad emergere per ricchezza, discendente dal fratello del vecchio
Cosimo, Lorenzo, i cui rappresentanti erano i due nipoti. figli di Pier
Francesco (che assunsero il nome di Popolani),
Lorenzo, detto Lorenzino (1463-1503) e Giovanni (1467-1498).
Piero aveva pensato di eliminarli ma i loro
amici a stento erano riusciti a convincerlo di lasciarli in vita in una villa
di Firenze dove potevano essere sorvegliati e quando i due fratelli vi si
trasferirono, il popolo fiorentino per mostrare la propria disapprovazione, li
aveva accompagnati.
L’AMBASCERIA PRESSO
IL RE CARLO VIII DI FRANCIA
I |
n quel tempo Firenze, con Milano, Venezia e
Roma, era uno dei quattro Stati che
aveva firmato un patto di difesa nei confronti di eserciti oltremontani in caso
di invasione (Bagnolo 1484: v. in Specchio dell’Epoca: cit. Congiura dei baroni;
e Roma 1486), e Ludovico il Moro aveva proposto di rinnovare questi accordi che
la vanità di Piero mandò a monte.
Infatti Piero doveva essere uno degli
ambasciatori che si sarebbero dovuti recare dal papa a Roma e voleva
presentarsi con tutta la pompa e lo sfarzo di cui sarebbe stato capace un
principe rinascimentale rappresentante di una grande famiglia e avrebbe sfoggiato
gioielli ereditati dal padre, di cui sarebbero stati ornati i paggi e i
valletti e uno di questi avrebbe indossato una collana del valore di
duecentomila fiorini. Per due mesi la casa di Piero era stata invasa da sarti,
ricamatori e tappezzieri per i preparativi.
Piero avrebbe voluto fare anche sfoggio anche
della sua eloquenza, parlando davanti al papa, ma questo suo ambizioso
desiderio non era condiviso da Ludovico Sforza secondo il quale avrebbe dovuto
parlare solo uno degli ambasciatori, che era quello di Ferdinando, re di
Napoli. Piero però era riuscito ad accordarsi con Ferdinando per assecondare questa
sua ambizione e lasciar parlare lui.
Era l’epoca (non che le cose siano oggi
cambiate!) dei reciproci sospetti che insorgevano anche per una semplice
banalità e Ludovico il Moro fu insospettito da ciò che Piero aveva potuto
ottenere dal re di Napoli. Facendo indagini Ludovico scoprì l’esistenza di una
lega tra Firenze e Napoli, lega che egli pensò fosse in suo danno e avrebbe potuto portare scompiglio nei
delicati equilibri italici.
A convincere Ludovico, vi era stata la vendita
da parte di Franceschetto Cibo (figlio del papa Innocenzo VIII e marito di
Maddalena sorella di Piero), dei feudi di Anguillara e Velletri a Virginio Orsini, cognato
di Piero e parente del re Ferdinando (che avrebbe potuto comportare il
passaggio diretto di truppe dal regno di Napoli alla Toscana), e tanto bastò a
Ludovico per far saltare l’ambasceria.
Ciò servì a far sottoscrivere un altro patto
tra Milano, Venezia e il papa Alessandro VI (1493) al quale poi si aggiunse
Ercole III duca di Ferrara, per mantenere la pace in Italia (particolarmente
contro le mire di conquista da parte del re Ferdinando).
Quando Carlo VIII scese in Italia (1494, v.
Articoli: L’Europa verso la fine ecc., P. IV) i due fratelli Lorenzo e Giovanni
ne approfittarono per supplicarlo di eliminare il governo inviso alla
maggioranza dei cittadini. Dal suo canto Piero aveva negato il passaggio a
Carlo, ma vedendosi in cattive acque con gran parte della popolazione in
fermento, e non essendo in condizioni di affrontare una guerra, ritenne
opportuno firmare la pace con i francesi. “Egli”,
scrive Sismondi, “pensava di imitare il
padre che aveva fatto la pace con il re Ferdinando che spesso aveva sentito
lodare, ma non sapeva che per imitare un grand’uomo occorrerebbe avere la sua
mente per valutare le circostanze, e la sua fermezza per evitare i pericoli”.
Piero quindi fece nominare degli ambasciatori,
di cui egli stesso faceva parte, per andare a trattare con Carlo, ma
l’ambasceria rimase bloccata in quanto sfornita di salvacondotto, per cui solo
Piero potette proseguire, accompagnato da due signori della corte francese
(Brichonnet e Pennes) che lo accompagnarono alla presenza del re. Piero cercò
di giustificare il diniego del passaggio ricordando che esisteva un trattato
con il re di Napoli, approvato da Luigi XI, e che egli non opponendosi, si
sarebbe esposto alla vendetta degli aragonesi. Piero proseguiva dicendo
che, non vedendosi al momento esposto ad
alcun pericolo, poteva dar prova della sua devozione alla casa di Francia
accordando il passaggio.
Il re senza troppi preamboli chiese che gli
fosse consegnata la città di Salzanello e avendo Piero acconsentito con
facilità, il re alzò la posta e gli chiese la consegna di Pietra Santa,
Librafatta, Pisa e Livorno. Piero, conoscendo l’ostilità della corte francese
nei suoi confronti, per ingraziarsela ritenne di non sottilizzare sulle
richieste e contro le aspettativa dei francesi che su una posta così alta si
aspettavano un rifiuto, Piero aderì ordinando la consegna delle città senza richiedere
alcuna garanzia per la loro restituzione, dopo il passaggio dell’esercito. Non
solo! Ma il re gli chiese un prestito di duecentomila fiorini, assicurando che avrebbe
firmato un trattato di pace. Tutti questi accordi però furono presi verbalmente
e nel frattempo venivano aperte le porte delle fortezze di Pisa, con sdegno degli
altri ambasciatori che nel frattempo erano sopraggiunti, i quali ritenevano che
già sarebbe stato concedere tanto, se si fosse consentito il solo passaggio
dell’esercito.
FIRENZE IN RIVOLTA
E FUGA DI PIERO
I |
fiorentini, avendo saputo delle concessioni fatte al re,
erano ancora più sdegnati dei loro ambasciatori. Essi accusavano Piero di
comportarsi come signore e non come primo cittadino, avendo fatto concessioni
che né il padre Lorenzo e neanche il vecchio Cosimo avevano mai fatto. Gli rimproveravano
anche di non partecipare alle sedute del Consiglio, di aver calpestato con
impudenza le leggi della repubblica e di arrogarsi una autorità che non gli era
mai stata concessa.
Piero, avendo saputo che la città era in
fermento, pensò di rientrare in tutta fretta per poterla mantenere ubbidiente.
Rientrato di sera (8-XI-1494), trovò gli amici
in grande apprensione e decise di recarsi la mattina seguente al palazzo della
Signoria, ma giuntovi al mattino lo trovò chiuso come si faceva tutte le volte
che in città vi erano tumulti. La Signoria aveva deciso di non riceverlo e gli
aveva mandato il gonfaloniere Jacopo de’ Nardi per comunicarglielo, incaricando
anche il priore Luca Orsini di stazionare davanti al palazzo per impedirgli di
entrare.
Piero non volle forzare la mano e si ritirò
nel suo palazzo chiamando in aiuto il cognato Paolo Orsini con i suoi armigeri,
ma il messaggero che aveva mandato era stato fermato e i cittadini si radunarono
armati in piazza della Signoria pronti ad intervenire.
Il cardinale Giovanni che sosteneva il
fratello, si mise a girare con i suoi uomini per la città urlando “palle, palle” (che era il grido di
chiamata del popolo da parte dei Medici), ma nessuno si mosse, non solo, ma il
cardinale fu fermato a metà di via dei Calzaiuoli, mentre si sentivano urla
contro i Medici. Nel frattempo era giunto Paolo Orsini con i suoi che si erano
uniti a Piero e al fratello Giuliano e, ritirati verso porta san Gallo,
cercavano di sollevare gli artigiani del quartiere ai quali distribuivano
denaro, ma avendo sentito solo minacce nei loro confronti e sentendo la campana
suonare a stormo, se ne uscirono dalla città e le porte furono chiuse alle loro
spalle.
Il cardinale Giovanni riuscì a scampare al
tumulto travestendosi da monaco e raggiungendo i fratelli sull’Appennino dove i
soldati di Orsini, assaliti dai contadini, si sbandarono.
Piero e i fratelli, invece di recarsi dal re
Carlo, dopo essersi separati da Paolo Orsini che aveva ritenuto fosse meglio
non rimanere uniti, decisero di recarsi a Bologna da Giovanni Bentivoglio che
non apprezzando quella fuga, aveva detto a Piero: “Se un giorno ti dicessero che Giovanni Bentivoglio è stato scacciato da
Bologna non crederlo, ma credi piuttosto che prima di cedere si è fatto
tagliare a pezzi dai suoi nemici”.
“Non
sapeva Bentivoglio”, scrive lo storico, “che spesso non si può scegliere la morte desiderata perché giunse anche
per lui il tempo dell’esilio e nonostante la sua risolutezza, finì i suoi
giorni lontano dalla patria e dal principato”.
Usciti i Medici, la Signoria fece confiscare
tutti i beni dei ribelli e stabilì un premio di cinquemila ducati per coloro
che portassero vivi i ribelli e di duemila ducati per quelli che li portavano
morti, mentre dispose la restituzione
dei beni a tutte le famiglie che erano state vessate dai Medici. I due figli di
Pier Francesco, ritornarono in città e fecero cancellare le sei palle dagli
stemmi, sostituite dalla croce guelfa, d’argento in campo rosso, e scambiarono
il nome Medici con Popolani.
Nel frattempo il re Carlo con l’esercito e in
gran pompa fece il suo ingresso in Firenze (verrà ospitato nel palazzo Medici
di via Larga, da dove fu trafugato tutto ciò che avesse valore), sul suo
poderoso cavallo, con la lancia appoggiata sulla coscia, e, durante le
trattative che erano seguite, Carlo pretendeva di aver acquisito, con il suo
ingresso con l’esercito, la signoria della città in quanto, a suo dire, questo
era l’uso francese. Non solo, ma il re pretendeva di lasciare dei magistrati
(c.d. de roba lunga-di toga, portata
da magistrati) che avrebbero avuto autorità con giurisdizione francese.... e
ciò in perpetuo!
A queste trattative partecipava Pier Capponi
il quale mentre il segretario del re leggeva tutte le condizioni imposte dal
sovrano, ebbe l’ardire in presenza del re, di togliere di mano al segretario il
documento e strappandolo dire la famosa frase: “Poiché si chiedono cose così disoneste, suonerete le vostre trombe e
noi suoneremo le nostre campane”, e Capponi e i suoi compagni uscì dalla
sala. Questa audacia intimorì i francesi che pensarono che i fiorentini fossero
pronti a risolvere la questione con le armi.
Richiamato Capponi, che il re conosceva perché
aveva partecipato a una precedente ambasceria in Francia, si concordò che
dimenticate tutte le ingiurie e offese precedenti, la corona di Francia avrebbe
accordato a Firenze, come confederata, protezione perpetua. A garanzia di
questi accordi rimanevano nelle mani del re le città di Pisa, Livorno con tutte
le fortezze, da restituire senza alcuna spesa dopo la conquista del regno di
Napoli.
Gli accordi prevedevano numerose clausole tra
le quali il versamento di centoventimila fiorini e per quanto riguardava Piero
de’ Medici e i fratelli la revoca del bando e della confisca, a condizione che
Piero non potesse avvicinarsi per cento miglia ai confini del territorio
fiorentino (che comportava l’esclusione di risiedere a Roma) e che i fratelli
non potessero accostarsi per cento miglia da Firenze.
Piero si recava quindi a Venezia per chiedere
consiglio al Senato. In proposito Guicciardini si chiede: “Che certezza può avere chi domanda consiglio, di essere fedelmente
consigliato? Perchè, prosegue lo storico,
chi dà il consiglio se non è fedele o affezionato a chi lo chiede, è mosso non
solo da un forte interesse, ma per ogni suo piccolo comodo, per ogni leggera
soddisfazione indirizza spesso il consiglio a quel fine che più gli torna
comodo o che di più se ne compiace; ed essendo il più delle volte questi fini
sconosciuti a chi chiede di essere consigliato, non si accorge, se non è
prudente, dell’infedeltà del consiglio”.
Così accadde che i veneziani ritenendo che
Piero recandosi da Carlo avrebbe facilitato i suoi disegni (ma per loro avrebbe
comportato solo qualche modesto vantaggio) gli consigliarono di non mettersi
sotto la protezione del re che da lui si riteneva ingiuriato. E per dargli
maggior motivo di seguire il loro consiglio, si offrirono di appoggiarlo e di
prestargli - quando fosse giunto il momento - (...!) - ogni aiuto per
riportarlo al governo. E non contenti di questo, per assicurarsi che non
andasse via da Venezia...gli misero al seguito delle guardie segrete!
Nel frattempo Firenze è governata dal governo
repubblicano con nomina (1497) del gonfaloniere Pietro Valori al quale succede
nella carica Bernardo del Nero che era stato intimo di Lorenzo il Magnifico,
tanto che Piero lo considerava come un padre.
I partigiani fiorentini di Piero desideravano
il suo ritorno e Piero volle tentare la fortuna e si recò a Siena. dove
governava Francesco Petrucci che gli era favorevole e gli mise a disposizione ottocento
cavalli e tremila fanti al comando di Bartolomeo d’Alviano. A tappe forzate, di
notte e per strade secondarie, in sei giorni raggiunsero porta Romana che Piero
riteneva di trovare incustodita. Ma questa era difesa da Paolo Vitelli.
L’esercito fiorentino comandato da Ranuccio da
Marciano, si trovava ai confini del territorio pisano e fu immediatamente
richiamato. Piero dopo essersi trattenuto quattro ore presso la porta senza
avere il coraggio di assaltarla, avendo visto che dalla città non gli giungeva
nessun aiuto, pensò di ritirarsi.
In Firenze Nicolò Ridolfi il cui figlio Piero aveva
sposato Contessina de’ Medici (altra sorella di Piero), Lorenzo Tornabuoni, suo
parente, Giovanni Combi e Giannozzo Pucci, dei quali Piero si era servito per i
propri interessi, furono accusati di aver chiamato Piero promettendogli di
aprire una porta della città. Bernardo del Nero fu accusato di aver avuto sentore
della trama e non averla rivelata, a maggior ragione del fatto che era
gonfaloniere di giustizia e la carica lo obbligava più di tutti gli altri
cittadini a vigilare sulla salvezza della repubblica.
Trattandosi di questione politica, parve
conveniente alla signoria ricorrere a un processo. Furono quindi radunati tutti
i principali magistrati dello Stato: i capitani di parte guelfa, i conservatori
delle leggi, gli ufficiali del Monte di Pietà e il Consiglio dei richiesti
(vale a dire dei centosessanta eletti per l’esame della procedura). Questa
assemblea, nelle forme legali, richiese al tribunale di giustizia di condannare
alla pena di morte gli accusati e
confiscarne i beni (17-VIII-1497).
Gerolmo Savonarola (v. Articoli: cit. L’Europa
ecc. P. III, cit. par. Frà Gerolamo Savonarola),
aveva fatto approvare una legge in base alla quale i condannati in primo grado
potevano appellarsi all’assemblea dei cittadini. In base a questa legge i condannati dichiararono di volersi appellare ad
essa, sicuri che sarebbero stati prosciolti.
“La
giustizia”, commenta Sismondi, “a Firenze non era mai stata imparziale e con
questo appello lo stesso governo, nel caso di un suo accoglimento, sarebbe
risultato perdente e ciò avrebbe determinato la sua caduta”. Il Consiglio dei richiesti si radunò nuovamente
(21-VIII) per decidere sull’appello e il partito della libertà si espresse più
fortemente contro l’esecuzione.
Francesco Valori e i seguaci di Savonarola, si
mostrarono contrari all’appello al popolo in quanto ritenevano che se i
cospiratori fossero stati assolti, i Medici sarebbero rientrati in Firenze.
La Signoria, all’unanimità era del parere di respingere
l’appello. Il gonfaloniere Domenico Bartoli, in violazione delle regole,
suggerì che per evitare i pericoli di una decisione del popolo contraria, si
potesse eseguire la sentenza quella notte stessa. La questione fu messa ai voti
a scrutinio segreto, e fu anche ripetuta, e a seguito delle minacce rivolte a
chi si mostrava favorevole all’appello, che sarebbero state saccheggiate le
loro case, l’appello fu rigettato all’unanimità e la sentenza di morte fu
eseguita la stessa notte (21-VIII-1497).
Due anni dopo (1499), per altra causa (la
guerra di Firenze contro Pisa) la Signoria sentenziò la decapitazione del
capitano Paolo Vitelli che non aveva ben condotto la guerra, accusato di
tradimento.
Piero che seguiva le truppe francesi e dopo la
disfatta ad esse inferte dalle truppe spagnole comandate da Consalvo da Cordova
nella battaglia del Garigliano, si trovava a Gaeta e per salvarsi si imbarcò su
un battello che attraverso il fiume Liri si dirigeva verso il mare. Quando il
battello giunse alla foce, il mare era in tempesta e per il peso delle macchine
da guerra che trasportava, il battello sbattuto dalle onde affondò e Piero morì
affogato (1503).
Chi ricordava che Piero al momento della morte
del padre Lorenzo aveva gettato in un pozzo il medico Leoni che lo curava e non
era stato in grado di salvarlo, e tutti gli altri che avevano da piangere un
lutto nella propria famiglia da lui causato, certamente avevano pensato che
quella morte era stata ben meritata.
L’ASSEDIO DI FIRENZE
E LA CAPITOLAZIONE
D |
opo il sacco di Roma (1527), di tutti i tredicimila
lanzichenecchi (v. Articoli. Carlo V ecc. P. IV) che erano calati in Italia con
Giorgio Frundsberg, tra quelli caduti durante i
combattimenti e durante la peste e gli altri morti per fame (Napoli) ne
erano rimasti tremilacinquecento, ai quali si aggiunsero cinquemila spagnoli al
comando del marchese del Guasto. Altri spagnoli erano sbarcati a Genova al
comando di Pietro Velez de Guevara; si formò un esercito di quarantamila
soldati sotto il comando del principe Filiberto d’Orange, ai quali si aggiunse
ancora un corpo di calabresi comandato da Fabrizio Maramaldo e un altro del
pontefice arruolato in Romagna, comandato da Ramazzotto.
Questo numeroso esercito era sparso sul
territorio della Toscana. A Firenze le varie fazioni continuavano a litigare e
alla fine il comando delle forze disponibili fu affidato a Malatesta Baglioni il
quale, mentre sembrava fosse contrario al papa perché suo padre era stato
mandato a morte dal papa Leone X, in
effetti, tradendo la fiducia che era stata risposta in lui, parteggiava
per il papa come dimostrarono i fatti.
Il principe d’Orange mise sotto assedio la
città (24-X-1529) e questo assedio durò dieci mesi e cedette per il tradimento
di Malatesta Baglioni (12-VIII-1530). A nulla erano valse le preghiere dei
seguaci di Savonarola che predicavano che
se le mura fossero state assaltate dagli imperiali, sarebbero state difese da
Cristo che essi avevano nominato loro re...e se anche gli imperiali le avessero
conquistate, gli angeli sarebbero scesi a scacciarli con le spade infuocate (!).
Non si rendevano conto gli ingenui frati che le guerre sono sempre state vinte
con le armi e mai con le preghiere o dagli angeli scesi dal cielo!
Baglioni, essendosi reso conto di non poter
salvare la città stremata dalla fame e dalla peste, aveva condotto trattative
segrete con il principe d’Orange e con il papa, e alla Signoria che lo
sollecitava a combattere aveva risposto con un rifiuto “appoggiato da un grosso partito formato da pusillanimi ed egoisti che
desideravano una vita tranquilla; dall’aristocrazia che non voleva esporsi ad
ulteriori pericoli di un governo popolare; dai partigiani dei Medici che
aspettavano il loro ritorno”, con la
conseguenza, commenta Sismondi, “che
i sostenitori di questo partito avevano dato ad alcuni storici la possibilità
di considerare il tradimento di Baglioni come un merito”.
Baglioni aveva aperto il suo bastione al
capitano imperiale Pirro Colonna di Stipicciano, aveva disarmato la guardia
fiorentina della porta Romana e aveva rivolto le artiglierie destinate a
difendere le mura, contro la città
Firenze
e tutta la Toscana oltre ad essere state provate dalla peste, dalla fame
e dalla guerra ed anche dalle devastazioni e dai saccheggi, per cui un giudizio
su Malatesta Baglioni in effetti poteva essere in ogni caso contrastante, nel
senso che il suo gesto poteva essere
considerato sia meritorio sia un tradimento.
Dopo la resa
furono sottoscritti accordi in base ai quali i fratelli Medici e il papa
dimenticando le ingiurie subite dai fiorentini, i Medici sarebbero stati
accolti come bravi cittadini e in cambio “i
fratelli Medici e il papa avrebbero mostrato la propria pietà e clemenza”!
Questi accordi furono firmati da Ferrante
Gonzaga, governatore dell’esercito imperiale, subentrato al principe d’Orange
(caduto a Gravinana dove Francesco Ferrucci era stato ucciso da Fabrizio Maramaldo) e da Baccio Valori,
generale dell’esercito del papa, per la città, Bardo Altoviti, Jacopo Morelli,
Lorenzo Strozzi e Pier Francesco Portinari, e l’ambasciatore imperiale
Belanzone.
Firmata la pace, contrariamente agli accordi,
si diede sfogo alla violenza vendicatrice.
A molti fu tagliata la testa, tra gli altri anche
ad alcuni che avevano fatto parte di precedenti governi, come il gonfaloniere
Carducci e Bernardo Castiglione; altri furono gettati nelle prigioni in fondo alle
torri. Centocinquanta cittadini furono mandati al confine per tre anni e
passati tre anni la balìa li confinò in altri luoghi più disagiati. Costoro con
altri fuggitivi davano la tangibile dimostrazione di quale fosse stata la
clemenza del papa. Il papa che non aveva mandato nessun suo rappresentante per
non essere direttamente incolpato, lasciava operare Bartolomeo Valori, Francesco
Guicciardini, Francesco Vettori e Roberto Acciajuoli.
“Ma di tutte
le crudeltà e malvagità”, scrive Botta, “il primo ispiratore era Francesco Guicciardini che non si sa se lo
facesse perché a ciò spinto dalla sua natura o perché avesse in odio i popolani,
perché il governo popolare non gli aveva concesso le cariche che egli riteneva
di meritare. Gucciardini”, prosegue Botta, “era uno di quegli uomini che in ogni epoca ritengono che non essere
chiamati a dominare lo Stato, sia un’ingiustizia”.
Per accontentare il papa, Carlo V aveva
predisposto un editto pubblicato il giorno successivo a quello in cui Alessandro
(nipote di Piero, 1511-1537) aveva fatto il suo ingresso in Firenze
(5-VII-1531), e portato dalla delegazione imperiale con a capo Giovanni Antonio
Muscettola, che ordinava che “la famiglia
de’ Medici, in virtù della capitolazione firmata dalla repubblica e il duca
Alessandro (il titolo gli era stato concesso dall’imperatore per il suo
prossimo matrimonio con Margherita, sua
figlia naturale v. sotto), suo
dilettissimo genero, dovevano esser ricevuti e accettati in città e nella loro
casa, con la stessa autorità e preminenza che avevano prima di essere cacciati
e che lo Stato doveva essere riformato e le magistrature ricostituite com’erano
prima del 1527 e che il duca Alessandro fosse posto a capo di tutti gli uffici
e magistrature per tutta la sua vita”.
Questo per il periodo in cui Alessandro era in
vita; nel caso di morte era prevista la successione dei discendenti maschi
sulla base della primogenitura, e venendo a mancare gli eredi maschi, la
successione avrebbe seguito la linea originaria dei due fratelli Cosimo il
Vecchio (1389-1429) e Lorenzo (1395-1449) nella persona di Lorenzo, detto
Lorenzino (1514-1548) che troveremo più avanti.
L’editto imperiale comunque non accordava alla
casa de’ Medici prerogative diverse da quelle del 1527.
LA NUOVA COSTITUZIONE
E L’ASSASSINIO DEL CARDINALE
IPPOLITO DE’ MEDICI
I |
l papa aveva inviato precise istruzioni
scritte a Bartolomeo Valori, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Filippo
de’ Nerli e Filippo Strozzi i quali chiesero alla balìa (4-IV-1532) la nomina di un Consiglio di dodici cittadini che
dovevano essere incaricati della riforma dello Stato e della città di Firenze, per
la quale si doveva escludere il termine “repubblica”.
Questo Consiglio avrebbe dovuto apprestare la riforma nel periodo massimo di un
mese, ma essendo stato tutto previsto dal papa, si impiegarono solo pochi
giorni (27-IV-1532).
La riforma aboliva per sempre il collegio della Signoria e il gonfaloniere che erano le
magistrature più antiche, nelle quali la Signoria
possedeva l’autorità e il gonfaloniere
la rappresentava. Alessandro veniva dichiarato capo e principe dello Stato
al quale era riconosciuto il titolo di duca (doge), trasmissibile agli eredi.
Ai duecento membri della balìa si
aggiungevano altri due Consigli, uno di cento
membri che sarebbero stati nominati direttamente da Alessandro e l’altro
chiamato senato composto da quarantotto membri, eletti dai primi, che dovevano
avere un’età superiore a trentasei anni.
Ogni tre mesi,
da un quarto di questo senato sarebbero stati eletti quattro consiglieri
che avrebbero rappresentato il governo con funzioni onorarie nelle
manifestazioni ufficiali, mentre la rappresentanza del governo dello Stato
apparteneva al doge o in suo luogo al luogotenente. Le proposte di legge potevano
esser fatte al Consiglio, solo dal doge o dal suo luogotenente.
Il capo assoluto era il doge di Firenze (al quale doveva essere riconosciuto un appannaggio
di ventimila fiorini d’oro) e Alessandro, per sottolineare la sua carica lasciò
il suo palazzo e andò ad abitare nel palazzo della Signoria dove per prima cosa
fece eliminare il simbolo della vecchia repubblica, la campana grossa, con la
quale venivano convocati il popolo e i membri del consiglio e del parlamento.
Nel palazzo, a tutela della sua persona mise una guardia formata da soldati forestieri
comandata da Alessandro Vitelli di Città di Castello che odiava i fiorentini e
il governo popolare che avevano sottoposto a supplizio e giustiziato il padre
Paolo Vitelli.
Alessandro aveva disposto il divieto dell’uso delle armi, sia per offesa
che per difesa, facendole togliere anche dalle case dei cittadini, e chi ne veniva
trovato in possesso era condannato a morte con confisca dei beni. Rafforzò
sulle rive dell’Arno un bastione che poteva servirgli da rifugio in caso di
sollevazione popolare, e per maggior sicurezza fece costruire (1534) una
fortezza in prossimità di porta Faenza.
Diede disposizione che le cause criminali
fossero trattate in segreto; a queste sovrintendevano il vescovo di Scesi e il
cancelliere ser Maurizio, milanese, uomo
crudele che odiava i fiorentini e che commetteva ogni sorta di arbitri.
Costoro, prima che venisse emesso il verdetto,
ne informavano il duca la cui decisione era riferita al magistrato incaricato
che l’adottava. Alessandro fece quindi eliminare dalle monete il simbolo della
repubblica, il giglio, sostituito dalle palle medicee e sull’altro verso
l’immagine di s. Giovanni Battista fu sostituito dai protettori del casato ss.
Cosma e Damiano.
Non mancavano gli atteggiamenti arroganti del
tiranno: Alessandro di giorno andava in giro per la città in farsetto con un gruppo
di scagnozzi e suo compagno nelle dissolutezze era il nipote Lorenzo, detto
Lorenzino, poi Lorenzaccio (figlio di Pier Francesco, del ramo cadetto dei Medici),
così chiamato, nel primo caso perché era minuto nella persona, nel secondo dopo
l’uccisione di Alessandro.
Di notte Alessandro andava in giro mascherato,
accompagnato da Giomo da Carpi, uomo di malaffare e dal suo cameriere Unghero
provocando risse e tafferugli in cui le
dava, ma anche le prendeva, e ogni tanto qualcuno rimaneva ammazzato.
Alessandro non mostrava alcun rispetto per le
donne; anche le più rispettabili erano oggetto della sua libidine e in questo
Lorenzino lo invogliava e non si sa bene se
lo facesse per semplice gusto o per farlo maggiormente odiare dalla
popolazione. Di notte scalavano i monasteri femminili, in particolare quello di
san Domenico e la notte la passavano tra stupri e violenze.
Tra tante prepotenze non potevano mancare i
veleni. Era morta avvelenata Luisa Strozzi figlia di Filippo, moglie di
Giuliano Capponi, nota per la sua bellezza. In una festa Alessandro le aveva
chiesto di possederla, ma lei gli aveva risposto in maniera superba e sdegnosa.
Dopo questo avvenimento era morta: non si sa bene però da chi fosse stata avvelenata; si era
sospettato di Alessandro, ma anche degli stessi parenti che non avevano voluto
che la loro onorabilità e quella della intera famiglia fosse macchiata da questo
disonore.
Il papa al quale giungevano le lamentele dei
fiorentini non se ne curava. Le sue ambizioni erano illimitate perché il solo
titolo di duca per Alessandro e le sue funzioni di capo della repubblica non
gli bastavano, perché voleva che il figlio fosse principe assoluto.
La nipote Caterina de’ Medici era riuscito a
farla sposare (1533) al secondogenito di Francesco I, Enrico d’Orleans, che per
un colpo di fortuna (la morte a volte può costituire una fortuna per chi rimane
in vita), diventerà re di Francia (ma Caterina che saprà far bene la regina,
sarà sempre considerata dagli altezzosi francesi una “mercante”).
Clemente VII sapeva di poter ottenere tutto da
Carlo V timoroso che il papa potesse appoggiare il suo acerrimo nemico
Francesco I (v. Articoli: Carlo V tra Rinascimento, ecc.).
Morto il
papa Clemente VII (1534) gli succedeva Paolo III (Alessandro Farnese:1534-1549),
nemico dei Medici e in particolare di papa Clemente VII al quale addebitava la
colpa di averlo privato di undici anni
di regno. Paolo III infatti riteneva che avrebbe dovuto essere stato lui ad essere
eletto al suo posto e detestava anche Alessandro il quale ora, con la morte del
padre, veniva a perdere ogni protezione, ma nella sua arroganza Alessandro non
se ne curava.
I cardinali fiorentini erano quattro (Salviati,
Ridolfi, Gaddi e Ippolito de’ Medici) tutti nemici di Alessandro, e tra costoro
il peggior nemico era Ippolito che si
riteneva aspirasse a prendere il posto di Alessandro.
Ippolito (1511-1535) sebbene giovane era un
personaggio dalla cultura notevole (aveva tradotto il secondo libro dell’Eneide
e i Proloquia di Ippocrate sull’arte
medica, per la sua utilità in guerra), amava la poesia ma era anche esperto di
musica e suonava diversi strumenti musicali. A Roma viveva nel lusso più
sfrenato: allestiva spettacoli teatrali, amava la caccia e aveva un allevamento
di cavalli e cani costosissimo; offriva banchetti nei boschi; il suo palazzo
era frequentato da persone di diverse razze e costumi: numidi di sangue reale
che destavano meraviglia per il loro modo di cavalcare e per le acrobazie che
facevano saltando da un cavallo all’altro; tartari che erano arcieri provetti;
etiopi esperti lottatori: turchi esperti nella guerra, che Ippolito aveva anche
nella sua guardia del corpo.
Ad Ippolito si erano uniti altri personaggi
che pur avendo parteggiato per i Medici, ora erano contro Alessandro, tra i
quali vi erano gli Strozzi (i più ricchi d’Europa),Valori, Ridolfi e Salviati
(fratelli dei cardinali), costoro avevano mandato dei rappresentanti in Spagna
dall’imperatore al quale chiedevano di
far cessare le crudeltà, gli abusi ed arbitri che si commettevano a Firenze.
Carlo meravigliato di quanto gli riferivano, fece sapere che avrebbe preso una
decisione al suo ritorno dalla campagna contro i turchi. Dopo l’impresa di
Tunisi (v. cit. Articolo: Carlo V ecc.), Carlo venne in Italia e si fermò prima
a Napoli e poi andò a Roma.
Il cardinale Ippolito si stava recando dall’imperatore
che con la flotta era sulle coste di Tunisi e Ippolito doveva imbarcarsi a Napoli.
Si era fermato a Itri da dove andava a Fondi a trovare Giulia Gonzaga (vedova
di Vespasiano Colonna), famosa per la sua bellezza (all’epoca aveva
ventiquattro anni), di cui Ippolito era innamorato. Improvvisamente Ippolito fu colpito da dolori,
febbre e dissenteria e nel giro di tredici ore perse la vita. Con Ippolito morirono
anche i compagni che lo accompagnavano Dante di Castiglione e Berlinghiero
Berlinghieri.
Il veleno era il protagonista del Rinascimento
e queste morti furono attribuite al veleno, ma gli storici in proposito non
sono concordi, perchè Giovio lo esclude attribuendo la morte dei tre al clima
autunnale (meglio malaria che colpiva
chi si recava in quelle zone paludose) e lo storico escludeva in modo assoluto
qualsiasi responsabilità di Alessandro. Per altri il veleno gli sarebbe stato dato
dal suo cameriere-scalco Giovan-Andrea che se ne tornò a Firenze e riparò nel
palazzo di Alessandro, e dopo non molto tempo perse anch’egli la vita. Tra i
sospettati vi fu anche il papa Paolo III
il quale desiderava dare ai suoi nipoti i ricchissimi benefici e incarichi di
cui Ippolito godeva a Roma: infatti appena morto Ippolito nominò cardinale suo
nipote Alessandro Farnese di appena quattordici anni.
CELEBRAZIONE DEL MATRIMONIO DI
ALESSANDRO E MARGHERITA
MORTE DI ALESSANDRO
A |
lessandro si recò a Napoli dall’imperatore
accompagnato da Guicciardini che fungeva da suo difensore, Acciajuoli e
Strozzi, dove si trovavano rappresentati i due partiti a lui favorevoli e
contrari. I capi degli esiliati Filippo Parenti e Jacopo Nardi avevano avuto
l’impressione di essere stati ben accolti dai ministri dell’imperatore, ma
presto si dovevano ricredere perché gli fu richiesto di mettere per iscritto
tutte le accuse circostanziate e fu istruito un vero e proprio processo e
Guicciardini ebbe modo di confutare punto per punto le accuse avversarie.
Alla fine l’imperatore sorvolò sulle denunce
per vari motivi: Carlo aveva in odio le repubbliche e maggiormente i popoli che
aspiravano alla libertà e diffidava particolarmente dei fiorentini che erano
sempre stati vicini alla Francia con la quale egli stava per iniziare una
ennesima guerra. Infatti da poco era morto Francesco Sforza (v. Articoli: L’Europa
verso la fine del medioevo, Cap. IV par. Ducato di Milano) e si apriva la
questione della successione con le mire di Carlo V su quel territorio che gli
consentiva il passaggio diretto per i suoi territori tedeschi. Carlo quindi
avrebbe potuto aver bisogno di Firenze e si decise a far celebrare il
matrimonio della figlia Margherita, per il quale aveva anche ricevuto una ingente somma.
La sentenza emessa dall’imperatore (1536)
disponeva che gli esiliati e i fuoriusciti dovessero essere richiamati in
patria e rimessi nel possesso dei loro beni e possedimenti confiscati e dovessero
essere garantiti nelle persone. Nulla veniva disposto in merito alla
costituzione dello Stato e nessuna garanzia e privilegio erano stati accordati
al popolo.
Il matrimonio tra Margherita d’Asburgo e Alessandro
ebbe luogo a Napoli (26-II-1536), dove Alessandro aveva dato l’anello alla
sposa, mise fine ad ogni ulteriore contestazione.
Carlo Botta in proposito si era espresso in
termini poco lusinghieri, scrivendo: “il bastardo
di un pontefice doveva sposare la bastarda di un imperatore. Rimasta vedova fu
ambita da un Cosimo de’ Medici (figlio di Giovanni dalle Bande Nere) , ma
data a un Ottavio Farnese nato da un altro pontefice (papa Paolo III,
ma in effetti Ottavio era secondogentito di Pier Luigi, il figlio del pontefice)
anch’esso bastardo”. Margherita con
il secondo matrimonio diventerà duchessa di Parma e Piacenza.
Margherita d’Asburgo o d’Austria (1522-1582)
era nata nelle Fiandre da un occasionale rapporto di Carlo con Johanna Gheyst o
Gheest; stando al suo ritratto, se non
ne ha falsificato i lineamenti, era di una bellezza aristocratica, dal viso
ovale perfetto che non aveva, per sua fortuna, il prognatismo o del labbro
pendulo del padre, caratteristica somatica degli Asburgo dell’epoca (come
invece aveva ereditato il figlio legittimo Filippo II).
Dopo Napoli il matrimonio, fu rinnovato con
sfarzo a Firenze (13-VI-1536) dove fece il suo ingresso in pompa magna sul suo
cavallo bianco Carlo V, che si tratterrà per una settimana. Poi giunse la sposa
e i festeggiamenti durarono fino alla fine del mese. Finiti i festeggiamenti, Alessandro,
senza rispetto per la giovanissima sposa, riprende la vita dissoluta, con le
solite irruzioni notturne nei monasteri, sempre accompagnato da Lorenzino con
il quale aveva anche rapporti sessuali.
Lorenzino era indicato nella linea di
successione come discendente dell’altro ramo dei Medici, nel caso Alessandro
non avesse avuto discendenti. Per l’ignaro Alessandro si stava avvicinando il
giorno della tragedia.
Anche Lorenzino (1514-1548) era dotato
d’ingegno e versato nelle lettere (come poeta di rime amorose e commediografo,
autore della commedia Aridosia che
sarà rappresentata durante i festeggiamenti del matrimonio di Alessandro), ma la
produzione letteraria era stata limitata dalla vita licenziosa e dissoluta che
conduceva. Dal fisico gracile e di salute cagionevole era rimasto orfano da
bambino ed era vissuto nelle
ristrettezze. Era stato mandato a Roma alla Corte di Clemente VII (1533), da
dove fu mandato via perché si divertiva a compiere atti vandalici, sfregiando
bassorilievi come quello di Costantino e mozzando le teste alle statue della
Basilica di s. Paolo.
Tornato a Firenze si mise al seguito di Alessandro
al quale faceva da mezzano, procurandogli giovani donne appartenenti a nobili casate
e mettendogli a disposizione la propria casa che confinava con quella di
Alessandro in via Larga.
Alessandro un giorno era stato colpito dalla
bellezza di Caterina, moglie di Leonardo Ginori e sorella della madre di
Lorenzino il quale si era subito prestato ad aiutarlo, dicendogli che gli avrebbe procurato un
incontro, purché avesse mantenuto il più stretto segreto.
Era la vigilia dell’Epifania (questa cadeva di
sabato) in cui aveva inizio il carnevale e Alessandro aveva accettato il
desiderato incontro. Alessandro dopo aver allontanato la guardia, si introdusse
nella casa di Lorenzino senza farsi notare. Era stanco e nell’attesa aveva
chiesto di riposare e mettendosi a letto aveva tolto dal suo fianco la spada
che Lorenzino prese per appoggiarla al capezzale, dopo aver avvolto, non visto,
la cintura attorno all’elsa, in modo che la spada non potesse essere sguainata
facilmente.
Lorenzino uscì dalla stanza dicendo di andare
a cercare la zia, chiudendo la porta a chiave. Fuori dalla porta si trovava un
sicario di nome Michele del Tavolaccino, soprannominato Scoroconcolo, al quale
Lorenzino aveva raccontato di volersi liberare di un personaggio di corte, senza
dirgli chi fosse. Quindi rientra nella stanza e avvicinatosi al letto chiede ad
Alessandro:- Dormite signore? E nello stesso tempo lo trafigge da parte a
parte. Alessandro, sebbene mortalmente ferito si avventa contro Lorenzino il
quale per impedirgli di urlare gli mette due dita in bocca che Alessandro gli
morde con forza rotolandosi sul letto e tenendolo abbracciato strettamente. Scoroconcolo
non poteva intervenire in quanto i due si dimenavano e colpendo uno avrebbe
potuto ferire l’altro, e qualche colpo inferto era finito sulle coltri.
Alla fine Scoroconcolo si ricorda di avere un
coltello in tasca e presolo, lo infila nella gola di Alessandro affondandolo
fino a ucciderlo. Il corpo di Alessandro cadeva dal letto e per tutte le ferite
inferte versava in un lago di sangue. Rimesso sul letto è ricoperto col drappo
del baldacchino e Lorenzino, dopo avervi
posto un foglio con la scritta “Vincit
amor patriae, laudumque immensa cupido” (vince l’amor di patria e il
desiderio di grandi lodi) esce chiudendo la porta a chiave.
Lasciava quindi frettolosamente la città con cavalli
da posta, dirigendosi a Bologna dove si ferma per medicarsi la ferita alle dita
dolenti. Si diresse poi a Venezia dove si trovava Filippo Strozzi al quale,
mostrata la chiave disse: Sotto questa
chiave è rinchiuso il duca Alessandro sgozzato e morto per le ferite”.
Filippo, incredulo volle conoscere altri particolari e una volta convinto si
mostrò tanto felice che “erano stati liberati da un novello Bruto” (com’era stato definito Lorenzino), che si offrì di
far sposare ai suoi due figli, Piero e Roberto, le sorelle di Lorenzino.
L’aver saputo che Lorenzino era andato via con
cavalli da posta, insospettiva il cardinale Cibo, che chiamato Francesco
Campana, segretario di Alessandro, manda subito a chiamare Alessandro Vitelli
che si trovava con i suoi soldati a Città di Castello. Furono chiamati anche
Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi.
La domenica seguente cercarono Alessandro
dappertutto, anche nei monasteri e alla fine andarono a cercarlo nel palazzo di
Lorenzino e finalmente entrati nella camera trovano il duca in una pozza di
sangue. Preso il corpo, con timore e paura, poiché temevano che il popolo
potesse farli a pezzi, lo portano nella sagrestia della chiesa di s. Lorenzo.
SUCCESSIONE DI COSIMO I
E SUA TIRANNIA
I |
n città qualcosa era trapelato e nelle piazze
incominciarono a formarsi capannelli in cui ciascuno manifestava la propria
opinione e vi era chi si mostrava contento mentre altri si mostravano dispiaciuti
di quanto era accaduto, tutti però erano d’accordo che Firenze dovesse tornare
libera.
Nel frattempo giungeva Alessandro Vitelli e il
gruppo del Guicciardini decise di affidare il governo per tre giorni al cardinale Cibo che, con timore, convocò i Quarantotto mostrandosi favorevole alla nomina del
piccolo Giulio, ritenuto figlio di Alessandro, sulla cui nomina qualcuno fece
del sarcasmo dicendo che “morto un
bastardo se ne proponeva un altro; scartato Giulio, fu fatto il nome di Cosimo (1519-1574) figlio del capitano
Giovanni (dalle Bande Nere) e di Maria Salviati, figlia di Jacopo, considerato benemerito
della patria.
Ma non tutti erano favorevoli a questa nomina e
nel consiglio dei Quarantotto vi fu anche chi si mostrava contrario alla sua elezione
come Palla Rucellai che dopo un lungo discorso col quale preannunciava il suo
voto contrario, concluse dicendo: “ecco
il mio voto ed ecco la mia testa”.
Mentre Rucellai parlava, nella strada Vitelli fece inscenare una zuffa tra soldati, mentre gli
altri rumoreggiavano con le armi sotto le finestre, e dietro la porta della
sala del consiglio qualcuno diceva di far presto perché i soldati non si
potevano trattenere, per cui Cosimo fu votato alle condizioni che Guicciardini
aveva predisposto in una bozza:
-
Che Cosimo si dovesse chiamare governatore della repubblica
fiorentina e non duca;
-
Non potesse aprire lettere o altra corrispondenza senza la
presenza dei consiglieri;
-
Quando usciva dalla città dovesse lasciare al suo posto un
luogotenente, fiorentino e non straniero (che era lo stesso Guicciardini!);
-
Gli doveva esser pagata una indennità di dodicimila fiorini d’oro.
Queste
disposizioni si avvicinavano a quelle dei dogi di Venezia o di Genova e in
particolare, in particolare la disposizione relativa all’apertura delle lettere
era propria di quelle due repubbliche: Esse furono criticate da Benvenuto
Cellini, il quale pur essendo estraneo agli avvenimenti politici era scettico
sulla possibilità che sarebbero state osservate e fece un commento da artista
qual’era, che si sarebbe rivelato lungimirante: “Hanno messo un giovane su un meraviglioso cavallo, gli hanno messo gli
speroni e gli hanno lasciato le briglie, e poi gli hanno detto di non
oltrepassare certi limiti apposti: ditemi chi è che possa trattenerlo quando li
voglia oltrepassare. Le leggi non si possono dare a chi di esse è padrone”
.
La nomina di
Cosimo spinse Alessandro Vitelli a saccheggiare sia il palazzo dell’eletto (a
Roma il saccheggio della casa del cardinale che veniva eletto papa, era
un’abitudine della plebe), sia il palazzo di Lorenzino: per il primo in quanto
eletto, per il secondo in quanto aveva assassinato Alessandro.
Sulla elezione di
Cosimo si disse che un nuovo padrone sostituiva il precedente, con il commento
del cardinale Cibo “uno avulso, non
deficit alter” (eliminato uno, non ne
manca un altro=non manca chi lo sostituisca)
In città si era
diffusa tra la popolazione una grande mestizia; tutti si lamentavano delle
condizioni in cui essa si trovava, dominata ora dalla tirannide relativamente
alla quale, spenta la “stirpe spuria”
dei Medici si doveva ora servire quella legittima.
La morte di
Alessandro che si poteva considerare un miracolo, ora risultava vana, e molti,
scriveva Botta, maledicevano di esser nati cittadini fiorentini e maledicevano
soprattutto Guicciardini che nobile e virtuoso, aveva preferito servire un
principe, anziché aver cara la libertà del governo della repubblica. Ma
Guicciardini, prosegue Botta, che sui clamori del popolo non batteva ciglio,
diceva pubblicamente: “Ammazzate pure i
principi, che subito ne sorgeranno altri” .
Francesco Guicciardini
aveva studiato diritto e dopo gli studi
aveva esercitato l’avvocatura, poi aveva avuto diversi incarichi di
governo anche fuori Firenze, era poi divenuto sostenitore dei Medici che gli
avevano affidato incarichi negli affari di Stato e anche missioni all’estero.
Egli aveva peccato di presunzione, in quanto riteneva che Cosimo essendo
giovane si sarebbe lasciato guidare da lui che come primo dei “palleschi” per ingegno, dottrina, ed
esperienza, riteneva di aver raggiunta un tale prestigio da dover essere
seguito in tutti i suoi suggerimenti.
Ma queste
aspettative non si verificarono perché gli venivano dati incarichi esterni e
negli affari interni non gli veniva dato molto spazio, pur essendo la sua
presenza tanto indispensabile da svolgere le funzioni di luogotenente (era
chiamato vice-duca).
Guicciardini era
mosso anche da un’altra ambizione: quella di veder sposata con Cosimo la figlia
Elisabetta. Ma le intenzioni di Cosimo erano ben altre, perché egli mirava più
in alto volendo sposare la figlia dell’imperatore, rimasta vedova.
Le cose non
andarono secondo le intenzioni da ciascuno auspicate. Infatti Elisabetta Guicciardini
sposò Alessandro Capponi, figlio di Giuliano, e l’imperatore, poiché per il
matrimonio di Cosimo era intervenuto il papa, dal quale si aspettava
riconoscimenti e denaro, fece sposare Margherita al nipote, Ottavio Farnese,
creato prima duca di Parma e poi anche di Piacenza, mentre a Cosimo fu data in
moglie Leonora di Toledo, figlia di don Pedro di Toledo, viceré di Napoli.
Cosimo fattosi riconoscere
il titolo di duca divenne un vero
tiranno perchè ebbe per primo l’idea di far controllare singolarmente i
cittadini non solo su ciò che dicevano ma anche su quello che scrivevano,
instaurando così un regime poliziesco che fu imitato da tutti gli altri
principi d’Europa.
Intanto i
fuoriusciti capeggiati da Filippo Strozzi al quale si era unito Jeronimo Pepoli,
che cospiravano per abbattere il governo di Cosimo, erano appoggiati dalla
Francia e dal papa che non desiderava altro che la rovina dei Medici.
L’imperatore, dal suo canto, per tenere a freno il papa e per tenere sotto
controllo la situazione a Firenze, aveva inviato tremila soldati in Toscana,
sbarcati a Lerici al comando di Francesco Sarmiento.
L’ambasciatore
spagnolo a Roma, aveva mandato a Firenze Camillo Colonna il quale nel Consiglio
dei Quarantotto dichiarò di sostenere il governo, mettendo a disposizione denari
e soldati. Lo stesso fece il marchese del Vasto che inviò Cosimo Pirro di
Castel Pietro.
I fuoriusciti
erano tutti convenuti a Montepulciano, dove si erano recati i tre cardinali (Salviati,
Ridolfi e Gaddi) che furono prevenuti da
Cosimo, più giovane ma più astuto, il quale li invitò a venire a Firenze in
amicizia, dove sperava di mettere tutti d’accordo, assicurando che in questo
caso avrebbe ordinato ai soldati spagnoli, che si erano fermati a Cascina, di
non avanzare. I fuoriusciti, ritenendo che l’invito di Cosimo fosse dettato da
debolezza, e ritenendo che egli si sarebbe piegato facilmente alle loro
richieste, avevano licenziato le truppe raccolte con dispendio di denaro.
Quindi i tre
cardinali, con Baccio Valori e Anton Francesco degli Albizzi, con il vescovo
de’ Soderini (chiamato dai francesi Saintes),
si recarono a Firenze accolti onorevolmente da Cosimo e dalla popolazione.
Cosimo, che nascondeva le sue vere intenzioni, aveva fatto bloccare alle porte
tutti gli accompagnatori, cortigiani e servi, mentre per le contrade il popolo
gridava insistentemente “palle, palle”,
“Cosimo”, “Medici”.
Dal Vitelli era stato preso un certo Gabriello
Cesano, amico del cardinal Salviati, che se pur non torturato, fu sottoposto a
interrogatorio da parte del crudele cancelliere ser Maurizio, per sapere quali
fossero le intenzioni dei fuoriusciti; alla fine Cesano dopo essere stato rilasciato
mezzo morto di paura, gli fu fatto credere che era stato tutto uno scherzo!
Intanto le trattative con il cardinal Salviati
erano condotte dal Guicciardini che seppur deluso di Cosimo, gli era rimasto
fedele. Egli era accompagnato dal Vitelli e da molti soldati, ma non si veniva
a capo di nulla in quanto Cosimo non voleva lasciare il governo mentre i
fuoriusciti non volevano riconoscerlo come principe.
Ma il cardinal Salviati faceva il doppio gioco
perché, mentre parteggiava per i fuoriusciti, cercava di non toccare la
suscettibilità dell’imperatore appoggiando un governo popolare. Anch’egli,
scrive Botta, come tutti i cardinali, aspirava a diventare papa e nel conclave
non voleva trovarsi contro l’imperatore. Negli incontri segreti suggeriva che Cosimo
rimanesse al suo posto, lasciando però intendere che sarebbe stato bene che
Cosimo abbandonasse l’imperatore e si rivolgesse alla Francia, ma questa idea
Cosimo non volle accettarla.
Le trattative non portavano a una soluzione e
mentre la presenza dei fuoriusciti rasserenava gli animi, inquietava invece la
reggenza, per cui si decise che fosse necessario trovare un modo per farli andar
via.
Alessandro Vitelli ebbe l’idea di recarsi dal
cardinal Salviati con i suoi soldati facendoli rumoreggiare e dicendogli che
non riusciva a trattenerli. Al che i cardinali Ridolfi e Gaddi, impauriti, se
ne andarono, mentre Salviati ritenendo che gli sarebbe stato portato rispetto,
rimase. Ma la sua casa fu circondata dai soldati e si sparse la voce che era
stato fatto a pezzi, per cui il cardinale impaurito, partì immediatamente
andando a raggiungere gli altri due. Dalla città uscirono anche gli altri
fuoriusciti, preparandosi alla guerra.
La Francia ben sapeva che la città era
oppressa da Cosimo e voleva recuperare la libertà per questo finanziava i
fuoriusciti come faceva anche Filippo Strozzi che distribuiva del suo.
Il figlio Piero che aveva combattuto in
Piemonte, aveva condotto con sé una truppa di cento soldati, la maggior parte
provenienti da Firenze. Egli era ben visto dalla corte di Francia, sia da
Enrico II, sia da Caterina che quando potevano lo favorivano.
Egli intanto aveva ingrandito la sua truppa con
duemila soldati, in gran parte novellini e attraversato l’Appennino, minacciava
Firenze. Ma mentre Cosimo si era preparato a difendersi, Piero che era
impulsivo, non aveva pensato a organizzare neanche il necessario per mantenere
la sua truppa, e non aveva denaro per pagare i soldati, e vettovaglie per
nutrirli, e gli mancava anche ciò che poteva servirgli per fare la guerra. Il risultato
fu che i soldati, non avendo da mangiare si erano dati alle rapine e qualcuno
per strada moriva di fame. Avvenne anche
che volendo forzare la cittadina di Sestino, non vi riuscirono e i soldati si
sbandarono: questa fu considerata una rotta,
definita rotta di Sestino.
Questa rotta diede prestigio a Cosimo nei
confronti dell’imperatore il quale mandò come suo rappresentante Ferdinando da
Silva, conte di Cifuentes, che resosi conto che tra i fuoriusciti vi era
discordia, dichiarava a nome dell’imperatore che il principato della città di
Firenze fosse retto da Cosimo, figlio di Giovanni de’ Medici discendente della
casata, trasmissibile ai suoi discendenti legittimi, con l’autorità, le grazie
e i privilegi che erano stati riconosciuti al duca Alessandro. Alessandro, in
cambio dei riconoscimenti imperiali, come contropartita cedeva le fortezze di Firenze e Pisa che cadevano
sotto l’autorità dell’imperatore.
I
fuoriusciti si erano radunati a Montemurlo, nella casa dei de’ Nerli dove si
trovavano Filippo Strozzi, Bartolomeo Valori e gli altri e li aveva raggiunti
anche Piero Strozzi con i suoi ottocento uomini che si erano accampati ai piedi
della collina. Piero aveva mandato dei gruppi per tendere un’imboscata a una
squadra di cavalleria con cui aveva combattuto il giorno prima. Cosimo che
aveva una grossa schiera di soldati tedeschi e spagnoli datagli dall’imperatore,
fece uscire di notte le truppe guidate da Alessandro Vitelli, Pirro Colonna e
Otto da Montauto e le mandò a Montemurlo.
Quando costoro vi giunsero, i soldati di Piero
Strozzi che erano appostati per l’imboscata, e invece dello squadrone che si
aspettavano si videro passare davanti un intero esercito, preferirono non
uscire allo scoperto, non furono in grado di avvertire Piero Strozzi che si
trovava con i suoi ai piedi della collina, e furono tutti sgominati.
Piero stesso cadendo da cavallo era stato
fatto prigioniero, ma per il fango che si era formato per le recenti piogge era
scivolato su una scarpata e caduto nel fiume riuscì a fuggire salvandosi a
nuoto. Il castello che era sfornito di difese fu subito preso e furono fatti
prigionieri Anton Francesco degli Albizzi, i due Filippi, uno nipote e l’altro figlio di Baccio Valori, con l’altro
figlio Pagolo Antonio, genero di Filippo Strozzi.
Costoro sotto il sole cocente (primo del mese
di agosto) furono portati a Prato e da qui a Firenze dove su ordine di Cosimo, Anton Francesco degli Albizzie i due
Filippi Valori furono decapitati, Baccio Valori col figlio Pagolo Antonio e
Filippo Strozzi furono invece affidati ad Alessandro Vitelli.
Le decapitazioni continuarono per diversi
giorni, tanto che i soldati spagnoli che aiutavano i carnefici, non ne vollero
più sapere di continuare nelle esecuzioni e preferirono lasciar fuggire i
prigionieri rinunciando alla taglia che gli spettava. A seguito delle proteste
dei cittadini si smise di continuare nella carneficina e i prigionieri furono
mandati nelle fortezze di Pisa e Volterra.
Filippo Strozzi rimase sotto la sorveglianza
dell’avido Vitelli che lo trattava bene perché lo Strozzi lo gratificava con
denaro.
Questa ulteriore vittoria aveva messo in buona
luce Cosimo presso l’imperatore il quale a questo punto, per mezzo del conte di
Cifuentes gli confermava il titolo di duca, che in precedenza era stato
concesso da Clemente VII, ed ora aveva il riconoscimento imperiale,
trasmissibile ai figli legittimi e loro discendenti. Il titolo invece veniva
tolto ai discendenti di Pier Francesco che si erano macchiati del delitto
commesso da Lorenzino. Cosimo cambiò subito lo stampo delle monete, mettendo la
sua immagine da una parte e di san Cosimo dall’altra.
LE VENDETTE DI COSIMO
E LA MORTE DI FILIPPO STROZZI
G |
iunse anche il giorno della vendetta. In primo
luogo contro Alessandro Vitelli che non si era comportato con onore in quanto
aveva saccheggiato i due palazzi di Cosimo e di Lorenzino; inoltre aveva occupato abusivamente la fortezza
di Firenze (arredata con tutto quello che egli aveva depredato nei due palazzi);
aveva riscosso la taglia di Filippo Strozzi che non gli spettava e rubato paghe
per finti soldati. Gli fu tolta quindi la carica di castellano e la fortezza
che furono date a don Lopez Urtado de Mendoza sopraintendente degli affari di
Margherita. Comunque, l’imperatore che premiava la fedeltà più che l’onestà,
diede al Vitelli il feudo di Matrice nel regno di Napoli che fruttava una
rendita di tremila scudi l’anno.
L’ultima vendetta rimasta in sospeso fu quella
nei confronti di Filippo Strozzi, detestato anche dall’imperatore, perché aveva
sovvertito l’ordine della Toscana, e Carlo V lo riteneva complice di Lorenzino
nella uccisione di Alessandro; e ancora, perché il figlio Piero era alleato
della Francia.
I ministri di Carlo V poi, facevano il doppio
gioco in quanto prendevano denaro da Filippo promettendogli di salvarlo.
L’imperatore sollecitato dal marchese del
Vasto, promise al papa che gli avrebbe salvato la vita, purché fosse risultato
che non era estraneo alla uccisione di Alessandro, e si rendeva necessario sapere se fosse colpevole o innocente...ma in
cuor suo avrebbe voluto vederlo morto!
Le circostanze che Filippo Strozzi aveva
prestato aiuto a Lorenzo quando era fuggito da Firenze e lo aveva raggiunto a
Venezia; che a lui Lorenzino aveva dato la chiave della camera dove giaceva il
corpo di Alessandro; che Filippo voleva far sposare i suoi due figli alle
sorelle di Lorenzino, andavano tutte contro Filippo che facevano ritenere che fosse
effettivamente complice di Lorenzino.
Cosimo, che nutriva lo stesso malanimo
dell’imperatore, ottenne da questo il permesso di poterlo esaminare...che significava sottoporlo a tortura. Poiché Filippo non era avvezzo alla
violenza ed era gentile nei modi e nella
persona, messo sotto tortura da parte del cancelliere degli Otto, Bastiano
Bindi, alla presenza di don Giovanni de Luna, dopo alcuni tratti di corda
svenne dopo aver detto di non sapere nulla sulla morte del duca, né di aver saputo
qualcosa da Lorenzino.
Cosimo che non si dava per vinto e voleva
veder morto Filippo, fece mettere sotto tortura Giuliano Gondi che confessò di
aver saputo da un amico che Filippo era a conoscenza della morte di Alessandro.
Il verbale fu mandato all’imperatore il quale
disponeva che Filippo fosse affidato alla giustizia di Cosimo.
Quando Filippo ne fu informato, decise di
morire per mano propria anziché per mano del carnefice. Scrisse una lettera
rovente al cardinale Cibo nella quale gli rimproverava la sua crudeltà che ora
poteva saziarsi col suo sangue, e terminava dicendo: “Se non ho saputo fino a questo punto vivere, saprò ora morire” e invocando
la misericordia divina, soggiunse: “Se
non merito il perdono almeno manda quest’anima dov’è quella di Catone” e
sul muro scrisse il verso di Virgilio, messo sulla bocca di Didone: “Exoriare aliquis ex ossibus ultor” (dalle
ossa risorgerà qualche vendicatore) e si tagliò la gola con la spada che una
guardia aveva lasciato nella stanza.
La notizia della sua morte si diffuse
dappertutto e suscitò orrore e raccapriccio perché Filippo era conosciuto come uomo
di lettere, liberale e con tutte le qualità che contraddistinguono un
gentiluomo.
Cosimo, dopo la battaglia di Montemurlo con le
esecuzioni che ne erano seguite, e con la morte di Filippo, si era liberato di
tutti i suoi avversari. Anche il figlio naturale di Alessandro, Giulio, che era
stato proposto come successore del padre, affidato alle cure del cardinale
Cibo, era stato avvelenato da uno speziale di nome Biagio.
Quando il cardinale se ne lamentò con Cosimo,
questo ritenne che ogni sospetto su di lui era da considerare calunnioso e mise
il cardinale in condizione di andar via da Firenze.
Giunse il turno anche di Alessandro Vitelli
che aveva forzato la mano degli elettori con i suoi soldati, ma non si era
comportato con onore quando si era impossessato della fortezza che aveva messo
sotto la protezione dell’imperatore, anziché di Cosimo. Quest’ultimo aveva
cercato di screditarlo presso l’imperatore il quale alla fine lo sostituì con
Giovanni de Luna (1538).
I quattro senatori fiorentini che erano stati
i principali artefici della elezione di Cosimo, disprezzati dai loro
concittadini e sospettati da Cosimo, rassegnati, si ritirarono nelle loro
abitazioni abbandonando le cariche.
Francesco Valori, dopo la morte di Strozzi,
non uscì più di casa fino alla sua morte. Francesco Guicciardini si ritirò
nella sua villa dove morì di dolore due anni dopo (1540), non senza sospetto di
veleno, seguito da Roberto Acciajuoli e Matteo Strozzi. Maria Salviati, madre
di Cosimo, morì qualche anno dopo (1543). In quegli anni morì anche Francesco
Campana fedele segretario di Cosimo, che aveva partecipato anche alla sua
elezione. Lorenzino partito esule per la Turchia, al suo ritorno, a Venezia,
troverà sicari di Cosimo che lo ammazzeranno (1548).
Cosimo, pur avendo posto fine a una situazione
di anarchia, aveva instaurato un regime tirannico che in ogni caso era stato
reso necessario dalla litigiosità dei cittadini, come si verificava troppo spesso
a Firenze, dove si riscontrava molta faziosità.
Questa situazione di difficile governabilità,
come abbiamo visto, aveva dato a Cosimo la
possibilità di impadronirsi del governo e instaurare un regime tirannico,
aggravato dal sistema poliziesco ideato da Cosimo, che come detto, per la prima
volta veniva copiato in tutta l’Europa.
Egli avrà una vita lunga e governerà fino alla
sua morte (1574) dopo aver ottenuto
titolo di granduca dal papa (Pio
IV, Medici, ma di altra stirpe), e con lui il governo dei Medici si protrarrà ancora
per duecento anni (1737). Poi il
granducato finirà nelle mani dei Lorena-Asburgo, come nella sua avidità dominatrice
aveva desiderato Carlo V (v. Articoli:
cit. Carlo V, ecc. P. II: Il gioco della
fortuna).
FINE
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